L’ intero universo e tutti i suoi fenomeni fisici possono essere ricondotti a un
unico modello matematico? C’è stato un tempo in cui ci si illuse che fosse
possibile, quando a Stephen Hawking veniva assegnata la cattedra, che in epoca
moderna era stata di Isaac Newton, all’Università di Cambridge. Nel 1979,
insieme al suo gruppo di ricerca, Hawking lavorava alla teoria del tutto,
chiamata anche TOE (Theory Of Everything). Quello stesso anno, si scatenò una
tempesta improvvisa, che nessuna stazione meteorologica era stata in grado di
prevedere. Nonostante l’attivazione di imponenti operazioni di soccorso, lo
scrittore irlandese James Gordon Farrell perse la vita nella Baia di Bantry. Era
l’autore della cosiddetta Trilogia dell’Impero (1970-1978), una serie di romanzi
sulle conseguenze del colonialismo britannico nel mondo. Qualche mese prima,
Margaret Thatcher vinceva le elezioni e diventava primo ministro del Regno
Unito, incarico che ricoprì per undici anni consecutivi.
Come Hawking, anche Thatcher aveva una sua teoria totalizzante e un metodo per
dimostrarla, ma anche uno scopo ben preciso da raggiungere. La teoria implica
che il capitalismo sia l’unico sistema economico praticabile, al quale non è
possibile contrapporre un’alternativa, ed è sintetizzata nello slogan “There is
no alternative”, contratto in TINA. Il metodo prevede l’attuazione di misure
come le privatizzazioni e il monetarismo, e l’obiettivo era quello di cambiare
la psicologia dei suoi conterranei per portarli a rivivere i grandi fasti del
passato, quando il Regno Unito era la più grande potenza al mondo.
Thatcher intendeva condurre il suo Paese verso il futuro, tornando al passato, e
rafforzare l’orgoglio identitario nazionale attraverso la promozione di una
società atomizzata e individualista. Secondo la sua prospettiva, i cittadini
britannici avrebbero dovuto emanciparsi dall’assistenzialismo statale a partire
dalla questione abitativa: ognuno avrebbe dovuto possedere una casa di proprietà
e questo sarebbe stato possibile attraverso l’erogazione di mutui a tasso
variabile. Nella sua visione, il mondo intero si riconduceva a un unico modello
economico, sociale e politico, secondo i precetti del conservatorismo.
Prometteva di cambiare tutto senza cambiare niente, glorificando le tradizioni e
feticizzando ciò che la storia avrebbe lasciato in eredità al suo popolo.
> Nell’ultima docuserie realizzata per la BBC, Shifty, Curtis mixa filmati
> d’archivio come tracce di un set di musica elettronica, caotico e stordente,
> ripercorrendo gli ultimi vent’anni del Regno Unito, a ridosso del nuovo
> millennio.
Per il giornalista e regista inglese Adam Curtis, Hawking e Thatcher sono due
delle personalità principali connesse dal filo conduttore che percorre gli
ultimi vent’anni del Regno Unito, a ridosso del nuovo millennio. Nell’ultima
docuserie realizzata per la BBC, Curtis mixa filmati d’archivio come tracce di
un set di musica elettronica, caotico e stordente, adottando il tipo di
montaggio caratteristico dei suoi ultimi lavori prodotti per la medesima
emittente. Si intitola Shifty (2025) e condensa in cinque episodi da circa
un’ora molti dei temi cari all’autore, approfonditi in altre produzioni come
HyperNormalisation (2016), il documentario nel quale sostiene che, dagli anni
Settanta in poi, governi, finanzieri e imprenditori dell’industria hi-tech
abbiano progressivamente rinunciato ad affrontare le complessità del reale,
scegliendo di fabbricare un mondo artificiale, più semplice da gestire e
rassicurante da abitare. L’idea di fondo è che la reiterazione di questa
finzione collettiva finisca per trasformarsi in una nuova normalità: un universo
al quale tutti si adeguano, pur di evitare il confronto con il disordine del
presente.
Il concetto di reiterazione (inteso come prassi per rafforzare l’immaginario
egemonico della società dei consumi) è stato indagato anche da Lauren Berlant
nel saggio Cruel Optimism (2011). L’autrice interpreta il presente storico come
un tempo sospeso in cui il desiderio di una “vita buona”, una vita normale, è
paradossalmente condizionato dalla sua impossibilità strutturale di essere
esaudito. L’ottimismo crudele, cifra della condizione neoliberale, nasce proprio
da questo cortocircuito: l’adesione alla normatività e la fede nelle sue
promesse, mantengono i soggetti ancorati a un presente logorante, fatto di
rituali ripetitivi e di speranze differite, come traguardi irraggiungibili e
lontani. In questo senso, sotto la lente di Berlant si teorizza la tenuta del
modello economico capitalistico e la sua forza conservatrice, capace di
perpetuarsi attraverso la produzione di affetti e aspettative.
Semplificare la realtà, ridurla a un’unica interpretazione e creare un
immaginario, una fantasia: è stato esattamente quello che ha prodotto la
leadership di Thatcher, durante l’ascesa e il declino della Lady di ferro,
mostrato in Shifty da Curtis. Quando si producono orizzonti immaginifici, si
manipola anche la realtà, nella sua accezione, più prettamente umana di Storia.
Non a caso, il primo episodio della docuserie è intitolato The land of make
believe, il mondo delle favole, e mette al centro l’illusione politica con la
quale ha incantato i suoi elettori per un decennio. L’episodio si apre con una
breve sequenza, estrapolata dal vastissimo archivio della BBC, che mostra la
Thatcher sull’uscio di una sala da pranzo mentre incoraggia un gruppo di bambini
a entrare nella stanza, assieme a una celebrity discutibile: Jimmy Savile.
> Semplificare la realtà, ridurla a un’unica interpretazione e creare un
> immaginario, una fantasia: è stato esattamente quello che ha prodotto la
> leadership di Thatcher, durante l’ascesa e il declino della Lady di ferro.
Si trattava di un personaggio vicino alla leader dei conservatori, il quale
aveva percorso una parabola che dalle miniere di carbone lo aveva portato a
diventare DJ, conduttore radiofonico e televisivo molto famoso nel Regno Unito.
Solo dopo la sua morte, emersero delle accuse di stupro che intaccarono la sua
memoria. Per molti aspetti, Jimmy Savile incarnava la storia del suo Paese: le
miniere di carbone vennero dismesse a partire dagli anni Ottanta, così come le
fabbriche e le industrie, per essere sostituite da un altro modello economico,
regolato dai mercati finanziari, basato sulla vendita di servizi e sulla
speculazione immobiliare. Era lo stadio germinale del sistema tardocapitalista
nel quale oggi sprofonda l’Occidente, trascinando con sé il resto del mondo.
