La voce che annuncia il 25 aprile, lo scopone con Zoff e Bearzot, l’inchino
angosciato alla bara di Enrico Berlinguer, le arene faccia a faccia con gli
studenti, l’indignazione per il Duce messo sottosopra a piazzale Loreto,
l’attesa vana accanto alla mamma di Alfredino, il bimbo nel pozzo. In qualsiasi
album dei ricordi si incrocia almeno un’immagine di Sandro Pertini: perfino chi
non conosce la sua storia, è in grado di riconoscerne la figura, la pipa, la
testa bianca, gli occhiali. È indicato come il “più popolare” presidente della
Repubblica, nel senso più letterale: è stato con lui che il capo pro tempore
dello Stato ha avuto la maggiore aderenza ai sentimenti comuni di una ampia e
trasversale maggioranza dei suoi concittadini, al punto che in certi frangenti
il termine popolare ha accarezzato – in anticipo sui tempi – la semantica del
populismo.
DI LIBERTÀ NON CE N’È UNA SOLA
Non per questo, non solo per questo, Pertini ha ormai assunto negli anni e poi
nei decenni i lineamenti del mito, meritevole di mille rappresentazioni,
racconti, celebrazioni, da Toto Cutugno ad Andrea Pazienza che ne fece un
supereroe, dall’eroe che in effetti è stato – sia detto col dizionario alla mano
– come suggerisce lo scorrere della sua vita, anche a ripercorrerla solo a
salti. Pacifista quando tutti volevano la guerra – la prima, la Grande, la
agognata da destra e sinistra -, iscritto con i socialisti dopo aver saputo che
i fascisti avevano ammazzato Giacomo Matteotti, la fuga con Turati nel mare di
dicembre verso la Corsica e poi, insofferente, come ingabbiato, nell’esilio in
Francia, e ancora combattente a Porta San Paolo dopo l’8 settembre per
cominciare a liberare Roma, arrestato torturato condannato a morte, evaso per
miracolo (di Giuliano Vassalli) dal carcere nazifascista, e di nuovo combattente
al Nord. Fino all’insurrezione finale di cui è protagonista e motore nelle
fabbriche di Torino e Milano. Eroe, suggerisce il dizionario: ogni volta che ha
avuto la vita salva, ogni volta che poteva ritenersi di nuovo al sicuro, ha
rimesso in gioco la sua stessa esistenza a beneficio di ciò per cui ha
combattuto per tutta la vita: la libertà per un mondo migliore. Il suo era un
concetto espanso di libertà – arcinoto – che gli autoproclamati liberali di cui
il tempo presente ci fa dono si rifiutano di vedere e che invece lui ha scolpito
in una celebre intervista tv: “La libertà è l’esaltazione della dignità del
singolo e quindi non può andare disgiunta dalla giustizia sociale”. Chiuse il
cerchio di queste 17 parole con l’elenco di un sistema obliquo, dalle pensioni
non dignitose ai salari insufficienti, la promessa mancata del secondo comma
dell’articolo 3 della Costituzione, sempre un po’ trascurato. “È compito della
Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando
di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo
della persona umana”.
Cosa c’è da dire di più, dunque, di Pertini, già eretto sul piedistallo che –
una volta tanto – è sostenuto allo stesso tempo dal giudizio della Storia, da
quello dei cittadini e perfino dalla cultura di massa? Perché raccontarlo di
nuovo a 40 anni dalla fine della sua presidenza e a 35 dalla morte? I registi
Mario Molinari e Daniele Ceccarini hanno risposto a queste domande con il
docufilm Il settimo presidente (produzione da Arci Savona con il contributo di
varie realtà istituzionali, prossima proiezione al Wanted Clan di Milano il 22
novembre).
Un altro documentario su Pertini, insomma? Gli interrogativi sono sciolti dentro
questo racconto, ricchissimo di testimonianze e affrescato dalla musica di
Nicola Piovani, che scorre dall’infanzia a Stella fino agli anni da capo dello
Stato, neri per l’Italia: il messaggio silenzioso eppure così insistente che fa
da tessitura non esplicita dell’opera di Molinari e Ceccarini è che osservare,
seguire, far parlare Pertini significa discutere del tempo che viviamo, anche a
contrasto, per quello che la politica del presente non è in grado di dire, di
fare, di essere. Il pacifismo, il senso morale, il modo di esporsi all’opinione
pubblica come messaggio politico, la radicalità delle idee e la nettezza delle
parole per esporle (quasi biblica, Sì sì no no, il di più viene dal maligno). Il
lavoro di Molinari e Ceccarini ha l’obiettivo dichiarato di affondare di più e
meglio nella storia meno conosciuta di Pertini, prima della comparsa sulla
ribalta della Storia, per scoprire che ha sempre parlato la stessa lingua, con
la stessa testa e lo stesso cuore, da quel paesino arroccato sui monti dietro al
mare della Liguria fino al Quirinale, una lingua che la politica oggi non
riconosce quasi più.
