C’è un momento, durante la Miami Art Week, in cui ti accorgi che l’arte non è
più l’unico centro gravitazionale
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Da Gagosian a Parigi il regista ricrea lo studio dell'artista americano, celebre
per le sue “shadow box”, assemblaggi tridimensionali che evocano universi
poetici e surreali. Che cosa condividono i due? Categorizzano l'incanto come se
fosse un protocollo scientifico
Alla vigilia dell’asta delle bottiglie rare battute da Sotheby's, la Borgogna si
trasforma in un museo diffuso tra vigne, castelli e cantine aperte all’arte. Qui
nasce TERRA
Sette artisti contemporanei dialogano con il maestro americano in una mostra al
MICAS di Malta che ne rivela la sorprendente modernità
Si intitola Supernova ed è una piccola mostra realizzata al secondo piano del
negozio in via Montenapoleone attorno al concetto di trasformazione
“L o sguardo è ciò che fa davvero la differenza.” Per Michela gli occhi sono una
fissazione. Dopo averli alloggiati sottopelle, trascorre molto tempo a studiarne
la posizione sul capo. Anche il colore deve essere quello esatto; sceglie con
cura i bulbi di vetro, perché ogni iride ha le sue sfumature. Per lei è
fondamentale saper cogliere ogni piccolo dettaglio nello sguardo degli animali
su cui lavora, per restituire loro ‒ una volta montata la pelle ‒ quel guizzo di
vita che su cui si gioca l’illusione. Michela Padovani ha 32 anni, è una
microbiologa e, da qualche anno, anche tassidermista.
Si occupa soprattutto di volatili. Li trova durante le sue escursioni, ma più
spesso le vengono portati da amici e conoscenti. Tratta i corpicini con
gentilezza: sveste con cura il corpo dalla pelle piumata (quella dei
colombiformi è la più delicata, mi spiega) annotando il volume dei muscoli e la
lunghezza degli arti. Per un risultato veritiero, serve un modello che ricalchi
perfettamente il corpo dell’animale originale, un manufatto che possa indossare
la nuova pelle. “Ognuno rispetta la morte a suo modo. Per me si tratta di
ridare una seconda vita; così, è come onorare la bellezza della Natura”. Nel
suo caso la tassidermia è stata il punto di arrivo di una passione sincera per
il mondo naturale. Raccogliere qualche piuma o piccole ossa non le bastava più,
e così ha deciso di dedicarsi a dare di nuovo un valore alla bellezza delle
spoglie.
La tassidermia vive di un equilibrio di forze opposte. È una pratica di confine
che si regge in bilico tra la vita e la morte, il reale e l’irreale, ma
soprattutto tra l’arte e la scienza. Da quasi tre secoli il suo scopo rimane
sempre lo stesso, quello di fermare un corpo nel tempo, ricreando l’illusione
della vita. Nel corso della sua storia ha attraversato periodi di stravaganza,
di colonialismo e di riscoperta. Sempre accompagnata da quel vago senso di
macabro che ancora oggi ci pone la domanda su quanto sia giusto (e forse
necessario) manipolare i corpi animali per fermarne la forma nel tempo.
> La tassidermia vive di un equilibrio di forze opposte. È una pratica di
> confine che si regge in bilico tra la vita e la morte, il reale e l’irreale,
> ma soprattutto tra l’arte e la scienza.
Come alcuni degli esemplari su cui lavorano, anche i tassidermisti sono una
specie in via di estinzione. Se un tempo le tecniche passavano dal maestro
all’allievo, oggi quella trasmissione è quasi scomparsa e nei musei italiani il
mestiere non esiste quasi più. Istituzioni che per tradizione comprendevano
questa professione nel proprio organico, come il Museo di storia naturale di
Milano, bandiscono nuovi concorsi alla ricerca di chi potrà sostituire chi andrà
in pensione. Ma i pochi tassidermisti rimasti preferiscono lavorare per conto
proprio. Eppure, lontano dall’essere rimasto chiuso in qualche armadio
vittoriano, il lavoro di chi si prende cura degli animali rimane cruciale nei
musei, tanto nelle sale espositive quanto nel retroscena degli archivi.
Ma se in ambito museale i tassidermisti vanno scomparendo, al di fuori la
pratica è ancora viva e suscita curiosità e nuove committenze. La pelle non è
solo sostanza da conservare, ma continua a essere un vero e proprio medium
creativo. Un materiale che si presta a interpretazioni estetiche, simboliche,
affettive. È quello che oggi chiamiamo tassidermia artistica, e che spinge i
suoi confini fino alla conservazione degli animali domestici, esplorando
territori sempre in bilico tra bellezza e grottesco.
Fermare il tempo
L’idea umana di interrompere la decomposizione del corpo dopo la morte ha radici
antiche. Gli Egizi imbalsamavano le spoglie dei defunti per garantire loro una
nuova esistenza in un’altra dimensione e lo facevano trattando la pelle con oli
e balsami. Proprio dalla parola balsamo deriva il termine imbalsamare con cui
oggi ci riferiamo agli animali conservati nelle teche dei musei e che andrebbero
chiamati più correttamente tassidermizzati. Tassidermia deriva dal greco antico
e significa “sistemare, dare ordine alla pelle” (táxis ordine, dérma pelle).
Perché il tassidermista non si cura di ciò che sta all’interno, ma solo di quei
pochi millimetri di tessuto che rendono un animale nella forma riconoscibile ai
nostri occhi.
La scienza inizia a interessarsi alla preservazione dei corpi soltanto a partire
dal Diciassettesimo secolo, quando la loro immersione in soluzioni alcoliche
permetteva di trasportarli in Europa da ogni angolo del mondo. Per la prima
volta l’essere umano riuscì a impedire in modo stabile la putrefazione del corpo
e a far toccare con mano agli accademici europei creature che prima erano
soltanto dipinte nei libri. La tecnica era più utile ai primi studi di
fisiologia che al piacere degli occhi, necessaria alla conservazione dei tessuti
ma incapace di restituire le fattezze originali degli esemplari conservati. I
corpi si disidratavano, si rattrappivano e i colori svanivano.
> Se in ambito museale i tassidermisti vanno scomparendo, fuori la pratica è
> ancora viva e suscita curiosità e nuove committenze. La pelle non è solo
> sostanza da conservare, ma continua a essere un vero e proprio medium
> creativo.
La tassidermia come la conosciamo oggi arriva soltanto più tardi. Un secolo
dopo, Jean-Baptiste Bécœur inventa il sapone arsenicale, un unguento talmente
tossico da impedire la distruzione delle pelli da parte degli insetti necrofagi.
I corpi si liberano quindi dalla clausura di una seconda vita sotto spirito,
riacquisendo le sembianze naturali. Sarà la pelle a essere conservata, e da
semplice oggetto scientifico e reperto diventa un nuovo medium di espressione.
