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Che fine ha fatto la tassidermia
“L o sguardo è ciò che fa davvero la differenza.” Per Michela gli occhi sono una fissazione. Dopo averli alloggiati sottopelle, trascorre molto tempo a studiarne la posizione sul capo. Anche il colore deve essere quello esatto; sceglie con cura i bulbi di vetro, perché ogni iride ha le sue sfumature. Per lei è fondamentale saper cogliere ogni piccolo dettaglio nello sguardo degli animali su cui lavora, per restituire loro ‒ una volta montata la pelle ‒ quel guizzo di vita che su cui si gioca l’illusione. Michela Padovani ha 32 anni, è una microbiologa e, da qualche anno, anche tassidermista. Si occupa soprattutto di volatili. Li trova durante le sue escursioni, ma più spesso le vengono portati da amici e conoscenti. Tratta i corpicini con gentilezza: sveste con cura il corpo dalla pelle piumata (quella dei colombiformi è la più delicata, mi spiega) annotando il volume dei muscoli e la lunghezza degli arti. Per un risultato veritiero, serve un modello che ricalchi perfettamente il corpo dell’animale originale, un manufatto che possa indossare la nuova pelle.  “Ognuno rispetta la morte a suo modo. Per me si tratta di ridare una seconda vita; così, è come onorare la bellezza della Natura”.  Nel suo caso la tassidermia è stata il punto di arrivo di una passione sincera per il mondo naturale. Raccogliere qualche piuma o piccole ossa non le bastava più, e così ha deciso di dedicarsi a dare di nuovo un valore alla bellezza delle spoglie. La tassidermia vive di un equilibrio di forze opposte. È una pratica di confine che si regge in bilico tra la vita e la morte, il reale e l’irreale, ma soprattutto tra l’arte e la scienza. Da quasi tre secoli il suo scopo rimane sempre lo stesso, quello di fermare un corpo nel tempo, ricreando l’illusione della vita. Nel corso della sua storia ha attraversato periodi di stravaganza, di colonialismo e di riscoperta. Sempre accompagnata da quel vago senso di macabro che ancora oggi ci pone la domanda su quanto sia giusto (e forse necessario) manipolare i corpi animali per fermarne la forma nel tempo. > La tassidermia vive di un equilibrio di forze opposte. È una pratica di > confine che si regge in bilico tra la vita e la morte, il reale e l’irreale, > ma soprattutto tra l’arte e la scienza. Come alcuni degli esemplari su cui lavorano, anche i tassidermisti sono una specie in via di estinzione. Se un tempo le tecniche passavano dal maestro all’allievo, oggi quella trasmissione è quasi scomparsa e nei musei italiani il mestiere non esiste quasi più. Istituzioni che per tradizione comprendevano questa professione nel proprio organico, come il Museo di storia naturale di Milano, bandiscono nuovi concorsi alla ricerca di chi potrà sostituire chi andrà in pensione. Ma i pochi tassidermisti rimasti preferiscono lavorare per conto proprio. Eppure, lontano dall’essere rimasto chiuso in qualche armadio vittoriano, il lavoro di chi si prende cura degli animali rimane cruciale nei musei, tanto nelle sale espositive quanto nel retroscena degli archivi. Ma se in ambito museale i tassidermisti vanno scomparendo, al di fuori la pratica è ancora viva e suscita curiosità e nuove committenze. La pelle non è solo sostanza da conservare, ma continua a essere un vero e proprio medium creativo. Un materiale che si presta a interpretazioni estetiche, simboliche, affettive. È quello che oggi chiamiamo tassidermia artistica, e che spinge i suoi confini fino alla conservazione degli animali domestici, esplorando territori sempre in bilico tra bellezza e grottesco. Fermare il tempo L’idea umana di interrompere la decomposizione del corpo dopo la morte ha radici antiche. Gli Egizi imbalsamavano le spoglie dei defunti per garantire loro una nuova esistenza in un’altra dimensione e lo facevano trattando la pelle con oli e balsami. Proprio dalla parola balsamo deriva il termine imbalsamare con cui oggi ci riferiamo agli animali conservati nelle teche dei musei e che andrebbero chiamati più correttamente tassidermizzati. Tassidermia deriva dal greco antico e significa “sistemare, dare ordine alla pelle” (táxis ordine, dérma pelle). Perché il tassidermista non si cura di ciò che sta all’interno, ma solo di quei pochi millimetri di tessuto che rendono un animale nella forma riconoscibile ai nostri occhi. La scienza inizia a interessarsi alla preservazione dei corpi soltanto a partire dal Diciassettesimo secolo, quando la loro immersione in soluzioni alcoliche permetteva di trasportarli in Europa da ogni angolo del mondo. Per la prima volta l’essere umano riuscì a impedire in modo stabile la putrefazione del corpo e a far toccare con mano agli accademici europei creature che prima erano soltanto dipinte nei libri. La tecnica era più utile ai primi studi di fisiologia che al piacere degli occhi, necessaria alla conservazione dei tessuti ma incapace di restituire le fattezze originali degli esemplari conservati. I corpi si disidratavano, si rattrappivano e i colori svanivano. > Se in ambito museale i tassidermisti vanno scomparendo, fuori la pratica è > ancora viva e suscita curiosità e nuove committenze. La pelle non è solo > sostanza da conservare, ma continua a essere un vero e proprio medium > creativo. La tassidermia come la conosciamo oggi arriva soltanto più tardi. Un secolo dopo, Jean-Baptiste Bécœur inventa il sapone arsenicale, un unguento talmente tossico da impedire la distruzione delle pelli da parte degli insetti necrofagi. I corpi si liberano quindi dalla clausura di una seconda vita sotto spirito, riacquisendo le sembianze naturali. Sarà la pelle a essere conservata, e da semplice oggetto scientifico e reperto diventa un nuovo medium di espressione. L’età dell’oro si raggiunge nell’Ottocento. Le creature provenienti da ogni parte del mondo esplorato vengono tassidermizzate e riempiono i salotti d’Europa. Da quel momento i musei scientifici, che si erano fino ad allora dedicati a una raccolta sistematica degli oggetti naturali, diventano il palcoscenico sul quale si fa sfoggio della superiorità imperialista europea. Le sale espongono animali mai visti prima, esemplari che contribuirono al fascino per l’esotico tipico dell’epoca. I corpi di creature mai approdate nel continente, come il gorilla, diventano un’icona coloniale come prove della conquista europea e di una natura domata. Al servizio della scienza Molti di questi esemplari sono ancora oggi conservati nei musei di storia