“Cercansi radioline a pile portatili per far sentire meno soli i detenuti nel
giorno di Natale”. A lanciare l’appello sono i volontari della Casa
circondariale di Lodi che anche quest’anno con “Radio Popolare” hanno
organizzato – grazie alla collaborazione della direttrice Anna Laura Confuorto,
degli educatori dell’area trattamentale e degli agenti di polizia penitenziaria
– uno scambio di auguri in diretta tra i parenti, gli amici e chi si trova
dietro le sbarre.
Il 25 dicembre dalle 9 alle 10,30 su Radio Popolare (canale Fm 107.6) verranno
trasmessi i messaggi di auguri di alcune persone detenute nel carcere di Lodi,
ma anche Rebibbia e Bollate: così amici e familiari potranno fare gli auguri ai
propri cari intervenendo in diretta telefonica. Un’idea che può essere attuata
solo con il contributo di chi vorrà rendere concreto questo progetto aiutando i
volontari a trovare (entro il 22 dicembre) le radioline necessarie ai detenuti
per ascoltare le frequenze di “Radio Popolare”.
“In carcere attualmente ci sono un’ottantina di persone e una trentina di celle.
Abbiamo bisogno – spiegano i volontari – di donare loro almeno trenta radio che
devono essere senza Usb e cavo ma solo con pile. Uno di questi oggetti costa
meno di una pizza ma può rendere felice chi quel giorno non potrà stare con i
propri cari”.
Chi è di Lodi può portare i doni all’Arci Ghezzi in via Maddalena 39, 26900 Lodi
entro il 22 dicembre. E si può contribuire da qualsiasi parte d’Italia inviando
(sempre all’Arci Ghezzi) – con un clik qui o su altre piattaforme di vendita
online – il dono.
In questi giorni i volontari stanno registrando i messaggi di auguri dei
detenuti in diverse carceri italiane che verranno trasmessi proprio giovedì 25 a
“Radio Popolare” nella mattinata con l’aiuto di Claudio Agostoni: chi è a casa,
chi desidera essere vicino alle persone che si trovano in carcere potrà
intervenire in diretta chiamando allo 0233001001 oppure scrivendo una mail a
diretta@popolarenetwork.it o un sms al 331 6214013.
In questi giorni proprio a Lodi, intanto, il mondo del volontariato si è mosso
per far vivere le festività anche a chi si trova nella casa circondariale:
l’azienda “L’Erbolario” donerà ai carcerati e agli agenti di polizia
penitenziaria dei prodotti mentre dall’Auser di Pianengo (Cremona) arriveranno
oltre ottanta libri che i volontari hanno raccolto per poter fare il loro
augurio a ciascun detenuto. “A seguito di un incontro sul tema carcere – spiega
la presidente Iside Iride – il nostro centro “Al Mirabel” non è rimasto con le
mani in mano, ma ha voluto dare un segnale concreto della vicinanza della
società civile a chi si trova in carcere proprio nel rispetto dell’articolo 27
della Costituzione che mira alla rieducazione. Anche un libro può aiutare”.
L'articolo Messaggi dei parenti per far sentire meno soli i detenuti a Natale:
il carcere di Lodi raccoglie radioline a pile proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Diritti
La salita per raggiungere la parità di genere in Italia può essere affrontata
anche con mezzi inaspettati, come la bicicletta. Da sei anni in Toscana è attiva
Bikeboobs, un’associazione sportiva dilettantistica e di promozione sociale
guidata da Agnese Gentilini, Giulia Vinciguerra e Sara Paoli. L’idea di unire
femminismo e sport nasce dall’esperienza diretta delle tre cicliste, in un
settore ancora troppo maschile, anche a livelli agonistici. Questa realtà è
diventata un anello di congiunzione tra ciclismo e femminismo. Alle donne
vengono offerte conoscenze pratiche sulla bici, dalla meccanica al gps fino alla
cartografia, e momenti di confronto per discutere di temi ancora considerati
tabù aumentando così la consapevolezza sul proprio corpo. “Cerchiamo di
avvicinare le donne alla bicicletta perché è uno strumento di emancipazione, un
mezzo storicamente rivoluzionario che permette di occupare spazio,
autodeterminarsi e in questo momento storico è molto importante essere visibili”
spiega Agnese Gentilini.
BIKEBOOBS, IL CICLISMO AL FEMMINILE
Pedalare in gruppo non è solo un modo per conoscere se stesse. Le donne possono
partire con tour accompagnati che durano diversi giorni e superare la paura di
viaggiare da sole. Nel 2023 è stato organizzato con Liv Cycling il primo viaggio
tutto al femminile che ha riunito 60 donne: il gruppo è partito dal comune
fiorentino di Figline Valdarno e dopo quattro giorni ha raggiunto Pontedera,
vicino Pisa. La propensione a usare la bici tuttavia cambia a seconda della
provenienza geografica. “Nelle regioni centro-settentrionali ci sono più donne
che pedalano e da qui provengono le partecipanti ai nostri eventi – sottolinea
Gentilini -. Sono tutte donne che scelgono di viaggiare da sole, senza partner
maschili”. Superate le paure iniziali, si inizia a scavare negli stereotipi di
genere, per decostruirli e distaccarsene. Pedalare insieme permette di
approfondire la conoscenza del proprio corpo e fare chiarezza su argomenti che
di solito non vengono esplorati. “Durante la pedalata creiamo un ambiente privo
di giudizio. Noi stesse condividiamo le strategie personali che mettiamo in
campo per affrontare questioni come ciclo mestruale, sfregamenti e dolori in
bici e abbiamo iniziato a fare dei workshop sul benessere in sella e
sull’intimità consapevole, a cui partecipano anche gli uomini” evidenzia la
co-fondatrice dell’associazione.