L’età dell’oro si raggiunge nell’Ottocento. Le creature provenienti da ogni
parte del mondo esplorato vengono tassidermizzate e riempiono i salotti
d’Europa. Da quel momento i musei scientifici, che si erano fino ad allora
dedicati a una raccolta sistematica degli oggetti naturali, diventano il
palcoscenico sul quale si fa sfoggio della superiorità imperialista europea. Le
sale espongono animali mai visti prima, esemplari che contribuirono al fascino
per l’esotico tipico dell’epoca. I corpi di creature mai approdate nel
continente, come il gorilla, diventano un’icona coloniale come prove della
conquista europea e di una natura domata.
Al servizio della scienza
Molti di questi esemplari sono ancora oggi conservati nei musei di storia
naturale. Insieme a quelli raccolti nei periodi successivi, costituiscono le
collezioni museali odierne. “Come in passato, oggi lo scopo di una collezione è
soprattutto quello scientifico” mi spiega Giorgio Chiozzi, che lavora come
ornitologo al Museo di storia naturale di Milano. La raccolta e conservazione
degli uccelli è indispensabile ai suoi studi e per questo lavora a stretto
contatto con il tassidermista del museo, a oggi uno dei pochi rimasti ad averne
uno. La preparazione tassidermica è prima di tutto un metodo di conservazione,
uno tra i più efficaci considerando che ha fatto giungere fino a noi animali
preparati quasi tre secoli fa.
> Dopo la scoperta del DNA e grazie ai progressi biotecnologici, i corpi degli
> animali ‒ di ieri come di oggi ‒ sono in grado di restituire informazioni che
> vanno oltre la forma, diventando archivi di informazione genetica.
Come una biblioteca, le collezioni museali possono essere consultate alla
ricerca di informazioni nel passato di una data specie. Fino agli anni Settanta
in Italia veniva praticata la raccolta attiva in natura, che aveva permesso fino
a quel tempo di collezionare serie storiche ancora oggi conservate. Questo tipo
di raccolte veniva assemblato secondo criteri precisi, come l’appartenenza a una
certa regione geografica, e il grande numero di animali raccolti permetteva di
produrre conoscenze significative, biologicamente rilevanti. Le conoscenze
attuali sulla morfologia, l’anatomia interna e l’evoluzione sono basate su
questo tipo di raccolte. Oggi ci permettono il confronto con gli esemplari del
passato, facendoci immaginare la storia evolutiva di una specie, come è cambiata
la forma o l’alimentazione nel tempo.
Dopo la scoperta del DNA e grazie ai progressi biotecnologici, i corpi degli
animali ‒ di ieri come di oggi ‒ sono in grado di restituire informazioni che
vanno oltre la forma, diventando archivi di informazione genetica. Nelle loro
cellule restano tracce genetiche che permettono di formulare nuove ipotesi
evolutive, ma anche tracce di sostanze inquinanti come i metalli pesanti che
possono essere misurate per confrontarle con il presente. Ogni campione diventa
così una testimonianza di un tempo e di un luogo, capace di raccontare non solo
la storia di una singola specie, ma anche le trasformazioni dell’ambiente in cui
ha vissuto.
Le serie storiche sono un vero archivio della biodiversità che non ha perso il
suo valore scientifico e che continua il suo dialogo con le nuove raccolte.
“Negli ultimi anni molti degli esemplari arrivano soprattutto da impatti
stradali, le cosiddette roadkill; quindi, animali investiti dai veicoli e
raccolti direttamente dai cittadini” mi racconta il dottor Chiozzi. È stimato
che ogni anno in Europa vengano uccisi in incidenti stradali 30 milioni di
mammiferi e quasi 200 milioni di uccelli. Anche se il valore scientifico di
questi esemplari è inferiore rispetto alle raccolte attive fatte in passato, gli
animali sono comunque una fonte di nuovi esemplari per i musei di storia
naturale.
A questi si uniscono poi gli animali che hanno vissuto in centri di recupero in
parchi faunistici. Qualche anno fa il rinoceronte Toby ha concluso la sua
esistenza al Parco Natura viva, in provincia di Verona, il giardino zoologico
dove viveva, e il suo corpo è stato preparato per essere esposto al MUSE – Museo
delle scienze di Trento. Il rinoceronte era il più anziano d’Europa e
apparteneva all’unica sottospecie di rinoceronte bianco ancora presente in
natura, quella meridionale. Spesso si tratta di esemplari le cui popolazioni
naturali sono minacciate di estinzione, e i loro corpi diventano testimonianze
viventi della loro stessa fragilità. In questo senso i musei si fanno custodi
della memoria, accogliendo e mostrando specie ormai scomparse: è il caso, ad
esempio, dell’alca impenne (un grande pinguino oggi estinto) o del quagga (un
equino che ricorda un po’ una zebra e un po’ un cavallo). Entrambi sono visibili
al Museo di storia naturale di Milano e ci offrono un monito su ciò che è già
accaduto e su ciò che potrebbe ancora accadere.
> Il tassidermista moderno sa maneggiare anche argilla, materie plastiche e
> altri materiali. Non è più soltanto una questione di scienza e conservazione,
> ma di forma, suggestione e scenografia.
Oltre alla pura e semplice conservazione dei corpi, non è tramontato il fascino
per le esposizioni di animali tassidermizzati ‒ cosiddetti naturalizzati ‒ che
richiedono di raggiungere un realismo sempre più autentico. Al di là della
pratica tradizionale di concia e preparazione delle pelli, oggi la professione
si reinventa per restare al passo coi tempi, affacciandosi a nuove tecniche e
materiali. “Fermo restando che il ruolo del tassidermista è principalmente
quello di preparatore naturalista, alle sue competenze oggi si aggiungono la
capacità manuale e l’abilità artistica di utilizzare materiali sintetici per
realizzare realistici calchi di esemplari e modelli di animali” mi spiega
Giorgio Chiozzi, parlando del futuro di questa pratica. Il tassidermista moderno
sa maneggiare ‒ oltre alle pelli ‒ anche argilla, materie plastiche, siliconi e
innumerevoli altri materiali. Non è più soltanto una questione di scienza e
conservazione, ma di forma, suggestione e scenografia.
Il primo a immaginare di mettere in scena la vita così come si presenta nel suo
ambiente fu il Museo di storia naturale di New York, sotto la guida di Carl
Akeley. Il diorama è un tipo di esposizione dove non basta la presenza del corpo
animale a rendere la suggestione ma serve spingersi un po’ più in là, serve
metterlo in azione. Ecco quindi che è possibile assistere a scene di caccia di
un predatore che rincorre la sua preda, di scontro tra due maschi di cervo che
incrociano le corna o di strategie alimentari come nel caso dei condor che si
affollano su una carcassa. Ancora oggi il Museo di storia naturale di Milano si
serve di questo stratagemma per raccontare le relazioni tra gli animali e
l’ambiente in cui vivono, nonché quelle tra animali e altri animali. In altre
parole, la loro ecologia.