naturale. Insieme a quelli raccolti nei periodi successivi, costituiscono le collezioni museali odierne. “Come in passato, oggi lo scopo di una collezione è soprattutto quello scientifico” mi spiega Giorgio Chiozzi, che lavora come ornitologo al Museo di storia naturale di Milano. La raccolta e conservazione degli uccelli è indispensabile ai suoi studi e per questo lavora a stretto contatto con il tassidermista del museo, a oggi uno dei pochi rimasti ad averne uno. La preparazione tassidermica è prima di tutto un metodo di conservazione, uno tra i più efficaci considerando che ha fatto giungere fino a noi animali preparati quasi tre secoli fa. > Dopo la scoperta del DNA e grazie ai progressi biotecnologici, i corpi degli > animali ‒ di ieri come di oggi ‒ sono in grado di restituire informazioni che > vanno oltre la forma, diventando archivi di informazione genetica. Come una biblioteca, le collezioni museali possono essere consultate alla ricerca di informazioni nel passato di una data specie. Fino agli anni Settanta in Italia veniva praticata la raccolta attiva in natura, che aveva permesso fino a quel tempo di collezionare serie storiche ancora oggi conservate. Questo tipo di raccolte veniva assemblato secondo criteri precisi, come l’appartenenza a una certa regione geografica, e il grande numero di animali raccolti permetteva di produrre conoscenze significative, biologicamente rilevanti. Le conoscenze attuali sulla morfologia, l’anatomia interna e l’evoluzione sono basate su questo tipo di raccolte. Oggi ci permettono il confronto con gli esemplari del passato, facendoci immaginare la storia evolutiva di una specie, come è cambiata la forma o l’alimentazione nel tempo. Dopo la scoperta del DNA e grazie ai progressi biotecnologici, i corpi degli animali ‒ di ieri come di oggi ‒ sono in grado di restituire informazioni che vanno oltre la forma, diventando archivi di informazione genetica. Nelle loro cellule restano tracce genetiche che permettono di formulare nuove ipotesi evolutive, ma anche tracce di sostanze inquinanti come i metalli pesanti che possono essere misurate per confrontarle con il presente. Ogni campione diventa così una testimonianza di un tempo e di un luogo, capace di raccontare non solo la storia di una singola specie, ma anche le trasformazioni dell’ambiente in cui ha vissuto. Le serie storiche sono un vero archivio della biodiversità che non ha perso il suo valore scientifico e che continua il suo dialogo con le nuove raccolte. “Negli ultimi anni molti degli esemplari arrivano soprattutto da impatti stradali, le cosiddette roadkill; quindi, animali investiti dai veicoli e raccolti direttamente dai cittadini” mi racconta il dottor Chiozzi. È stimato che ogni anno in Europa vengano uccisi in incidenti stradali 30 milioni di mammiferi e quasi 200 milioni di uccelli. Anche se il valore scientifico di questi esemplari è inferiore rispetto alle raccolte attive fatte in passato, gli animali sono comunque una fonte di nuovi esemplari per i musei di storia naturale. A questi si uniscono poi gli animali che hanno vissuto in centri di recupero in parchi faunistici. Qualche anno fa il rinoceronte Toby ha concluso la sua esistenza al Parco Natura viva, in provincia di Verona, il giardino zoologico dove viveva, e il suo corpo è stato preparato per essere esposto al MUSE – Museo delle scienze di Trento. Il rinoceronte era il più anziano d’Europa e apparteneva all’unica sottospecie di rinoceronte bianco ancora presente in natura, quella meridionale. Spesso si tratta di esemplari le cui popolazioni naturali sono minacciate di estinzione, e i loro corpi diventano testimonianze viventi della loro stessa fragilità. In questo senso i musei si fanno custodi della memoria, accogliendo e mostrando specie ormai scomparse: è il caso, ad esempio, dell’alca impenne (un grande pinguino oggi estinto) o del quagga (un equino che ricorda un po’ una zebra e un po’ un cavallo). Entrambi sono visibili al Museo di storia naturale di Milano e ci offrono un monito su ciò che è già accaduto e su ciò che potrebbe ancora accadere. > Il tassidermista moderno sa maneggiare anche argilla, materie plastiche e > altri materiali. Non è più soltanto una questione di scienza e conservazione, > ma di forma, suggestione e scenografia. Oltre alla pura e semplice conservazione dei corpi, non è tramontato il fascino per le esposizioni di animali tassidermizzati ‒ cosiddetti naturalizzati ‒ che richiedono di raggiungere un realismo sempre più autentico. Al di là della pratica tradizionale di concia e preparazione delle pelli, oggi la professione si reinventa per restare al passo coi tempi, affacciandosi a nuove tecniche e materiali. “Fermo restando che il ruolo del tassidermista è principalmente quello di preparatore naturalista, alle sue competenze oggi si aggiungono la capacità manuale e l’abilità artistica di utilizzare materiali sintetici per realizzare realistici calchi di esemplari e modelli di animali” mi spiega Giorgio Chiozzi, parlando del futuro di questa pratica. Il tassidermista moderno sa maneggiare ‒ oltre alle pelli ‒ anche argilla, materie plastiche, siliconi e innumerevoli altri materiali. Non è più soltanto una questione di scienza e conservazione, ma di forma, suggestione e scenografia. Il primo a immaginare di mettere in scena la vita così come si presenta nel suo ambiente fu il Museo di storia naturale di New York, sotto la guida di Carl Akeley. Il diorama è un tipo di esposizione dove non basta la presenza del corpo animale a rendere la suggestione ma serve spingersi un po’ più in là, serve metterlo in azione. Ecco quindi che è possibile assistere a scene di caccia di un predatore che rincorre la sua preda, di scontro tra due maschi di cervo che incrociano le corna o di strategie alimentari come nel caso dei condor che si affollano su una carcassa. Ancora oggi il Museo di storia naturale di Milano si serve di questo stratagemma per raccontare le relazioni tra gli animali e l’ambiente in cui vivono, nonché quelle tra animali e altri animali. In altre parole, la loro ecologia. L’arte che non ha smesso di essere arte La tassidermia è ancora uno strumento didattico efficace perché l’esperienza di vicinanza con il corpo animale continua a offrire qualcosa in più rispetto allo schermo. Trovarsi dinnanzi alla fisicità di un corpo, come quello maestoso di un grosso alce, apre una relazione tra chi osserva e chi viene osservato, un’interazione nella quale l’osservatore assume