Chi sceglie la via della radicalizzazione può tornare indietro ed essere
re-inserito nella società? La domanda, senza una risposta semplice o univoca,
tormenta governi e sistemi di sicurezza. Oltralpe, dieci anni dopo gli attentati
del 13 novembre, ancora resistono – non senza polemiche – programmi di
accompagnamento di ex detenuti arrestati per reati legati al terrorismo. Marc
Hecker, direttore esecutivo dell’Istituto francese di relazioni internazionali
(Ifri) ed esperto del tema, nel 2021 ha scritto un report su due dei principali
dispositivi messi in campo dalla Francia. E, mentre lo stesso ministro
dell’Interno Laurent Nuñez parla di “minaccia terroristica ancora alta”, Hecker
non nasconde la sua preoccupazione sul futuro: “Il tema deve restare
prioritario”. Il rischio? Ritrovarci impreparati come prima degli attentati del
2015. E l’allarme è ancora più concreto quando si guarda l’età dei
radicalizzati, che sono “sempre più giovani”. Un dato confermato a giugno scorso
dal governo, rispondendo a un quesito sollevato in Parlamento: dal 2023, in
Francia, più dei due terzi delle persone coinvolte in progetti di attentati
hanno meno di 21 anni. (con una crescita negli ultimi cinque anni dall’1,7 al
5,6 per cento). E questo “riguarda principalmente la corrente jihadista, ma
anche le altre correnti radicali”.
IL LONGFORM – Parigi, 13 novembre: dieci anni dopo
Cosa ne pensa degli interventi francesi per i detenuti radicalizzati?
Attualmente esiste PAIRS, programma d’accompagnamento individuale e
riaffiliazione sociale, sul quale pende però un’inchiesta amministrativa e
accuse di malfunzionamento rivelate da Mediapart (a proposito della gestione
della sede di Lione ndr). Dopo la pubblicazione del mio studio, c’è stato un
caso di recidiva: una persona passata per il programma, nel 2023, ha commesso
l’attentato del Ponte di Bir-Hakeim a Parigi.
Nel 2021 riconosceva gli aspetti positivi dell’approccio, ha cambiato idea?
Quest’ultimo è il solo caso di recidiva finora. C’è, ma il tasso è molto debole.
Penso che non si debba buttare il bambino con l’acqua sporca. Infatti il
programma va avanti.
È ancora corretto parlare di de-radicalizzazione?
Il termine è stato molto utilizzato, ma anche criticato perché è difficile da
verificare e si pensa sia naïf poter de-radicalizzare qualcuno. Allora si usa il
concetto di “disimpegno”.
È diverso?
Indica l’uscita di una persona da una dinamica violenta. In una società
democratica e liberale, si può essere radicali, ma il problema è la
radicalizzazione che porta a fare cose illegali e che conduce alla violenza.
Comunque l’idea è la stessa: aiutare le persone a reinserirsi nella società.
Come?
Con tre tipi di intervento. Il primo con operatori sugli aspetti sociali: come
si trova un lavoro, una casa, come si re-impara a vivere. Chi è stato tanti anni
in prigione a volte non sa neanche più fare la spesa. Il secondo con piscologi e
psichiatri: negli ultimi tempi, ci troviamo di fronte, nei due terzi dei casi, a
persone con problemi psicologici. Infine, c’è l’aspetto ideologico.
Chi se ne occupa?
Mediatori, specialisti delle questioni religiose e in particolare dell’Islam.
Parlano e lavorano con gli ex detenuti per far evolvere la loro visione. Per
mostrare che la visione di Al-Qaeda e Isis è estrema, deviante, e che esistono
modi più pacati di vivere il proprio Islam.
Come si fa a valutare i cambiamenti e a capire se ci sono simulazioni?
Prima del programma PAIRS in Francia c’erano state molte esperienze che non
avevano funzionato. E uno dei problemi evidenziati era proprio quello della
dissimulazione. Il termine arabo è “taqiyya”. C’è stato il caso di una ragazza
che aveva seguito un programma precedente, era stata presentata come
de-radicalizzata e poi era partita per la Siria. Oppure nell’ambito del
programma delle unità dedicate, un detenuto aveva fatto un attacco contro il
personale penitenziario. Prima non creava problemi particolari e si pensa sia
stata una dissimulazione.