IL MITO DELLA PACE PER CHI AVEVA FATTO LA GUERRA
Quel formidabile messaggio del discorso di fine anno, per esempio, sull’Italia
che si doveva fare portatrice di pace nel mondo (“si svuotino gli arsenali di
guerra, sorgente di morte, si colmino i granai, sorgente di vita per milioni di
creature umane che lottano contro la fame”) per Pertini è stata una convinzione
che si è portato in tasca fin da ragazzino. Lui la guerra l’aveva fatta, anzi
due: prima sull’Isonzo nel 1917, poi quella di Liberazione, da capo di quel
mirabolante impasto che è stato il movimento della Resistenza. Quando il
fratello Eugenio nell’aprile del 1944 viene arrestato (è sorpreso a mangiare in
un ristorante con la figlia), viene portato in caserma e interrogato: “Sei
parente di Pertini?”, “Sì era mio fratello”, “Era?”, “Sì, me l’hanno fucilato”,
“Macché fucilato, guida la Resistenza”. Eugenio scoppia a piangere: un anno dopo
morirà nel campo di concentramento di Flossenbürg. Cinque giorni dopo suo
fratello chiamerà l’insurrezione finale contro nazisti e fascisti.
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Credits indeciso42/Wikipedia
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SANDRO PERTINI, PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 1978 - 1985
Sandro Pertini, Presidente della Repubblica 1978 - 1985
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IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA SANDRO PERTINI CON EDUARDO DE FILIPPO
Il Presidente della Repubblica Sandro Pertini con Eduardo De Filippo
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Il Presidente della Repubblica Sandro Pertini al funerale del segretario del PCI
Enrico Berlinguer.
Eppure Sandro che “guidava la Resistenza” (i mitra, i travestimenti, i messaggi
cifrati, le spie, i rischi, il rotto della cuffia) non ha mai cambiato idea
sulla guerra. Non ha ancora 19 anni quando partecipa alla sua prima
manifestazione di piazza. E’ l’inizio di maggio del 1915, gli studenti rapiti
dalla sbornia interventista si ritrovano in via Balbi, a Genova, per urlare al
governo di portare l’Italia dentro la guerra che sta facendo scorrere già il
sangue in mezza Europa. Pertini in quella piazza grida: “Viva la pace!”. “Era
convinto – spiega lo storico Giuseppe Milazzo nel film di Molinari e Ceccarini –
che la guerra non solo porta lutti, ma porta anche il Paese alla rovina
economica”.
Il settimo presidente ricalca con la matita, ancora una volta, un uomo che ha
assunto per tutta la vita i connotati della Costituzione, la Carta che si è
fatta carne, garante di quella legge di tutti e per tutti che aveva cominciato a
scrivere prima del 1947 – oltre vent’anni prima. Uno Stato libero e democratico
come obbligo morale, come religione civile. Dice nel documentario Sandra Isetta,
figlia dell’avvocato personale di Pertini, amica di famiglia: “Aveva avuto una
formazione cattolica, la madre era bigotta. Lui ha sublimato questa educazione
in fede politica”.
LE MAGLIE A STRISCE DI GENOVA E QUEL DISCORSO DA “DENUNCIA”
La Costituzione prima di tutto. Nel 1960 con il veleno della provocazione –
consueto e mai debellato dall’attitudine genetica di fascismo e nipotini
seguenti – il Movimento Sociale prima fornisce un furbesco appoggio esterno al
governo tutto Dc di Fernando Tambroni e poi intende celebrare il suo congresso a
Genova, medaglia d’oro per la Resistenza finita quindici anni prima, l’unica
città in tutta Europa a liberarsi con le sole proprie forze.
