O akland, California 1982. Nancy Reagan è in visita alla Longfellow Elementary
School in un tailleur bianco ghiaccio, la vediamo in quell’aura lattiginosa che
danno le vecchie riprese di esterni in technicolor, basterebbe un granello di
polline portato dal vento a corrompere il candore del cotone, tanto è severa e
assoluta la sua bianchezza. Fuoricampo, un colpetto secco dietro le spalle dato
dalla maestra e una bambina dai boccoli biondi ‒ di cui non sapremo mai il nome
– entra nel video, si avvicina alla signora presidentessa e le chiede “Cosa dirò
se uno dei miei compagni mi offre della droga?”. La first lady la avvolge con lo
sguardo obliquo delle sante penitenti: “Just say no”. Questa è la storia,
probabilmente inventata, delle tre parole che diventeranno il mantra della
crociata contro la droga intrapresa da Nancy Reagan durante tutti gli anni
Ottanta. Una frase semplice che sottintende un’ideologia precisa: la droga non è
una questione sociale o legislativa ma una questione privata che ogni buon
borghese, dotato di educazione e moralità sufficiente, può sbrigare da solo.
Basta dire di no.
Quella era soltanto la vetta della lunga parabola del proibizionismo
statunitense: nel 1968 la campagna elettorale di Richard Nixon aveva usato
l’arma della War on drugs per colpire i suoi due nemici giurati, gli hippy e le
minoranze razziali; nel 1961 dopo anni di propaganda anti-marijuana il senatore
Harry Jacob Anslinger aveva convinto l’ONU a unificare tutti i trattati sul
controllo della droga nella Single Convention on Narcotic Drugs, accolta
minuziosamente da 168 Paesi nel Patto atlantico con l’obiettivo di “eliminare la
canapa entro venticinque anni”; era lo stesso Anslinger che un quarto di secolo
prima aveva architettato l’emanazione del Marihuana Tax Act nello Stato della
Louisiana – divenuto poi legge federale con la firma del presidente Roosevelt –
che tentava di sradicare, attraverso una pesante tassazione, la vendita di
quella pianta il cui uso era stato diffuso qualche decennio prima dagli
immigrati messicani. Era il 1937, l’anno zero del proibizionismo occidentale,
l’origine del contagio.
La classe dirigente americana non ci aveva messo molto a dimenticare che le
bozze della dichiarazione d’indipendenza erano state vergate su carta di canapa,
così come la Bibbia di Gutenberg nel lontano 1453. Allo stesso modo nessuno
menzionava più George Washington o Thomas Jefferson come entusiasti coltivatori
di canapa. Questa la storia che racconta L’erba e le sue buone ragioni (2025) di
Nadia Ferrigo, già autrice del podcast L’erba del vicino sulle conseguenze della
legalizzazione della cannabis in 25 Stati americani, prima di passare ad
analizzare anche il rapporto nostrano con l’erba.
> Nel 1968 la campagna elettorale di Richard Nixon aveva usato l’arma della War
> on drugs per colpire i suoi due nemici giurati, gli hippy e le minoranze
> razziali.
Il proibizionismo di Washington infatti non ci mise molto ad attraversare
l’Atlantico per radicarsi ferocemente anche in Italia, oggi uno dei baluardi
europei della guerra alle droghe. Dove tuttora il dibattito istituzionale è
costantemente dominato dalle dichiarazioni dell’attuale vicepresidente del
consiglio dei ministri Matteo Salvini che, per fare solo un esempio, interrogato
dalla stampa estera sulle idiosincratiche politiche proibizioniste italiane,
riferendosi direttamente alla cannabis ha argomentato: “Questa è merda, come si
dice a Oxford”. Salvini, con l’operazione “Scuole sicure” come ministro
dell’Interno durante il governo Conte del 2018, aveva portato in 598 istituti
scolastici 26.000 agenti. Un dispiegamento di forze che includeva: controlli con
i cani nelle scuole, installazione di nuovi sistemi di videosorveglianza e
straordinari pagati per gli agenti; possiamo calcolare – lo fa per noi Ferrigo
nel suo libro ‒ un costo sui contribuenti per ogni grammo di sostanza
sequestrato (14,7 chili) di circa 500 euro al grammo. Un pessimo affare.
