Nel giorno dell’anniversario della strage del liceo Salvemini di Casalecchio di
Reno (6 dicembre 1990), quando un MB 326 dell’Aeronautica si schiantò sulla
scuola provocando la morte di 12 studenti e il ferimento di 88 persone, è andato
online il post dell’ex pilota Vincenzo Fenili che ricostruiva la dinamica
dell’incidente e spiegava l’inevitabilità della tragedia. L’associazione delle
vittime ha voluto rispondere alla tesi esposta nel blog. Qui di seguito il
testo:
di Associazione Vittime del Salvemini
La strage del Salvemini (6 dicembre 1990) è una strage dimenticata o di cui ci
si ricorda il meno possibile e limitatamente alle cronache locali. La cosa non
ci meraviglia, anzi, la nostra Associazione ha sempre sottolineato i vari
aspetti di cui è normale che uno Stato si vergogni e tenda a dimenticare.
Sorprende, quindi, che proprio il 6 dicembre venga pubblicamente ripescata la
tesi dell’inevitabilità e ancor più che sia il Fatto Quotidiano a farsene
tramite senza alcun contradditorio.
Tralasciamo la successione degli eventi che, purtroppo, conosciamo bene e che
l’autore ha ricostruito, salvo stupirci della sicurezza con cui viene
ipotizzata, come certa, una brutta giornata di nebbia e deboli piogge. Su questo
aspetto, peraltro non decisivo, lo rassicuriamo: era piuttosto freschino, ma la
giornata era limpida e serena.
La tesi dell’inevitabilità riprende, ovviamente, le conclusioni del processo
giudiziario, di cui abbiamo preso atto, nostro malgrado: il fatto non
costituisce reato. Ovvero, tutto è stato gestito alla perfezione, addirittura
eroicamente, non ci sono cause da rimuovere su cui intervenire. Di fatti, a 8
giorni dalla sentenza definitiva del 26 gennaio 1998, il 3 febbraio segue la
strage del Cermis che, per una bravata, causa 20 vittime. D’altra parte, di
fronte alla fatale inevitabilità che vuoi fare? Poteva mai, quella sentenza,
orientare, quanto meno, a maggiore attenzione alla sicurezza per tutti, militari
e civili? Comunque tranquilli: anche i militari americani sono stati assolti a
casa loro.
Respingiamo al mittente l’accusa di fatalismo da parte dell’opinione pubblica
per la morte dei militari. La sicurezza che abbiamo sempre invocato riguarda
tutti, così come tutti avrebbero dovuto farsi carico delle tragedie che abbiamo
rilevato. Quello del Salvemini era l’ottavo aereo caduto, quell’anno, in
esercitazioni militari (5 i piloti deceduti); il nono cadrà il 27, due giorni
dopo Natale, provocando la morte dei 2 piloti. Nei 3 anni successivi cadono
complessivamente 26 aerei in esercitazione, perdono la vita 18 giovani piloti, 8
rimangono feriti. Il processo della strage del Salvemini deve ancora cominciare.
A fronte di tutto questo lo Stato decide di sostenere la difesa dell’Aeronautica
Militare contro le vittime (studenti, familiari, docenti, personale ausiliario)
e le Istituzioni Locali e diffida la Scuola di Stato dal costituirsi parte
civile, anche per conto proprio. Il Ministero della Difesa tenta di bloccare i
rinvii a giudizio respingendo ogni autocritica e arrogandosi il compito e le
competenze tecniche di verificare in proprio le cause della tragedia. Dovrà
accontentarsi della copertura dell’Avvocatura di Stato, mentre le vittime
copriranno le spese processuali attraverso una sottoscrizione popolare di
solidarietà. A proposito di legge uguale per tutti…
Per la nostra collettività la memoria non è un impegno limitato al ricordo di
quell’evento e dei nostri cari, ma uno stimolo ad operare quotidianamente a
favore di chiunque si trovi in situazioni di difficoltà. Il tema della sicurezza
per noi rimane vitale e riguarda tutte le possibili cause di tragedie, dai
trasporti alle condizioni di lavoro, dai disastri ambientali a quelli naturali,
dalla criminalità al terrorismo. Questo impegno che ci accumuna, purtroppo, a
tante altre Associazioni Nazionali di Vittime non verrà mai meno e non possiamo
tollerare che la sicurezza di tutti possa venire banalizzata con calcoli
percentuali sulle fatalità e sugli algoritmi del destino.