ruolo attivo, capace di confrontarsi. Dal punto di vista dell’antropologia delle immagini, l’efficacia di questi complessi visivi si fonda sul fatto che il corpo animale conservato ‒ in quanto medium ‒ rimane inseparabile dall’immagine che veicola. Non esiste più rappresentazione. Il corpo originale, trasformato in immagine, si presenta agli occhi dello spettatore nella sua autentica tridimensionalità. Verso la fine del Settecento il Leverian Museum di Londra mise in opera una singerie mai vista prima. Fino ad allora le singerie erano dipinti o illustrazioni che mettevano in scena scimmie in atteggiamenti umani allo scopo di ironizzare e parodiare i comportamenti dell’essere umano. Quella volta a indossare i panni di un postino o di una dama (con tanto di abiti cuciti su misura) erano vere e proprie scimmie tassidermizzate. Per la prima volta nella sua storia, l’essere umano provava un nuovo senso di smarrimento di fronte a ciò che sembra vivo, ma non lo è. Per quasi tutta la sua storia la tassidermia ha operato sempre al fianco della scienza, ma non ha mai smesso di essere anche arte. Il corpo animale conservato si è evoluto come mezzo visivo capace di esprimere messaggi complessi, leggibili come quadri o sculture. Il tassidermista ha sviluppato insieme alle conoscenze di anatomia ed ecologia quelle legate ai materiali e alla manipolazione del medium della pelle, con l’intenzione di raggiungere un realismo sempre più preciso. Il corpo animale non è più soltanto rappresentazione e dimostrazione, ma diventa narrazione, all’interno di scenografie che superano il concetto di divulgazione scientifica. > La tassidermia etica impone che nessun animale debba essere appositamente > ucciso. L’animale diventa così simbolo di memoria e testimonianza, non un > trofeo. Se la tassidermia è sempre stata arte, oggi il termine “tassidermia artistica” svolge la funzione di separarla dall’idea comune di tassidermia al servizio dei musei. La maggior parte degli artisti che utilizzano il corpo animale come mezzo espressivo praticano quella che viene definita ethical taxidermy, che si propone di rinnovare l’idea di tassidermia tradizionale. Al centro pone il principio che nessun animale debba venire ucciso per essere utilizzato, e per questo utilizza esemplari già deceduti e di provenienza nota. Nata dall’esigenza di coniugare interesse artistico e rispetto per la vita animale, intende ridurre l’impatto etico e ambientale di una pratica storicamente legata alla caccia e alla collezione. Nella tassidermia etica, l’animale diventa simbolo di memoria e testimonianza, non un trofeo. Gli artisti assumono una posizione consapevole nei confronti del ciclo vitale, del rapporto essere umano-natura e della possibilità di trasformare un corpo già privo di vita in veicolo di riflessione culturale, estetica o educativa. Un nuovo conforto Accanto a nuovi desideri artistici, negli ultimi anni la tassidermia ha iniziato a servire un bisogno più privato: quello di conservare il corpo di chi ha condiviso con noi tutta la vita. La tassidermia domestica ‒ o come piace ad Alberto “tassidermia famigliare” ‒ è una nuova pratica che entra in punta di piedi tra le applicazioni tradizionali di quest’arte. Alberto Michelon è l’unico in Italia a esercitare in maniera professionale (e secondo coscienza) questo tipo di artefatti. Si è formato come naturalista e poi come tassidermista. Da quando ha aperto il suo studio lavora per musei e privati, ma nel tempo ha sviluppato, come dice lui, una “repulsione” verso quegli animali uccisi e preparati come trofei di caccia. L’esperienza accumulata ha fatto nascere in lui il desiderio di commissioni più stimolanti e significative, e ha deciso di rivolgersi ad altre forme di preparazione, aprendo la strada a nuove richieste. “Un cacciatore che ti commissiona un lavoro non ha nessun legame con quell’animale. Chi mi chiede di preparare un cane, o un gatto, ha passato con lui gioie e dolori”. Alberto crede che oltre alla conoscenza del mondo animale e a una tecnica impeccabile, per un tassidermista del suo tipo serva sviluppare anche una grande sensibilità. Le persone che si rivolgono a lui per rimanere ancora con il proprio animale domestico portano con sé una storia e un dolore che necessitano di essere accolti. “Spesso chi chiede il mio aiuto è disperato. Passo molto tempo con loro, si piange, ci si racconta.” La tassidermia domestica è anche una sfida che richiede molto lavoro. Cani, gatti, tartarughe e altri animali da compagnia sono esemplari unici e le loro caratteristiche vanno studiate con attenzione prima di iniziare una nuova opera. Alberto esamina le forme, i volumi, nonché le espressioni che rendono ogni animale proprio quell’animale. “Alla fine, la somiglianza è quasi perfetta.” > La tassidermia domestica fornisce un nuovo modo di vivere il lutto, ponendosi > tra chi rimane e la sua perdita, impedendo una separazione definitiva e > concedendo l’illusione di una presenza eterna. L’Italia è uno dei Paesi europei con il più alto numero di animali domestici pro capite. I cosiddetti pet entrano a far parte a tutti gli effetti del nucleo famigliare e in quanto membri ne assumono il valore affettivo. In questo caso la tassidermia fornisce un nuovo modo di vivere il lutto ponendosi tra chi rimane e la sua perdita, impedendo una separazione definitiva e concedendo l’illusione di una presenza eterna. “Il corpo viene cremato, ma all’esterno rimane come lo ricordavamo. Possiamo accarezzarlo, interagire con lui e questo è in qualche modo consolatorio. In un certo senso si tratta di un modo per ingannare la morte”. Ci siamo dimenticati della bellezza Prima ancora di essere scienziato, il tassidermista è sempre stato un artista. In quanto tale egli intende lanciare un messaggio, ma al posto di scolpire il marmo o dipingere una tela lo comunica facendo parlare gli animali stessi. Come in Perversus, opera dello stesso Michelon, dove gli animali sono stati vestiti di lacci e cinghie e ci parlano di quanto siano diventati oggetti destinatari di amore a misura d’uomo. Oppure in Time for Revolution, nella quale Michelon ha messo tra le loro zampe cartelli e striscioni, formando un insolito corteo di protesta per l’ambiente. > La tassidermia non è soltanto tecnica di conservazione né reliquia di un > passato coloniale, ma può farsi spazio di riflessione sul nostro rapporto con > gli animali, sul modo in cui li ricordiamo, li guardiamo, li trasformiamo in > presenza anche dopo la morte. “Bisogna tornare ad apprezzare le cose belle”, mi dice Michela Padovani, con la convinzione di chi conosce la diffidenza che la tassidermia ancora suscita. Forse il fastidio nasce dalla consapevolezza che quei corpi siano stati svuotati, privati della loro sostanza per essere rimontati su un supporto inerte. O, come suggerisce lei, dal legame persistente con l’immaginario della caccia. In entrambi i casi, ciò che manca è un racconto diverso. La tassidermia non è soltanto tecnica di conservazione né reliquia di un passato coloniale, ma può farsi spazio di riflessione sul nostro rapporto con gli animali, sul modo in cui li ricordiamo, li guardiamo, li trasformiamo in presenza anche dopo la morte. Per continuare ad avere senso oggi, questa pratica deve essere attraversata da nuove storie: non più quelle del possesso e della conquista, ma quelle della cura, della memoria, della bellezza. L'articolo Che fine ha fatto la tassidermia proviene da Il Tascabile.