Le direttive atlantiche contro la cannabis sono state declinate in Italia fino
ad arrivare all’iconoclastia: come nell’estate del 2024, quando l’attuale
governo ha proposto di vietare “l’utilizzo di immagini o disegni, anche in forma
stilizzata, che riproducono l’intera pianta di canapa o sue parti su insegne,
cartelli, manifesti e qualsiasi altro mezzo di pubblicità per la promozione di
attività commerciali”, pena la reclusione da sei mesi a due anni e la multa fino
a 20.000 euro. Ma nonostante questi tentativi roboanti di eradicare la cultura
della canapa dal suolo italiano, questa rimane stabile e diffusa se, con circa
sei milioni di consumatori, l’Italia è una delle nazioni europee con il più alto
consumo.
Più che avere radici “all’inferno” ‒ come si leggeva sulla locandina di Reefer
Madness, il lungometraggio propagandistico di Louis J. Gasnier contro la
cannabis, uscito nelle sale americane nel 1936 – in Italia almeno, la cannabis
sembra averle profondamente radicate a Carmagnola, Piemonte. Intrecciando storie
locali e universali che poco hanno a che fare con un consumo patologico, quanto
piuttosto con un patrimonio sociale condiviso, Ferrigo racconta: “erano di
canapa i primi jeans della storia, capo prediletto dagli operai del Settecento
che dal Piemonte andavano a Marsiglia per fabbricare le gomene delle navi: la
loro giubba dal taglio dritto e corto, chiamata Carmagnole, segnò lo stile
giacobino di marinai, braccianti e contadini. E Carmagnole è anche l’inno dei
sanculotti, i più radicali tra i partigiani della Rivoluzione francese”. Un
patrimonio immateriale collettivo strategicamente e violentemente espropriato:
“con il proibizionismo di casa nostra, preso pari pari dagli Stati Uniti, la
canapa non è scomparsa, ma si è trasformata da patrimonio della collettività a
prodotto del mercato illegale”.
> Nel 1961 l’Italia recepisce la Convenzione unica sugli stupefacenti approvata
> dalle Nazioni Unite e rende la cannabis illegale, un processo che terminerà
> nel 1975 con l’emanazione della legge Cossiga che rendeva impossibile
> qualunque tipo di coltivazione di canapa, anche a scopi industriali.
Nel 1961 l’Italia recepisce la Convenzione unica sugli stupefacenti approvata
dalle Nazioni Unite e rende la cannabis illegale, un processo che terminerà nel
1975 con l’emanazione della legge Cossiga che rendeva impossibile qualunque tipo
di coltivazione di canapa, anche a scopi industriali, eradicando così anche gli
ultimi ettari presenti nel Paese. È proprio in questi anni, con la diffusione
del proibizionismo statunitense, che “a livello mondiale emerge una figura
inedita: quella del tossicomane, giovane consumatore di sostanze, in particolare
di eroina e di cocaina. Per usare una parola cara alla destra italiana: il
‘drogato’, categoria sociale da stigmatizzare e combattere”. Il sogno – o meglio
l’illusione autoritaria – di vietare “l’esercizio di una facoltà umana praticata
a livello di massa”, come definiva il drogarsi Marco Pannella, baluardo italiano
della lotta antiproibizionista, non punta tanto a eradicare quella “facoltà
umana” quanto a isolare chi la pratica, a rimuove il tessuto sociale di cui
prima sentiva di fare parte, lasciandolo in balia di una medicalizzazione e
criminalizzazione dell’atto.