Come si previene?
Si moltiplicano i punti di vista: più professionisti si alternano in diverse
situazioni fino a rendere la dissimulazione non impossibile, ma complicata.
Resistere nel tempo, nascondendo quello che si pensa in situazioni molto
diverse, dalle uscite alle conversazioni, è difficile. Poi si stilano dei
rapporti, ma la valutazione è raramente lineare. Sono persone non per forza
molto stabili che possono trovarsi ad affrontare cose nel loro quotidiano che li
riportano indietro: dai contatti con persone con ideologia alle difficoltà
d’integrazione. I professionisti sanno che raramente le cose sono definitive.
Un lavoro enorme. È sufficiente la struttura messa in campo?
A volte il programma è anche troppo intenso. Non tutti passano da lì. Parliamo
comunque di diverse centinaia di persone prese in carico con un tasso di
recidiva molto basso. Questi dispositivi devono però essere mantenuti sul lungo
periodo. Il programma esiste ancora, quindi dimostra che lo Stato l’ha
sostenuto. Ora con le difficoltà di budget, probabilmente, si dovranno fare
delle scelte. Ma al momento non ho segnali che possa essere chiuso.
Sono cambiate le priorità?
Abbiamo cambiato ciclo strategico. Siamo passati da quello della guerra contro
il terrorismo, cominciato nel 2001 e finito circa nel 2021, a quello della
competizione di potenza con il ritorno della guerra tra Stati sul continente
europeo. Una delle difficoltà è quella di tenere i mezzi e la tensione sul
terrorismo che resta una minaccia importante. E purtroppo le minacce non si
sostituiscono l’una all’altra, ma si sommano. Non è perché abbiamo una guerra
alle porte dell’Europa che la minaccia terroristica è sparita. Anzi, c’è
piuttosto una crescita.
E la Francia lo tiene in conto?
La priorità numero uno oggi è la minaccia russa piuttosto che quella jihadista.
Ma la minaccia terrorista è ancora considerata a livello abbastanza alto. E
bisogna continuare a farlo. Le inchieste sui malfunzionamenti dei programmi sono
un brutto segno: bisogna raddrizzare quello che si può. In Francia abbiamo avuto
nove attentati jihadisti nel 2024. E poi ci sono ancora problemi con chi rientra
dalla Siria e nuovi casi di radicalizzazione con un ringiovanimento delle
persone che si radicalizzano.
C’è un problema di età?
Nella gerarchia di minacce terroriste, quella jihadista rimane la prima; seconda
l’estrema destra: dal 2012 abbiamo avuto più di 90 attentati o progetti di
attentati jihadisti, 16 dell’estrema destra. Il ringiovanimento, ovvero i minori
di 15-16 anni, lo notiamo in entrambe le correnti. Questo rivela che l’ideologia
rimane attrattiva e disponibile: la trovano sui social network, su TikTok, sulle
piattaforme dei videogiochi. E poi osserviamo dei nuovi fenomeni di
radicalizzazione: ad esempio è il caso degli incel, i mascolinisti, con un primo
caso di terrorismo. Infine, ci sono le correnti che mescolano satanismo e
pedocriminalità. In queste abbiamo l’impressione che la violenza sia più
importante dell’ideologia. E’ un fenomeno in proporzione più debole e meno
strutturato del jihadismo, ma va menzionato.
Che cosa fa sì che ci sia una radicalizzazione?
Il pull factor è quello che attira le persone verso un gruppo radicale, il push
è quello che li spinge fuori dalla società. E poi distinguiamo tre livelli. Il
primo sono le difficoltà familiari, psicologiche, d’integrazione. Quello macro,
è la grande geopolitica: la guerra a Gaza ad esempio avrà un impatto sulla
radicalizzazione. Infine c’è il livello intermedio: cosa succede nel quartiere.
A volte ci si radicalizza perché in alcuni quartieri c’è un predicatore o un
gruppo che trascina degli amici.
Ci sono programmi di deradicalizzazione anche per i militanti di estrema destra?
Non vengono messi con chi è considerato a rischio radicalizzazione jihadista. Ma
ci sono dispositivi che cominciano a essere sviluppati anche per loro.
Rimane convinto della bontà del progetto?