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Vivono, indifesi sotto la notte
P artiamo da qui: “Vivono, indifesi sotto la notte”, in cui si intrecciano i titoli di due realtà diverse che, per uno di quei rari casi della vita, si sono incontrate in una coincidenza di tempi e spazi. Io e Michele Bertolino, dopo esserci sfiorati grazie a Marea, la residenza artistica curata da Imma Tralli e Roberto Pontecorvo a Praiano, in Costiera amalfitana, ci siamo ritrovati di nuovo, molto tempo dopo e del tutto per caso, alla Fondazione Marisa, che custodisce l’immenso patrimonio letterario e non solo dello scrittore Luca Scarlini. “Senza dire niente, io metto insieme le persone che hanno qualcosa da dirsi”, disse Luca quel giorno. Né io né Michele avremmo mai potuto immaginare quanto quelle parole fossero vere. Entrambi, infatti, stavamo lavorando, ciascuno per conto proprio e con linguaggi diversi, a un tema rimosso della nostra società, che ancora oggi brucia e resta irrisolto: l’AIDS, l’epidemia che tra gli anni Ottanta e Novanta ha portato via, nella solitudine, migliaia e migliaia di vite. Vivono. Arte e affetti, HIV-AIDS in Italia. 1982-1996 è il titolo della mostra, a cura di Michele Bertolino, che è stata inaugurata al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato sabato 4 ottobre 2025, la prima mostra istituzionale che ricompone la storia dimenticata delle artiste e degli artisti italiani colpiti dalla crisi dell’HIV-AIDS. Indifesi sotto la notte è invece il titolo del mio nuovo saggio (in uscita per minimum fax nel 2026) che prova a tracciare la narrazione dell’AIDS nelle opere letterarie pubblicate nello stesso periodo. > Fin dall’inizio della crisi dell’AIDS il teatro, la danza e il cinema furono > additati dalla stampa come luoghi sospetti, quasi focolai di colpa e di > contagio, e questa stigmatizzazione incise profondamente sulle produzioni > artistiche di quel tempo. Ma partiamo da Luca Scarlini, che in questa storia ha il ruolo di testimonianza ed eredità, di voce narrante e deus ex machina. Come lui racconta, l’AIDS in Italia è rimasto soprattutto una presenza fantasmica, un’ombra costante ma raramente nominata: tutti lo vedevano, ma pochi osavano davvero affrontarlo. Questa rimozione non riguarda solo la letteratura o le arti visive, ma assume un peso specifico enorme nel mondo dello spettacolo, che negli anni Ottanta e Novanta subì perdite irreparabili e insieme un’accusa pubblica costante. Fin dall’inizio della crisi, infatti, il teatro, la danza e il cinema furono additati dalla stampa come luoghi sospetti, quasi focolai di colpa e di contagio, e questa stigmatizzazione incise profondamente sulle produzioni artistiche di quel tempo. I tentativi di portare in scena il tema dell’AIDS furono pochissimi e si scontrarono con ostacoli enormi; non era una censura esplicita, fatta di divieti chiari e immediati, era piuttosto un sistema più sottile e insidioso, costruito attraverso tagli ai finanziamenti, rifiuti amministrativi, ostacoli burocratici che, col passare degli anni, divennero via via più rigidi e soffocanti. A questo si aggiungeva un clima diffuso di autocensura: molti artisti, percependo il tabù sociale, scelsero di non affrontare il tema per paura di isolamento o ritorsioni. La società, in fondo, non voleva specchiarsi in una realtà tanto dolorosa e disturbante e la memoria di quella stagione culturale resta oggi frammentaria, poco indagata. Eppure, se si recuperano le tracce di quegli spettacoli dimenticati, emerge chiaramente un quadro eloquente: i momenti più significativi non nacquero nei grandi teatri istituzionali, che preferirono voltarsi dall’altra parte, ma nelle periferie artistiche, nei luoghi minori, negli spazi indipendenti. Lì, il teatro seppe assumere forme di agit-prop, teatro di intervento politico e sociale, come avvenne per esempio a Firenze durante la VII Conferenza internazionale sull’AIDS del giugno 1991, quando il palcoscenico divenne strumento di denuncia collettiva. > I tentativi di portare in scena il tema dell’AIDS furono pochissimi e si > scontrarono con ostacoli enormi; non era una censura esplicita, fatta di > divieti chiari e immediati, era piuttosto un sistema più sottile e insidioso a > cui si aggiungeva un clima diffuso di autocensura. I frammenti che ci restano da quella stagione ci consentono di leggere oggi, a distanza, un’epoca segnata dal buio e dalla paura, ma anche dalla forza di chi seppe trasformare la scena in testimonianza. Il teatro registrò, con un’intensità che i media non riuscirono o non vollero restituire, le contraddizioni e i dolori di quegli anni. In quel passaggio cambiò radicalmente lo spirito di un’intera generazione: il teatro, che nel decennio precedente era stato specchio della realtà, venne costretto a ridefinire il proprio ruolo, aprendosi a un compito nuovo, più urgente e più scomodo. Vivono. Arte e affetti, HIV-AIDS in Italia, 1982-1996 è una mostra che mette insieme archivi, opere d’arte, testi, immagini in movimento e tante voci diverse, creando un percorso capace di riportare alla luce esperienze che sembravano sepolte. È un progetto che invita non solo a riflettere sul ruolo dell’arte e della cultura tra anni Ottanta e Novanta, ma anche a confrontarsi con i nodi ancora vivi: l’educazione sentimentale e sessuale, lo stigma che colpisce chi è percepito come “altro”, chi vive corpi o desideri fuori dalle norme. Il direttore del Centro Pecci di Prato Stefano Collicelli Cagol sostiene che la domanda da cui nasce l’esposizione