L’arte che non ha smesso di essere arte
La tassidermia è ancora uno strumento didattico efficace perché l’esperienza di
vicinanza con il corpo animale continua a offrire qualcosa in più rispetto allo
schermo. Trovarsi dinnanzi alla fisicità di un corpo, come quello maestoso di un
grosso alce, apre una relazione tra chi osserva e chi viene osservato,
un’interazione nella quale l’osservatore assume ruolo attivo, capace di
confrontarsi. Dal punto di vista dell’antropologia delle immagini, l’efficacia
di questi complessi visivi si fonda sul fatto che il corpo animale conservato ‒
in quanto medium ‒ rimane inseparabile dall’immagine che veicola. Non esiste più
rappresentazione. Il corpo originale, trasformato in immagine, si presenta agli
occhi dello spettatore nella sua autentica tridimensionalità.
Verso la fine del Settecento il Leverian Museum di Londra mise in opera una
singerie mai vista prima. Fino ad allora le singerie erano dipinti o
illustrazioni che mettevano in scena scimmie in atteggiamenti umani allo scopo
di ironizzare e parodiare i comportamenti dell’essere umano. Quella volta a
indossare i panni di un postino o di una dama (con tanto di abiti cuciti su
misura) erano vere e proprie scimmie tassidermizzate. Per la prima volta nella
sua storia, l’essere umano provava un nuovo senso di smarrimento di fronte a ciò
che sembra vivo, ma non lo è.
Per quasi tutta la sua storia la tassidermia ha operato sempre al fianco della
scienza, ma non ha mai smesso di essere anche arte. Il corpo animale conservato
si è evoluto come mezzo visivo capace di esprimere messaggi complessi, leggibili
come quadri o sculture. Il tassidermista ha sviluppato insieme alle conoscenze
di anatomia ed ecologia quelle legate ai materiali e alla manipolazione del
medium della pelle, con l’intenzione di raggiungere un realismo sempre più
preciso. Il corpo animale non è più soltanto rappresentazione e dimostrazione,
ma diventa narrazione, all’interno di scenografie che superano il concetto di
divulgazione scientifica.
> La tassidermia etica impone che nessun animale debba essere appositamente
> ucciso. L’animale diventa così simbolo di memoria e testimonianza, non un
> trofeo.
Se la tassidermia è sempre stata arte, oggi il termine “tassidermia artistica”
svolge la funzione di separarla dall’idea comune di tassidermia al servizio dei
musei. La maggior parte degli artisti che utilizzano il corpo animale come mezzo
espressivo praticano quella che viene definita ethical taxidermy, che si propone
di rinnovare l’idea di tassidermia tradizionale. Al centro pone il principio che
nessun animale debba venire ucciso per essere utilizzato, e per questo utilizza
esemplari già deceduti e di provenienza nota. Nata dall’esigenza di coniugare
interesse artistico e rispetto per la vita animale, intende ridurre l’impatto
etico e ambientale di una pratica storicamente legata alla caccia e alla
collezione. Nella tassidermia etica, l’animale diventa simbolo di memoria e
testimonianza, non un trofeo. Gli artisti assumono una posizione consapevole nei
confronti del ciclo vitale, del rapporto essere umano-natura e della possibilità
di trasformare un corpo già privo di vita in veicolo di riflessione culturale,
estetica o educativa.
Un nuovo conforto
Accanto a nuovi desideri artistici, negli ultimi anni la tassidermia ha iniziato
a servire un bisogno più privato: quello di conservare il corpo di chi ha
condiviso con noi tutta la vita. La tassidermia domestica ‒ o come piace ad
Alberto “tassidermia famigliare” ‒ è una nuova pratica che entra in punta di
piedi tra le applicazioni tradizionali di quest’arte. Alberto Michelon è l’unico
in Italia a esercitare in maniera professionale (e secondo coscienza) questo
tipo di artefatti. Si è formato come naturalista e poi come tassidermista. Da
quando ha aperto il suo studio lavora per musei e privati, ma nel tempo ha
sviluppato, come dice lui, una “repulsione” verso quegli animali uccisi e
preparati come trofei di caccia. L’esperienza accumulata ha fatto nascere in lui
il desiderio di commissioni più stimolanti e significative, e ha deciso di
rivolgersi ad altre forme di preparazione, aprendo la strada a nuove richieste.
“Un cacciatore che ti commissiona un lavoro non ha nessun legame con
quell’animale. Chi mi chiede di preparare un cane, o un gatto, ha passato con
lui gioie e dolori”. Alberto crede che oltre alla conoscenza del mondo animale e
a una tecnica impeccabile, per un tassidermista del suo tipo serva sviluppare
anche una grande sensibilità. Le persone che si rivolgono a lui per rimanere
ancora con il proprio animale domestico portano con sé una storia e un dolore
che necessitano di essere accolti. “Spesso chi chiede il mio aiuto è disperato.
Passo molto tempo con loro, si piange, ci si racconta.” La tassidermia domestica
è anche una sfida che richiede molto lavoro. Cani, gatti, tartarughe e altri
animali da compagnia sono esemplari unici e le loro caratteristiche vanno
studiate con attenzione prima di iniziare una nuova opera. Alberto esamina le
forme, i volumi, nonché le espressioni che rendono ogni animale proprio
quell’animale. “Alla fine, la somiglianza è quasi perfetta.”
> La tassidermia domestica fornisce un nuovo modo di vivere il lutto, ponendosi
> tra chi rimane e la sua perdita, impedendo una separazione definitiva e
> concedendo l’illusione di una presenza eterna.
L’Italia è uno dei Paesi europei con il più alto numero di animali domestici pro
capite. I cosiddetti pet entrano a far parte a tutti gli effetti del nucleo
famigliare e in quanto membri ne assumono il valore affettivo. In questo caso la
tassidermia fornisce un nuovo modo di vivere il lutto ponendosi tra chi rimane e
la sua perdita, impedendo una separazione definitiva e concedendo l’illusione di
una presenza eterna. “Il corpo viene cremato, ma all’esterno rimane come lo
ricordavamo. Possiamo accarezzarlo, interagire con lui e questo è in qualche
modo consolatorio. In un certo senso si tratta di un modo per ingannare la
morte”.
Ci siamo dimenticati della bellezza
Prima ancora di essere scienziato, il tassidermista è sempre stato un artista.
In quanto tale egli intende lanciare un messaggio, ma al posto di scolpire il
marmo o dipingere una tela lo comunica facendo parlare gli animali stessi. Come
in Perversus, opera dello stesso Michelon, dove gli animali sono stati vestiti
di lacci e cinghie e ci parlano di quanto siano diventati oggetti destinatari di
amore a misura d’uomo. Oppure in Time for Revolution, nella quale Michelon ha
messo tra le loro zampe cartelli e striscioni, formando un insolito corteo di
protesta per l’ambiente.