I genovesi si ribellano, il 2 giugno – festa della Repubblica – ecco Umberto
Terracini, comunista, 17 anni tra galera e confino durante il regime, che ha
firmato la Costituzione insieme a Enrico De Nicola. Propone una controriunione
con tutti i partiti che hanno partecipato la guerra partigiana. Dopo venti
giorni davanti ad almeno 30mila persone a parlare è Pertini. “Le autorità romane
– dice – sono particolarmente interessate e impegnate a trovare coloro che esse
ritengono i sobillatori, gli iniziatori, i capi di queste manifestazioni di
antifascismo. Ma non fa bisogno che quelle autorità si affannino molto: ve lo
dirò io, signori, chi sono i nostri sobillatori. Eccoli qui, eccoli accanto alla
nostra bandiera: sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell’Olivetta e
di Cravasco, sono i torturati della Casa dello Studente che risuona ancora delle
urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei
torturatori. Nella loro memoria, sospinta dallo spirito dei partigiani e dei
patrioti, la folla genovese è scesa nuovamente in piazza per ripetere no al
fascismo, per democraticamente respingere, come ne ha diritto, la provocazione e
l’offesa”. Due giorni dopo migliaia di persone sono in corteo, guidati da
politici e comandanti partigiani con tanto di gonfaloni. Lo chiamano movimento
delle “maglie a strisce”, come quelle che usavano i camalli, simbolo della
rivolta. Il corteo finirà con gli scontri con le forze dell’ordine, i feriti
sono oltre 200. Il governo Tambroni cade, il Msi annulla il suo congresso.
Quelle manifestazioni, commenta Fausto Bertinotti nel documentario, furono
l’inizio dell’interesse per la politica di quella sua generazione. Pertini, dice
ancora Bertinotti, oggi “sarebbe denunciato per quel discorso”.
UN SORVEGLIATO SPECIALE. AL QUIRINALE
Pertini il testardo, l’ostinato, l’irriducibile. E così gli archivi di Stato
svelano uno strabiliante paradosso che suggerisce molto dell’Italia del
Dopoguerra e ancora di più di quella degli Anni di piombo: il presidente
partigiano sarà schedato la prima volta dalla polizia fascista nel 1925 e
rimarrà sorvegliato, osservato, guardato a vista per 55 anni. La matematica non
tradisce: il conto dice che è rimasto tenuto d’occhio fino al 1980, cioè due
anni dopo che è stato eletto presidente della Repubblica. “Anche quando era
deputato – dice lo storico Milazzo nel docufilm – i suoi comizi erano
registrati, venivano trascritti, venivano presentati esposti per quello che
diceva che poi finirono nel nulla”. Fino all’ultimo sbalorditivo episodio sul
finire del 1980: la Farnesina comunica alla questura di Savona di aver
rilasciato un passaporto diplomatico a Pertini Sandro e chiede se ci siano
“motivi ostativi”. Un anonimo funzionario non crede ai suoi occhi e sul
documento scrive un appunto che immortala la sua meraviglia: “Per il capo dello
Stato?”.
Per contro lui si ritrova a difendere fin da subito quella democrazia
conquistata faticosamente e quelle istituzioni così fragili. È lui, racconta
Luciana Castellina nel doc, che insieme al dirigente comunista Aldo Natoli
blocca la rivolta a piazza Colonna, davanti a Palazzo Chigi, dopo l’attentato a
Palmiro Togliatti del 14 luglio 1948 da parte di un simpatizzante dell’Uomo
Qualunque. I manifestanti imbestialiti sono pronti all’assalto. Natoli e Pertini
“trasformarono la tensione in un corteo” dice Castellina, da testimone oculare
(“Me lo ricordo perché fu la prima volta che venni arrestata” sogghigna).
COI PM A MONTECITORIO: “VENITE DI QUA, SENNÒ CI SENTONO I CORNUTI”
Pertini parla di oggi anche quando si ritrova davanti i magistrati che nel 1974
indagano sullo scandalo petroli: i petrolieri finanziano i partiti e i governi
fanno decreti che tagliano le tasse ai petrolieri. Alla porta del suo ufficio di
presidente della Camera si presentano i giudici Mario Almerighi e Adriano Sansa.
Nel film di Molinari e Ceccarini è Sansa a raccontare l’accoglienza di Pertini:
“Ci fa un cenno col dito vicino al naso per dire sscchh e ci porta in una
piccola stanza cui si arrivava con delle scalette. Dice: sennò ci sentono questi
cornuti. Noi non sapevamo a chi si riferiva”. Come ha raccontato Almerighi in un
libro di una decina d’anni fa Pertini spiega quel fare guardingo una volta
entrati in quella stanza di Montecitorio usata come lavanderia: “Finalmente qui
possiamo parlare anche a voce alta: questo palazzo è pieno di micro-spie. La
democrazia della nostra Italia sta attraversando un momento delicatissimo”.