Curtis mostra agli spettatori il veloce declino politico della storia recente
del suo Paese, ma a differenza dei progetti precedenti, il commento del regista
alle riprese d’archivio non è in voice over, bensì sotto forma di didascalie
narrative. La tesi di fondo del regista è suggerita e mai davvero del tutto
approfondita: sfugge e si dissolve, esattamente come il sistema sociale che
racconta. Ne risulta un vortice caleidoscopico e stordente, accentuato da un
accompagnamento sonoro che va dai Joy Division a Gigi D’Agostino, passando dalla
guerra delle Falkland agli scontri con l’IRA e alla censura della BBC di Relax
(1984) dei Frankie Goes to Hollywood. I cinque episodi di Shifty tengono insieme
house party e storia economica, cultura pop e guerre imperialiste; accennano a
cospirazioni e segreti, massoneria e aristocrazia, nuovi poveri e false
promesse, come quelle di Thatcher ai suoi elettori, ma anche di Tony Blair e
Gordon Brown. Si allude anche alla “Stalker Inquiry”, la commissione
parlamentare istituita per indagare sugli abusi delle forze di polizia
britanniche in Irlanda del Nord, immediatamente archiviata. Dalla visione
dell’intera serie, si potrebbe dedurre che Curtis volesse trasferire al suo
pubblico il comune sentire di quelle due decadi di fine Novecento, sospese verso
un futuro inconsistente, vuoto come le ragioni che spinsero all’edificazione del
Millennium Dome, l’arena polifunzionale che fu costruita a Londra per ospitare
una grande esposizione celebrativa del terzo millennio.
> I cinque episodi di Shifty tengono insieme house party e storia economica,
> cultura pop e guerre imperialiste; accennano a cospirazioni e segreti,
> massoneria e aristocrazia, nuovi poveri e false promesse.
La docuserie è costellata di personalità ambigue, oggetto di scandali, come
Geoffrey Prime, un’ex spia britannica, condannato per abusi sessuali su minori e
per aver rivelato informazioni riservate all’Unione Sovietica. Curtis si
sofferma anche su Cecil Parkinson, segretario di Stato sotto il primo governo
Thatcher, costretto a dimettersi dall’incarico quando la sua relazione
extraconiugale venne a galla. Poi, la corruzione di alcuni esponenti dei Tory,
uno fra tutti Ian Greer, coinvolto in prima persona nel “cash-for-questions
affair” insieme all’imprenditore egiziano Mohamed Al-Fayed, che aveva rilevato
il famoso centro commerciale di lusso Harrods. Curtis si sofferma su Al-Fayed in
diversi episodi di Shifty e nell’ultimo monta un estratto di un’intervista
durante la quale l’imprenditore afferma, senza alcun rimpianto, di aver fatto
affari con Greer semplicemente perché voleva fare soldi. Infine, si autoassolve
e dichiara, con parecchio sdegno, che un grande paese come il Regno Unito si era
ridotto a essere amministrato da un gruppo di delinquenti senza morale né etica.
Oltre agli scandali, le clip selezionate da Curtis raccontano anche i grandi
eventi cardine del suo Paese alla fine del Novecento, come il Big Bang: il boom
dei consumi fondato sul debito e destinato a provocare molto presto l’ennesima
crisi delle borse britanniche. Un’altra tempesta violenta e improvvisa si
scatena sui cieli del Regno Unito, proprio quando la bolla esplode e arriva al
culmine con il Black Monday, uno dei crash finanziari più drammatici del
ventesimo secolo. La transizione verso i nuovi assetti economici e produttivi
non comporta una rivoluzione reale nelle configurazioni del potere, che resta
nelle mani di quelli che lo hanno sempre detenuto. Eppure, rispetto ai rapporti
di forze, Curtis registra un cambiamento di equilibri: è la cultura ad
allontanarsi dal mondo della politica per divenire parte dell’industria del
tempo libero, del lifestyle e dell’intrattenimento. L’arte diventa merce e le
fabbriche sono trasformate in loft dagli imprenditori del mercato immobiliare.
Si gentrifica il sapere così come i quartieri, demolendo ricordi personali e
memoria collettiva per fare spazio alle catene della grande distribuzione
organizzata, come Netto e Tesco.
> Rispetto ai rapporti di forze, Curtis registra un cambiamento di equilibri: è
> la cultura ad allontanarsi dal mondo della politica per divenire parte
> dell’industria del tempo libero, del lifestyle e dell’intrattenimento. Si
> gentrifica il sapere così come i quartieri.
Rispetto al ruolo dell’arte e della cultura, sia indipendente sia mainstream,
Curtis aveva esplorato tematiche affini nella docuserie Can’t Get You Out Of My
Head (2021), in cui l’attenzione si spostava sull’individuo occidentale odierno,
immerso in un mondo privo di grandi narrazioni collettive. L’emancipazione dai
miti, che in passato orientavano il senso di appartenenza al sistema sociale
egemonico, istiga i singoli individui a generare autonarrazioni proprie per
interpretare e condizionare la realtà. Tuttavia, queste storie personali non
sono mai totalmente originali; al contrario, restano intrecciate alle strutture
di potere e ai modelli del passato, mostrando come il soggetto atomizzato
continui a operare entro i limiti dei sistemi che lo trascendono.
Anche in questa docuserie, l’analisi di Curtis si muove a partire da una visione
materialista della storia: le trasformazioni dei rapporti di produzione e delle
dinamiche di potere globali costituiscono lo sfondo su cui si regge l’intero
racconto, articolato in otto ore di filmati d’archivio. Allo stesso tempo, il
regista non riduce la complessità degli ultimi decenni a un’etichetta unica come
“neoliberalismo”, preferendo argomentare come l’intera classe politica abbia
delegato progressivamente all’apparato finanziario il governo della società,
trasformando il denaro nell’unica misura possibile della realtà, anche in campo
artistico e culturale. In questo scenario, gli individui, pur credendo di essere
liberi, sono intrappolati in una gabbia entro la quale tutto è quantificato e
strumentalizzato secondo criteri economici e di utilità.
Dalla fine del Novecento a oggi, molte cose sono cambiate e la gabbia ha
cominciato a farsi sempre più stretta, inadatta a contenere la complessità della
realtà odierna, ossia quella di un mondo globalizzato e iperconnesso. La
frattura nell’immaginario neoliberista in crisi è mostrata nel quarto episodio
di Shifty anche attraverso la messa in discussione della Teoria del tutto
elaborata da Hawking, superata da quella del multiverso. Secondo Curtis si può
evidenziare una corrispondenza dinamica fra le scoperte scientifiche e i sistemi
sociali che le generano: associa la rivoluzione scientifica a quella
industriale, la Theory of everything all’individualismo estremo della
massificazione dei costumi di fine Novecento, mentre la teoria del multiverso
riflette la complessità e la frammentazione del mondo contemporaneo segnato
dall’avvento di Internet.
> La frattura nell’immaginario neoliberista in crisi è mostrata anche attraverso
> la messa in discussione della Teoria del tutto elaborata da Hawking, superata
> da quella del multiverso, in una corrispondenza dinamica fra scoperte
> scientifiche e sistemi sociali.