> La tassidermia non è soltanto tecnica di conservazione né reliquia di un
> passato coloniale, ma può farsi spazio di riflessione sul nostro rapporto con
> gli animali, sul modo in cui li ricordiamo, li guardiamo, li trasformiamo in
> presenza anche dopo la morte.
“Bisogna tornare ad apprezzare le cose belle”, mi dice Michela Padovani, con la
convinzione di chi conosce la diffidenza che la tassidermia ancora suscita.
Forse il fastidio nasce dalla consapevolezza che quei corpi siano stati
svuotati, privati della loro sostanza per essere rimontati su un supporto
inerte. O, come suggerisce lei, dal legame persistente con l’immaginario della
caccia. In entrambi i casi, ciò che manca è un racconto diverso.
La tassidermia non è soltanto tecnica di conservazione né reliquia di un passato
coloniale, ma può farsi spazio di riflessione sul nostro rapporto con gli
animali, sul modo in cui li ricordiamo, li guardiamo, li trasformiamo in
presenza anche dopo la morte. Per continuare ad avere senso oggi, questa pratica
deve essere attraversata da nuove storie: non più quelle del possesso e della
conquista, ma quelle della cura, della memoria, della bellezza.
L'articolo Che fine ha fatto la tassidermia proviene da Il Tascabile.
P artiamo da qui: “Vivono, indifesi sotto la notte”, in cui si intrecciano i
titoli di due realtà diverse che, per uno di quei rari casi della vita, si sono
incontrate in una coincidenza di tempi e spazi. Io e Michele Bertolino, dopo
esserci sfiorati grazie a Marea, la residenza artistica curata da Imma Tralli e
Roberto Pontecorvo a Praiano, in Costiera amalfitana, ci siamo ritrovati di
nuovo, molto tempo dopo e del tutto per caso, alla Fondazione Marisa, che
custodisce l’immenso patrimonio letterario e non solo dello scrittore Luca
Scarlini.
“Senza dire niente, io metto insieme le persone che hanno qualcosa da dirsi”,
disse Luca quel giorno. Né io né Michele avremmo mai potuto immaginare quanto
quelle parole fossero vere. Entrambi, infatti, stavamo lavorando, ciascuno per
conto proprio e con linguaggi diversi, a un tema rimosso della nostra società,
che ancora oggi brucia e resta irrisolto: l’AIDS, l’epidemia che tra gli anni
Ottanta e Novanta ha portato via, nella solitudine, migliaia e migliaia di vite.
Vivono. Arte e affetti, HIV-AIDS in Italia. 1982-1996 è il titolo della mostra,
a cura di Michele Bertolino, che è stata inaugurata al Centro per l’arte
contemporanea Luigi Pecci di Prato sabato 4 ottobre 2025, la prima mostra
istituzionale che ricompone la storia dimenticata delle artiste e degli artisti
italiani colpiti dalla crisi dell’HIV-AIDS. Indifesi sotto la notte è invece il
titolo del mio nuovo saggio (in uscita per minimum fax nel 2026) che prova a
tracciare la narrazione dell’AIDS nelle opere letterarie pubblicate nello stesso
periodo.
> Fin dall’inizio della crisi dell’AIDS il teatro, la danza e il cinema furono
> additati dalla stampa come luoghi sospetti, quasi focolai di colpa e di
> contagio, e questa stigmatizzazione incise profondamente sulle produzioni
> artistiche di quel tempo.
Ma partiamo da Luca Scarlini, che in questa storia ha il ruolo di testimonianza
ed eredità, di voce narrante e deus ex machina. Come lui racconta, l’AIDS in
Italia è rimasto soprattutto una presenza fantasmica, un’ombra costante ma
raramente nominata: tutti lo vedevano, ma pochi osavano davvero affrontarlo.
Questa rimozione non riguarda solo la letteratura o le arti visive, ma assume un
peso specifico enorme nel mondo dello spettacolo, che negli anni Ottanta e
Novanta subì perdite irreparabili e insieme un’accusa pubblica costante. Fin
dall’inizio della crisi, infatti, il teatro, la danza e il cinema furono
additati dalla stampa come luoghi sospetti, quasi focolai di colpa e di
contagio, e questa stigmatizzazione incise profondamente sulle produzioni
artistiche di quel tempo.
I tentativi di portare in scena il tema dell’AIDS furono pochissimi e si
scontrarono con ostacoli enormi; non era una censura esplicita, fatta di divieti
chiari e immediati, era piuttosto un sistema più sottile e insidioso, costruito
attraverso tagli ai finanziamenti, rifiuti amministrativi, ostacoli burocratici
che, col passare degli anni, divennero via via più rigidi e soffocanti. A questo
si aggiungeva un clima diffuso di autocensura: molti artisti, percependo il tabù
sociale, scelsero di non affrontare il tema per paura di isolamento o
ritorsioni. La società, in fondo, non voleva specchiarsi in una realtà tanto
dolorosa e disturbante e la memoria di quella stagione culturale resta oggi
frammentaria, poco indagata.
Eppure, se si recuperano le tracce di quegli spettacoli dimenticati, emerge
chiaramente un quadro eloquente: i momenti più significativi non nacquero nei
grandi teatri istituzionali, che preferirono voltarsi dall’altra parte, ma nelle
periferie artistiche, nei luoghi minori, negli spazi indipendenti. Lì, il teatro
seppe assumere forme di agit-prop, teatro di intervento politico e sociale, come
avvenne per esempio a Firenze durante la VII Conferenza internazionale sull’AIDS
del giugno 1991, quando il palcoscenico divenne strumento di denuncia
collettiva.
> I tentativi di portare in scena il tema dell’AIDS furono pochissimi e si
> scontrarono con ostacoli enormi; non era una censura esplicita, fatta di
> divieti chiari e immediati, era piuttosto un sistema più sottile e insidioso a
> cui si aggiungeva un clima diffuso di autocensura.
I frammenti che ci restano da quella stagione ci consentono di leggere oggi, a
distanza, un’epoca segnata dal buio e dalla paura, ma anche dalla forza di chi
seppe trasformare la scena in testimonianza. Il teatro registrò, con
un’intensità che i media non riuscirono o non vollero restituire, le
contraddizioni e i dolori di quegli anni. In quel passaggio cambiò radicalmente
lo spirito di un’intera generazione: il teatro, che nel decennio precedente era
stato specchio della realtà, venne costretto a ridefinire il proprio ruolo,
aprendosi a un compito nuovo, più urgente e più scomodo.
Vivono. Arte e affetti, HIV-AIDS in Italia, 1982-1996 è una mostra che mette
insieme archivi, opere d’arte, testi, immagini in movimento e tante voci
diverse, creando un percorso capace di riportare alla luce esperienze che
sembravano sepolte. È un progetto che invita non solo a riflettere sul ruolo
dell’arte e della cultura tra anni Ottanta e Novanta, ma anche a confrontarsi
con i nodi ancora vivi: l’educazione sentimentale e sessuale, lo stigma che
colpisce chi è percepito come “altro”, chi vive corpi o desideri fuori dalle
norme.
Il direttore del Centro Pecci di Prato Stefano Collicelli Cagol sostiene che la
domanda da cui nasce l’esposizione è duplice: quale urgenza c’è oggi, nel 2025,
di raccontare la risposta delle artiste e degli artisti italiani alla crisi
dell’HIV-AIDS tra il 1982 e il 1996? E, parallelamente, che cosa sappiamo
davvero di quegli anni, anni in cui mancavano ancora terapie efficaci e la
diagnosi equivaleva spesso a una condanna? L’essenza della mostra, curata da
Michele Bertolino, sta proprio in questo scarto: da una parte l’urgenza è
enorme, dall’altra la consapevolezza collettiva resta sorprendentemente fragile.
In Italia, negli ultimi tre decenni, il tema dell’HIV e dell’AIDS è quasi
scomparso dal discorso pubblico. Se ne parla poco, pochissimo, nonostante chi
vive con il virus continui a sperimentare forme di discriminazione sotterranee e
quotidiane. La maggioranza ignora che i contagi, dopo anni di calo, sono tornati
a crescere anche nei Paesi del Nord globale, mentre nel Sud del mondo non si
sono mai fermati, aggravati dalla scarsità di cure accessibili. È vero: oggi il
livello di consapevolezza è maggiore rispetto agli anni Ottanta e la mortalità
non è più paragonabile, eppure l’AIDS non è scomparso e ancora si muore,
soprattutto quando la diagnosi arriva troppo tardi o le cure non sono garantite.
Affrontare questo tema significa assumersi una responsabilità duplice: non solo
narrativa, ma anche istituzionale. Serve un contesto che sappia accogliere e
restituire storie altrimenti dimenticate: con Vivono una comunità che per troppo
tempo era stata cancellata riemerge e trova un posto, attraversando classi
sociali, luoghi, memorie personali e collettive.
> In Italia, negli ultimi tre decenni, il tema dell’HIV e dell’AIDS è quasi
> scomparso dal discorso pubblico. Se ne parla poco, pochissimo, nonostante chi
> vive con il virus continui a sperimentare forme di discriminazione sotterranee
> e quotidiane.
La memoria, sostiene Bertolino, è sempre un atto di resistenza, non segue mai
linee rette, non è trasparente né definitiva: assume forme diverse, modellate
dalle urgenze del presente, individuali e collettive. È un processo creativo,
capace di immaginare futuri possibili, un’utopia concreta: sogno condiviso,
responsabilità comune, possibilità di dare sostanza a ciò che un tempo sembrava
impensabile. La memoria non rispetta il tempo cronologico ma lo comprime, lo
piega, lo fa vibrare di affetti e di passioni. Custodisce le esperienze di chi
non c’è più, trasformandole in eredità viva.
Tra il 1982 e il 1996 l’Italia attraversa trasformazioni profonde: il corpo, che
negli anni Settanta era stato terreno di conflitto politico e sociale, diventa
ora il segno di un apparente disimpegno, nel tramonto delle ideologie e nella
crisi di una politica svuotata e corrotta. In questo scenario irrompe la crisi
dell’HIV-AIDS, che ridisegna i rapporti: è una politica scritta nei corpi, negli
sguardi che si incontrano, nei legami amorosi vissuti come pratiche di
riconoscimento reciproco, come appoggio necessario per riuscire a guardare oltre
l’orizzonte immediato. In quegli stessi anni, alcuni poeti e scrittori vivono
direttamente l’esperienza del virus; non sempre lo dichiarano apertamente, ma la
loro scrittura porta il segno di quella condizione: una lingua lucida,
implacabile, che scava nei silenzi della società e li infrange.
In questa prospettiva, il corpo del poeta diventa strumento e bandiera: la
poesia stessa si fa carne, denuncia, resistenza. È una lingua che devia e rompe,
che si fa queer, storta, deviata, nelle sue fratture, nelle sue irregolarità
sintattiche, nelle sue associazioni impreviste, un linguaggio che usa l’ironia
come arma per affrontare il dolore, che rifiuta la normalizzazione.
Quando Leonardo Sciascia, nel suo Fine del carabiniere a cavallo, si domandava
“Quale rappresentazione daranno dell’Aids gli scrittori e gli artisti del nostro
tempo?”, poneva una questione più che attuale. Io però ho scelto di partire da
un’altra prospettiva: quale immagine dell’AIDS emerge dalle parole di chi l’ha
vissuto in prima persona? A questa domanda cerca di rispondere il mio lavoro
Indifesi sotto la notte, attraverso le opere di Giovanni Forti e Brett Shapiro,
Dario Bellezza, Pier Vittorio Tondelli, Nino Gennaro, Patrizia Vicinelli e
Simona Ferraresi.
> In quegli stessi anni, alcuni poeti e scrittori vivono direttamente
> l’esperienza del virus; non sempre lo dichiarano apertamente, ma la loro
> scrittura porta il segno di quella condizione: una lingua lucida, implacabile,
> che scava nei silenzi della società e li infrange.
L’AIDS era una malattia sconosciuta, che si è imposta subito non solo come
realtà clinica ma come costruzione simbolica, caricata di paure e pregiudizi.
L’AIDS è stato identificato come un’entità riconoscibile, con un volto preciso,
perché legato a cause individuabili: rapporti sessuali, pratiche di consumo di
droghe, trasfusioni. Proprio questa origine “chiara” ha reso possibile
associarlo a narrazioni morali, costruendo attorno al virus un discorso di
colpa. Susan Sontag ha spiegato bene come la narrazione mediatica, sociale e
politica dell’AIDS erediti due grandi linee di significato: da un lato la
vicinanza al cancro, vissuto come invasione interna e progressiva distruzione
del corpo, dall’altro l’eco della sifilide, per il suo legame con il contagio e
con la sessualità. In entrambi i casi, il malato viene posto al centro di
immagini di impurità e peccato, diventando bersaglio di una società che non
cerca tanto di comprendere, quanto di identificare un responsabile.
Diversamente dal cancro, l’AIDS non era percepito come una disgrazia che può
colpire chiunque ma come la conseguenza di scelte o identità facilmente
riconoscibili: l’omosessualità, la tossicodipendenza, la marginalità sociale. Il
suo esito era inevitabilmente l’emarginazione e, ancor più devastante, una
solitudine profonda e invalidante. Per questo la diagnosi era vissuta come una
doppia condanna: alla malattia si aggiungeva lo stigma, la vergogna, l’accusa di
essersela cercata. In Italia come negli Stati Uniti, l’AIDS ha reso visibile ciò
che spesso era nascosto: l’orientamento sessuale, l’uso di droghe e la povertà.
Eppure, dentro quella tragedia, molte comunità hanno trovato nuove forme di
resistenza e solidarietà. L’emergenza, pur segnando i corpi con la morte e la
paura, ha anche generato la forza di unirsi, di opporsi all’esclusione e di
creare appartenenze nuove.
> Il malato di AIDS non era soltanto un paziente: diventava un segnale di
> allarme sociale, la prova di una corruzione morale e biologica.
L’AIDS si è accanito su bersagli già fragili, riattivando paure arcaiche legate
alla contaminazione, alla divisione tra un “noi” sano e un “loro” malato. Il
malato di AIDS non era soltanto un paziente: diventava un segnale di allarme
sociale, la prova di una corruzione morale e biologica. Questa percezione ha
alimentato l’idea dell’AIDS come condanna inevitabile perché, a differenza di
alcuni tumori che ammettono possibilità di remissione, l’infezione da HIV è
stata a lungo una sentenza definitiva. Nel 1988 su Avvenire, Carlo Striano
scrive quella che reputo forse l’osservazione più precisa e ancora valida alla
base della discriminazione nei confronti delle persone con AIDS:
> C’è una frase pronunciata […] che mi ha colpito: gli ammalati di Aids non sono
> pazzi che si possono recuperare, questi sono morti. Nel senso che il loro
> posto è al cimitero, non tra i vivi […]. Nell’ammalato di Aids forse avete
> visto lo specchio della morte e non lo sopportate, perché lo temete. […] voi
> non avete paura dell’Aids, avete paura della morte, e la morte non si vince
> con una cura medica, si vince […] immergendosi nella morte.
Per una società improntata sul bello e sull’apparenza, una società che, allora
come adesso, non vuole sentire nominare la morte, che fa di tutto per negarla,
affrontare l’AIDS significa non solo misurarsi con una malattia, ma con ciò che
la nostra società più rimuove: la consapevolezza della fine, la fragilità che ci
accomuna, la necessità di guardare in faccia la mortalità senza ridurla a stigma
o punizione. L’ombra dell’AIDS ci ricorda che non esistono corpi “puri” e corpi
“impuri”, che la distinzione tra “noi” e “loro” è una costruzione fragile e
crudele. Solo accettando la morte come parte della vita diventa possibile
costruire un orizzonte diverso, in cui la diagnosi non è più un marchio ma
un’occasione per ridefinire comunità, affetti e possibilità di cura.
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P ensiamo al suono che potrebbe avere una soluzione chimica sovrasatura: un
suono ronzante, uno sciamare amorfo di atomi carichi di potenziale. Poi
interviene una singolarità, un germe cristallino, un glitch, che innesca uno
stato di tensione talmente eccessivo da non essere più sostenibile. Ecco che il
cristallo si crea, una melodia viene inventata per risolvere lo stato
ipertensivo: assistiamo alla nascita della forma, alla morfogenesi, al farsi
della musica. Ma non c’è neanche il tempo per contemplarla che il nastro scorre
a velocità infinita e l’istante dopo ci ritroviamo improvvisamente all’estremo
opposto del ciclo. La melodia ha girato su sé stessa per secoli, forse millenni,
conservando di sé soltanto una morfologia spettrale, una sorta di resistenza
minima allo sbiadimento completo. È quasi impercettibile, ma riusciamo ancora ad
ascoltarla: è ridotta a un osso leggero, piatto, che oscilla lievemente nella
corrente. Sembra sul punto di sciogliersi del tutto, di sbriciolarsi… sono gli
ultimi istanti di un Chupa Chups nella bocca di un bambino in un altro universo…
ecco: si è liquefatto; ronzio.
Si tratta di Shadows lifted from invisible hands, album realizzato dal musicista
e artista statunitense James Hoff nel 2024 e pubblicato dall’etichetta Shelter
Press, sempre impegnata sul fronte più sperimentale delle possibilità espressive
della musica elettronica. Per descrivere l’album in modo meno metaforico
potremmo dire che si muove tra due estremi che non potrebbero essere più
distanti: da un lato il ronzio stridente, quello che sentiamo nelle orecchie
quando ci concentriamo sul silenzio, e che è amplificato nel caso di alcune
malattie dell’apparato uditivo o quando un eccesso sonoro ha impattato i nostri
timpani lasciando un alone di alte frequenze; dall’altro, motivi pop di tracce
famosissime (e bellissime), i cui motivetti si insinuano nella testa, girando su
loro stessi in modo tanto alieno quanto lo è la percezione del ronzio. Tra
queste tracce troviamo “Heart of Glass” di Blondie, “Space Oddity” di David
Bowie, “Perfect day” di Lou Reed e “Into the Groove” di Madonna. Queste canzoni
sono però rese quasi irriconoscibili per come sono state alterate, ri-suonate o
ri-arrangiate e permane soltanto qualcosa della loro figura, una sorta di
propensione pop alla figura.
Ma tra questi due poli James Hoff dilata e ci rende sensibile l’intermezzo, il
movimento del farsi e disfarsi, il ritornello e il ritornellizzare come processo
sempre sul punto di cristallizzarsi e poi di smembrarsi. È l’inversione di una
comune esperienza di ascolto e forse anche un’inversione del rapporto con la
conoscenza in generale, che in musica è già stata tentata da illustri
sperimentatori del crepitio come William Basinski, Philip Jeck o The Caretaker:
“Cavalieri del medium”, per riprendere un’espressione usata da Rosalind Krauss
nell’ambito delle arti visive. Ma qui il medium non è solo il supporto
dell’opera, non vediamo tanto i bordi del quadro quanto la matrice stessa dentro
cui sprofonda il contorno distinto. Per mantenere il parallelismo col visivo
potremmo dire che l’ascolto di questa musica è simile a quando guardando un
colore ci si ritrova, con Benjamin, ad “affondare lo sguardo in un occhio
estraneo che lo inghiotte dentro di sé”, sono “colori che vedono sé stessi”, in
un mimetismo con la percezione che arriva a far dire: “se fossi materia, mi
colorerei”.
> James Hoff dilata e ci rende sensibile l’intermezzo, il movimento del farsi e
> disfarsi, il ritornello e il ritornellizzare come processo sempre sul punto di
> cristallizzarsi e poi di smembrarsi.
Prendendo sul serio questa inversione musicale della conoscenza potremmo
ritrovarci ad ascoltare qualcosa di simile al mito escatologico raccontato per
bocca di Socrate nel Fedone platonico, ma amputato proprio della sua aspirazione
escatologica alla purezza. Socrate racconta infatti di come la condizione degli
esseri umani sia quella di abitare non sulla terra, bensì nelle sue cavità,
intorno alle quali vivono “come rane o formiche intorno ad uno stagno”. Esiliati
dalla terra vera, luogo puro nell’etere degli astri e del cielo, si trovano a
essere immersi in ciò che dell’etere non è altro che il sedimento vischioso,
ormai degradato in aria, nebbia e acqua e riversatosi nelle cavità della terra.
Ma pare che la loro situazione sia quella di chi, abitando nel mezzo delle
profondità del mare, credesse di abitare invece sulla sua superficie, non
rendendosi conto di vedere il sole e gli altri astri sempre e soltanto
attraverso la densità opaca dell’acqua. Un’acqua che, per effetto della
salsedine, corrode e rovina le pietre e in cui, in generale, non cresce nulla di
buono e niente può essere perfetto. Al massimo ci sono “rocce, arene e immense
distese di melme e pantani”.
Tuttavia Platone, essendo il suo mito escatologico, ammette la possibilità
arrivare all’estremo lembo del mare e… tirarsene fuori. Chi arriva a quel punto
– racconta – e fosse capace “di sostenere una tale visione, conoscerebbe che il
vero cielo, la vera luce e la vera terra sono quelli”. E se invece la verità non
si facesse che sott’acqua e nella corrosione? Che succederebbe se la luce non
fosse altro che quel medium subacqueo, vischioso e opaco attraverso cui e in cui
si manifestano le cose, che corrode e illumina al tempo stesso?
È l’inversione in cui si trova trascinato il cercatore di perle, nella singolare
vicenda raccontata da Georges Didi-Huberman alla fine del suo libro su Aby
Warburg. Proprio questa vicenda può funzionare come immagine vivida del mito
platonico privato dell’escatologia. Ripercorriamola: inizialmente il pescatore
si immerge e, credendo ancora di essere un “detective” del mare, tra i fondali
cerca i suoi tesori come enigmi da risolvere. Un giorno trova una perla, la
porta in superficie e la bandisce come un trofeo. Poi la porta a casa e la mette
in una teca. Compila una scheda che crede definitiva e pensa di aver chiuso con
gli abissi. Molto più tardi, per caso, si accorge di non aver mai davvero
guardato la perla perché ora, contemplandola come in un sogno, la riconosce
immediatamente: “non è altro che l’occhio di suo padre morto, secondo
l’indimenticabile profezia cantata da Ariel, nella Tempesta di Shakespeare:
A cinque teste sott’acqua
Tuo padre giace.
Già corallo
Sono le sue ossa
Ed i suoi occhi
Perle.
Tutto ciò che di lui
Deve perire
Subisce una metamorfosi marina
In qualche cosa
Di ricco e di strano.
Ad ogni ora
Le ninfe del mare
Una campana
Fanno rintoccare”.
Allora il pescatore, preso dall’inquietudine, dalla schisi, dalla ricerca del
tempo perduto non riesce a non rituffarsi. Si immerge in profondità e scopre che
i tesori del mare proliferano, che suo padre gli ha lasciato molte altre
meraviglie oltre a quell’unica perla e tra esse si confondono tutte le perle di
innumerevoli generazioni di antenati, “innumerevoli padri giacciono in
innumerevoli tesori sul fondo del mare”. Ma soprattutto scopre che
> è la materia stessa in cui nuota, è il mare, l’acqua torbida e materna, tutto
> ciò che non è “tesoro” indurito, è lo spazio intermedio tra le cose,
> l’invisibile flusso che passa tra perle e coralli, è proprio questo che, con
> il tempo, ha trasformato gli occhi di suo padre in perle e le sue ossa in
> coralli. È all’intervallo, alla materia del tempo – qui fluente, là stagnante
> – che sono dovute tutte le metamorfosi che fanno di un occhio morto un tesoro
> sopravvivente.
Il desiderio di non tornare più in superficie è forte. È lo stesso spazio
intermedio in cui nuota la musica di James Hoff, quello di una cristallizzazione
dilatata e in continuo movimento, sempre sospesa e al limite con l’amorfo, che
inventa nuove forme modellandosi in relazione all’ambiente esterno, la cui
capacità corrosiva innesca nuove germinazioni. Come “un cristallo corrisponde
alla struttura fissa lasciata da un individuo che avesse vissuto per un solo
istante” (Gilbert Simondon), così le tracce dell’album di Hoff contengono, come
in miniatura o in un fermo immagine, tutto il movimento della vita di una forma.
Dalla nascita della morfogenesi ci portano direttamente alle forme che giacciono
abbandonate sul fondo del mare, ritornelli resi irriconoscibili e mossi dalla
corrente come ossi di seppia. Ma come escludere in fondo che anche in queste
ossa, prima o poi, potrà innescarsi una nuova metamorfosi?
> La musica di James Hoff nuota nello spazio intermedio di una cristallizzazione
> dilatata e in continuo movimento, sempre sospesa e al limite con l’amorfo, che
> inventa nuove forme modellandosi in relazione all’ambiente esterno, la cui
> capacità corrosiva innesca nuove germinazioni.
Mi rendo conto di aver fatto una descrizione molto materica di questo album,
tanto da farlo sembrare quasi un’opera di land art, come può essere
l’eccezionale Spiral Jetty di Robert Smithson. Ma prima di incontrare
direttamente Smithson, è forse un altro lavoro di Hoff che può portarci ancora
più in prossimità di un’arte a contatto con il tempo, con i processi e i luoghi.
Si tratta di HOBO HUFO (v. Cernobyl), un lavoro audio/video pubblicato questa
volta dall’etichetta PAN, nel 2019. Il video del lavoro consiste in una versione
modificata di Google Street view, che aleggia tra le rovine della città ucraina
di Pryp”jat’, determinando i suoi movimenti in relazione alla musica. Pryp”jat’
è una città fantasma, abbandonata dopo il disastro nucleare di Černobyl’, che
rientra nella zona di alienazione di trenta chilometri istituita intorno alla
centrale e che dal 2022 è in mano alle forze russe.
HOBO UFO tiene vertiginosamente insieme numerosi strati: c’è il livello
molecolare delle radiazioni radioattive, invisibili ma la cui forza incoercibile
ha portato a dover abbandonare un’intera area urbana; un’azione della natura che
si riappropria di un luogo affettivamente carico, trasformandolo in materiale
indifferente attraverso cui far nuovamente passare la sua azione rimodellatrice;
un software che con simile indifferenza registra immagini nello stesso modo in
cui farebbe con qualunque altro luogo (in cui il capitalismo è quantomeno
riuscito a far arrivare la Google Car o un drone per fotografare la strada); un
suono che tra il glitch, la malinconia e una solennità cosmica sembra far
passare attraverso di sé tutti questi strati, componendo un’epica che va dalle
molecole alle forme di vita umane alla loro autodistruzione.
