È un dolore che “ti spacca in due la vita. Un prima e un dopo. E il dopo è stato
molto pesante da affrontare, da accettare”. Con queste parole, in un’intervista
al Corriere della Sera, Rita Dalla Chiesa torna a parlare della notte che cambiò
per sempre la sua esistenza: il 3 settembre 1982, quando suo padre, il generale
Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo, venne assassinato in via Carini
insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta Domenico
Russo.
Dalla Chiesa ricorda con lucidità quasi dolorosa l’istante in cui intuì che
qualcosa di irreparabile era accaduto. Era distesa sul divano, guardando un
film, quando ricevette una telefonata del compagno dell’epoca, caporedattore al
Tg2. “Mi disse: ‘Rita, andiamo a mangiare un gelato?’”. Un invito anomalo,
soprattutto pochi minuti prima del telegiornale. Lo raggiunse piena di dubbi.
Lui salì in macchina “senza dirmi niente, muto, zitto, e mi fece una carezza”.
Senza domande, guidò verso il Giardino degli Aranci, il luogo che più amava a
Roma. Vi rimase tre ore, in silenzio. “Avevo capito tutto senza che nessuno mi
avesse detto niente. L’unica cosa che non avevo capito è che se ne fosse andata
anche Emanuela. È come se la mia vita si fosse fermata a quando avevo 35 anni”.
La famiglia Dalla Chiesa viveva da anni sotto la minaccia costante del
terrorismo e della criminalità organizzata: “Abbiamo sempre vissuto con addosso
un senso di precarietà infinito. Avevamo ricevuto parecchie minacce. La sera ci
sentivamo e andavamo a letto pensando: anche per oggi è andata”. Anche la prima
moglie del generale, Dora Fabbo, morta nel 1978, aveva vissuto nel terrore:
“Stava attaccata al Tg1 perché voleva sapere, voleva sentire. Se n’è andata per
un infarto a 54 anni: viveva con la paura perenne che potesse succedere
qualcosa”. Palermo, gli anni più duri e un padre diverso da quello pubblico Il
periodo delle Brigate Rosse fu “il più duro”, confessa Dalla Chiesa, che
paradossalmente si sentì più tranquilla quando il padre venne mandato a Palermo
come prefetto: “La ritenevo una città amica, ci avevamo vissuto tanti anni”.
Dietro l’immagine austera del generale, però, c’era un uomo affettuoso: “Era
molto tenero con noi e con i suoi carabinieri. A Natale c’era sempre un posto a
tavola per chi non poteva tornare a casa”. Da bambina, Rita ricorda soprattutto
la sua difficoltà con la matematica: “Se n’è andato senza riuscire a farmi
capire che cinque per zero fa zero. Mi mise davanti cinque mele per spiegarmelo.
Io rispondevo che erano sempre cinque”. “Con i nipotini si scioglieva”,
racconta. Permetteva loro tutto, persino toccargli la divisa con le mani sporche
d’olio. E si metteva in porta per giocare a calcio. Quando lei era adulta,
usavano parole in codice nelle telefonate per timore di intercettazioni: “Mi
diceva: ‘Che fai stasera, prepari le patatine per Giulia?’ Significava che
sarebbe passato a cena”. Dalla Chiesa ricorda il funerale e le polemiche di quei
giorni. Disse ai fratelli: “Nessuno di noi deve piangere oggi, non diamola vinta
a nessuno”. Ancora oggi non ha perdonato Giulio Andreotti, che giustificò la sua
assenza dicendo che preferiva “i battesimi ai funerali”: “Non gliel’ho mai
perdonata. Mai”. E definisce “una ferita” anche la frase di Leonardo Sciascia,
che parlò di “imprudenza” del generale: “Non è mai stato imprudente. Aveva già
fatto una cernita dei collaboratori legati alla mafia. Quella parola non la
accetto”.
In tv, ricorda con nostalgia la conduzione di “Parlamento In” e i vent’anni a
“Forum”. Un rapporto finito male, per un fraintendimento: “Mi era stata detta
una cosa che non era vera. Sarei dovuta andare a Milano da Pier Silvio
Berlusconi. È un rimpianto”. Oggi il programma non riesce nemmeno a guardarlo:
“È come vedere mio marito con un’altra”.
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che ti spacca in due la vita. Forum? È come vedere mio marito con un’altra””:
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