Tanto è stata magistralmente intrepida l’atipicità di un film come L’ultima
notte di Amore (2023), quanto è indeciso e dilatato il passo di un lavoro
comunque interessante come Il Maestro. Capita anche a quelli bravi e anche con
Pierfrancesco Favino assoluto protagonista in scena, nei panni di uno strambo,
malinconico maestro di tennis anni ottanta con qualche problemino psichico e
molti scheletri nell’armadio. Cerchiamo di essere chiari. Il regista romano, con
esperienze hollywoodiane, Andrea Di Stefano non è di quelli che ripete cliché da
tinelli all’italiana, anzi. È un regista che sa destreggiarsi disinvolto con la
macchina da presa, che sa far respirare e prendere vita ad atmosfere poco
battute fondendo intimismo, dinamiche di genere, e una certa dose di
spettacolarità nella messa in scena.
Il Maestro, in fondo, è un buddy movie con un ragazzino aspirante campioncino di
tennis (Felice interpretato da Tiziano Menichelli) abituato dal padre pedante e
ostinato a giocare a tennis da fondo campo come Ivan Lendl e un maestro (il Raul
Gatti di Favino) dal passato mezzo glorioso, intontito da psicofarmaci,
depressione e sfregola per le belle donne, che invece vede il tennis come
allegria di un gioco a rete pulsante alla Guillermo Vilas. Due figure
apparentemente opposte che necessitano comunque l’uno dell’altro. Lo spunto
d’azione è quello di seguire in auto per mezza Italia le tappe di un torneo
juniores dove Felice, ovviamente, perderà ogni incontro con il padre che sbraita
al telefono, e Gatti più attento alle gonne delle colleghe tenniste che ai
risultati dell’allievo.
Insomma, Il Maestro inizia con parecchio brio, con una belle verve comica
sospesa, come se il cinema di Di Stefano surfasse scivolando agile sui dettagli
della storia, avesse necessità di spingere l’acceleratore sull’amalgama tra
Gatti e Felice. Il problema comincia proprio quando il grumo del passato di
Gatti deve essere spurgato, srotolato, fatto affiorare dentro al quadro pimpante
del duetto. E al primo pit stop, quello dell’attacco di follia di Gatti con
distruzione della hall di un albergo che Il Maestro inizia a scricchiolare. La
sensazione durante la nostra visione del film al Festival di Venezia 2025 è
ancora molto nitida. Si tratta di una deviazione al dettato frizzante,
addirittura melodrammatica con l’arrivo di una Edwige Fenech da onor di firma,
che raffredda all’improvviso lo spettatore. Uno spaesamento parecchio di
scrittura che spinge Il Maestro letteralmente a ripartire da capo. Solo che il
film non ricomincia e prova a ripetere la prima mezz’ora come nulla fosse
successo. Per rimanere dalle parti della metafora automobilistica, il motore del
film s’imballa. Gli atti poi non sono solo due, ma addirittura tre, proprio con
una terza parte, ulteriore ardito turning point di scrittura, che prolunga in
maniera finanche pretenziosa una serie di scoperte sul passato di Gatti che da
un lato seppelliscono definitivamente il bordone di Felice e famiglia, e
dall’altro aggiungono una serie di dettagli zavorra come spesso accade in molto
cinema di Alexander Payne.
In fondo la morale che vuol passare, quella di un’esistenza felice anche senza
essere, pardon, Sinner (o Alcaraz), passa, ma si frammenta in tanti pezzetti
all’inseguimento di una chiosa presentabile. Favino come al solito entra
letteralmente dentro ai vestiti (citiamo la ricerca vintage davvero evocativa di
Mariano Tufano ai costumi) di questo mascalzone donnaiolo incapace di essere
padre, fratello maggiore, uomo, con una mimesi camaleontica da far spavento.
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indeciso (comunque interessante) proviene da Il Fatto Quotidiano.