Quale altra differenza sussiste oggi tra il consumo di alcolici e quello di
qualunque altra sostanza, se non una puntuale distruzione di qualunque forma di
conoscenza, cultura, cura e socialità intorno all’atto del consumo? L’abbiamo
visto con il decreto antirave, con la persecuzione delle sostanze cerimoniali
come l’Ayahuasca e accade ogni giorno con la cannabis. Quale altro obiettivo se
non la stigmatizzazione del consumatore, la sua atomizzazione sociale, hanno
decreti come l’ultima modifica al Codice della strada che non richiede più di
accertare l’alterazione dello stato psicofisico del guidatore ma soltanto
l’esistenza nel suo sangue di possibili tracce di THC (tetraidrocannabinolo, il
maggiore principio attivo della cannabis) presenti anche da giorni?
Mentre in Italia prospera il proibizionismo con la sua caccia alle streghe –
storiche conoscitrici della cannabis – tutto il mondo riscopre le possibilità
curative della canapa, la ricerca scientifica riprende gli studi sulla pianta e
la legalizzazione si diffonde a macchia d’olio. Un processo innescato, non tanto
dalla lungimiranza del presidente socialista Pepe Mujica che nel 2013 rendeva
l’Uruguay il primo Paese a legalizzare il consumo, la produzione e la vendita di
cannabis, quanto dagli Stati Uniti che, dalla legalizzazione in Colorado nel
2014, hanno avviato una diffusa legiferazione antiproibizionista che oggi
coinvolge 25 Paesi. La nuova liberalizzazione della cannabis parte proprio da
lì, dallo Stato da cui la piaga del proibizionismo si era diffusa rapidamente in
tutto il mondo: quello stesso Stato oggi ammette il suo errore e propone
benevolo la sua cura, anzi è pronto a venderla.
> Mentre in Italia prospera il proibizionismo con la sua caccia alle streghe –
> storiche conoscitrici della cannabis – tutto il mondo riscopre le possibilità
> curative della canapa, la ricerca scientifica riprende gli studi sulla pianta
> e la legalizzazione si diffonde a macchia d’olio.
In The new normal, il cortometraggio antiproibizionista di Spike Jonze, uscito
nel 2019 e finanziato da MedMen, il più elegante tra i dispensari di cannabis
statunitensi, vediamo un piano sequenza digitale che passa attraverso le diverse
ricostruzioni etnografiche dietro le vetrine di un grande museo: da George
Washington coltivatore di canapa ai tempi bui del proibizionismo, fino alla
nuova normalità: niente tossici, “freakkettoni”, madness, solo la classe media
che consuma cannabis per il proprio wellness. La cannabis può diventare così il
nuovo prodotto di consumo o perfino di posizionamento sociale, non a caso MedMen
è spesso definita “the Apple of pot”. Sul finale assistiamo a una breve scena in
ufficio: rampanti impiegati che imbracciano tablet su cui crescono rapidamente
delle cifre, è la nascita di un nuovo fiorente mercato globale del benessere, è
questa l’ultima promessa della cannabis. Purtroppo, tolta quella che coltivava
Washington, di piante nel cortometraggio non se ne vedono, vediamo solo i
risultati – ottimi – della vendita al consumatore finale.
Sembra di assistere a un nuovo caso Juicero, la macchina per centrifugati smart
che qualche anno fa prometteva di spremere “rapidamente e a freddo” dei
pacchetti preconfezionati di frutta e verdura (ognuno contrassegnato dal proprio
colore/chakra), venduti separatamente a circa otto dollari l’uno. Siamo come al
solito nella Silicon Valley e Doug Evans, fondatore della startup, era riuscito
a ottenere da diversi investitori finanziamenti per un valore di 120 milioni di
dollari. Era cominciata così la produzione e la vendita di Juicero, la
“Nespresso dei centrifugati” dal costo di 700 dollari, fino a quando un video
postato su Internet non aveva dimostrato che spremendo a mano i pacchetti si
otteneva quasi la stessa quantità di succo con la stessa rapidità.