Almerighi e Sansa gli spiegano di dovergli consegnare documenti che coinvolgono
deputati e ministri. “Vedo che tra i partiti che hanno ricevuto denaro c’è anche
il Partito socialista”. Racconta Almerighi che Pertini si interrompe, si toglie
gli occhiali, si asciuga un accenno di lacrima. “Questo mi addolora (…) Ma la
forza della democrazia siete anche voi. Dovete andare avanti. Continuate a fare
il vostro dovere. Coraggio. Io starò al vostro fianco, così come nel corso della
mia vita sono sempre stato a fianco dei valori della democrazia e della
legalità”. Ai magistrati arriverà anche una lettera con cui il presidente della
Camera ringrazia per il lavoro fatto dalla magistratura e esprime la sua
riconoscenza.
“ANTI-CASTA”: IL TERREMOTO IN IRPINIA
Un senso morale che lo spingerà a una requisitoria nei confronti dei governi e
del Parlamento dopo il terremoto in Irpinia del 1980, un episodio celebre perché
reso monumento dalla televisione. Lo trasportano lì con un elicottero, scende,
osserva le macerie, viene circondato dai parenti delle vittime, disperati. Da
sotto le macerie si sentono ancora gemiti. I soccorsi non sono mai arrivati. Lui
risale in elicottero, torna a Roma e in un lungo atto d’accusa su Rai2 non frena
la sua indignazione: “Nel 1970 in Parlamento furono votate leggi riguardanti le
calamità naturali. Vengo a sapere adesso che non sono stati attuati i
regolamenti di esecuzione di queste leggi. E mi chiedo: se questi centri di
soccorso immediati sono stati istituiti, perché non hanno funzionato? Perché a
distanza di 48 ore non si è fatta sentire la loro presenza in queste zone
devastate?”. Ma come? Uno j’accuse alla classe politica? Di quella classe
politica fa parte, il governo in carica lo ha nominato lui, ha scelto lui
Arnaldo Forlani come presidente del Consiglio, quindici giorni prima lo ha
difeso in un confronto faccia a faccia con gli studenti di Urbino (si trova su
youtube) nel corso del quale è anche contestato e lui risponde “libero fischio
in libera piazza” – altro che manganelli. La risposta prova a darla nel docufilm
Walter Veltroni: “Pertini – spiega – era per storia personale del tutto
invulnerabile. E quindi aveva possibilità di pronunciare frasi che non
necessariamente rientravano dentro il codice stabilito dal cerimoniale, andava
spesso oltre . E un po’ l’età e un po’ questa storia personale gli hanno
consentito delle libertà che magari altri non hanno avuto”. Quando è il momento
si mette controvento: nel 1974 alla Camera piomba la proposta di aumento delle
indennità dei deputati, lui è presidente e perde il controllo: “Ma come, dico
io, in un momento grave come questo, quando il padre di famiglia torna a casa
con la paga decurtata dall’inflazione… voi date quest’esempio d’insensibilità?
‘Io deploro l’iniziativa’, ho detto. ‘Entro un’ora potete eleggere un altro
presidente della Camera. Siete 630, ne trovate subito 640 che accettano di
venire al mio posto. Ma io, con queste mani, non firmo‘”.
Il talento, lo studio, la formazione socialista, forse il fatto di aver perso il
padre amatissimo da piccolo e poi ma anche l’impulsività, l’istrionismo e un
certo egocentrismo gli regalano questa capacità di linguaggio carismatico e
trascinante, sfrontato ma trasparente, energico tanto da apparire bizzoso.
Eppure è incredibile come appaia, ad ascoltarlo da qui, “democratico”: arriva a
tutti, non imbroglia, non lascia margini di interpretazione e proprio per questo
riesce ad essere a volte tagliente come una lama di rasoio: sì sì, no no. Si
conquista la popolarità mantenendo la stessa irrequietezza dell’esule in
Francia, che smaniava per tornare in Italia per liberarla. Pertini, conclude
Ferruccio De Bortoli parlando nel docufilm, “è un personaggio politico che ha
umanizzato le istituzioni e le ha avvicinate allo spirito popolare senza
debilitarle nel loro significato. Probabilmente ci siamo soffermati troppo sul
carattere e meno sul profilo istituzionale che il personaggio ha interpretato”.