Spesso il pubblico ha una percezione sbagliata. Siamo in uno Stato democratico e
le persone che hanno scontato le loro pena non si possono tenere in prigione. O
si liberano senza supporto o si liberano con un programma che li segue. E
inoltre, questo programma non si fa a scapito di un accompagnamento di
sicurezza. Quindi partendo dal fatto che le persone non possono essere tenute in
prigione per sempre, la soluzione migliore è aggiungere un accompagnamento
supplementare e multidisciplinare. È uno strumento in più che si aggiunge alla
sorveglianza della polizia e dei servizi segreti.
Sulla prevenzione si fa abbastanza?
Ci sono molte cose che sono state fatte in dieci anni. Ad esempio, il numero
verde per le segnalazioni continua a essere molto utilizzato. Poi c’è un
dispositivo sul territorio con cellule di prevenzione e gruppi nelle prefetture.
Si può sempre fare di più e meglio, ma il dispositivo esiste e lo Stato ha
dimostrato di riuscirsi ad adattare a una situazione comunque complicata.
Cosa pensa del modello francese in confronto ad altri Stati ?
Quello che si fa in prigione in Francia interessa molti Paesi. Da noi c’è un
modello misto: i profili sono raggruppati o separati in seguito a una
valutazione.
Ha partecipato a uno studio di comparazione sulle donne radicalizzate tra
Francia, Olanda, Germania. Cosa è emerso?
Innanzitutto, c’è voluto un po’ di tempo perché ci fosse una presa di coscienza
nella società ma anche a livello politico e giudiziario della problematica delle
donne nel jihadismo. All’inizio erano considerate come vittime. Poi ci si è resi
conto che in realtà potevano essere motrici della radicalizzazione e pienamente
responsabili della loro partenza. E in Francia anche della loro capacità di
passare all’azione, dal momento che, a settembre 2016, abbiamo avuto il
tentativo di attentato a Notre Dame fatto da un gruppo di donne. Prima erano
considerate solo cuoche o madri di futuri figli nati in Siria.
E cos’è cambiato?
Da quel momento, il solo fatto di essere presenti in una casa dell’Isis era
ritenuto come un aiuto logistico a una organizzazione terroristica. Così c’è
stato un aumento significativo delle condanne di donne per fatti di terrorismo.
Sono una minoranza rispetto agli uomini, ma tendono ad aumentare. Nell’estate
2022 poi, la Francia ha deciso di rimpatriare le donne che erano nei campi di
prigionia in Siria: circa 60 sono rientrate e sono state incarcerate.
Hanno lo stesso approccio alla violenza degli uomini?
Anche se ci sono diverse donne che sono passate alla violenza terrorista, la
norma non è quella. Di solito una donna aiuta il marito, si prende cura di lui,
fa dei bambini. Molti preferibilmente. E trasmette loro le norme radicali
dell’Isis. La dimensione ideologica è molto importante: sono incaricate di
trasmetterla alle generazioni successive.
E come viene gestita?
La maggior parte dei professionisti pensa che bisogna mantenere il legame con i
figli, ma sono consapevoli del rischio di trasmissione. Dunque, gli incontri con
loro in prigione si fanno con una terza persona.
Le donne rimpatriate sono ancora legate all’ideologia?
Hanno un legame molto forte con i figli: hanno vissuto in condizioni molto
precarie nei campi siriani e sono state separate da loro in aeroporto. E questo
può frapporsi alla presa in carico: sono focalizzate sui figli. L’altro aspetto
da considerare è il trauma: hanno vissuto cose orribili.
Di cosa c’è bisogno?
Non è una questione di fondi, ma di essere consapevoli che il terrorismo resta
un vero problema. E bisogna mantenere le risorse, anche per seguire le zone
della jihad all’esterno. Sapere cosa succede in Afghanistan, Siria, Libia,
Yemen, Somalia, Sahel. Le dinamiche del Sahel sono catastrofiche e abbiamo
bisogno di fondi per continuare a capire. E per non trovarsi in una situazione
in cui fra qualche anno avremo minacce dirette per l’Europa che non sono state
seguite. L’urgenza è mantenere l’attenzione sul tema, che è meno prioritario
oggi, ma potrebbe tornare domani.
C’è il rischio che cali l’attenzione come prima degli attentati del 2015?