SO.DE, CONSEGNE A DOMICILIO ALL’INSEGNA DELL’ECOLOGIA E DEI DIRITTI DEI
LAVORATORI
Per le donne la bici può diventare un mezzo non solo per scoprire se stesse ma
anche per raggiungere un’indipendenza economica. Con questo obiettivo è nata la
collaborazione tra Bikeboobs e So.De social delivery, una realtà di consegne a
domicilio attiva dal 2021 a Milano e che ha la sua ragion d’essere nella
sostenibilità in tutti i suoi aspetti, da quella lavorativa e contrattuale a
quella ambientale che punta sul commercio di prossimità e sulla consegna dei
pacchi con le cargo bike. “Siamo nati durante la pandemia. Non potevamo
accettare che un servizio così importante come il delivery fosse fatto da
lavoratori poco tutelati e sottopagati” spiega Rossana Adorno, project manager
di So.De. Con questa realtà di delivery solidale, che ha da poco ricevuto la
menzione speciale al XIX Premio Innovazione di Legambiente, la bici diventa “un
punto di ripartenza per giovani che non studiano e non lavorano, per chi ha
dovuto lasciare il proprio Paese, per chi vorrebbe trovare un’indipendenza
economica e non dipendere da compagni o mariti”, sottolinea Adorno. La
leadership stessa di So.De è a prevalenza femminile, con 4 donne su 7 ai
vertici, in un settore come quello della logistica che è quasi tutto al
maschile: in Italia le donne rappresentano appena il 21,8 per cento della forza
lavoro nella logistica e in generale sono alla guida del 22,18 per cento delle
imprese. “Ci siamo resi conto che attrarre donne in questo settore non è una
cosa semplice”, spiega Adorno. Per questo motivo, con Bikeboobs stanno
organizzando per il prossimo anno una giornata interamente dedicata alla
presenza femminile nel mondo della bici. “L’idea è cercare tutte le donne che si
organizzano per pedalare insieme con un certo spirito, anche femminista – spiega
Gentilini – e far sottoscrivere a ogni realtà un manifesto che contiene le linee
guida del ciclismo al femminile, rivolto anche a chi vuole creare una propria
realtà ciclistica”. Bikeboobs sta preparando la prima grande mappatura di tutte
le associazioni di donne in bicicletta in Italia e da questo bacino So.De potrà
attingere per trovare le fattorine di un futuro sempre più vicino.
L'articolo Femminismo e bicicletta, quando delivery e ciclismo lottano per la
parità: i casi di Bikeboobs e So.De proviene da Il Fatto Quotidiano.
L’omicidio a Corleone (Palermo) di Giuseppina Milone, donna con disabilità, per
mano dell’anziana madre caregiver Lucia Pecoraro ha provocato la durissima
reazione delle associazioni e dei caregiver familiari conviventi che denunciano
la loro condizione di “estrema solitudine” e “isolamento sociale” senza nessun
tipo di sostegno economico e giuridico oltre “all’assenza di tutele
previdenziali ai fini pensionistici come per i lavoratori” da parte dello Stato.
Ma non sono esclusivamente i caregiver familiari h24 a prendere posizione sulla
vicenda. Lo hanno fatto anche i diretti interessati facendo emergere il punto di
vista delle persone con disabilità. A denunciare a ilfattoquotidiano.it “il
disabilicidio, che a mio parere è un omicidio di stampo abilista” c’è Marta
Migliosi, studiosa, attivista e persona con disabilità. “Vorrei evidenziare che
non si tratta di casi isolati, ma dell’esito di una disparità di potere che
porta la caregiver, in modo analogo al femminicida, a pensare di poter disporre
completamente della vita di un’altra persona, deumanizzandola e uccidendola”,
afferma Migliosi. Il focus, a suo dire, si è troppo spostato sui media non sulla
figura della persona disabile uccisa, ma quasi esclusivamente sulla drammatica e
complessa condizione che ha portato un genitore-assistente personale convivente
a porre fine con violenza all’esistenza della propria figlia.
“Da un lato”, accusa l’attivista, “la maggioranza dei media generalisti si è
piegata alla narrazione abilista e bieca che, usando espressioni come ‘gesto
d’amore’, interpretando l’omicidio come un ‘averla salvata’, e indugiando sul
fatto che la sua ‘condizione’ fosse ‘grave’ allora hanno finito per giustificare
implicitamente il gesto della madre che l’ha assassinata e, conseguentemente, a
cancellare la vita di Giuseppina”. La studiosa di politiche sociali sui diritti
delle persone con disabilità aggiunge che “è emblematico che diversi giornali
non riportino nemmeno il suo nome, mentre non manca praticamente in nessuna
ricostruzione giornalistica quello dell’omicida, di cui sono riferite anche
informazioni più dettagliate relative alla sua vita personale, per esempio è
stato scritto che la madre caregiver ‘andava a messa, in vacanza, era una
persona di buon cuore’. Dov’è Giuseppina in questo racconto? Perché non si mette
al centro la persona disabile uccisa?”, rivendica Marta.