è duplice: quale urgenza c’è oggi, nel 2025, di raccontare la risposta delle artiste e degli artisti italiani alla crisi dell’HIV-AIDS tra il 1982 e il 1996? E, parallelamente, che cosa sappiamo davvero di quegli anni, anni in cui mancavano ancora terapie efficaci e la diagnosi equivaleva spesso a una condanna? L’essenza della mostra, curata da Michele Bertolino, sta proprio in questo scarto: da una parte l’urgenza è enorme, dall’altra la consapevolezza collettiva resta sorprendentemente fragile. In Italia, negli ultimi tre decenni, il tema dell’HIV e dell’AIDS è quasi scomparso dal discorso pubblico. Se ne parla poco, pochissimo, nonostante chi vive con il virus continui a sperimentare forme di discriminazione sotterranee e quotidiane. La maggioranza ignora che i contagi, dopo anni di calo, sono tornati a crescere anche nei Paesi del Nord globale, mentre nel Sud del mondo non si sono mai fermati, aggravati dalla scarsità di cure accessibili. È vero: oggi il livello di consapevolezza è maggiore rispetto agli anni Ottanta e la mortalità non è più paragonabile, eppure l’AIDS non è scomparso e ancora si muore, soprattutto quando la diagnosi arriva troppo tardi o le cure non sono garantite. Affrontare questo tema significa assumersi una responsabilità duplice: non solo narrativa, ma anche istituzionale. Serve un contesto che sappia accogliere e restituire storie altrimenti dimenticate: con Vivono una comunità che per troppo tempo era stata cancellata riemerge e trova un posto, attraversando classi sociali, luoghi, memorie personali e collettive. > In Italia, negli ultimi tre decenni, il tema dell’HIV e dell’AIDS è quasi > scomparso dal discorso pubblico. Se ne parla poco, pochissimo, nonostante chi > vive con il virus continui a sperimentare forme di discriminazione sotterranee > e quotidiane. La memoria, sostiene Bertolino, è sempre un atto di resistenza, non segue mai linee rette, non è trasparente né definitiva: assume forme diverse, modellate dalle urgenze del presente, individuali e collettive. È un processo creativo, capace di immaginare futuri possibili, un’utopia concreta: sogno condiviso, responsabilità comune, possibilità di dare sostanza a ciò che un tempo sembrava impensabile. La memoria non rispetta il tempo cronologico ma lo comprime, lo piega, lo fa vibrare di affetti e di passioni. Custodisce le esperienze di chi non c’è più, trasformandole in eredità viva. Tra il 1982 e il 1996 l’Italia attraversa trasformazioni profonde: il corpo, che negli anni Settanta era stato terreno di conflitto politico e sociale, diventa ora il segno di un apparente disimpegno, nel tramonto delle ideologie e nella crisi di una politica svuotata e corrotta. In questo scenario irrompe la crisi dell’HIV-AIDS, che ridisegna i rapporti: è una politica scritta nei corpi, negli sguardi che si incontrano, nei legami amorosi vissuti come pratiche di riconoscimento reciproco, come appoggio necessario per riuscire a guardare oltre l’orizzonte immediato. In quegli stessi anni, alcuni poeti e scrittori vivono direttamente l’esperienza del virus; non sempre lo dichiarano apertamente, ma la loro scrittura porta il segno di quella condizione: una lingua lucida, implacabile, che scava nei silenzi della società e li infrange. In questa prospettiva, il corpo del poeta diventa strumento e bandiera: la poesia stessa si fa carne, denuncia, resistenza. È una lingua che devia e rompe, che si fa queer, storta, deviata, nelle sue fratture, nelle sue irregolarità sintattiche, nelle sue associazioni impreviste, un linguaggio che usa l’ironia come arma per affrontare il dolore, che rifiuta la normalizzazione. Quando Leonardo Sciascia, nel suo Fine del carabiniere a cavallo, si domandava “Quale rappresentazione daranno dell’Aids gli scrittori e gli artisti del nostro tempo?”, poneva una questione più che attuale. Io però ho scelto di partire da un’altra prospettiva: quale immagine dell’AIDS emerge dalle parole di chi l’ha vissuto in prima persona? A questa domanda cerca di rispondere il mio lavoro Indifesi sotto la notte, attraverso le opere di Giovanni Forti e Brett Shapiro, Dario Bellezza, Pier Vittorio Tondelli, Nino Gennaro, Patrizia Vicinelli e Simona Ferraresi. > In quegli stessi anni, alcuni poeti e scrittori vivono direttamente > l’esperienza del virus; non sempre lo dichiarano apertamente, ma la loro > scrittura porta il segno di quella condizione: una lingua lucida, implacabile, > che scava nei silenzi della società e li infrange. L’AIDS era una malattia sconosciuta, che si è imposta subito non solo come realtà clinica ma come costruzione simbolica, caricata di paure e pregiudizi. L’AIDS è stato identificato come un’entità riconoscibile, con un volto preciso, perché legato a cause individuabili: rapporti sessuali, pratiche di consumo di droghe, trasfusioni. Proprio questa origine “chiara” ha reso possibile associarlo a narrazioni morali, costruendo attorno al virus un discorso di colpa. Susan Sontag ha spiegato bene come la narrazione mediatica, sociale e politica dell’AIDS erediti due grandi linee di significato: da un lato la vicinanza al cancro, vissuto come invasione interna e progressiva distruzione del corpo, dall’altro l’eco della sifilide, per il suo legame con il contagio e con la sessualità. In entrambi i casi, il malato viene posto al centro di immagini di impurità e peccato, diventando bersaglio di una società che non cerca tanto di comprendere, quanto di identificare un responsabile. Diversamente dal cancro, l’AIDS non era percepito come una disgrazia che può colpire chiunque ma come la conseguenza di scelte o identità facilmente riconoscibili: l’omosessualità, la tossicodipendenza, la marginalità sociale. Il suo esito era inevitabilmente l’emarginazione e, ancor più devastante, una solitudine profonda e invalidante. Per questo la diagnosi era vissuta come una doppia condanna: alla malattia si aggiungeva lo stigma, la vergogna, l’accusa di essersela cercata. In Italia come negli Stati Uniti, l’AIDS ha reso visibile ciò che spesso era nascosto: l’orientamento sessuale, l’uso di droghe e la povertà. Eppure, dentro quella tragedia, molte comunità hanno trovato nuove forme di resistenza e solidarietà. L’emergenza, pur segnando i corpi con la morte e la paura, ha anche generato la forza di unirsi, di opporsi all’esclusione e di creare appartenenze nuove. > Il malato di AIDS non era soltanto un paziente: diventava un segnale di > allarme sociale, la prova di una corruzione morale e