Il rischio anche qui è di farci vendere – da chi aveva tentato di “eliminare la
canapa entro venticinque anni” ‒ in un nuovo packaging indubbiamente invitante,
quella stessa pianta che, è doveroso ricordarlo, cresce naturalmente a quasi
tutte le latitudini, è resistente e facile da coltivare dentro o fuori casa. Un
nuovo Juicero insomma. Più che la legalizzazione, appunto, un nuovo mercato
della cannabis. Non più restituire quella cultura condivisa del consumo alle
comunità che ne sono state espropriate, ma dividerle attraverso il setaccio
della concorrenza mercantile tra consumatori – meglio se raffinati e abbienti –
e produttori, nuovi imprenditori a caccia di profitto.
È proprio questa la situazione che fotografa Honeydew, il documentario di Marco
Bergonzi e Micheal Petrolini, uscito nel 2024 per Indyca. Nella località
sperduta della California che dà il nome al titolo, dalla fine degli anni
Settanta si era formata una stramba comunità di hippies and rednecks, tutti
accomunati dalla voglia di tentare una vita lontano dalle costrizioni della
società.
Sissy, uno degli abitanti di Honeydew, la lunga barba e i capelli bianchi che
scendono su un vestitino a quadri scozzesi, racconta di averne sentito parlare
per la prima volta mentre fumava erba con dei ceffi ad Arcata, una città sulla
baia di Humboldt, California, quando aveva quindici anni: “c’erano dei tipi con
i capelli lunghi, dei vestiti mimetici e la barba, stavano girando delle canne
enormi. Dicevano di venire da Honeydew. Così eravamo lì a fumare e mi dissero
che a Honeydew la gente andava in giro con armi automatiche, tipo i fucili M16,
e non c’era polizia. E per me, che ero cresciuto in libertà vigilata ad Arcata,
il solo pensiero di poter vivere in un posto senza polizia mi sembrava un
miracolo”. Quella che racconta Sissy, mentre gira una canna, è la sua versione
del sogno americano. Ora vive in un caravan a Honeydew da più di quarant’anni e
conclude: “Poi qui l’erba è leggendaria e a me piace molto fumarla”.
> Il rischio è che questa legalizzazione crei solo un nuovo mercato della
> cannabis. Non più restituire quella cultura condivisa del consumo alle
> comunità che ne sono state espropriate, ma dividerle attraverso il setaccio
> della concorrenza mercantile tra consumatori e produttori, nuovi imprenditori
> a caccia di profitto.
Alternando fotografie di boschi incontaminati a partite di baseball organizzate
dalla comunità, il documentario continua a raccontarci i suoi abitanti. C’è
Maureen che si è trasferita lì dopo aver comprato un vecchio scuolabus in cui
viveva con le due figlie, canta le sue canzoni folk mentre ondeggia su un asse
di legno in equilibrio su un tronco posato a terra nel suo soggiorno. Insieme
alla figlia Monica gestisce una piccola coltivazione casalinga, ma racconta di
faticare a stare al passo con le nuove leggi: “è come stare con qualcuno che
cambia costantemente le regole”.
A Honeydew vivono anche Gary e Ladonna, sono sposati, cappellini di cotone
tenuti bassi sugli occhi e vecchie t-shirt di parchi naturali americani. Anche
loro coltivano e ricordano di aver fatto parte di “una comunità molto unita
prima della legalizzazione”; non hanno mai avuto bisogno di telecamere
nonostante abitino lì da trentacinque anni, ma il mese scorso hanno subito un
furto, qualcuno è entrato in casa loro e ora sentono il bisogno di acquistare
delle armi. Gary si lamenta: “non siamo mai stati minacciati quando c’era il
mercato nero. Ma da quando è legale sembra ci siano più rischi. Per non dire che
nel mercato legale spesso non veniamo pagati, ora le persone ci derubano”.