L’attivista marchigiana ripete il termine “disabilicidio” per sottolineare che
“serve ad individuare le cause che hanno portato all’omicidio, e dunque a
mostrare che Giuseppina è stata uccisa perché disabile. Perché la sua morte non
crea la stessa rabbia che suscitano gli altri omicidi? Perché non suscita lo
stesso sentimento di ingiustizia? Ci si dovrebbe interrogare su questi aspetti”.
L'articolo “Perché l’omicidio di Giuseppina Milone, donna con disabilità, non
provoca la stessa rabbia di altri?” proviene da Il Fatto Quotidiano.
L’occupazione femminile? A fine 2025 la questione non è più, solo, quella di
favorirla, ma anche e soprattutto di ripensare radicalmente l’approccio alla
conciliazione tra lavoro e famiglia. E cioè di “garantire condizioni strutturali
e culturali che rendano la genitorialità compatibile con la piena cittadinanza
economica e sociale”. È la conclusione del volume Non è un lavoro per madri.
Perché la maternità in Italia resta un ostacolo al lavoro, a cura di Roberto
Rizza, Lorenzo Cattani, Giovanni Amerigo Giuliani e Rebecca Paraciani
(Fondazione Feltrinelli). “Occorre ripensare i tempi e le modalità del lavoro
pagato e non, sono senz’altro necessari investimenti nei servizi di cura e ciò
che appare indispensabile è rivedere le rappresentazioni culturali della
maternità e della paternità in Italia. Per farlo è necessario un dialogo tra più
attori e ambiti: il mondo economico, il primo e secondo welfare, il mondo della
ricerca, l’opinione pubblica”, sostengono gli autori che per il loro lavoro si
sono basati su una variegata massa di dati empirici.
Non è un lavoro per madri indaga le ragioni profonde del fenomeno delle
dimissioni volontarie delle neomamme: negli ultimi decenni le donne hanno
scalato i livelli di formazione e qualificazione professionale, ma la
transizione si è scontrata con la “persistenza di barriere strutturali e
simboliche, esasperate dalla maternità” che rappresenta una cesura significativa
nelle “carriere lavorative femminili: riduzione del tasso di occupazione,
maggiore ricorso al part-time involontario, contratti precari e minore accesso a
posizioni apicali, sono tutti elementi che testimoniano una penalizzazione
sistematica“. Il testo si basa su dati nazionali contenuti nei rapporti annuali
dell’Ispettorato del Lavoro dal 2012 in poi e sull’esperienza del Piano per
l’Uguaglianza di Bologna, con oltre seicento casi di genitori, per lo più le
madri, che hanno lasciato il lavoro in seguito all’arrivo di un figlio. “Tutto
questo serve anche a fare una riflessione sul valore dell’indipendenza economica
come fattore di emancipazione che può essere uno strumento per prevenire la
violenza di genere. Ma le soluzioni esistono”. Tuttavia, “soltanto la
combinazione tra politiche innovative e un’autentica cultura dell’uguaglianza
può produrre un cambiamento reale, trasformando la maternità da ostacolo
percepito a valore condiviso“.
Il dato di partenza è che le dimissioni dei genitori in Italia sembrano “una
questione tutt’altro che neutra in termini di genere e un fenomeno che tende a
penalizzare prevalentemente le madri a causa delle forti disparità nella
ripartizione del lavoro di cura“. Ed è proprio il lavoro di cura ad essere il
fattore chiave per l’uscita dal mercato del lavoro, soprattutto quando non ci
sono politiche di supporto alla genitorialità. Come succede in Italia, dove
quando ci sono le leggi non sono i soldi. Ma vediamo i dati. Secondo gli ultimi
numeri forniti dall’Ispettorato nazionale del lavoro, nel 2025 sono state
convalidate 60.756 dimissioni di neogenitori. Di queste, il 69,5 per cento
(42.237) ha riguardato donne. Per le quali il 63 per cento delle dimissioni è
stato attribuito alla difficoltà di gestire simultaneamente le responsabilità
lavorative e familiari, indicando una persistente difficoltà nel bilanciare
carriera e cura dei figli. “Nonostante la marcata disuguaglianza di genere, va
sottolineato che il fenomeno delle dimissioni da parte dei padri è in costante
aumento negli anni”, è l’unica nota di ottimismo.
Quanto ai servizi per l’infanzia, nel 2022 in Italia, solo il 30,9 per cento dei
bambini al di sotto dei tre anni risultava iscritto al nido, ma di questi, solo
il 20,1 per cento li frequentava per più di 30 ore settimanali (Eurostat, 2024).
“L’obiettivo definito a livello europeo del 45 per cento appare lontano a causa
soprattutto di due principali distorsioni: una di natura reddituale (il
cosiddetto effetto Matteo), e una territoriale (il cosiddetto effetto Matteo
territoriale). Nel primo caso, sono soprattutto i figli delle persone più
istruite ed abbienti a frequentare gli asili nido; nel secondo caso le aree che
necessiterebbero maggiormente tali servizi – prima di tutto il Mezzogiorno –
sono proprio quelle in cui l’offerta risulta più carente con evidenti
ripercussioni sulla parità di genere”, è l’analisi. Ma non finisce qui. L’Italia
e i Paesi del Mediterraneo sono tra quelli con i tassi di fertilità e
occupazione femminile più bassi, mentre i Paesi scandinavi e anglosassoni hanno
dati di segno opposto in entrambi gli ambiti. “Questo cambiamento è stato
attribuito all’introduzione di politiche per la conciliazione tra lavoro e
famiglia, come il congedo parentale e i servizi di assistenza all’infanzia”, è
la conclusione secondo la quale le politiche per la famiglia hanno ridotto
l’incompatibilità tra lavoro e maternità, favorendo l’occupazione femminile
senza danneggiare i tassi di fertilità: “Sebbene il dibattito sulla direzione
della causalità tra i due fattori sia stato acceso, le evidenze suggeriscono che
le politiche di conciliazione siano fondamentali per mantenere l’equilibrio tra
carriera e genitorialità”.