Sì, esatto. Io lavoravo sul tema dal 2009. E farsi finanziare ricerche sul
terrorismo era estremamente difficile. Non interessava più. L’impressione era
che, con la fine della guerra in Afghanistan, al-Qaeda fosse in declino. Abbiamo
dovuto aspettare gli attentati del 2015 perché all’improvviso ci fossero
finanziamenti e attenzione sul tema.
L'articolo “Ecco come la Francia lavora contro la radicalizzazione degli ex
detenuti. L’età si abbassa e la minaccia terroristica resta alta, non cali
l’attenzione” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Attentato Parigi
Dieci anni dopo Parigi e la Francia ricordano la notte che ha travolto la
Capitale. Migliaia di fiori, candele e biglietti in Place de la République sono
stati lasciati sotto la statua della Marianna repubblicana in omaggio alle
vittime del 13 novembre 2015. “L’amour gagne toujours”, l’amore vince sempre, si
legge. Ma anche un messaggio “per Valeria Solesin e tutte le vittime del 13
novembre”. “Non vi dimenticheremo mai”. Il presidente della Repubblica Emmanuel
Macron su X ha scritto: “10 anni. Il dolore rimane. In fraternità, per le vite
falciate, i feriti, le loro famiglie e i loro cari, la Francia si ricorda”.
Mentre l’allora capo dello Stato François Hollande, è intervenuto su le Monde:
“Il terrorismo colpisce ovunque nel mondo. Ho dichiarato spesso che nei Paesi
musulmani è stato anche più letale. Ma la Francia resta un obiettivo, perché ciò
che rappresentiamo è antagonista del fanatismo”.
LEGGI IL LONGFORM – Parigi, 13 novembre: dieci anni dopo. Il racconto dei luoghi
degli attentati e la memoria di chi è sopravvissuto
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LA TORRE EIFFEL S'ILLUMINA CON I COLORI DELLA FRANCIA IN OMAGGIO ALLE VITTIME
DEGLI ATTENTATI DEL 2015
La cerimonia – Le commemorazioni sono iniziate davanti allo Stade de France,
dove ci fu il primo attacco alle 21.20. Poi le autorità si sono spostate ai
locali Carillon e Petit Cambodge, nel X arrondissement. Per poi proseguire nelle
altre “terrazze” di locali colpiti quella notte dai terrorirsti. Il presidente
francese Emmanuel Macron e la sindaca di Parigi Anne Hidalgo hanno presieduto la
terza cerimonia davanti al locale Bonne Bière, nell’XI arrondissement. La tappa
successiva della commemorazione è stata davanti al locale Comptoir Voltaire,
dove intorno alle 21.40 il terrorista Brahim Abdeslam si fece esplodere ferendo
diverse persone. Le autorità hanno poi reso omaggio davanti al bar “La Belle
Équipe”, sempre nell’XI arrondissement, dove i terroristi uccisero 21 persone.
Davanti al Bataclan l’ultima tappa. Le commemorazioni si chiuderanno alle 18 con
l’inaugurazione del nuovo giardino memoriale del 13 novembre 2015 davanti
all’Hotel de Ville, storica sede del comune di Parigi, nel cuore della capitale.
Il ricordo di Giorgia Meloni – La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha
fatto un post sui social per parlare degli attentati e ricordare Valeria
Solesin, unica vittima italiana di quella notte: “Dieci anni fa, il 13 novembre
2015, Parigi fu colpita da un vile attacco terroristico rivendicato dall’Isis,
che sconvolse il mondo intero”, si legge. “Una ferocia che ha lasciato un segno
indelebile nei ricordi e nelle coscienze di tutti. Ricordo ancora l’orrore, lo
smarrimento, il dolore di quelle ore”. E ha chiuso ricordando la ricercatrice:
“Gli attentatori portarono via la vita a 130 persone innocenti, tra le quali
c’era Valeria Solesin, una brillante giovane ricercatrice italiana. La sua
storia, il suo sorriso, restano nel cuore di tutti noi. A dieci anni da quella
strage, ci stringiamo alla sua famiglia e a quelle di tutte le vittime, con la
stessa commozione di allora”.
L'articolo Attenati del 13 novembre a Parigi, le commemorazioni 10 anni dopo.
Macron: “La Francia ricorda” proviene da Il Fatto Quotidiano.