
L’AIDS esiste ancora e in Italia il 60% delle nuove diagnosi arriva tardi: “Serve una prevenzione continua. Gli eterosessuali? Non percepiscono abbastanza il rischio”
Il Fatto Quotidiano - Monday, December 1, 2025Sono 2379 i nuovi casi di HIV registrati in Italia nel 2024, secondo i dati pubblicati di recente dall’Istituto Superiore di Sanità. Un numero praticamente stabile se si considera che l’anno prima erano stati 2349, ma la situazione resta preoccupante a cinque anni dall’ambizioso traguardo stabilito dall’ONU di porre fine entro il 2030 all’epidemia di HIV/AIDS come emergenza sanitaria mondiale. Due, in particolare, gli aspetti allarmanti: “La quota di persone che ricevono una diagnosi tardiva continua ad aumentare, riguardando circa il 60% dei nuovi casi, e il 18% delle nuove infezioni interessa giovani con meno di 20 anni” spiega la dottoressa Silvia Nozza, infettivologa dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, a ilfattoquotidiano.it. È la fotografia di un Paese nel quale la capacità di intercettare precocemente il virus resta insufficiente, malgrado i progressi terapeutici e gli strumenti di prevenzione oggi disponibili, come la PrEP (profilassi pre-esposizione) e la PEP (profilassi post-esposizione). Ma che cosa, esattamente, non sta funzionando?
L’importanza della prevenzione
Secondo Nozza il nodo principale riguarda l’accesso alla prevenzione che, “sia in termini di disponibilità del test per l’HIV sia di PrEP, rimane disomogeneo sul territorio italiano, talvolta anche all’interno delle stesse strutture sanitarie”. Educazione sessuale precoce e formazione degli operatori sanitari sono aspetti sui quali occorre insistere: “Informare i cittadini fin dalla giovane età – ad esempio attraverso percorsi educativi nelle scuole – e formare adeguatamente gli operatori sanitari durante gli studi universitari è fondamentale. È necessario aumentare la consapevolezza che l’infezione da HIV è una malattia a trasmissione sessuale che può colpire chiunque non utilizzi strumenti di prevenzione, siano essi di tipo barriera o farmacologici, indipendentemente dal genere o dall’orientamento sessuale”.HIV e preconcetti, una narrazione da rivedere
Proprio su quest’ultimo punto, i dati forniti dall’ISS relativamente alla modalità di trasmissione del virus nell’ultimo anno in Italia evidenziano come il 46% delle nuove diagnosi sia attribuibile a trasmissione eterosessuale. Quella imputabile a ‘maschi che fanno sesso con maschi’ (MSM), invece, è pari al 41,6%, eppure il pregiudizio secondo cui l’HIV riguardi quasi esclusivamente il mondo omosessuale è difficile da eliminare. La realtà dei fatti è diversa, come chiarisce l’infettivologa: “La popolazione MSM risulta in generale più informata sulle strategie di prevenzione dell’infezione da HIV, in particolare sulla profilassi pre-esposizione (PrEP) e sulle modalità di accesso gratuito al test. Al contrario, la popolazione eterosessuale dispone di minori informazioni e tende a non percepire adeguatamente il rischio. Definire l’AIDS come ‘malattia degli omosessuali’ non solo è scorretto, ma anche stigmatizzante nei confronti di un gruppo che, al contrario, risulta spesso più attento alla prevenzione”. Giusi Giupponi, Presidente Nazionale della LILA, aggiunge: “L’HIV non è più legato a categorie di persone come negli anni ’90, ma a chiunque abbia una vita sessuale attiva e non conosce lo stato sierologico dell’altra persona”.
Non può capitare a me
Conoscenza e consapevolezza sono nemiche del virus, che invece continua ad annidarsi laddove scarseggia la percezione del rischio, non solo nella popolazione generale, ma talvolta anche da parte di medici non specialisti in malattie infettive. Il risultato sono le tante diagnosi tardive messe nero su bianco dal report annuale consultabile sul sito del Ministero della Salute. “Esistono alcune condizioni cliniche e risultati laboratoristici che rappresentano indicatori dell’infezione (come, ad esempio, una riduzione delle piastrine), ma i dati mostrano che, anche in presenza di questi segnali, il test per l’HIV non viene sempre richiesto perché la persona non viene ritenuta ‘a rischio’”, riferisce la dottoressa Nozza. “Quasi la metà delle persone con una nuova diagnosi ha effettuato il test a causa di sintomi o patologie correlate all’HIV, mentre un quinto lo ha eseguito dopo comportamenti sessuali a rischio”. A giocare a favore del virus ci sono pure paura e stigma: “Si tende a credere che non possa capitare proprio a noi – spiega Giupponi – e chi riceve una diagnosi pensa di doverla tenere nascosta. Prima dello stigma c’è l’autostigma, perché nella nostra società non si parla mai dell’HIV se non il 1° dicembre”. Sul tema della comunicazione mette ancora l’accento la Presidente della LILA: “A differenza di quel che avviene con altre infezioni e malattie, per l’HIV non c’è una campagna mediatica continuativa (tanto più non giudicante) incentrata sulla prevenzione. È un tema che dal governo non viene considerato importante”. Eppure “investire nella prevenzione vuol dire avere cura non solo della singola persona, ma anche della comunità: se ho il virus e non lo so perché non faccio un test, a mia volta lo trasmetto”.
Una battaglia ancora aperta
È chiaro, allora, che non si può abbassare la guardia, e se si vuole arrivare al 2030 con un quadro ben diverso da quello odierno urge accelerare su prevenzione, diagnosi precoce e accesso alle terapie, compresa l’ultima arrivata: la long-acting PrEP, quella iniettabile. “Con interventi mirati e una maggiore consapevolezza, possiamo davvero ridurre l’impatto dell’epidemia e avvicinarci a eliminarla” osserva Nozza. Una consapevolezza che passa anche dall’informare correttamente sul presente della terapia: una persona con HIV in trattamento efficace, con carica virale non rilevabile, non è in grado di trasmettere l’infezione (principio U=U, Undetectable = Untransmittable). “Abbiamo numeri diversi da quelli di 30 anni fa, ma è importante continuare a lottare perché non è ancora finita” le fa eco Giupponi, che ricorda come ancor prima della diagnosi ci sia sempre un individuo la cui condizione clinica non deve fagocitare quella umana ed emotiva: “Noi di LILA non parliamo di sieropositivi, ma di persone con HIV. Persone, appunto, che devono essere riconosciute come tali”. Sempre, e non solo il primo dicembre.
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