Non solo. In paesi come Svezia, Norvegia o Germania, l’adozione di modelli di
welfare orientati alla defamiliarizzazione delle cure ha portato a risultati
migliori sia in termini di occupazione femminile, sia di equità di genere. In
Francia il sostegno pubblico alla genitorialità è stato realizzato attraverso un
mix di trasferimenti monetari e servizi accessibili, che hanno ridotto la
pressione sulle madri. Passo in avanti in Germania, dove “la riforma del
parental benefit e la promozione dell’ElterngeldPlus (parental allowance plus)
hanno incentivato un maggiore coinvolgimento dei padri, modificando nel tempo le
aspettative sociali attorno alla divisione dei ruoli“. Sorpresa, poi, in un
paese dell’Europa meridionale come la Spagna, dove “i cambiamenti sono stati
molto accentuati nelle ultime decadi, culminando nella definizione di una
normativa che eguaglia la durata del congedo obbligatorio tra madri e padri”.
Esempi che “mostrano che il cambiamento è possibile quando le politiche sono
coerenti, integrate e orientate a obiettivi di lungo periodo”. Il caso italiano,
invece, “è ancora caratterizzato da improvvisazione, frammentazione e
discontinuità. Una tendenza che non è immune da derive ulteriori aggravate dalla
crisi demografica e dal continuo calo della natalità”.
Criticità anche in un contesto all’avanguardia come quello bolognese. “Le madri
che si dimettono a Bologna segnalano ostacoli simili a quelli osservati a
livello nazionale: difficoltà nella gestione dei tempi di lavoro, scarso
supporto organizzativo da parte delle imprese, mancanza di corresponsabilità
genitoriale da parte del partner. Questa disamina conferma l’idea che le
dimissioni volontarie non possano essere interpretate come semplici scelte
individuali, ma debbano essere comprese alla luce di un contesto multilivello,
in cui interagiscono fattori macro (assetti di welfare e istituzionali,
condizioni strutturali del mercato del lavoro), meso (culture organizzative e
modalità gestionali delle imprese, condizioni familiari) e micro (preferenze,
biografie, caratteristiche individuali)”, spiegano gli autori. Secondo i quali
il caso bolognese “rafforza l’idea che le politiche locali, pur importanti, non
possano da sole compensare le lacune del quadro nazionale. È necessario un
cambiamento sistemico che coniughi interventi strutturali, promozione culturale
e incentivi al cambiamento organizzativo”.
L'articolo “Non è un lavoro per madri”, il libro che spiega perché le neo mamme
lasciano il lavoro e come cambiare le cose proviene da Il Fatto Quotidiano.
Ha atteso la sua telefonata di auguri, nel giorno del suo compleanno. Ma quella
chiamata non è mai arrivata. Armanda Colusso parla a Repubblica del messaggio
mai arrivato da parte del figlio Alberto Trentini, il cooperante italiano di
Venezia detenuto da 395 giorni nel carcere El Rodeo I di Caracas senza che
nessuna accusa sia mai stata formalizzata. “Povero Alberto, si sarà illuso di
poterci chiamare. Lui non dimentica mai la data del mio compleanno. Io ho atteso
inutilmente quella telefonata perché avevo bisogno di sentire il timbro della
sua voce e di capire come vive questa situazione così dolorosa e ingiusta”.
Solo pochi giorni fa Armanda era intervenuta a Tutta la città ne parla per
sollecitare ancora una volta il governo a riportare a casa il figlio, dopo che a
metà novembre aveva di nuovo sottolineato – affiancata dall’avvocata Alessandra
Ballerini – l’immobilismo del governo italiano, in un’attesa diventata
insopportabile. “Non sono in grado di dare una risposta esatta, anche perché
probabilmente non conosciamo tutte le azioni intraprese – dice a Repubblica -.
Secondo me bisogna cambiare strategia: occorrerebbe designare una persona che
sappia rapportarsi con Maduro e con i suoi collaboratori, perché se dopo 395
giorni di prigionia non ci sono risultati, qualcosa non sta funzionando.
Sappiamo bene che i carcerieri di Alberto sono in Venezuela e non in Italia, ma
occorre convincerli a restituirci nostro figlio”.
