di Alberto Minnella
Ho ascoltato recentemente un’intervista di Gherardo Colombo sulle regole ed è
stato come entrare in una zona del discorso pubblico che raramente frequentiamo:
quella in cui non ci si limita a chiedere “quale legge?”, ma si tenta di capire
che cosa sostiene una legge affinché possa essere davvero tale. Nelle sue parole
emerge l’idea che le norme non vivono di autorità, ma di riconoscimento. E il
riconoscimento è qualcosa che avviene sempre dentro le persone prima che nei
tribunali.
Colombo lo ripete con calma: una regola funziona solo se incontra una coscienza
capace di percepirla come parte della convivenza. Altrimenti resta un segnale
neutro, un’indicazione che può essere letta, ignorata o aggirata senza alcuna
risonanza interiore. È questo scollamento tra norma e interiorità che
caratterizza sempre più spesso il nostro tempo. Non è una colpa individuale, ma
un effetto di un contesto in cui tutto sembra temporaneo, reversibile,
intercambiabile: anche i limiti.
In questo scenario, la violenza non appare come atto di ribellione ma come gesto
senza profondità. Non c’è l’intenzione di opporsi a una regola: spesso non c’è
nemmeno la percezione che quella regola esista come dimensione condivisa. Il
limite non viene attraversato: semplicemente non viene visto. E quando il limite
non è vissuto, non può esserci trasgressione. La trasgressione, che per secoli
aveva un ruolo preciso — segnava il punto in cui l’individuo sfidava l’ordine —
oggi appare come un concetto quasi inattuale, eroso dall’assenza stessa di un
confine stabile da violare.
I reati che occupano le cronache sono spesso la manifestazione di questa
mancanza: gesti improvvisi, scollegati, privi di una narrazione che li contenga
o li renda interpretabili. La violenza diventa un impulso che non trova argini,
non perché li distrugga, ma perché non li incontra. E la legge, vista da
Colombo, appare allora come un contenitore che non riesce a trattenere ciò che
non ha forma.
Le norme non sono state pensate per sostituire la responsabilità, ma per
organizzarla. Sono la grammatica minima che permette a una comunità di esistere.
Quando però la comunità perde la capacità di condividere significati, quella
grammatica si inceppa. La regola continua a esistere, ma perde peso: non fa più
orientamento, non delimita, non suggerisce un orizzonte. Semplicemente, scivola
accanto alla vita delle persone senza toccarla davvero.
La regola è, dunque, un gesto educativo. Non impone, orienta. Non chiude, apre
un passaggio: permette a ognuno di comprendere dove finisce il proprio desiderio
e dove inizia lo spazio dell’altro. Per questo Colombo ripete che le regole non
servono a reprimere, ma a far funzionare le relazioni. A costruire fiducia,
prevedibilità, continuità nel vivere insieme.
Ma tutto ciò richiede una cultura delle responsabilità che oggi sembra
indebolita. Si cresce senza avere esperienza del limite, come se il limite fosse
una minaccia e non una forma di protezione. E così le persone arrivano all’età
adulta senza aver interiorizzato la distinzione tra impulso e azione, tra
bisogno immediato e conseguenza. Il gesto violento è spesso la manifestazione
estrema di questa incapacità di contenersi, di darsi forma. La legge può
intervenire dopo, ma non può anticipare ciò che solo l’educazione può generare:
la capacità di riconoscere l’altro, di misurare i propri atti, di dare un
significato al proprio agire.
Colombo lo ripete da anni, e le sue parole suonano oggi più urgenti che mai: una
società non si salva con l’inasprimento delle norme, ma con la costruzione
paziente di una coscienza comune. Come ripristinare il terreno su cui una regola
può mettere radici? Non ci sono soluzioni immediate. Ma una via sensata è
un’educazione culturale diversa, che fin dalle prime scuole restituisca al
limite il suo valore di relazione. Un’educazione capace di ridare peso ai
legami, agli spazi, senso alle regole e responsabilità. Da lì può nascere una
speranza.
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limite perde senso. E si arriva alla violenza proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Gherardo Colombo
Gli elenchi della Loggia P2, Mani Pulite, i fondi neri dell’Iri, il delitto
Ambrosoli, il finto rapimento Sindona, i processi di corruzione dei magistrati
romani. Gherardo Colombo per oltre trent’anni ha indagato sui casi che hanno
segnato la storia giudiziaria d’Italia. Ospite a “La Confessione” di Peter Gomez
in onda stasera, 29 novembre, alle 20.20 su Rai 3 ha raccontato la scoperta,
insieme al collega Giuliano Turone, dei nomi dei 962 iscritti alla loggia
Propaganda 2 di Licio Gelli insieme a 32 buste sigillate dentro la cassaforte di
Villa Wanda, la residenza toscana, a Castiglion Fibocchi, del Maestro
venerabile. “Cos’era in poche parole la Loggia P2?”, ha chiesto il conduttore.
“Era un’organizzazione che aveva lo scopo di influenzare, ma molto pesantemente,
le istituzioni in modo da far sì che la conservazione tenesse questo paese in
una situazione di stallo continuo. – ha risposto l’ex membro del Pool di Mani
Pulite – La P2 non puntava direttamente a un colpo di Stato, puntava a fare in
modo che attraverso varie azioni anche di molto rilievo, la cittadinanza avesse
sostanzialmente paura dei cambiamenti”, ha spiegato l’ex magistrato, che a Gomez
racconterà anche della sua “seconda vita” come divulgatore nelle scuole.
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al colpo di Stato, ma a far sì che i cittadini temessero i cambiamenti” proviene
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