Mentre Gary fa un tiro dalla grossa canna che tiene in mano, Ladonna continua
strascicando la voce: “Una volta sapevi con chi avevi a che fare quando venivano
a comprare da te. Ora ci sono i distributori autorizzati che possono derubarti
senza mai pagare. Ti danno una ricevuta di vendita e tanto basta. Se vuoi
ottenere i tuoi soldi devi fargli causa”. Gary le passa la canna, anche Ladonna
fuma e restano a fissare i trofei di caccia sulle pareti in penombra del diner
in cui sono seduti.
Poi c’è Cody, lo vediamo nel suo pickup, aspira una boccata di fumo denso dal
suo bong di vetro e lo ripone nella custodia; sua madre è arrivata a Honeydew da
San Francisco nel 1979, aveva fatto parecchi soldi spacciando LSD ai turisti
appena arrivati in aeroporto e per evitare il rischio di essere beccata in città
si era trasferita lì. Ora Cody, insieme alla sua fidanza Taryn, che è incinta,
gestisce una fiorente azienda di coltivazione di cannabis, una delle più grandi
della zona: ha già cinque serre che pompano aria sulle cime giorno e notte, per
fine anno ne costruirà altrettante in fondo alla valle. “Il nostro obiettivo è
dimostrare alle grandi aziende del sud che i ragazzi come me hanno the mindset
and the drive per trasformare ciò che era visto negativamente in qualcosa che
ora è positivo, e che possono guadagnarsi da vivere con questo”, e mentre parla,
Gary mostra le centinaia di piante che crescono nelle sue serre; “non è solo
coltivare erba, è difficile da spiegare…” si blocca interdetto e guarda Taryn al
suo fianco, lei lo soccorre con quella parola che gli sfugge: “è creare un
business”. Fuori dalla serra Cody mostra orgoglioso la sua nuova macchina per il
trimming (la rifinitura finale delle cime d’erba dalle foglie) a due rivenditori
arrivati da San Francisco: “fa un lavoro migliore delle persone. Anche se odio
ammetterlo”. Poi lo vediamo fare i conti dei ricavati dalle vendite del raccolto
autunnale, mostra le banconote dal grande taglio raccolte in mazzette da delle
striscioline di carta; sono duecentocinquantamila dollari, “ecco
duecentocinquantamila dollari” dice sorridendo in camera.
> Iniettato il germe del mercato capitalista, quello che nell’illegalità era un
> sistema autonomo e autosufficiente, collassa insieme alle relazioni di mutuo
> aiuto che lo regolavano.
Anche per Maureen è ora del raccolto, le sue piante crescono in esterno per via
dei costi delle serre, le mostra a un gruppetto di ragazzi messicani che sono
arrivati lì per il lavoro stagionale; costano meno e lavorano bene. Cerca di
spiegare dove sistemare le cime e dove buttare le foglie, dove accatastare i
vasi e i supporti di bambù, ma il problema della lingua si fa sentire, i ragazzi
rispondono in spagnolo, lei annuisce sperando che abbiano capito. Per
selezionare le cime buone da quelle non conformi si fa aiutare da un gruppo di
amiche, la raggiungono a casa, si siedono in cerchio per chiacchierare tra di
loro mentre separano i rametti di cannabis in due diversi contenitori. Qualche
settimana più tardi sarà costretta a riconsegnare la licenza e chiudere la sua
attività, non riesce più a stare al passo con le richieste della distribuzione,
stretta tra tassazione, resi, raccolti non conformi e la concorrenza che non
lascia più spazio ai piccoli coltivatori come lei.
Quella restituita nel ritratto di Bergonzi e Petrolini è una comunità autentica,
che sottoposta alle pressioni del nuovo mercato inaugurato dalla legalizzazione,
si smembra, perde identità, non è più capace di alimentare le relazioni umane su
cui si era costruita, definitivamente spezzate dalla concorrenza economica.