“Questi 13 mesi di prigionia per Alberto sono stati una crudeltà quotidiana, per
lui e anche per noi – aggiunge -. Non oso immaginare i pensieri e le riflessioni
di mio figlio quando inizia un nuovo giorno: ‘In che Paese sono nato, se
permettono che io resti in cella senza colpa alcuna?’ si chiederà. Mi fa male
soltanto pensare che dolore e quanta delusione hanno segnato tutti questi mesi
di prigionia e di isolamento. Sofferenze così forti minano il fisico e l’animo
per sempre. Noi genitori ci sentiamo svuotati. Viviamo un’agonia che non si può
descrivere. Al mattino esco in terrazza ad accarezzare lo striscione di Alberto,
per salutarlo, perché all’aperto non ci sono barriere che possano trattenere i
miei pensieri, che vogliono infondergli coraggio. Ogni giorno esco a prendere
pane e giornale: cammino guardando per terra, perché non voglio incontrare lo
sguardo felice della gente che mi passa vicino. Le nostre attese sono nel
pomeriggio e nella sera, a causa del fuso orario, perché speriamo sempre in una
telefonata di Alberto che poi non arriva”. “La prigionia di Alberto – continua
Armanda – deve indignare gli italiani, le nostre istituzioni e i comuni
cittadini, perché è costretto in carcere per così tanto tempo senza avere alcuna
colpa – continua – Spero che sempre più voci si uniscano alle nostre proteste.
Io, se necessario, griderò finché avrò fiato. Nessuna energia può essere
risparmiata per riavere Alberto a casa”.
(immagine di repertorio)
L'articolo La madre di Alberto Trentini: “Ho aspettato la sua chiamata per il
mio compleanno, l’ho attesa inutilmente” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Siamo governati dall’ipocrisia. Tutti si definiscono cristiani ma nessuno
ascolta le parole del capo della Chiesa. Lo scorso 26 dicembre Papa Francesco
aprì la porta Santa a Rebibbia, dove giovedì è morta una detenuta e dove il
giorno prima si è recato il Presidente della Repubblica. Le parole del
Pontefice, che al carcere aveva dedicato pensieri e azioni, sono rimaste
inascoltate, colpevolmente rimosse da parte di chi dirige il nostro sistema
penitenziario.
Per questo un ampio numero di associazioni e istituzioni – tra le quali A buon
diritto, Acli, Antigone, Arci, Cgil, Conferenza dei Garanti territoriali delle
persone private della libertà, Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia CNVG,
Coordinamento Nazionale Comunità Accoglienti CNCA, Federsolidarietà, Forum
Droghe, Gruppo Abele, L’altro diritto, La Società della Ragione, Legacoop, Movi,
Ristretti, No prison e Nessuno Tocchi Caino – hanno promosso un appello per
offrire dignità e megafono all’impegno di Papa Francesco. Vanno assicurate
umanità e clemenza a un sistema, quello delle prigioni, che vive una drammatica
crisi. Il mondo delle carceri italiane sta perdendo ogni legame con la missione
costituzionale di cui al terzo comma dell’articolo 27. Un articolo scritto con
il sangue, il dolore e la profondità politica di quella parte dei nostri
costituenti che aveva vissuto l’esperienza della prigionia durante il fascismo.
I numeri descrivono l’attuale crisi in modo impietoso. Al 30 novembre 2025 erano
63.868 le persone detenute nelle nostre carceri. La capienza effettiva era
invece pari a 46.124 posti. Ciò significa che si contavano quasi 18.000 posti in
meno rispetto alle presenze. È facile capire cosa significhi e quanto le
possibilità di risocializzazione, nonostante l’impegno di alcuni operatori, si
trasformino in mito. Di fronte a tassi di affollamento così elevati è sbagliato,
nonché utopico, pensare di risolvere il problema con fantomatici piani di
edilizia penitenziaria. L’affollamento delle carceri può e deve risolversi
depenalizzando quel che ha a che fare con questioni sociali e non deve essere
gestito con politiche penali, a partire dal tema delle droghe, trattato con le
armi inique del proibizionismo che mette sullo stesso piano tossicodipendenti e
trafficanti. Le galere sono piene di persone espulse da un sistema di welfare
selettivo.
Il tasso di affollamento medio nazionale è ormai dunque al 138,5% e in ben 72
delle 189 carceri italiane è pari o finanche superiore al 150%. Non sono meri
numeri, perché dietro di essi vivono persone: in alcuni luoghi manca per loro lo
spazio vitale. Negli istituti più affollati – come Lucca (247%), Vigevano
(243%), Milano San Vittore (231%), Brescia Canton Monbello (216%), Foggia
(215%), Lodi (211%), Udine (209%), Trieste (201%), Brindisi (199%), Busto
Arsizio (196%), ma anche in molte altre carceri metropolitane – non ci sono
quasi più spazi per la socialità, per la scuola. Il carcere diventa così solo un
grande, inutile dormitorio. Per la prima volta nella storia, dopo il cosiddetto
Decreto Caivano, anche nelle carceri minorili sta accadendo lo stesso.
Ma altri numeri sono ancora da segnalare. Ovvero quelli, assai paradigmatici,
che ci raccontano in maniera oggettiva l’illegalità in cui versa il sistema. Nel
corso del 2024, i tribunali di sorveglianza italiani hanno accolto ben 5.837
ricorsi che riconoscevano ad altrettante persone detenute di aver vissuto in
carcere in condizioni inumane o degradanti. Ben 5.837 sono state dunque
sottoposte a una pena contraria al senso di umanità, contraria all’art. 27 della
Carta costituzionale. In tante carceri in giro per l’Italia si è tornati a
vivere in meno di tre metri quadri a persona, come quando l’Italia venne
condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
La reazione delle istituzioni, sia per adulti che per minori, si riassume in una
sola parola: chiusura. Il carcere è sempre più chiuso. C’è insofferenza
istituzionale verso chi nel mondo esterno vuole cooperare per l’esecuzione di
una pena più umana. Per tutti questi motivi le associazioni, anche in
considerazione del Giubileo dei detenuti in corso, hanno indetto una grande
assemblea da tenersi a Roma il prossimo 6 febbraio. Per ricordare a chi governa
che il carcere non è proprietà privata dei custodi.