biologica. L’AIDS si è accanito su bersagli già fragili, riattivando paure arcaiche legate alla contaminazione, alla divisione tra un “noi” sano e un “loro” malato. Il malato di AIDS non era soltanto un paziente: diventava un segnale di allarme sociale, la prova di una corruzione morale e biologica. Questa percezione ha alimentato l’idea dell’AIDS come condanna inevitabile perché, a differenza di alcuni tumori che ammettono possibilità di remissione, l’infezione da HIV è stata a lungo una sentenza definitiva. Nel 1988 su Avvenire, Carlo Striano scrive quella che reputo forse l’osservazione più precisa e ancora valida alla base della discriminazione nei confronti delle persone con AIDS: > C’è una frase pronunciata […] che mi ha colpito: gli ammalati di Aids non sono > pazzi che si possono recuperare, questi sono morti. Nel senso che il loro > posto è al cimitero, non tra i vivi […]. Nell’ammalato di Aids forse avete > visto lo specchio della morte e non lo sopportate, perché lo temete. […] voi > non avete paura dell’Aids, avete paura della morte, e la morte non si vince > con una cura medica, si vince […] immergendosi nella morte. Per una società improntata sul bello e sull’apparenza, una società che, allora come adesso, non vuole sentire nominare la morte, che fa di tutto per negarla, affrontare l’AIDS significa non solo misurarsi con una malattia, ma con ciò che la nostra società più rimuove: la consapevolezza della fine, la fragilità che ci accomuna, la necessità di guardare in faccia la mortalità senza ridurla a stigma o punizione. L’ombra dell’AIDS ci ricorda che non esistono corpi “puri” e corpi “impuri”, che la distinzione tra “noi” e “loro” è una costruzione fragile e crudele. Solo accettando la morte come parte della vita diventa possibile costruire un orizzonte diverso, in cui la diagnosi non è più un marchio ma un’occasione per ridefinire comunità, affetti e possibilità di cura. L'articolo Vivono, indifesi sotto la notte proviene da Il Tascabile.
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Cristalli, ossa e corrosioni
P ensiamo al suono che potrebbe avere una soluzione chimica sovrasatura: un suono ronzante, uno sciamare amorfo di atomi carichi di potenziale. Poi interviene una singolarità, un germe cristallino, un glitch, che innesca uno stato di tensione talmente eccessivo da non essere più sostenibile. Ecco che il cristallo si crea, una melodia viene inventata per risolvere lo stato ipertensivo: assistiamo alla nascita della forma, alla morfogenesi, al farsi della musica. Ma non c’è neanche il tempo per contemplarla che il nastro scorre a velocità infinita e l’istante dopo ci ritroviamo improvvisamente all’estremo opposto del ciclo. La melodia ha girato su sé stessa per secoli, forse millenni, conservando di sé soltanto una morfologia spettrale, una sorta di resistenza minima allo sbiadimento completo. È quasi impercettibile, ma riusciamo ancora ad ascoltarla: è ridotta a un osso leggero, piatto, che oscilla lievemente nella corrente. Sembra sul punto di sciogliersi del tutto, di sbriciolarsi… sono gli ultimi istanti di un Chupa Chups nella bocca di un bambino in un altro universo… ecco: si è liquefatto; ronzio. Si tratta di Shadows lifted from invisible hands, album realizzato dal musicista e artista statunitense James Hoff nel 2024 e pubblicato dall’etichetta Shelter Press, sempre impegnata sul fronte più sperimentale delle possibilità espressive della musica elettronica. Per descrivere l’album in modo meno metaforico potremmo dire che si muove tra due estremi che non potrebbero essere più distanti: da un lato il ronzio stridente, quello che sentiamo nelle orecchie quando ci concentriamo sul silenzio, e che è amplificato nel caso di alcune malattie dell’apparato uditivo o quando un eccesso sonoro ha impattato i nostri timpani lasciando un alone di alte frequenze; dall’altro, motivi pop di tracce famosissime (e bellissime), i cui motivetti si insinuano nella testa, girando su loro stessi in modo tanto alieno quanto lo è la percezione del ronzio. Tra queste tracce troviamo “Heart of Glass” di Blondie, “Space Oddity” di David Bowie, “Perfect day” di Lou Reed e “Into the Groove” di Madonna. Queste canzoni sono però rese quasi irriconoscibili per come sono state alterate, ri-suonate o ri-arrangiate e permane soltanto qualcosa della loro figura, una sorta di propensione pop alla figura. Ma tra questi due poli James Hoff dilata e ci rende sensibile l’intermezzo, il movimento del farsi e disfarsi, il ritornello e il ritornellizzare come processo sempre sul punto di cristallizzarsi e poi di smembrarsi. È l’inversione di una comune esperienza di ascolto e forse anche un’inversione del rapporto con la conoscenza in generale, che in musica è già stata tentata da illustri sperimentatori del crepitio come William Basinski, Philip Jeck o The Caretaker: “Cavalieri del medium”, per riprendere un’espressione usata da Rosalind Krauss nell’ambito delle arti visive. Ma qui il medium non è solo il supporto dell’opera, non vediamo tanto i bordi del quadro quanto la matrice stessa dentro cui sprofonda il contorno distinto. Per mantenere il parallelismo col visivo potremmo dire che l’ascolto di questa musica è simile a quando guardando un colore ci si ritrova, con Benjamin, ad “affondare lo sguardo in un occhio estraneo che lo inghiotte dentro di sé”, sono “colori che vedono sé stessi”, in un mimetismo con la percezione che arriva a far dire: “se fossi materia, mi colorerei”. > James Hoff dilata e ci rende sensibile l’intermezzo, il movimento del farsi e > disfarsi, il ritornello e il ritornellizzare come processo sempre sul punto di > cristallizzarsi e poi di smembrarsi. Prendendo sul serio questa inversione musicale della conoscenza potremmo ritrovarci ad ascoltare qualcosa di simile al mito escatologico raccontato per bocca di Socrate nel Fedone platonico, ma amputato proprio della sua aspirazione escatologica alla purezza. Socrate racconta infatti di come la condizione degli esseri umani sia quella di abitare non sulla terra, bensì nelle sue cavità, intorno alle quali vivono “come rane o formiche intorno ad uno stagno”. Esiliati dalla terra vera, luogo puro nell’etere degli astri e del cielo, si trovano a essere immersi in ciò che dell’etere non è altro che il sedimento vischioso, ormai degradato in aria, nebbia e acqua e riversatosi nelle cavità della terra. Ma pare che la loro situazione sia quella di chi, abitando nel mezzo delle profondità del mare, credesse