L’ultimo episodio della serie termina con un estratto di un’intervista a David
Bowie, il quale sosteneva come almeno fino alla metà degli anni Settanta, la
percezione comune fosse quella di essere sotto l’egida di una società modellata
da una cultura di massa, monolitica e univoca. Verso gli anni Novanta, il
paradigma dominante iniziò a sgretolarsi in molteplici narrazioni. Rispetto a
Internet e alla sua diffusione, Bowie lo definì come una “forma di vita aliena”
dal potenziale “inimmaginabile, esaltante e terrificante” allo stesso tempo. Le
parole del Duca bianco si perdono nelle note di Absolute Beginners. La docuserie
termina con una successione di commenti scritti, nella forma di intertitoli, con
i quali il regista si domanda se l’individualismo nel quale la società
occidentale è stata catapultata sarà mai rovesciato dalle persone che
scopriranno un nuovo senso di unità; oppure se aspirare alla rivoluzione possa
essere solamente un retaggio nostalgico, innescato dal loop storico nel quale
oggi si trova l’umanità.
Nonostante l’ampia risonanza ottenuta, una parte della critica britannica ha
espresso giudizi più cauti su Shifty, ritenendola meno originale rispetto ai
lavori precedenti di Curtis. Alcuni hanno osservato che la docuserie non apporta
nuove prospettive, limitandosi a reiterare temi già esplorati. In alcuni
passaggi, la narrazione è risultata persino ingenua, specialmente quando il
regista si lascia andare ad affermazioni improbabili, come quando sentenzia che
le privatizzazioni sono state inventate dai nazisti. Altri interventi critici
più equilibrati hanno riconosciuto il valore estetico e simbolico della serie,
sottolineando la sua capacità di costruire suggestioni visive e sonore, ma ne
hanno comunque evidenziato la difficoltà nel produrre un discorso inedito
rispetto al corpus complessivo delle produzioni precedenti.
L’impressione generale è che Shifty riproponga un universo concettuale già noto
agli spettatori più avvezzi alle sue opere, senza offrire una vera e propria
evoluzione concettuale o teorica. Se non altro, l’ultima docuserie di Curtis ha
il merito di accendere l’attenzione su un tema: il capitalismo non è affatto il
sistema migliore possibile, da auspicare quasi come se fosse una conseguenza
necessaria nella progressione dei fatti storici. Credere che sia il modello più
efficace è semplicemente una credenza, un mito. Per certi aspetti, è esattamente
ciò che sosteneva Mark Fisher quando definiva il capitalismo come una forma di
dominio ideologico, capace di colonizzare ogni aspetto della vita.
> La docuserie di Curtis ha il merito di accendere l’attenzione su un tema: il
> capitalismo non è affatto il sistema migliore possibile, da auspicare quasi
> come se fosse una conseguenza necessaria nella progressione dei fatti storici.
E se persino la storiografia e l’analisi dei fatti storici fosse stata
colonizzata dal pensiero egemonico capitalista? L’antropologo David Graeber e
l’archeologo David Wengrow, autori di L’alba di tutto. Una nuova storia
dell’umanità (2021), riprendono la tesi dello storico delle religioni Mircea
Eliade secondo la quale la concezione lineare del tempo è un’invenzione
relativamente recente, che può essere ricondotta principalmente a due fattori
interconnessi: il pensiero escatologico delle religioni abramitiche residuale
nella concezione evoluzionistica della storia umana di derivazione positivista.
Parafrasando Eliade, Graeber e Wengrow sostengono che la prospettiva temporale
progressiva ha spodestato quella ciclica della filosofia greca antica e delle
“società tradizionali”, con “catastrofiche conseguenze sociali e psicologiche”.
Nella concezione lineare del tempo i fatti storici accadono come rivoluzioni che
irrompono e cambiano il corso degli eventi, come in un dipanarsi di “sequenze
cumulative” necessarie all’evoluzione della civiltà umana: si pensi alla
rivoluzione agricola del Neolitico, a quella scientifica in epoca illuminista o
a quella industriale di fine Ottocento. Descrivere la storia come un susseguirsi
di accadimenti radicali improvvisi ha delle conseguenze. La tesi di Graeber e
Wengrow è che questo tipo di approccio storiografico sia ideologico, per non
dire mitologico, e che abbia delle implicazioni politiche, rendendo l’umanità
meno capace di “affrontare le traversie della guerra, dell’ingiustizia e della
sfortuna, gettandoci invece in un’età di ansia senza precedenti e, a lungo
andare, di nichilismo”. Accettare la logica del dominio e considerare
inevitabile che la civiltà umana tenda verso l’accumulo di ricchezze significa
raccontare la specie umana come “molto meno premurosa, creativa e libera” di
quanto non lo sia.
L’ultimo capitolo del saggio L’alba di tutto si conclude con una serie di
considerazioni a proposito del nichilismo insito nella concezione lineare del
tempo, teso verso un progresso inesauribile. Una tale concezione inibisce la
possibilità di considerare la storia come l’insieme di scelte collettive, lente
e stratificate, attraverso le quali le comunità hanno deciso quali pratiche
adottare nella vita quotidiana e quali confinare alla sperimentazione o al rito.
Ciò che vale per la creatività tecnologica vale, naturalmente, ancora più per la
creatività sociale. Il dominio dell’uomo sulla natura, le società gerarchiche e
l’accumulo di ricchezze o la logica del profitto non erano inevitabili. Non è
affatto corretto sostenere che non esista un’alternativa; semmai, per dirla con
Graeber e Wengrow: “Se qualcosa è andato storto nella storia dell’umanità […]
forse prese a farlo proprio quando gli uomini persero la libertà di immaginare e
di attuare altre forme di esistenza sociale […] al punto che ora alcuni
ritengono che questo particolare tipo di libertà non ci sia mai stato, o non sia
mai stato esercitato, per quasi tutta la storia dell’umanità.”
> Descrivere la storia come un susseguirsi di accadimenti radicali improvvisi ha
> delle conseguenze. La tesi di Graeber e Wengrow è che questo tipo di approccio
> storiografico sia ideologico, per non dire mitologico, e che abbia delle
> implicazioni politiche.
Lo stesso sistema neoliberista che incita al pensiero “out of the box”, che
invita a essere non convenzionali (“Stay hungry, stay foolish”), paradossalmente
impone una reductio ad unum, all’omologazione: “siate diversi tutti allo stesso
modo” è il vero slogan di questi tempi. Ancora, si tratta dello stesso sistema
che continua a ignorare proposte realmente alternative a quelle della narrazione
dominante, come il pensiero tentacolare, lo Chthulucene di Donna Haraway, e che
torna indietro invocando valori reazionari e antiscientifici.
Per uscire dal loop è necessario esercitare la libertà, a partire
dall’immaginazione. La vera domanda è se l’umanità possiede ancora le capacità
per farlo.
L'articolo Shifty. Cos’è andato storto? proviene da Il Tascabile.
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S e si ascolta musica con abbastanza ossessione e compulsività, può avvenire una
metamorfosi della fruizione. Non basta più solo ascoltarla, ma se ne vuole
comprendere il significato. Questa esigenza viene da un sospetto: la sensazione
che dietro ai suoni ci sia qualcosa di molto più grande, come fossero un istmo
in cui si stringe la maestà di un oceano. Allora, il fruitore scopre la critica
musicale.