L'articolo Ignorate le parole di Papa Francesco: le carceri sono ancora
sovraffolate e governate dall’ipocrisia proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Non si può andare avanti a dare la tachipirina ha chi ha il tumore. Entro in
carcere dal 2010. Da allora sono passati governi di ogni colore politico ma non
so quanto, ci sia in Parlamento, la volontà trasversale di agire su quanto
avviene dietro le sbarre. Questa non è un’emergenza ma un problema strutturale:
le celle scoppiano, i funzionari sono oppressi dalla burocrazia, non siamo
attrezzati ad affrontare le persone detenute a causa delle dipendenze da nuove
sostanze, spesso manca un accompagnamento per il post detenzione”.
A parlare nelle ore in cui il Vaticano celebra il Giubileo dei detenuti, è don
Roberto Musa, il cappellano della casa circondariale di Cremona, finita sotto i
riflettori nelle ultime settimane per il suicidio di un educatore
giuridico-pedagogico che si è impiccato nel bagno della struttura (il quarto nel
2025 che si aggiunge ai 71 detenuti che si son tolti la vita quest’anno).
Don Roberto, parroco a San Daniele e Pieve D’olmi, insegnante di religione al
liceo “Anguissola” di Cremona, fondatore della cooperativa “Fratelli tutti” dove
operano ex detenuti e disabili, sa che il caso dell’educatore è il pretesto per
denunciare ancora una volta quanto sta avvenendo nelle galere. Ha iniziato a
frequentare quel luogo da diacono e ora da quindici anni conosce uno ad uno gli
uomini condannati ma anche chi lavora dietro le sbarre. E sa che Cremona non è
né meglio né peggio di altre strutture.
Il tema del sovraffollamento resta centrale. A Ca’ del Ferro, dove ci sarebbero
390-400 posti, si è arrivati a ospitare 600 persone che arrivano da ogni parte
della Lombardia. Nulla di nuovo – dirà qualcuno – se non fosse che don Musa lega
questa situazione al carico per il personale.
“Abbiamo solo cinque educatori, una mediatrice culturale, psicologhe e
criminologhe e una direttrice in missione da Bollate. È uno staff giovane,
impegnato, altamente professionale che affianca un personale di polizia
penitenziaria che è stato anche incrementato con due nuovi funzionari. Ma sa
qual è il limite? I detenuti sentono il bisogno di parlare con gli operatori che
sono gravati dalla burocrazia; tante ore di scrivania che limitano il colloquio
con le persone”.
Eccolo uno dei cortocircuiti del carcere. Chi lo frequenta come don Roberto sa
che il vero dramma è quello della “domandina” (richiesta per ottenere ogni
servizio) che resta inevasa; del desiderio di iniziare a lavorare all’esterno
secondo l’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario ma di non poterlo fare
perché la pratica resta sulla scrivania.
Basti pensare che l’educatore che si è suicidato aveva in carico ben tre
sezioni: “Ha sempre lavorato con noi. In una realtà complessa, era riuscito a
costruire belle relazioni umane. Non riesco a dare una risposta a quanto è
accaduto e non è rispettoso darsela. Posso solo dire che per una persona che può
avere delle fragilità non è facile vivere in un contesto in cui si è sempre in
contatto con la sofferenza”. Il cappellano ha chiara la diagnosi: “Come tutte le
carceri lombarde c’è la continua preoccupazione, siamo consapevoli di non
riuscire ad assolvere a pieno alla missione ricevuta perché non ci sono le
forze”.
Don Musa che è affiancato anche da don Graziano Ghisolfi e suor Maria Grazia
della Caritas, solleva un’altra questione: “Abbiamo sempre più detenuti in
situazioni di estrema povertà e persone con problemi psichiatrici. Sono
aumentati i giovani che finiscono dietro le sbarre a causa delle nuove
dipendenze ma non siamo attrezzati per queste persone, il carcere non è il loro
posto. Hanno bisogno di percorsi di un altro tipo: è gente che è malata. A
questi vanno aggiunti coloro che arrivano da noi con la scabbia: per assurdo
hanno bisogno del carcere per superare la rigidità dell’inverno. E poi ci sono
gli stranieri non regolari sul territorio, dietro di loro non c’è nulla, le loro
famiglie sono lontane o inesistenti e non hanno nemmeno la possibilità di
accedere alle misure alternative perché non hanno domicilio”.
La fotografia del cappellano conclude prendendo in considerazione anche i sex
offender o i collaboratori di giustizia che vivono in sezioni separate: “In
questi casi dobbiamo lavorare sul dopo, sull’orizzonte post carcere”.
A Cremona come in tante altre realtà, nonostante la diminuzione dei numeri a
causa della pandemia, ci sono tanti volontari e molte progettualità legate anche
all’alfabetizzazione. Ma non basta. “Dobbiamo farci una domanda seria: crediamo
ancora nell’articolo 27 della Costituzione che indica la rieducazione come
finalità della pena? Non mi sembra che stiamo vivendo quanto dice la nostra
Carta”. Parole pronunciate qualche ore prima su “L’Avvenire” dal Vescovo di
Crema, don Daniele Gianotti, delegato della conferenza episcopale lombarda per
la pastorale carceraria: “Siamo molto lontani da ciò che prescrive la
Costituzione. La beffa è che tutte le statistiche mostrano che quanto peggiori
sono le condizioni di carcerazione, tanto più alta è la probabilità di recidiva.