Iniettato il germe del mercato capitalista, quello che nell’illegalità era un
sistema autonomo e autosufficiente, collassa insieme alle relazioni di mutuo
aiuto che lo regolavano. Come il proibizionismo rappresenta un problema non
soltanto in quanto criminalizzazione di un comportamento diffuso, ma soprattutto
come sradicamento di un patrimonio comune fatto di conoscenza, abitudini,
relazioni e cura; così anche la liberalizzazione e la regolamentazione delle
droghe, se fatta secondo presupposti neoliberisti, sembra riproporci questa
stessa serie di problemi. Come uscire da questo cul-de-sac e restituire
finalmente la sua genuina dignità alla cannabis e alle persone che ne fanno uso?
La risposta, come spesso accade, può venire da una rilettura attenta e
consapevole del passato. Tra i tanti (R. Gordon Wasson, Graves, Alan Watts,
Timothy Leary, Bergson) che durante tutto il Novecento hanno lottato per
riscoprire e divulgare la conoscenza delle droghe, Ugo Leonzio è ancora troppo
poco conosciuto e studiato. Quando nel 1969 pubblica per Sugar Il volo magico –
un ‘libromondo’: manuale, trattato filosofico, zibaldone di aneddoti, tentativo
di una storia generale delle droghe – il proibizionismo ha già falciato la
cannabis e incombe sull’LSD e le tante sostanze psichedeliche da poco riscoperte
(ne ha scritto qui Agnese Codignola). Leonzio già al tempo comprende
perfettamente che quello del proibizionismo è un problema prima di tutto
pedagogico: una forma di analfabetismo, l’oblio della lingua delle droghe.
> In un mondo ancora preda delle forze del capitalismo, in cui ogni cosa può
> esistere solo in funzione della possibilità di divenire merce o capitale,
> bisogna saper scegliere per quale tipo di antiproibizionismo si combatte.
“L’invisibile è sempre stato il regno delle sostanze psichedeliche e delle
droghe in generale, ciascuna con il suo universo estensibile, con i suoi dèi e
con le sue promesse. Fra tutte le cause di questa splendida immaginazione che le
droghe (come chiamarle ormai?) hanno prodotto, la principale è la lingua che
esse vorrebbero parlare”. Una lingua, quella descritta da Leonzio, che è anche
della cannabis e che oggi corrotta, disprezzata, dimenticata, potrebbe
scomparire del tutto. Proprio perché il rischio è di perdere per sempre quel
dialogo intimo o pubblico che si può stabilire con ogni forma di vita, possibile
solo grazie a quella conoscenza condivisa che è stata patrimonio di ogni società
che con la cannabis ha convissuto pacificamente per millenni.
Poi all’improvviso una luce intensa, un faro alogeno che può accecare più del
buio assoluto: “Se le droghe appartengono all’invisibile, l’invisibile
appartiene al sacro e questo spiega il motivo per cui tutte e tre sono ormai
scomparse dal mondo: un eccesso di visibilità. A niente oggi è concesso di
rimanere nella riposante luminosità dell’invisibile”. Glamour. Il desiderio si
impossessa della persona attraverso gli occhi. Tutto ciò che è in vendita deve
essere esposto, visibile. Tutto ciò che è nascosto, intimo, sussurrato non
rappresenta che un ostacolo alla mercificazione. Conclude Leonzio: “Tutto deve
essere illuminato, nominato e disposto in uno spazio tanto artificiale quanto
previsto e prevedibile”. Una vetrina. La vediamo approssimarsi nel nostro
futuro. Ricca di prodotti ordinati ed esposti alla vendita, questo è lo spazio
in cui rischia di ritrovarsi la cannabis (insieme a qualunque altra droga prima
proibita e poi restituita come prodotto).
In un mondo ancora preda delle forze del capitalismo, in cui ogni cosa può
esistere solo in funzione della possibilità di divenire merce o capitale,
bisogna saper scegliere per quale tipo di antiproibizionismo si combatte: se
vogliamo fare della cannabis un’altra merce da banco o la vogliamo restituire al
suo ruolo primario di pianta, sapienziale, curativa, sciamanica o benevola che
sia. Una pianta. Non una merce ma una forma di vita.
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