La sua popolarità si accosta inevitabilmente a un’energia comunicativa
tracimante che vista da qui – dall’era politica in cui populismo e figli più
degeneri hanno trionfato – rischia di essere confusa per la stessa cosa. La
differenza va cercata, e si fa trovare.
L'articolo Pertini? “Sorvegliato” dalla questura anche al Colle. Pace, legalità,
radicalità e irrequietezza: perché il presidente partigiano parla alla politica
di oggi proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Presidente della Repubblica
In occasione della Giornata Internazionale dei Diritti dell’Infanzia e
dell’Adolescenza il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha
sottolineato, nel suo messaggio, la necessità di tutelare e riconoscere i
diritti dei più piccoli, soprattutto in un contesto che diventa via via sempre
più complesso: “La sofferenza di un bambino è la sconfitta di un’intera comunità
mentre ogni volta che un giovane cresce ascoltato, accolto, rispettato, la
collettività si rinnova e ritrova, nella sua voce, la speranza del futuro”, ha
scritto il Capo dello Stato.
Il presidente ha ribadito l’importanza di riconoscere i bisogni dei bambini,
oltre alle loro parole: “Ascoltare i bambini, riconoscere i loro bisogni,
proteggere i loro diritti: questo è l’impegno che la Giornata odierna sollecita
a mantenere quotidianamente. Richiamo a riconoscere il valore delle loro parole,
delle loro esperienze, delle loro necessità come parte integrante della vita
della nostra comunità. Le bambine e i bambini sono portatori di diritti
fondamentali, e milioni di essi oggi ne sono privati. Sono vittime di violenza,
tratta e sfruttamento, vengono spesso ridotti in condizioni di schiavitù,
oggetto di persecuzione e di rapimenti per farne bambini-soldati”.
Tra i punti toccati dal Capo di Stato – oltre la violenza, il lavoro minorile,
la piaga dei bambini soldato – anche la rabbia dei ragazzi e il loro rapporto
con internet: “Oggi, mentre i conflitti si moltiplicano, le crisi umanitarie e
le disuguaglianze si aggravano, sono i più piccoli a pagare il prezzo più alto”,
sottolinea Mattarella. Il presidente della Repubblica ricorda come in un
contesto sempre più violento e di crisi a pagare il prezzo più alto sono i
bambini, non solo nel mondo ma anche in Italia. “Anche nel nostro Paese –
aggiunge – persistono situazioni di abbandono e marginalità che non possiamo
permettere si consumino nel silenzio e nell’indifferenza. Troppi ragazzi
nascondono la propria fragilità dietro la rabbia, il mutismo o lo schermo di un
computer, in un contesto che li osserva senza comprenderli davvero”. “È
necessario – conclude il Capo dello Stato – un impegno concreto, quotidiano e
condiviso per restituire ai più giovani fiducia, tutela e reali opportunità di
crescita, rendendo effettivi i principi costituzionali che proteggono l’infanzia
e ne promuovono lo sviluppo umano e sociale”.
L'articolo Giornata dell’Infanzia, Mattarella: “La sofferenza di un bimbo è
sconfitta di tutti, anche in Italia situazioni di abbandono” proviene da Il
Fatto Quotidiano.
Dopo venti minuti di colloquio al Quirinale tra Meloni e Mattarella la parola
d’ordine che, in serata, si triangola da Palazzo Chigi, Colle e Fratelli
d’Italia è una: “Il caso è chiuso“. Si capirà nei prossimi giorni se la tregua
si tradurrà in pace dopo il caso delle frasi pronunciate (e pubblicate da La
Verità) dal consigliere del Capo dello Stato Francesco Saverio Garofani. Intanto
i contorni della vicenda vengono pian piano chiariti ma rimangono ancora molti
dubbi, a partire dalla fonte dell’articolo pubblicato dal giornale diretto da
Maurizio Belpietro. Ma anche la possibile esistenza di una registrazione audio
di quelle frasi sul presunto “piano anti-Meloni” che ha provocato la reazione di
Fratelli d’Italia e l’immediata replica irritata del Quirinale.