Se non si cambia registro, le prigioni italiane, anziché restituire alla società
persone che hanno cambiato la vita, prepareranno nuovi delinquenti”.
L'articolo “Io cappellano del carcere dove si è suicidato un educatore dico: non
si va avanti così. Senza rieducazione, si preparano solo nuovi delinquenti”
proviene da Il Fatto Quotidiano.
Nel Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di via Corelli a Milano è in corso
un’epidemia di scabbia. Lo denuncia la rete No Ai Cpr, in contatto con le
persone trattenute nella struttura, secondo la quale ad oggi sarebbero almeno 10
i detenuti contagiati ai quali non è stata garantita nessuna cura. Il Cpr
milanese nel 2023 finì sotto accusa per le condizioni “disumane e infernali” in
cui si trovano le persone con tanto di sequestro e procedimento a carico
dell’allora gestore, La Martinina, che è iniziato la scorsa primavera. Secondo
quanto verificato dagli attivisti, però, continua a essere “un luogo
invivibile”. “Il focolaio di scabbia dimostra il degrado igienico-sanitario di
questo ‘lager’, ma è solo la punta dell’iceberg”, spiega a Ilfattoquotidiano.it
l’infettivologo e attivista della rete Nicola Cocco. “È una sentinella di
un’emergenza sanitaria più ampia che caratterizza il Cpr, un luogo di per sé
patogeno”.
Le prime segnalazioni al centralino della Rete risalgono a circa dieci giorni
fa. Due persone, dopo una valutazione clinica che ha confermato la diagnosi,
sono state rilasciate. “Per parlare di focolaio in un luogo di restrizione
servono più di due casi. Dopo i rilasci, non è stata garantita nessuna visita
agli altri ristretti che presentavano gli stessi sintomi”, denuncia Cocco. “Se
non viene fatta una disinfestazione e le persone rimangono in condizioni di
detenzione la scabbia continuerà a diffondersi, causando pruriti insopportabili
e disagio a persone innocenti”. Una situazione che No Ai Cpr ha segnalato alle
agenzie di tutela della salute, al Garante Nazionale, alla Prefettura e
ovviamente al CPR stesso, “senza ricevere però nessuna risposta”.
Ilfattoquotidiano.it ha a sua volta provato senza successo a contattare la
struttura, l’Ats e la Prefettura per un commento.
Al momento, secondo quanto riferisce a Ilfattoquotidiano.it Teresa Florio,
operatrice legale del centralino Sos Cpr, in un settore di 24 persone già in 10
presentano sintomi compatibili con la malattia. “I materassi e le coperte
rimangono gli stessi, mentre i lenzuolini, che sono di carta e si strappano
facilmente, non sono un filtro efficace”, racconta Florio. Una situazione di
“abbandono e negligenza” analoga, spiega, a quanto accaduto l’estate scorsa nel
Cpr di Gradisca d’Isonzo: “Anche lì c’è stato un focolaio di scabbia. Per non
ammetterlo ed evitare che la Asl dovesse prendere provvedimenti dopo un primo
caso conclamato, le altre persone contagiate sono state rilasciate con una
diagnosi psichiatrica”.
Chi ha la scabbia parla di pruriti insopportabili, che peggiorano nella notte, e
di lesioni diffuse in tutto il corpo. Sintomi gravi ma facilmente curabili, se
solo venisse garantita un’adeguata assistenza sanitaria: “È stata data loro –
riferisce Florio – una pomata antistaminica, assolutamente inutile in questi
casi. Nelle docce poi c’è solo acqua bollente: non hanno sollievo nemmeno quando
si lavano”. Così nell’abbandono generale la disperazione ha il sopravvento e al
centralino della Rete ogni giorno arrivano segnalazioni di tentati suicidi:
“Provano a impiccarsi, si tagliano, la loro vita è rovinata: il Cpr nel migliore
dei casi ti porta ad avere la scabbia, nel peggiore ti uccide”, denuncia Cocco.
La Rete chiede innanzitutto che vengano garantite le cure ospedaliere e che
siano verificate le condizioni igienico-sanitarie della struttura. E ricorda che
nulla, in ciò che sta accadendo, è eccezionale: “Purtroppo la mancata tutela dei
diritti umani è la quotidianità in questi luoghi”. Una realtà già emersa nelle
indagini di due anni fa, in cui gli atti parlano di sporcizia, cibo scaduto e,
ancora una volta, visite mediche negate. E che trova conferma nelle foto e nelle
chiamate che arrivano al centralino dai migranti trattenuti. Materiale che,
osserva Cocco, dimostra come “la detenzione amministrativa sia intrinsecamente
patogena”. Per questo, ribadisce la Rete, “l’unica vera soluzione è chiudere il
Cpr”.
L'articolo La denuncia: “Epidemia di scabbia al Cpr di via Corelli a Milano, 10
contagi ma nessuna cura” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Gentilissima Presidente del Consiglio Giorgia Meloni,
da blogger e attivista che si occupa di tematiche socio-politiche con
particolare attenzione alle disabilità, rimango senza parole e provo un senso di
schifo nel vedere che il suo governo – che, secondo lei, doveva fare la storia –
sta costringendo i disabili e le loro famiglie a pagare in parte o totalmente
gli ausili di cui hanno bisogno e lasciando totalmente nella solitudine i
familiari che assistono le persone disabili, però riesce comunque a trovare 4,3
miliardi per il riarmo.