Noi non ci rassegniamo all’inevitabilità! Non accetteremo mai che per “Ragioni
di Stato” o di “Profitto” si metta in conto una percentuale di “Effetti
collaterali” da sopportare. Non importa se non si potrà mai raggiungere, ma
l’obiettivo da perseguire è: rischio zero!
Risposta di Vincenzo Fenili – Relativamente al mio Blog sulla tragedia
dell’Istituto Salvemini, sono assolutamente a disposizione per rettificare
eventuali inesattezze: gli eventi sono abbastanza “distanti” nel tempo e le
fonti possono non essere state del tutto precise nella loro versione dei fatti.
Sarà mia cura verificare e riparlarne in un prossimo post. Ringrazio la
Redazione del Fatto e chi ha scritto per l’opportunità.
L'articolo “Come associazione vittime del Salvemini non ci arrendiamo
all’inevitabilità. Da anni invochiamo sicurezza” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Tag - Aeronautica
Quando precipita un aereo militare e le uniche vittime sono i membri
dell’equipaggio, la reazione dell’opinione pubblica è abbastanza fatalista: alla
fine il pilota (e/o gli altri sul volo) stava facendo il lavoro che aveva
scelto, ben conscio dei rischi che correva.
Comprensibilmente tutto cambia quando vi sono vittime innocenti e ignare,
colpite a terra dai detriti del velivolo e dall’inevitabile incendio che ne
segue. Per fortuna i casi confermati in cui aerei militari precipitati in Italia
hanno colpito case provocando vittime civili sono pochissimi e anche poco
documentati, a eccezione di incidenti piuttosto rari ma eclatanti come il
Cermis, 3 febbraio 1998 (20 vittime) che però costituisce un caso decisamente
ibrido in quanto il velivolo militare Usa tranciò i cavi di una funivia causando
la caduta delle persone, senza però impattare contro edifici.
Nella storia della nostra Aereonautica Militare dal dopoguerra ad oggi vi sono
stati vari “crash” di velivoli militari vicino a zone abitate, talvolta con
danni a edifici, ma con poche o nessuna vittima civile anche perché il personale
di condotta è addestrato a ritardare l’eventuale lancio fino a che il velivolo
in avaria non sia stato diretto, per quanto possibile, verso una zona non
popolata e comunque lontano da centri abitati.
Trent’anni fa, nel 1990, l’informazione era molto diversa da come è oggi per
ovvi motivi: il web non esisteva, almeno a livello pubblico/civile, e con esso i
social e gli smartphone. Oggi qualsiasi evento, dal più banale ai più tragico, è
quasi inevitabilmente documentato da una webcam e/o da un cellulare rendendo
possibile almeno una prima ricostruzione dei fatti, ancorché rozza e non di rado
smentita da altri approfondimenti.
Se esaminiamo gli incidenti aerei dei mesi scorsi, quello di Air India 171 dello
scorso giugno e dell’Ups 2976, sono circolati diversi video che nel caso di Air
India hanno temporaneamente portato fuori pista i primi analisti; mentre per lo
schianto dell’Ups hanno da subito fornito elementi sufficienti a capire la reale
dinamica dei fatti.
Ma quella mattina del 6 dicembre 1990, a Casalecchio di Reno, non vi erano
webcam o cellulari, e delle condizioni meteo non si hanno notizie dettagliate.
Era certamente una brutta giornata invernale, tipica della pianura Padana:
basandoci sui dati climatologici storici dell’area bolognese, la temperatura era
fra 0°C e 6°C con nebbia, cielo coperto e deboli piogge. Il velivolo, un jet MB
326 detto “macchino”, era già stato sostituito nella flotta dell’Ami come
addestratore ed era relegato al ruolo di bersaglio radar e traino maniche per
l’artiglieria antiaerea.
Quel giorno la missione dell’MB 326 doveva svolgersi sul poligono E.I. di Foci
Reno. Alle 9.48, l’aereo, senza sistemi d’arma o carico bellico, parte da
Villafranca per una missione di calibrazione di alcuni sistemi di difesa aerea
pilotato dal tenente Bruno Viviani: la missione è quella di volare in una zona
aerea tra Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Alle 10.22 il jet inizia ad avere
i primi problemi tecnici, costringendo quindi il pilota a richiedere un
atterraggio anticipato ma senza dichiarare emergenza. Non ancora.
L’aeroporto più vicino è quello di Ferrara che però non è idoneo, quindi il
tenente Viviani decide di dirigersi immediatamente verso l’aeroporto di Bologna.
Alle 10:31 il pilota comunica al controllo di volo che il motore ha “piantato” e
preso fuoco: il “macchino” non risponde più ai comandi. Subito dopo Viviani
aziona il maniglione del seggiolino eiettabile Martin Baker ed effettua con
successo un lancio che si concluderà con lievi lesioni all’atterraggio.
Alle 10.33 l’MB 326, completamente fuori controllo, si avvita e si schianta
sulla succursale dell’Istituto Tecnico Commerciale G. Salvemini a Casalecchio di
Reno, alle porte di Bologna. E lo fa, purtroppo, in un orario perfettamente
scolastico, centrando la classe 2A: muoiono 12 studenti — undici ragazze e un
ragazzo — tutti quindicenni, mentre 88 tra studenti, docenti e personale restano
feriti, molti riportando invalidità permanenti.
Così quella mattina di 35 anni fa, la normalità di una serena mattina di scuola
si trasformò in un vero incubo, che fece precipitare la comunità locale in un
dolore inenarrabile e lasciò tutto il Paese senza parole. Una parte della stampa
definì la tragedia “evitabile”. Alle indagini della magistratura seguirono i tre
gradi di giudizio con l’accusa di “omicidio colposo plurimo”: condanna in primo
grado, prevedibile assoluzione in Appello e Cassazione in quanto il “fatto non
costituiva reato”. E a molti potrà sembrare assurdo, ma è così.
La missione, come tutte quelle condotte dall’aeronautica militare, è pianificata
e condotta secondo protocolli rigorosi che prevedono ogni evento possibilmente
immaginabile. L’aeromobile è sottoposto a controlli tecnici altrettanto rigorosi
che ne garantiscono l’assoluta efficienza… a meno di eventi catastrofici che
però sono calcolabili in percentuali quasi infinitesimali. È esattamente quello
che succede per i voli di linea: la probabilità di morire in un incidente aereo
è di 1 su 13,7 milioni.
In Italia, per quanto riguarda incidenti causati da velivoli militari, questa
probabilità è ancora più bassa. All’epoca l’MB 326 era ancora un ottimo
velivolo: anche se le necessità addestrative ne avevano richiesto un upgrading,
il suo record in termini di sicurezza e di docilità nella condotta è stato
veramente eccezionale. Quel giorno, un’improvvisa “piantata” di motore, unita ad
una visibilità molto bassa, crearono le condizioni per una tragedia inevitabile.
Per inciso, il 16 luglio del 1991, un incidente analogo coinvolse un MB 326 su
Sabaudia: una piantata di motore improvvisa non impedì al pilota T. Col.
Lodovisi di dirigere l’aviogetto sul mare azionando il seggiolino eiettabile a
pochi metri dall’acqua. Ma in quel caso la giornata era serena e con ottima
visibilità, condizioni ben diverse da quella fredda e nebbiosa mattina a
Casalecchio di Reno.
Accade rarissimamente, ma ogni volta che un aereo militare o di linea precipita
nel nostro Paese, riaffiorano vulnerabilità emotive collegate a drammi e vicende
dai contorni ancora irrisolti (Ustica, la vicenda del volo Argo 16 etc.). È vero
che tecnologia e normative sono migliorate, ma rimane il monito che la fatalità
in un volo di routine assume talvolta la forma dell’avaria, dell’imprevisto e
infine anche dell’errore umano. Quest’ultimo non fu certamente il caso
dell’incidente del 6 dicembre 1990, ma la vicinanza tra voli militari o civili e
zone abitate continua a essere una criticità per ora insormontabile.
A 35 anni da quella mattina, una mattina come tante, il dolore dei familiari e
degli amici delle vittime resta inalterato e con esso la consapevolezza che
certe tragedie rimangono umanamente tali al di là di qualsiasi analisi tecnica.
L'articolo La “piantata” di motore e lo schianto: l’incidente aereo di
Casalecchio di Reno era inevitabile proviene da Il Fatto Quotidiano.