di abitare invece sulla sua superficie, non rendendosi conto di vedere il sole e gli altri astri sempre e soltanto attraverso la densità opaca dell’acqua. Un’acqua che, per effetto della salsedine, corrode e rovina le pietre e in cui, in generale, non cresce nulla di buono e niente può essere perfetto. Al massimo ci sono “rocce, arene e immense distese di melme e pantani”. Tuttavia Platone, essendo il suo mito escatologico, ammette la possibilità arrivare all’estremo lembo del mare e… tirarsene fuori. Chi arriva a quel punto – racconta – e fosse capace “di sostenere una tale visione, conoscerebbe che il vero cielo, la vera luce e la vera terra sono quelli”. E se invece la verità non si facesse che sott’acqua e nella corrosione? Che succederebbe se la luce non fosse altro che quel medium subacqueo, vischioso e opaco attraverso cui e in cui si manifestano le cose, che corrode e illumina al tempo stesso? È l’inversione in cui si trova trascinato il cercatore di perle, nella singolare vicenda raccontata da Georges Didi-Huberman alla fine del suo libro su Aby Warburg. Proprio questa vicenda può funzionare come immagine vivida del mito platonico privato dell’escatologia. Ripercorriamola: inizialmente il pescatore si immerge e, credendo ancora di essere un “detective” del mare, tra i fondali cerca i suoi tesori come enigmi da risolvere. Un giorno trova una perla, la porta in superficie e la bandisce come un trofeo. Poi la porta a casa e la mette in una teca. Compila una scheda che crede definitiva e pensa di aver chiuso con gli abissi. Molto più tardi, per caso, si accorge di non aver mai davvero guardato la perla perché ora, contemplandola come in un sogno, la riconosce immediatamente: “non è altro che l’occhio di suo padre morto, secondo l’indimenticabile profezia cantata da Ariel, nella Tempesta di Shakespeare: A cinque teste sott’acqua Tuo padre giace. Già corallo Sono le sue ossa Ed i suoi occhi Perle. Tutto ciò che di lui Deve perire Subisce una metamorfosi marina In qualche cosa Di ricco e di strano. Ad ogni ora Le ninfe del mare Una campana Fanno rintoccare”. Allora il pescatore, preso dall’inquietudine, dalla schisi, dalla ricerca del tempo perduto non riesce a non rituffarsi. Si immerge in profondità e scopre che i tesori del mare proliferano, che suo padre gli ha lasciato molte altre meraviglie oltre a quell’unica perla e tra esse si confondono tutte le perle di innumerevoli generazioni di antenati, “innumerevoli padri giacciono in innumerevoli tesori sul fondo del mare”. Ma soprattutto scopre che > è la materia stessa in cui nuota, è il mare, l’acqua torbida e materna, tutto > ciò che non è “tesoro” indurito, è lo spazio intermedio tra le cose, > l’invisibile flusso che passa tra perle e coralli, è proprio questo che, con > il tempo, ha trasformato gli occhi di suo padre in perle e le sue ossa in > coralli. È all’intervallo, alla materia del tempo – qui fluente, là stagnante > – che sono dovute tutte le metamorfosi che fanno di un occhio morto un tesoro > sopravvivente. Il desiderio di non tornare più in superficie è forte. È lo stesso spazio intermedio in cui nuota la musica di James Hoff, quello di una cristallizzazione dilatata e in continuo movimento, sempre sospesa e al limite con l’amorfo, che inventa nuove forme modellandosi in relazione all’ambiente esterno, la cui capacità corrosiva innesca nuove germinazioni. Come “un cristallo corrisponde alla struttura fissa lasciata da un individuo che avesse vissuto per un solo istante” (Gilbert Simondon), così le tracce dell’album di Hoff contengono, come in miniatura o in un fermo immagine, tutto il movimento della vita di una forma. Dalla nascita della morfogenesi ci portano direttamente alle forme che giacciono abbandonate sul fondo del mare, ritornelli resi irriconoscibili e mossi dalla corrente come ossi di seppia. Ma come escludere in fondo che anche in queste ossa, prima o poi, potrà innescarsi una nuova metamorfosi? > La musica di James Hoff nuota nello spazio intermedio di una cristallizzazione > dilatata e in continuo movimento, sempre sospesa e al limite con l’amorfo, che > inventa nuove forme modellandosi in relazione all’ambiente esterno, la cui > capacità corrosiva innesca nuove germinazioni. Mi rendo conto di aver fatto una descrizione molto materica di questo album, tanto da farlo sembrare quasi un’opera di land art, come può essere l’eccezionale Spiral Jetty di Robert Smithson. Ma prima di incontrare direttamente Smithson, è forse un altro lavoro di Hoff che può portarci ancora più in prossimità di un’arte a contatto con il tempo, con i processi e i luoghi. Si tratta di HOBO HUFO (v. Cernobyl), un lavoro audio/video pubblicato questa volta dall’etichetta PAN, nel 2019. Il video del lavoro consiste in una versione modificata di Google Street view, che aleggia tra le rovine della città ucraina di Pryp”jat’, determinando i suoi movimenti in relazione alla musica. Pryp”jat’ è una città fantasma, abbandonata dopo il disastro nucleare di Černobyl’, che rientra nella zona di alienazione di trenta chilometri istituita intorno alla centrale e che dal 2022 è in mano alle forze russe. HOBO UFO tiene vertiginosamente insieme numerosi strati: c’è il livello molecolare delle radiazioni radioattive, invisibili ma la cui forza incoercibile ha portato a dover abbandonare un’intera area urbana; un’azione della natura che si riappropria di un luogo affettivamente carico, trasformandolo in materiale indifferente attraverso cui far nuovamente passare la sua azione rimodellatrice; un software che con simile indifferenza registra immagini nello stesso modo in cui farebbe con qualunque altro luogo (in cui il capitalismo è quantomeno riuscito a far arrivare la Google Car o un drone per fotografare la strada); un suono che tra il glitch, la malinconia e una solennità cosmica sembra far passare attraverso di sé tutti questi strati, componendo un’epica che va dalle molecole alle forme di vita umane alla loro autodistruzione. Robert Smithson, che oggi avrebbe ottantasette anni se non fosse scomparso prematuramente all’età di trentacinque, è il grande precursore di questo tipo di gesti artistici, soprattutto per come è riuscito a riflettere sull’esperienza e a rendere sensibile nella sua opera questa confusione di scale, in cui il fare umano e una sorta di entropia cosmica riescono a trovarsi condensati, collidendo e comunicando. Un lavoro rappresentativo del suo atteggiamento e particolarmente affine a HOBO UFO è il testo