Il rock criticism – per intendersi, la critica musicale rivolta alla musica pop
– è un canone di testi soprattutto anglofoni che si è sviluppato a partire dalla
nascita del rock’n’roll in America. Chi ci si immerge incontra presto un
proverbio di dubbia attribuzione che vorrebbe affossare il canone stesso:
“Writing about music is like dancing about architecture”. Oltre al fatto che un
balletto classico ispirato alla Reggia di Versailles, o una coreografia hip-hop
che imiti i volumi del MOPOP, il Museum of pop culture di Seattle, sarebbero
quantomeno una cosa interessante a cui assistere, il proverbio non considera che
questo canone vive proprio dell’impossibilità titanica di afferrare l’ineffabile
che sta tra una forma così sfuggente come la musica e una così articolata come
il linguaggio scritto.
A partire dalla fine degli anni Settanta una particolare stagione della critica
rock inizia a prendere di petto quell’impossibilità. Firme come Paul Morley, Ian
Penman, Barney Hoyskyns, poi David Stubbs, Jon Savage e il più acclamato Simon
Reynolds, si armano di apparati filosofici, sociologici, semiotici per guardare
la musica pop come un oggetto culturale complesso, che è un condensato di
circostanze storiche, umane, tecniche. L’idea è che l’oceano intravisto
riverberarsi nella goccia di una canzone sia nientemeno che il suono di un’epoca
intera.
Valerio Mattioli è tra gli autori che in Italia hanno più coltivato questo
approccio interpretativo, per cui scrivere attorno alla musica pop può diventare
un’impresa letteraria a sé stante, con una sua dignità artistica (per quanto
parassitaria rispetto all’arte di riferimento). In questa intervista traccia le
connessioni esistenti tra suoni, contesti socioeconomici, sviluppi tecnologici,
sottoculture giovanili. Il tutto seguendo le trame dei suoi libri: Superonda
(2016), una storia musicale dell’Italia fra gli anni Sessanta e i Settanta;
Remoria (2019), ritratto espressionista-surrealista delle periferie romane;
Exmachina (2022), colonna sonora della trasformazione antropologica mediante cui
l’umano si ibrida con l’agente informatico-cibernetico, e ne viene poi
fagocitato; l’ultimo Novanta (2025), resoconto della frenesia di politica e
musica passata dai centri sociali italiani nel decennio precedente all’11
settembre.
PARTIAMO DA NOVANTA. VORREI METTERLO IN PROSPETTIVA CON ALTRI LIBRI CHE HAI
SCRITTO IN CUI SI PARLA DI MUSICA. IN NOVANTA SI PARLA TANTO DI MUSICA, CI SONO
SEI CAPITOLI SU SEDICI IN CUI È PROTAGONISTA ASSOLUTA. IL TUO PRIMO LAVORO
UNITARIO DI RICERCA È STATO SUPERONDA, CHE HA UN APPROCCIO STORICO, DI STORIA
DELLA CULTURA MUSICALE. POI EXMACHINA, CHE È UNA COSA MOLTO DIVERSA. LÌ IL SUONO
È LO SFONDO, L’AMBIENTAZIONE A CUI GUARDARE PER CAPIRE UN PEZZO DI STORIA
DELL’UMANITÀ. IN NOVANTA INVECE TORNI DI NUOVO SULL’APPROCCIO STORICO, UNA
STORIA DEI MOVIMENTI E DELLE SOTTOCULTURE, IN CUI LA MUSICA È UN PERSONAGGIO –
NON PIÙ L’AMBIENTAZIONE – SEPPURE MOLTO INGOMBRANTE, CHE PERÒ VIVE ANCHE DELLE
RELAZIONI CON ALTRI PROTAGONISTI: LINGUAGGI, IMMAGINARI, MOVIMENTI POLITICI. SE
IN EXMACHINA I SUONI RACCONTANO UN’EPOCA, IN NOVANTA INVECE I SUONI STANNO
DENTRO UN’EPOCA, E INTERAGISCONO CON MOLTI ALTRI FENOMENI CULTURALI NEL CREARNE
L’AFFRESCO. LA COSA CHE AVVICINA QUESTI DUE LAVORI È CHE IN ENTRAMBI I CASI LA
MUSICA È UN PUNTO DI VISTA PRIVILEGIATO PER COMPRENDERE UNA TEMPERIE. PERCHÉ LA
MUSICA E I MODI ESPRESSIVI CHE LE GIRANO INTORNO – VESTITI, ARTI VISIVE,
ATTEGGIAMENTI, GESTI, IN SINTESI, LE CULTURE SONORE – SONO UN PUNTO DI VISTA
COSÌ PRIVILEGIATO PER COGLIERE LO SPIRITO DEL TEMPO?
La musica pop, nel senso più ampio del termine, intesa come musica non colta –
un cappello in cui ci puoi mettere tanto Taylor Swift quanto, che ne so, un
qualche rumorista giapponese che fa noise assassino – è un sensore. E anche un
laboratorio storico della modernità. Questo l’aveva già messo nero su bianco
Jacques Attali negli anni Settanta, nel suo libro che si chiamava Rumori, se non
sbaglio…
La musica lo è da tanti punti di vista. Innanzitutto per il ruolo che ha avuto
nel dopoguerra all’interno del mondo giovanile, e per via del ruolo che il mondo
giovanile ha avuto nella definizione dei meccanismi valoriali, comportamentali,
anche economici, dell’Occidente. Ovviamente stiamo parlando della sfera
occidentale. Quindi c’è questo doppio passaggio che pone la musica come
linguaggio preferenziale per capire i mutamenti del mondo in atto in Occidente
dal dopoguerra in poi. Lo è per… come dire, la sua economia politica.
Poi lo è per il fatto di assumere un linguaggio molto immediato, istintivo.
Cioè: la musica pop per lo più è il prodotto di generazioni giovani che si
mettono a fare la loro cosa senza filtri, senza dover passare per le trafile e
gli ostacoli che sovradeterminano altre forme espressive. Anche la scrittura è
un linguaggio molto istintivo, prendi e ti metti a scrivere. Ma la scrittura è,
innanzitutto, solitaria come attività, mentre la musica pop vive in un punto
strano che sta tra l’autorialità delle persone che questa musica la fanno, e il
pubblico che la riceve. La musica pop vive in questo interstizio, che è già di
per sé una posizione strana. La scrittura è solitaria e poi è descrittiva per
sua natura, mentre la musica, in qualche modo, riesce a incorporare proprio
nelle sue stesse forme il tempo presente, e lo fa in maniera non mediata. E
anche completa, perché è la forma espressiva che più di tutte si confronta con,
per esempio, i cambiamenti tecnologici.
PERCHÉ LI USA.
Sì, perché fanno proprio parte del suo armamentario, e questo è un altro punto.
Dopodiché la musica, come fatto sociale, visto il ruolo che ha sempre avuto
all’interno delle culture giovanili, riesce a coagulare attorno a sé dei
fenomeni che sono più genericamente sociali, che sono poi le varie culture e
sottoculture che vedono nella musica un perno, un punto di partenza. Poi da
questo punto di partenza si allargano per contemplare un discorso di tipo
comportamentale, attitudinale, estetico, e persino filosofico… a volte anche in
senso molto stretto. Ci sono delle culture musicali che hanno dato il la a delle
piccole filosofie, delle teorie, quasi, molto ben definite.
E poi, se prendiamo gli ultimi venticinque anni, guarda caso, proprio la musica
è stata sempre il campo di sperimentazione di tutti i grandi sconvolgimenti a
cui abbiamo assistito con il dilagare dell’era informazionale. Dalle nuove
tecnologie, al file sharing, alle piattaforme, allo streaming, è sempre la
musica il banco di prova. Infatti a me che lavoro con i libri fa sempre un po’
ridere e mi cascano un po’ le braccia a vedere quanto il mondo editoriale è
sempre indietro…
GLI ARRIVANO PER ULTIMO QUESTE TRANSIZIONI?
Non solo gli arrivano per ultimo, è proprio che, essendo un mondo molto chiuso,
molto ignorante a volte, all’editore raramente gli viene in mente… come dire, il
mondo editoriale vive sempre di queste crisi, è sempre in crisi continua. “E non
si vendono i libri, e la lettura non esiste più…” ma non gli viene mai da dire:
“vediamo un po’ che è successo nel mondo della musica cinque anni fa”. Perché
quello che è successo nella musica cinque anni fa, capiterà anche a te. Ma
sicuro capita. Quindi la musica è un sensore, è un ambito che vale la pena
studiare anche per capire quali sono le forme del presente, le forme che si
stanno sperimentando sul momento e che dopo diventeranno lingua comune.
HAI USATO LA PAROLA SENSORE… È UNA PAROLA CHE HO LETTO IN NOVANTA: A UN CERTO
PUNTO, MOLTO RAPIDAMENTE, CITI QUESTA “TEORIA DEL SENSORE STORICO” DI PRIMO
MORONI, BALLERINO, STUDIOSO, SCRITTORE, LIBRAIO, AGITATORE CULTURALE, UN
PERSONAGGIO CHE POI APPROFONDISCI PIÙ AVANTI. MI È SEMBRATO CHE, DOPO AVERLA
MENZIONATA, ACCANTONASSI QUELLA TEORIA; INVECE LA TENEVI COME PRINCIPIO
ORGANIZZATIVO DEL LIBRO. NEL BELLISSIMO PASSAGGIO IN CUI INTRODUCI MILITANT A,
IL PRIMO A INCIDERE UN PEZZO RAP IN ITALIANO, SCRIVI CHE LA SUA “È LA STORIA DI
UN CATALIZZATORE – INVOLONTARIO, FORTUITO, ACCIDENTALE – LE CUI GESTA
RIUSCIRANNO NIENTEMENO A CAMBIARE L’INTERO CORSO DEGLI EVENTI”. POI CONTINUI:
“VA BENE, VA BENE: GLI EVENTI SAREBBERO CAMBIATI ANCHE SENZA DI LUI. MA, A
VOLTE, È COME SE LA STORIA AVESSE BISOGNO DI PICCOLE, SINGOLE ANTENNE CHE CON LE
LORO SEMPLICI AZIONI IMPRIMONO SVOLTE DAGLI ESITI IMPREVISTI”.
Per Primo Moroni il sensore era il Leoncavallo a Milano. Tu osservando quello
che succedeva al Leoncavallo, in teoria, secondo Moroni, potevi farti un’idea di
quale sarebbe stata la situazione complessiva nell’ambito dei movimenti. Per
quanto riguarda il discorso delle singole antenne… sai, in realtà, nonostante
possa sembrare in contraddizione con quello che hai appena letto, non sono di
mio una persona particolarmente interessata alla mitologia personale, al
personalismo che individua nella personalità X una specie di figura cristologica
che da sola cambia il percorso degli eventi. Per esempio è una figura retorica
che si usa molto spesso in buona parte della critica musicale.
TIPO JON LANDAU CON “HO VISTO IL FUTURO DEL ROCK’N’ROLL E IL SUO NOME È BRUCE
SPRINGSTEEN”.
Per esempio, certo. Hai tutta questa mitologia che ti prende Bob Dylan, Bruce
Springsteen, questi nomi “che da soli incarnano”… a me quella roba non
interessa. Penso sia una roba noiosa, che serve ad alimentare una mitologia
interna. Oltretutto è stata drammaticamente smentita proprio dalla storia: non
ti aiuta in realtà a leggere i fenomeni e gli eventi. Invece è più interessante
leggere l’evento musicale nel suo complesso, depersonalizzandolo e capendo quali
sono gli effetti che ha questo fenomeno musicale sul mondo, come si intreccia
con le forme e le lingue che il mondo sta sperimentando in quel dato momento in
cui quella forma musicale emerge. Detto ciò, questo contraddice quello che dico
a proposito di Militant A o quello che, qualche capitolo prima, dico a proposito
di Angela Valcavi, la fondatrice della fanzine dark e goth Amen negli anni
Ottanta. Un giorno entra al Leoncavallo e chiede se possono organizzare un
concerto lì dentro ed è da quel primo contatto che il Leoncavallo, che fino a
quel momento – metà degli anni Ottanta – era un posto di reduci sconfitti dalla
storia, ridiventa il centro del radicalismo estetico-politico milanese. Quindi,
se non fosse stata Angela Valcavi, probabilmente sarebbe stata qualcun’altra, o
qualcun altro. Non fosse stato Militant A a fare Batti il tuo tempo, sarebbe
stato qualcun’altra, qualcun altro. Non voglio personalizzare, però quegli
esempi, in qualche modo, sono dei piccoli glitch. Quello che mi interessa semmai
è come un semplice, piccolo gesto provochi il famoso effetto farfalla. La
lezione che mi piace prendere da cose del genere, è che a volte basta solo un
piccolo passetto oltre, per poi produrre delle conseguenze che sulle prime non
ci si aspetta.
IL TUO STILE DI SCRITTURA E DI PENSIERO, QUESTO MODO DI STUDIARE LE MUSICHE E LE
CULTURE SONORE, GUARDANDO A COME PARLANO CON IL MONDO FONDENDO STORIA,
FILOSOFIA, RIFLESSIONE PERSONALE, CON NEL TUO CASO – PENSO A EXMACHINA – ANCHE
UNA COMPONENTE ROMANZESCA DI ALLUCINAZIONI IMMAGINIFICHE UN PO’ OSCURE… È UNO
STILE CHE DEVE MOLTO A TUTTO UN FILONE DI GIORNALISTI-TEORICI, OVVIAMENTE
REYNOLDS, MA ANCHE TUTTO IL GRUPPO CHE CON LUI HA INVASO LA RIVISTA NEW MUSICAL
EXPRESS TRA FINE ANNI SETTANTA E INIZIO OTTANTA: STUBBS, PRIMA ANCORA PAUL
MORLEY, IAN PENNIMAN, BARNEY HOSKYNS. QUESTI AUTORI HANNO CREATO UNA VISIONE
SPECIFICA DELLA CRITICA MUSICALE, IL CUI CREDO SUONA PIÙ O MENO COME: LA CRITICA
MUSICALE SCONFINA E STRABORDA PER FORZA NELL’ANALISI E NELLA CRITICA CULTURALE A
TUTTO TONDO, NEL MOMENTO IN CUI SI RENDE CONTO CHE LA MUSICA POP È TALMENTE
INVISCHIATA NEL RIBOLLIRE DEL MONDO CHE VA STUDIATA PER FORZA INSIEME AL MONDO.
CIOÈ SE PARLI DI MUSICA, DEVI PER FORZA PARLARE DI TUTTO IL MONDO. SECONDO ME
QUESTO È PROPRIO UN GENERE LETTERARIO A SÉ STANTE CHE DÀ UNA CERTA COMPRENSIONE
DEL MONDO. ANCHE TU ALLA FINE PARLI DEL MONDO: IN EXMACHINA I CAPITOLI SONO
DEDICATI A APHEX TWIN, AUTECHRE E BOARDS OF CANADA, MA IL TEMA VERO È LA
RIVOLUZIONE INFORMATICA. PERÒ NE PARLI IN MODO DIVERSO DA QUELLO CHE FA UN LIBRO
DI STORIA NORMALE. SECONDO ME, QUESTO GENERE LETTERARIO DÀ UN MODO DI
COMPRENDERE LE COSE ECCEZIONALE, PERÒ MOLTO OBLIQUO, UN PO’ INIZIATICO, PERCHÉ
NOI – NOI CON LA NOSTRA FORMAZIONE SCIENTIFICA – NON SIAMO ABITUATI A RAGIONARE
COSÌ. SE PENSO “VOGLIO COMPRENDERE ‒ CHE NE SO ‒ LA RIVOLUZIONE INFORMATICA,
DEVO STUDIARE DEI DATI, DEI FATTI FISICI ED ECONOMICI, MAGARI. CI SEMBRA STRANO
DI POTERNE CARPIRE DEGLI ASPETTI IMPORTANTI A PARTIRE DALLA DESCRIZIONE DEI
SUONI NEI DISCHI PUBBLICATI IN QUEL PERIODO. UNA DESCRIZIONE SPESSO FANTASIOSA E
PERSONALE. PERDONAMI SE È UNO SVARIONE, MA MI FA PENSARE A QUELLO CHE DARIO
FABBRI – NON SO SE SEI FAN…
Per niente!
BENE. MA, DICEVO, MI RICORDA QUELLO CHE LUI, NEL SUO AMBITO, DICE DI FARE CON LA
“GEOPOLITICA UMANA”; LUI DICE CHE QUELLO CHE GLI INTERESSA NON È SPIEGARE GLI
SCENARI INTERNAZIONALI A PARTIRE DAI RAPPORTI ECONOMICI TRA GLI STATI, GLI
ARSENALI MILITARI, MA A PARTIRE DAL SENTIRE COMUNE DELLE POPOLAZIONI, DAI LORO
APPETITI, LE LORO PAURE… È UNA COSA CHE A LIVELLO DI RIGORE SCIENTIFICO È MOLTO
LABILE.
È “molto zero”, direi, più che labile. Ma non è solo un discorso di rigore
scientifico. Ad esempio lui oggettifica determinate sensazioni, traslandole in
un piano deterministico, si può dire.
ESATTO. PERÒ IL PARAGONE LO FACEVO PERCHÉ MI SEMBRA CHE IN QUESTA DECLINAZIONE
MOLTO AMBIZIOSA DELLA CRITICA MUSICALE LA SCOMMESSA È PRENDERE PROPRIO DELLE
SENSAZIONI, QUELLE LEGATE AI SUONI – CHE OVVIAMENTE NON SONO SOLO SENSAZIONI
SOGGETTIVE PERCHÉ SONO INSERITE IN DEI CODICI E ANCHE IN DELLE CONDIZIONI
MATERIALI – E, SÌ, OGGETTIFICARLE IN UNA CERTA MISURA.
Allora, innanzitutto, c’è da fare un distinguo tra i miei libri di cui stiamo
parlando. Superonda che era, diciamo, una storia degli anni Sessanta e Settanta
in Italia proprio a partire dalle musiche, è il libro che è più parente di
quest’ultimo, Novanta. Sono i miei due saggi, ecco, saggi di… boh, storia
culturale, senza voler sembrare troppo roboante. Mentre Exmachina, come il
precedente Remoria, per me sono due romanzi.
REMORIA NON L’HO CITATO PROPRIO PERCHÉ LO CONSIDERAVO UN CASO A PARTE INFATTI,
NARRATIVA PURA.
Remoria è un romanzo fantasy, Exmachina è un romanzo di fantascienza. Poi
purtroppo l’editore… ho provato a insistere con Minimum Fax, a dire “mettiamoli
tra i romanzi!”, però capisco che la forma e il fatto che si agganciassero a
delle cose reali, troppo reali, li hanno condannati alla saggistica, e vabbè.
Però, di fatto, si tratta di due libri molto allucinatori. Da un punto di vista
scientifico sono smontabili in due minuti, entrambi i libri. Nell’ambito
mitopoietico, magari no. Quello che mi interessava era più un discorso di tipo
mitopoietico rispetto sia al tema di Remoria, che era la periferia romana, sia
al tema dell’Intelligenza artificiale, che in realtà era il tema per me alla
base di Exmachina. In Exmachina però c’è anche un dato storico, reale, concreto
e molto dimostrabile, cioè il ruolo che un certo tipo di musica elettronica ha
avuto nella definizione dell’immaginario e dello sguardo sul mondo della Silicon
Valley, banalmente.
SÌ, INFATTI, SI AGGANCIA ANCHE A DEI RAPPORTI ESISTITI TRA PERSONE.
È un legame che secondo me andava indagato. È stato indagato già all’epoca.
Prendi dei testi cruciali degli anni Novanta, per esempio Techgnosis di Erik
Davis, che abbiamo ristampato nel 2023 con Nero: è fondamentale lo sguardo che
Davis ha nel capire la preoccupante ideologia che stava prendendo forma nella
Silicon Valley proprio negli anni Novanta, e l’analisi di Davis delle musiche
elettroniche che costituiscono l’ambiente umorale immersivo dell’epoca. O se
prendi degli autori stracitati adesso, Mark Fisher, tutto il giro CCRU –
Cybernetic Culture Research Unit – ancora negli anni Novanta, nomi che hanno
analizzato in grandissima profondità l’impatto delle tecnologie informatiche dal
loro apparire fino a oggi… Di quelli, chi è sopravvissuto continua a indagare
quell’ambito là, a volte su posizioni preoccupanti, come Nick Land che è
diventato, come sappiamo, un filosofo di estrema destra.
Se tu ti guardi i loro materiali, di quando nacque la CCRU, l’unità di ricerca
sulla cultura cibernetica nata a Warwick in Inghilterra, praticamente tre quarti
dei materiali su cui loro lavorano sono le musiche della cultura elettronica del
periodo, la jungle, la techno e così via. Quindi effettivamente c’è un legame
molto stretto, per quanto Exmachina sia un romanzo di fantascienza. Studiando
l’evoluzione di quel suono, puoi trarre delle indicazioni su cosa, diciamo, la
civiltà delle macchine cela dietro di sé, o quantomeno di qual è l’ideologia che
la muove. Per me è molto importante in Exmachina la parte in cui io prendo gli
Autechre come esempio – e altri avrebbero potuto prendere altri musicisti – ma
tramite loro parlo dell’idea che le macchine abbiano una loro agentività e che
siano delle entità… non è giusto dire entità senzienti, perché appunto sarebbe
ricondurle a una visione antropocentrica. Diciamo, esce fuori l’idea che la
logica generativa che sta dietro la Macchina è destinata a ingigantirsi sempre
più fino a soverchiare, a prendere il sopravvento sull’elemento umano. Questa è
una cosa che tu hai già in quelle musiche là, e che adesso ti ritrovi a
dibattere nei post, su Instagram, di questo problema dell’Intelligenza
artificiale di queste cagate che ci troviamo davanti.
Il dibattito attorno a questi temi adesso è veramente indietro rispetto a quello
che già era stato instillato in maniera poetica, visionaria dai musicisti
elettronici che per primi si interfacciarono al linguaggio della Macchina e che
lo presero sul serio. Questa roba l’aveva intuita bene proprio tutto il giro di
CCRU, per esempio una figura come Kodwo Eshun, il cui Più brillante del sole
abbiamo ripubblicato sempre con Nero nel 2021. Era una roba che nella critica
musicale dell’epoca già era molto presente. Adesso sono passati trent’anni e
probabilmente se uno riprendesse alcune di quelle fonti capirebbe qualcosa di
più. Ti dico, il mio grande dispiacere ‒ a cui però sapevo che sarei andato
incontro ‒ è che Exmachina per me era un libro sull’Intelligenza artificiale,
quindi alla gente che conosco che si occupa di questi temi dico, “Ma sai che ho
scritto un libro su questo? Leggitelo!”; ma chiaramente essendo un libro che
parte dalla musica è stato considerato solo da quelli che seguono la musica.
Questo è lo scotto che devi pagare quando parli di musica. La musica è un
linguaggio sempre un po’ guardato con sufficienza dagli altri ambiti culturali.
Non da tutti, però per esempio nel mondo delle lettere c’è una presunzione di
partenza che è nei libri che tu trovi il cuore, la verità… ecco, la riflessione.
PERCHÉ CI SONO LE PAROLE CHE SONO IL CONCETTO, INVECE IL SUONO È UNA COSA
AMORFA.
È amorfa, però al tempo stesso il suono ha questa capacità di essere totalmente
immateriale ed estremamente materiale, cioè definisce e costruisce un ambiente
all’interno del quale tu ti ritrovi immerso. Questo potere è strano se ci pensi.
Non puoi toccare il suono, però se io adesso accendo quella cassa e metto una
musica a palla, noi siamo dentro un ambiente, siamo intrappolati dentro una
quinta, definita da questo banale spostamento.
COME DICEVI È IMMEDIATO, DICIAMO, NON C’È UN DISTACCO, NON C’È UN FILTRO, NON
PUOI DIRE “IO SONO IO E CAPISCO QUESTA COSA CHE STA FUORI DI ME”.
Esatto, arriva contemporaneamente al corpo, alle membra, e poi al cervello. In
alcuni casi anche allo sguardo, c’è una qualità sinestetica della musica che a
volte è indagata, a volte sottovalutata, però è un’altra delle sue qualità.
SULLA SOTTOVALUTAZIONE DELLA MUSICA NEGLI AMBITI CULTURALI, C’È UN LIBRO DI CUI
VOI AVETE SCRITTO SU NOT, DIALECTIC OF POP DI AGNÈS GAYRAUD. LÌ LEI, CONTRO
ADORNO, PROPONE UNA DIFESA DEL POP COME LINGUAGGIO ESTETICO UNIVERSALE, CAPACE
DI ARTICOLARE UNA RIFLESSIONE SUL MONDO TECNOLOGICO E SULLE FORME DELLA VITA
CONTEMPORANEA – NON SOLO COME PRODOTTO STANDARDIZZATO DELL’INDUSTRIA CULTURALE,
MA COME LUOGO IN CUI SI MANIFESTANO UNA SERIE DI TENSIONI: TRA INDIVIDUO E
COLLETTIVITÀ, TECNICA E SENSIBILITÀ, MATERIA E FORMA… PER LEI IL POP NON È
L’OPPOSTO DELLA TEORIA, MA È GIÀ UNA TEORIA IN ATTO, È FILOSOFIA CHE PASSA
ATTRAVERSO IL SUONO E IL CORPO. IN EXMACHINA, IN MODO SIMILE, TRATTI L’IDM
(INTELLIGENT DANCE MUSIC) COME UN PENSIERO INCARNATO, UNA FILOSOFIA DELLE
MACCHINE. PENSI CHE IN ITALIA ESISTA UN PREGIUDIZIO ADORNIANO CONTRO LA
RILEVANZA CULTURALE E POLITICA DEL POP? HO L’IMPRESSIONE CHE ALTROVE, IN AMBITO
ANGLOFONO AD ESEMPIO, I POPULAR MUSIC STUDIES ABBIANO CONQUISTATO SPAZIO E
DIGNITÀ ACCADEMICA, MENTRE QUI IL POP SEMBRA RESTARE CONFINATO A UN IMMAGINARIO
DI CONSUMO O DI COSTUME.
È chiaro che nel mondo anglofono il pop ha una sua rilevanza perché l’hanno
inventata loro la cultura pop come la conosciamo oggi… ma non ti pensare, nel
senso che se senti lo stesso Simon Reynolds, ti direbbe anche lui che, trattando
di musica, è considerato un autore di serie B. Però è vero che senz’altro nel
mondo anglofono l’attenzione è maggiore, ma anche in Francia, ma anche nella
stessa Spagna. L’Italia è veramente…
NON ERA PER FARE GLI ESTEROFILI COSÌ GRATIS EH, È UN’OSSERVAZIONE.
No, no, senz’altro in Italia più che un pregiudizio c’è una certa… arretratezza.
Poi pare che stai a fare la cantilena “l’Italia rimane sempre indietro”, ma è
vero. C’è un discorso a monte su come è strutturata la cultura italiana, con
l’imprinting classico idealista. E un discorso su come poi questo è stato messo
in discussione da tutta una serie di nomi: il più famoso è Umberto Eco, che
invece prende e ti analizza anche i fumetti. Ma anche Eco muove da una posizione
che distingue i famosi “alto” e “basso”. Non è che ci si deve mettere a litigare
con una figura come Eco, un gigante del Novecento, ma al tempo stesso anche Eco
si muove all’interno di un panorama culturale ancora segnato da
quell’imprinting.
Su Adorno, in realtà, non so quanto ci sia di adorniano nella diffidenza
italiana verso il pop. Anzi, recuperiamolo un po’. Adorno prese senz’altro delle
cantonate micidiali, cioè le sue pagine sul jazz sono comiche sostanzialmente,
perché ti fanno vedere quanto veramente lui non avesse colto, non capisse di
cosa stava parlando. Al tempo stesso Adorno diceva una cosa non sbagliata, cioè
che le musiche popular sono parte di un’economia capitalistica che è fondata
sulla merce e quindi sono anche merce. Questa merce ha anche un valore
filosofico, come dice Dialectics of Pop, ma ce l’ha proprio perché è interna al
meccanismo merce, non si chiama fuori da quel contesto. Recupererei una briciola
adorniana.
In Superonda, si parla un po’ di questo: l’Italia è un Paese strano, perché uno
dei maggiori eventi socialmediatici, sociologici, che arrivano ogni anno, è il
Festival di Sanremo, basato sulla musica, sulle canzonette. Eppure proprio il
modo in cui viene interpretata la presenza della canzonetta in Italia è sempre
qualcosa a metà tra l’epifenomeno e il guizzo folcloristico, cioè non vale mai
la pena prenderla troppo sul serio.
CHE INTENDI PER EPIFENOMENO?
Un fenomeno secondario, un’espressione secondaria di una cultura. E questo poi
si riflette anche nel modo in cui la canzone italiana viene concepita, cioè ha
delle regole molto ferree, molto rigide, un melodismo esasperato, le produzioni.
Sì, l’Italia non è il caso di scuola.
NEL CAPITOLO DI NOVANTA INTITOLATO UNDERGROUND, OVERGROUND, MAINSTREAM, PARLANDO
DI QUELLO CHE ALL’EPOCA NEL ROCK ITALIANO SI CHIAMAVA “CROSSOVER”, CIOÈ BAND
COME BLUVERTIGO E SUBSONICA, SCRIVI CHE QUEI GRUPPI SAREBBERO STATI
INCONCEPIBILI SENZA IL LAVORO PREPARATORIO DEI CENTRI SOCIALI, E IL FATTO CHE
SIANO ARRIVATI DA LÌ A SANREMO “MOSTRA LA FACILITÀ CON CUI IL SISTEMA SAPEVA
ASSORBIRE QUALSIASI SPINTA PROPULSIVA DAL BASSO PER TRASFORMARLA IN MERA MERCE
STERILIZZATA”, E CHE QUINDI “IL CROSSOVER ERA UN MODO COME UN ALTRO DA PARTE
DELL’INDUSTRIA DI COPRIRE UNA FETTA NUOVA DI MERCATO VENENDO INCONTRO AI GUSTI
DI UN PUBBLICO ‘MIDBROW’, TROPPO GIOVANE PER ACCONTENTARSI, MA TROPPO TIMOROSO
PER SPINGERSI DOVE LA RIVOLUZIONE COLAVA DAVVERO”. ALLA LUCE DEL FATTO CHE
ESISTONO QUESTI MECCANISMI TRAMITE CUI IL MERCATO VAMPIRIZZA I SUOI POTENZIALI
NEMICI UNDERGROUND E LI ASSORBE, SECONDO TE È POSSIBILE UNA CONTROCULTURA OGGI?
IN REALTÀ TI HO SENTITO DIRE CHE PREFERISCI USARE IL TERMINE SOTTOCULTURA,
MAGARI MI SPIEGHERAI PERCHÉ. IN QUESTO CASO LA DOMANDA DIVENTA: È POSSIBILE UNA
SOTTOCULTURA CON UNA CARICA ANTAGONISTICA? SECONDO ME QUELLO CHE ACCADE CON I
SOCIAL MEDIA E GLI ALGORITMI È CHE LE SOTTOCULTURE CHE UN TEMPO, FINO AGLI ANNI
NOVANTA, ERANO MOVIMENTI FONDATI SU DEI VALORI, INTERESSI CONDIVISI E DELLE
COMUNITÀ CONCRETE, SOLIDE E CEMENTATE, INVECE ADESSO SEMBRANO INNANZITUTTO
RIDOTTE AL LORO ASPETTO ESTETICO; IN PIÙ SONO DELLE ESTETICHE EFFIMERE E
DECORATIVE, TANT’È CHE SPESSO VENGONO PRESE DI PESO E USATE A FINI DI MARKETING.
NON È RARO VEDERE UN TIPO DI ESTETICA SOTTOCULTURALE CHE DIVENTA LA MOODBOARD DI
UNA CAMPAGNA PUBBLICITARIA, O PROPRIO DI UN PRODOTTO. POI C’È UN ALTRO ASPETTO:
UN ANTROPOLOGO CHE SI CHIAMA TED POLHEMUS SOSTIENE CHE I GIOVANI NON CREANO PIÙ
SOTTOCULTURE, MA SI MUOVONO COME IN UN SUPERMERCATO, ARRAFFANDO E MESCOLANDO
STILI E SIMBOLI PRESI DA SOTTOCULTURE DIVERSE, PASSATE E PRESENTI, SENZA LEGAMI,
RIDUCENDO LE COMUNITÀ A UN INSIEME DI ELEMENTI VISIVI PRIVI DI IDEOLOGIA
CONDIVISA. ALTRI INVECE, COME TIM STOCK, OSSERVANO LA NASCITA DI NUOVE
MICROSOTTOCULTURE ONLINE, MENO LEGATE A ESTETICHE E PIÙ A DETERMINATE NARRAZIONI
O OPINIONI CONDIVISE… TU COME LA PENSI?
Non conosco Ted Polhemus, è importante?
NON LO SO SE È IMPORTANTE, L’HO TROVATO SU INTERNET COME QUALSIASI COSA.
“Ted Polhemus, antropologo americano…” c’è anche la pagina Wikipedia, è del
1947, insomma… In realtà, quello che dici tu, mettendolo in bocca Ted Polhemus,
ricorda molto quello che dice Hiroki Azuma, un teorico giapponese, di cui Nero
ha pubblicato nel 2024 un altro testo dei primi anni Duemila, Otaku. Tu sai
cos’è un otaku?
NO, E NON CONOSCO AZUMA.
Beh, gli otaku di base… Ma che è ’sta foto qua… di Ted Polhemus dico. No, perché
sembra una rock star…
È LUI DA GIOVANE, FORSE? UN MEZZO HIPPIE.
Sì… comunque, in Giappone gli otaku vengono descritti come giovani ragazzi,
perlopiù maschi, appassionati in maniera maniacale di anime, manga e
videogiochi. Costruiscono la loro totale identità sulla passione maniacale per
questi linguaggi della cultura pop. Azuma notava come gli otaku non fossero
soltanto dei ricettori passivi di questi prodotti, ma adottassero uno spirito
che trasformava questi prodotti culturali in data base, cioè degli archivi dove
ci sono diverse tipologie di personaggi, di storie, di estetiche, che poi
venivano assemblati e riutilizzati dagli otaku stessi, secondo una logica che
Azuma chiama di “accumuladati”. Questo effettivamente è l’approccio che trovi
nelle sottoculture online contemporanee che descrivi anche tu, dove c’è questo
prendere di qua e di là per costruire… e non è una logica passiva. In questo
senso l’elemento sottoculturale c’è, è il patchwork… ed è una pratica attiva,
non la svilirei.
Io preferisco il termine sottocultura a controcultura perché l’unico periodo
storico in cui probabilmente ha senso parlare di controcultura, con la C
maiuscola, è quello in cui proprio la stessa controcultura è nata, cioè negli
anni Sessanta e Settanta, in cui, appunto, la cultura giovanile ha preso delle
strade, e dei linguaggi, la musica rock di allora su tutti, interfacciandosi con
l’epoca delle contestazioni giovanili… La controcultura lì si configurava – come
il nome stesso dice – come una cultura contro e alternativa a quella ufficiale.
La guardava da pari a pari, proponendosi come avversaria alla stessa, quindi con
una funzione dialettica rispetto alla cultura ufficiale, alla quale però,
evidentemente, riconosceva uno statuto ineludibile di interlocuzione. