
Ti ricordi…David Suazo, la Pantera che ha fatto innamorare la Sardegna e arrivò a superare pure Riva
Il Fatto Quotidiano - Saturday, November 29, 2025Incontenibile. Lo era quando decideva di esserlo David Suazo. Ed è quello che aveva fatto in quella gara di Genova contro la Samp di vent’anni fa. Si era capito già dallo scatto in campo aperto: qualche secondo e da centrocampo si era ritrovato al limite d’area, bevendosi tutti gli avversari e servendo a Langella, che aveva sprecato. Poi la doppietta che aveva deciso la gara, le braccia a mo’ di culla a festeggiare il primogenito David Edoardo.
Nel 2005 era già una star a Cagliari quel ragazzo ormai ventiseienne, che era arrivato però già da sei anni in Sardegna. Cresciuto in Honduras in una famiglia in cui il pallone non è un passatempo, ma un destino. Le strade polverose della città lo formano più di qualunque accademia. È rapido, filiforme, sempre un passo avanti: raccontano che da bambino giocasse con scarpe troppo grandi di due numeri, perché erano le uniche disponibili. Dalle partite per strada passa all’Olimpia Tegucigalpa, la squadra più importante del Paese, e a 17 anni è già uno dei talenti da seguire. Di quegli anni resta un’immagine ricorrente: David che arriva agli allenamenti correndo, letteralmente.
Il salto è del 1999. Lo nota il Cagliari, lo segnala Tabárez, e Suazo arriva in Sardegna da ragazzo timido, con l’italiano che gli scivola via e un bagaglio pieno di magliette estive in un’isola che d’inverno sa diventare vento e pioggia. Le prime settimane sono un crash culturale: mangia quasi solo riso e pollo, perché tutto il resto gli pare troppo strano. Teme il mare, non ama il silenzio del pomeriggio cagliaritano. Ma la città e la società adottano quel ragazzone. C’è chi ricorda quando, non avendo ancora la patente, prendeva tre autobus per arrivare al campo: “Non volevo creare problemi a nessuno”, diceva. E poi c’è l’aneddoto del soprannome: “La Pantera” nasce in allenamento, dopo una progressione da quaranta metri che lasciò tre compagni immobili come birilli.
Suazo diventa presto uno degli idoli della Sardegna. Non solo per i gol, ma per quello scatto che partiva un attimo prima della difesa e sembrava la replica di un lampo. La prima stagione non è fortunata: lui ha solo diciannove anni, in squadra ci sono Fabian O’Neil, Patrick Mboma, Bernardo Corradi, Lulù Oliveira e ovviamente lui è solo l’ultimo arrivato. La squadra retrocede e lui firma il suo primo gol in A contro il Piacenza, in una gara senza storia col club già in B. È qui che David cambia le sue carte: la stagione con Bellotto e Materazzi non è granché, ma lui segna comunque 12 gol tra campionato e Coppa Italia, e neppure le due successive sembrano dare a Suazo quel cambio di passo che tutti si aspetterebbero da lui. Poi nel 2003 arrivano Edy Reja e soprattutto Gianfranco Zola che comprende come la velocità di David possa essere devastante se ben sfruttata con passaggi e lanci in profondità, col risultato che l’honduregno fa 19 gol in campionato e il Cagliari viene promosso in A. Alla prima stagione del ritorno in massima serie ne fa 8, l’anno dopo, con Esposito e Langella arriva addirittura a 22,superando il primato di Gigi Riva che si era fermato a 21.
La stagione successiva fa centro 14 volte e a quel punto è già nel mirino delle grandi. Nel 2007 è praticamente già dell’Inter, vacilla quando arriva la chiamata di Berlusconi che quasi riesce a portarlo in rossonero ma alla fine decide di vestire il nerazzurro.
A Milano trova un mondo diverso: concorrenza feroce, ritmi da squadra che deve vincere tutto, infortuni che lo rallentano. Eppure lascia il segno quando serve, da comprimario di lusso: 8 gol in campionato, con la sua firma sullo scudetto assieme a quelle di Ibra, Crespo, Cruz. Passa al Benfica, dove ritrova un po’ di leggerezza e qualche scatto dei suoi, poi torna in Italia tra Genova e Catania per chiudere una carriera fatta di lampi, di improvvisi bagliori, di un talento che – quando si accendeva – cambiava l’equilibrio del campo.
Finito il calcio giocato, Suazo non ha tagliato il cordone. Ha iniziato ad allenare, prima nelle giovanili del Cagliari, poi in panchine difficili e coraggiose, come Brescia e Carbonia. Ha studiato, si è aggiornato, ha mantenuto quello stile discreto che lo accompagnava anche da calciatore. Mai sopra le righe, mai una parola inutile, sempre un passo indietro rispetto al proprio ego. Forse per questo in Sardegna, ogni volta che torna, il suo nome suscita ancora un affetto che pochi stranieri hanno conquistato.
E mentre il tempo scorre, la storia sembra voler fare un giro completo. Uno dei suoi figli, David Edoardo, ha appena firmato con l’Altamura. Un’altra ripartenza, un’altra corsa da inseguire. Le cronache lo descrivono come un attaccante diverso dal padre, meno esplosivo, più strutturato. Ma il cognome porta un’eco, e quell’eco è identità. Sarà il campo a dire se raccoglierà l’eredità o se ne costruirà una nuova. David, intanto, guarda senza spingere: “Lasciatelo crescere”, ha detto. Magari rivedendo quella doppietta di vent’anni fa quando era incontenibile…e quel gesto della culla, dedicato proprio a David Edoardo.
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