The monuments of Passaic, del 1967. Si tratta di un’“odissea suburbana” che in realtà non è nulla più che il fotoracconto di un percorso a piedi nella cittadina industriale di Passaic, in provincia di New York. Tutta l’avventura nasce a partire dallo sguardo rivolto a Passaic: uno sguardo che cerca e crea attivamente segnali, monumenti e metafore là dove sembrerebbe non esserci nulla. “Il tempo – scrive Smithson – trasforma le metafore in cose, e le accumula in stanze fredde, o le colloca nei parchi giochi celestiali delle periferie”. Passeggiando per Passaic, la realtà di Smithson si muove in un sottile confine tra rappresentazione e distruzione, mostrandosi come “un particolare tipo di eliografia”, “una sorta di cartolina auto-distruggentesi di un mondo di fallita immortalità e oppressiva smania di grandezza”, «a moving picture that I couldn’t quite picture». La smania umana di in-formare la materia e produrre segni appare come un piccolo e comico museo di tentativi per contrastare l’entropia dell’universo. Ma la sua più grande opera è senza dubbio Spiral Jetty, uno dei maggiori risultati della land art americana. Si tratta del gigantesco “molo a spirale”, tracciato nel 1970 con una ruspa sui bordi del grande lago salato nello Utah, poi inghiottito dall’innalzamento della marea del lago e, infine, riemerso, come fosse Atlantide, nel 1999. Ma, dal momento che la spirale era composta di terra e blocchi di basalto neri, durante il periodo dell’immersione si è ricoperta di cristalli di sale e quando è risorta si è presentata in una nuova forma, fatta di un bianco immacolato e scintillante. In un abile gioco di mise-en-abyme il processo di realizzazione dell’opera è stato anche filmato, entrando a far parte del materiale di un film omonimo che mischia l’opera alla sua documentazione e al gesto di documentare in generale. > Come racconta Smithson, Spiral Jetty non è più distinta dal territorio, non si > stampa su di esso come su una superficie vergine, emerge e fa tutt’uno con > esso, ne è cambiata e lo cambia. Dove comincia Spiral Jetty? Quando comincia? Forse, come un gigantesco rizoma, “non comincia e non finisce, è sempre nel mezzo, tra le cose, interessere, intermezzo” (Deleuze e Guattari). Effettivamente, come racconta Smithson, l’opera non è più distinta dal territorio, non si stampa su di esso come su una superficie vergine, emerge e fa tutt’uno con esso, ne è cambiata e lo cambia. Come in un frattale “ogni cristallo cubico di sale fa eco alla Spiral Jetty nei termini del reticolo molecolare del cristallo. La crescita in un cristallo procede intorno un punto di dislocazione come una vite. La Spiral Jetty potrebbe essere considerata uno strato interno del movimento spiraliforme del reticolo cristallino, ingrandito trilioni di volte”. Smithson gioca realmente e materialmente con il processo di cristallizzazione che abbiamo utilizzato metaforicamente per descrivere il primo album di Hoff: Shadows lifted form invisible hands e Spiral Jetty risuonano insieme. Tra l’esperienza del luogo che cattura Smithson, l’avventura titanica della realizzazione, il suo racconto filmato e narrato e l’azione del luogo sull’opera si realizza un unico continuum, un unico medium, un’unica meteorologia, in cui vari attori umani e non umani reagiscono uno nell’altro e uno con l’altro, leggendosi e forzandosi a vicenda. Da un certo punto di vista Spiral Jetty non esiste, ci sono solo riecheggiamenti e fluttuazioni, “mentre si afferra la spirale, se ne viene afferrati”: è un gigantesco metabolismo. Mentre filma il luogo dall’alto Smithson racconta: > Il suono del motore dell’elicottero è diventato un lamento primordiale > riecheggiante in inconsistenti visioni aeree. Ero qualcosa di diverso da > un’ombra in una bolla di plastica fluttuante in un luogo fuori dal mio corpo e > dalla mia mente? […] Stavo di nuovo scivolando fuori da me stesso, > dissolvendomi in un inizio unicellulare, cercando di localizzare il nucleo > alla fine della spirale. Tutto questo sangue in moto ci fa rendere conto di > soluzioni protoplasmiche, la materia essenziale tra il formato e il non > formato, masse di cellule fatte prevalentemente di acqua, proteine, lipidi, > carboidrati e sali inorganici. Ogni goccia che schizzava sopra la Spiral Jetty > coagulava in un cristallo. L’acqua ondeggiante diffondeva milioni e milioni di > cristalli sopra il basalto. Ma, prima di disintegrarci anche noi, fermiamoci un attimo. Cosa resta di tutto questo? Il sito dell’opera è diventato luogo di migrazione per chi, conquistato da questo racconto, ha provato a prenderne parte. Lo scrittore Geoff Dyer ricorda, per esempio, di averlo percepito come “come un luogo abbandonato, ma non un luogo il cui senso fosse stato abbandonato. Aveva conservato – o generato – una sua cupa nodalità”. > Tra l’esperienza del luogo che cattura Smithson, l’avventura titanica della > realizzazione, il suo racconto filmato e narrato e l’azione del luogo > sull’opera si realizza un unico continuum, un unico medium, un’unica > meteorologia, in cui vari attori umani e non umani reagiscono uno nell’altro. La nodalità è il tentativo umano di collocarsi, di darsi un posto nel tempo naturale, dandogli una forma tramite strategie diverse, come si fa in modo più burocratico con i calendari o con i musei: un far tempo del tempo. Tuttavia qui la forma singolare si perde e quello che si esperisce è la sfasatura tra lo sfondo e la figura, che non sono più annodati in maniera stabile, facendo trasparire piuttosto l’annodare come tentativo fluttuante. È un’immersione in un tempo denso, in un unico medium dentro cui si fanno e si disfano le forme naturali e culturali. Ma le differenze sono effimere, sono velocità diverse di impressione che catturano un insetto nell’ambra, il suono in un ritornello pop e un reperto storico in un museo. Velocità e rallentamenti di una stessa vetrinizzazione del tempo, che Smithson e Hoff ci rendono sensibile. Un ralenti insieme umano e cosmico, sospeso tra le cose, un solo fenomeno emotivo “né Eros né Thanatos, ma Vita-Morte, con un solo pensiero, uno stesso gesto” (Barthes). Se allora non c’è un luogo fuori da questo intreccio che sia al riparo da radiazioni e spettri, resta la possibilità di sperimentare con i nodi, per trovarci tramite e attraverso i legami che scopriamo, muovendoci tra cristalli, ossa e corrosioni. L'articolo Cristalli, ossa e corrosioni proviene da Il Tascabile.
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