Robert Smithson, che oggi avrebbe ottantasette anni se non fosse scomparso
prematuramente all’età di trentacinque, è il grande precursore di questo tipo di
gesti artistici, soprattutto per come è riuscito a riflettere sull’esperienza e
a rendere sensibile nella sua opera questa confusione di scale, in cui il fare
umano e una sorta di entropia cosmica riescono a trovarsi condensati, collidendo
e comunicando. Un lavoro rappresentativo del suo atteggiamento e particolarmente
affine a HOBO UFO è il testo The monuments of Passaic, del 1967. Si tratta di
un’“odissea suburbana” che in realtà non è nulla più che il fotoracconto di un
percorso a piedi nella cittadina industriale di Passaic, in provincia di New
York. Tutta l’avventura nasce a partire dallo sguardo rivolto a Passaic: uno
sguardo che cerca e crea attivamente segnali, monumenti e metafore là dove
sembrerebbe non esserci nulla. “Il tempo – scrive Smithson – trasforma le
metafore in cose, e le accumula in stanze fredde, o le colloca nei parchi giochi
celestiali delle periferie”. Passeggiando per Passaic, la realtà di Smithson si
muove in un sottile confine tra rappresentazione e distruzione, mostrandosi come
“un particolare tipo di eliografia”, “una sorta di cartolina auto-distruggentesi
di un mondo di fallita immortalità e oppressiva smania di grandezza”, «a moving
picture that I couldn’t quite picture». La smania umana di in-formare la materia
e produrre segni appare come un piccolo e comico museo di tentativi per
contrastare l’entropia dell’universo.
Ma la sua più grande opera è senza dubbio Spiral Jetty, uno dei maggiori
risultati della land art americana. Si tratta del gigantesco “molo a spirale”,
tracciato nel 1970 con una ruspa sui bordi del grande lago salato nello Utah,
poi inghiottito dall’innalzamento della marea del lago e, infine, riemerso, come
fosse Atlantide, nel 1999. Ma, dal momento che la spirale era composta di terra
e blocchi di basalto neri, durante il periodo dell’immersione si è ricoperta di
cristalli di sale e quando è risorta si è presentata in una nuova forma, fatta
di un bianco immacolato e scintillante. In un abile gioco di mise-en-abyme il
processo di realizzazione dell’opera è stato anche filmato, entrando a far parte
del materiale di un film omonimo che mischia l’opera alla sua documentazione e
al gesto di documentare in generale.
> Come racconta Smithson, Spiral Jetty non è più distinta dal territorio, non si
> stampa su di esso come su una superficie vergine, emerge e fa tutt’uno con
> esso, ne è cambiata e lo cambia.
Dove comincia Spiral Jetty? Quando comincia? Forse, come un gigantesco rizoma,
“non comincia e non finisce, è sempre nel mezzo, tra le cose, interessere,
intermezzo” (Deleuze e Guattari). Effettivamente, come racconta Smithson,
l’opera non è più distinta dal territorio, non si stampa su di esso come su una
superficie vergine, emerge e fa tutt’uno con esso, ne è cambiata e lo cambia.
Come in un frattale “ogni cristallo cubico di sale fa eco alla Spiral Jetty nei
termini del reticolo molecolare del cristallo. La crescita in un cristallo
procede intorno un punto di dislocazione come una vite. La Spiral Jetty potrebbe
essere considerata uno strato interno del movimento spiraliforme del reticolo
cristallino, ingrandito trilioni di volte”. Smithson gioca realmente e
materialmente con il processo di cristallizzazione che abbiamo utilizzato
metaforicamente per descrivere il primo album di Hoff: Shadows lifted form
invisible hands e Spiral Jetty risuonano insieme.
Tra l’esperienza del luogo che cattura Smithson, l’avventura titanica della
realizzazione, il suo racconto filmato e narrato e l’azione del luogo sull’opera
si realizza un unico continuum, un unico medium, un’unica meteorologia, in cui
vari attori umani e non umani reagiscono uno nell’altro e uno con l’altro,
leggendosi e forzandosi a vicenda. Da un certo punto di vista Spiral Jetty non
esiste, ci sono solo riecheggiamenti e fluttuazioni, “mentre si afferra la
spirale, se ne viene afferrati”: è un gigantesco metabolismo. Mentre filma il
luogo dall’alto Smithson racconta:
> Il suono del motore dell’elicottero è diventato un lamento primordiale
> riecheggiante in inconsistenti visioni aeree. Ero qualcosa di diverso da
> un’ombra in una bolla di plastica fluttuante in un luogo fuori dal mio corpo e
> dalla mia mente? […] Stavo di nuovo scivolando fuori da me stesso,
> dissolvendomi in un inizio unicellulare, cercando di localizzare il nucleo
> alla fine della spirale. Tutto questo sangue in moto ci fa rendere conto di
> soluzioni protoplasmiche, la materia essenziale tra il formato e il non
> formato, masse di cellule fatte prevalentemente di acqua, proteine, lipidi,
> carboidrati e sali inorganici. Ogni goccia che schizzava sopra la Spiral Jetty
> coagulava in un cristallo. L’acqua ondeggiante diffondeva milioni e milioni di
> cristalli sopra il basalto.
Ma, prima di disintegrarci anche noi, fermiamoci un attimo. Cosa resta di tutto
questo? Il sito dell’opera è diventato luogo di migrazione per chi, conquistato
da questo racconto, ha provato a prenderne parte. Lo scrittore Geoff Dyer
ricorda, per esempio, di averlo percepito come “come un luogo abbandonato, ma
non un luogo il cui senso fosse stato abbandonato. Aveva conservato – o generato
– una sua cupa nodalità”.
> Tra l’esperienza del luogo che cattura Smithson, l’avventura titanica della
> realizzazione, il suo racconto filmato e narrato e l’azione del luogo
> sull’opera si realizza un unico continuum, un unico medium, un’unica
> meteorologia, in cui vari attori umani e non umani reagiscono uno nell’altro.
La nodalità è il tentativo umano di collocarsi, di darsi un posto nel tempo
naturale, dandogli una forma tramite strategie diverse, come si fa in modo più
burocratico con i calendari o con i musei: un far tempo del tempo. Tuttavia qui
la forma singolare si perde e quello che si esperisce è la sfasatura tra lo
sfondo e la figura, che non sono più annodati in maniera stabile, facendo
trasparire piuttosto l’annodare come tentativo fluttuante. È un’immersione in un
tempo denso, in un unico medium dentro cui si fanno e si disfano le forme
naturali e culturali. Ma le differenze sono effimere, sono velocità diverse di
impressione che catturano un insetto nell’ambra, il suono in un ritornello pop e
un reperto storico in un museo. Velocità e rallentamenti di una stessa
vetrinizzazione del tempo, che Smithson e Hoff ci rendono sensibile. Un ralenti
insieme umano e cosmico, sospeso tra le cose, un solo fenomeno emotivo “né Eros
né Thanatos, ma Vita-Morte, con un solo pensiero, uno stesso gesto” (Barthes).
Se allora non c’è un luogo fuori da questo intreccio che sia al riparo da
radiazioni e spettri, resta la possibilità di sperimentare con i nodi, per
trovarci tramite e attraverso i legami che scopriamo, muovendoci tra cristalli,
ossa e corrosioni.
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