IL CONVEGNO E LA CENA ROMANA
Mercoledì, in un’intervista al Corriere della Sera, Garofani ha confermato le
sue parole anche se ha cercato di minimizzare: “Era una chiacchierata in libertà
tra amici”. Ma dove e quando è avvenuta? Il contesto è un ristorante della
Capitale, Terrazza Borromini, con affaccio su piazza Navona. Vicino al
consigliere di Mattarella per gli Affari del Consiglio Supremo di Difesa c’erano
tre o quattro persone, intorno altri 4-5 tavoli in una sala interna, non
riservata. Una cena alla quale hanno partecipato alcune delle persone che
avevano poco prima preso parte a un evento di solidarietà organizzato da Luca Di
Bartolomei, per l’associazione intitolata a suo padre Agostino (ex campione
della Roma), che offre borse di studio ai giovani in difficoltà, per farli
studiare e praticare sport. Tanti i volti noti che hanno partecipato al convegno
al Tempio di Adriano. Come riporta Repubblica, c’erano il conduttore di Di
Martedì Giovanni Floris, il prefetto di Roma, Lamberto Giannini, manager e
giornalisti. C’era anche Lando Maria Sileoni, recentemente intervistato da
Panorama – diretto, come La Verità, da Belpietro – e presentato come “indiscusso
leader della Fabi, il più potente sindacato dei bancari italiani”.
LA TAVOLATA TRA ROMANISTI
“Ma quale complottone contro il governo… Io sono anni che lavoro in contesti
prossimi alla politica e so riconoscere quando una discussione fa un salto di
scala, diventa sensibile. Invece ho letto delle cose campate in aria, costruite
in maniera totalmente artificiosa. Sono stati estrapolati pezzi di
conversazione, anche di soggetti diversi”, commenta in un’intervista a
Repubblica Luca Di Bartolomei, l’organizzare la cena che si dice “amareggiato”
per la polemica scaturita da quell’evento. Definendola “solo una tavolata tra
vecchi amici romanisti” Bartolomei sottolinea: “Sappiamo tutti chi è Francesco,
a cui sono legato da molti anni da affetto e stima. Quale sia il suo stile. È la
persona più moderata e più istituzionale che abbia mai conosciuto. Uno cui non
ho mai sentito dire una parolaccia in vita, per dare un’idea del tipo.
Figuriamoci i complotti”, aggiunge.
LA MAIL ANONIMA INVIATA AI GIORNALI DI DESTRA
Alla base dell’articolo pubblicato da La Verità vi sarebbe una segnalazione
anonima. Una e-mail, firmata da tale Mario Rossi, e inviata domenica nel primo
pomeriggio ad alcuni quotidiani di destra. L’ha ricevuta, di certo, il Giornale
di Alessandro Sallusti, come da lui stesso confermato. Ma quel messaggio di
posta elettronica anonimo inviato dall’indirizzo stefanomarini@usa.com viene
cestinato dal quotidiano di Sallusti. La Verità, invece, pubblica integralmente
l’intero testo (senza alcuna modifica) e lo firma con la pseudonimo Ignazio
Mangrano, giornalista che non esiste. Il titolo in prima pagina è: “Il piano del
Quirinale per fermare la Meloni”, accompagnato da un articolo dello stesso
direttore Belpietro.
“CONOSCIAMO LA FONTE, NON È UN MARIO ROSSI”
Ma come mai La Verità ha dato credito al contenuto di una segnalazione anonima?
Garofani “era al ristorante e una persona vicina a noi ha sentito tutto”,
sottolinea il condirettore de La Verità Alessandro De Manzoni – ospite di Un
giorno da pecora, sui Rai Radio1 – che polemizza con il quotidiano di Sallusti:
“Pensa che avremmo fatto tutto questo sulla base di una lettera anonima? E se
fosse vero, come mai il Giornale non c’è andato dietro?”. “Conosciamo la fonte“,
ribadisce De Manzoni, “non è un Mario Rossi. Temo ci sia un po’ di invidia in
quel pezzetto del Giornale”.
LA REGISTRAZIONE AUDIO
Rimane poi un ultimo dubbio. Il sospetto che possa esistere un registrazione
audio di quelle dichiarazioni del consigliere del Colle pronunciate nel
ristorante romano. Il condirettore della Verità non lo esclude, anzi: “È
possibile…“, risponde De Manzoni a Un giorno da pecora. È uno dei tasselli
mancanti di questo caso che ha provocato uno scontro inaspettato tra Quirinale e
Palazzo Chigi.
L'articolo Il caso Garofani: la tavolata tra romanisti, la mail anonima e i
dubbi sulla registrazione. Cosa sappiamo (e cosa no) proviene da Il Fatto
Quotidiano.