La pregherei di spiegare in modo chiaro qual è la sua idea e il suo governo nei
confronti delle persone che hanno delle difficoltà, perché se continuate di
questo passo state mettendo in atto uno “sterminio moderno” e abbiamo già visto
in passato a che risultati ha portato questo tipo di impostazione politica.
Si stanno avvicinando le festività natalizie e le persone in difficoltà (non mi
riferisco solo alle persone disabili) hanno bisogno di aiuti reali, di
interventi concreti duraturi nel tempo e non di pietà. Se lei e il suo governo
volete lasciare realmente un segno nella storia, dovete cambiare rotta
immediatamente, garantendo a tutti gli strumenti affinché ogni persona possa
sviluppare le proprie potenzialità interiori e vivere la propria vita in modo
dignitoso, così facendo il paese raggiungerà una maggiore crescita perché ogni
individuo sarà protagonista e si sentirà integrato e accolto nel nostro paese.
Come sempre, rimango a sua disposizione a titolo gratuito. Sperando di ricevere
una risposta scritta, le comunico che verrà pubblicata su questo blog.
Dott. Luca Faccio
Per segnalarmi le vostre storie scrivete a: raccontalatuastoria@lucafaccio.it e
redazioneweb@ilfattoquotidiano.it
L'articolo Mancano i soldi per gli ausili, non per le armi. Presidente Meloni,
qual è la sua idea per i disabili? proviene da Il Fatto Quotidiano.
Era in carcere in Iran da quando aveva 18 anni, e dietro le sbarre ha passato
gli ultimi sette, in attesa dell’esecuzione: era stata infatti condannata a
morte per avere ucciso il marito, un cugino al quale era stata data in sposa,
senza il suo consenso, e l’anno dopo era rimasta incinta. Ma ora Goli Koohkan è
stata salvata grazie a una raccolta internazionale di fondi, rende noto “Nessuno
tocchi Caino”, che il tre novembre aveva segnalato il caso. La scorsa settimana,
i relatori speciali delle Nazioni Unite, compreso il relatore speciale
sull’Iran, avevano formalmente invitato le autorità iraniane a sospendere la sua
esecuzione. Koohkan, di etnia Baluca, ha ottenuto il “perdono” dalla famiglia
della vittima. Ha trascorso gli ultimi sette anni nella prigione di Amirabad a
Gorgan in attesa dell’esecuzione. Al processo ha raccontato di essere stata
sottoposta per anni a gravi violenze fisiche e psicologiche. Quest’anno in Iran
sono state giustiziate più di 50 donne, molte delle quali in circostanze simili.
Secondo l’agenzia di stampa Mizan, vicina alla magistratura, i querelanti nel
caso di Goli Kouhkan hanno accettato di rinunciare al loro diritto
all’esecuzione come punizione. I funzionari giudiziari non hanno rivelato
l’importo pagato, anche se la famiglia della vittima aveva precedentemente
richiesto 10 miliardi di toman (circa 100mila euro), oltre all’esilio permanente
di Koohkan da Gorgan.
L’avvocato di Goli, Parand Gharahdaghi, ha confermato in un post sui social
media che l’originale ‘diya’ è stata ridotta a 8 miliardi di toman (circa 80mila
euro) e che era stata raccolta attraverso donazioni e beneficenza.
Goli è stata condannata al ‘qisas’ (principio della giustizia islamica che in
Occidente viene spesso tradotto, con qualche approssimazione, come “legge del
taglione’) per una lite che ha portato alla morte di suo marito. Assieme a Goli,
anche Mohammad Abil, il cugino della vittima che Goli quel giorno aveva chiamato
in preda alla disperazione, è stato considerato responsabile della morte della
vittima, ed è stato condannato a morte. Va notato che Mohammad rimane nel
braccio della morte e rischia l’esecuzione. Mizan ha scritto che la grazia è
stata concessa “grazie alla mediazione del sistema giudiziario”. Tuttavia,
sottolinea l’ong, fonti indipendenti sottolineano il ruolo delle campagne
pubbliche e degli attivisti per i diritti umani che hanno raccolto il prezzo del
sangue per garantire il suo rilascio. Le sue ex compagne di cella hanno
testimoniato che Koohkan aveva subito anni di violenza domestica e che la morte
di suo marito è avvenuta durante una lite familiare senza premeditazione. Hanno
detto che lei aveva immediatamente chiamato i servizi di emergenza nel tentativo
di portarlo in ospedale. Durante la detenzione, Koohkan ha imparato a leggere e
scrivere ed è stata descritta dalle altre detenute come “la detenuta più calma e
gentile”. Al momento della condanna, Koohkan non aveva accesso a un avvocato
indipendente ed era analfabeta. Gli esperti delle Nazioni Unite hanno descritto
il suo caso come un chiaro esempio di “discriminazione strutturale contro le
donne” in Iran.
(immagine di repertorio)
L'articolo La sposa bambina Goli Koohkan salvata dall’esecuzione in Iran: ha
ottenuto il “perdono” della famiglia della vittima proviene da Il Fatto
Quotidiano.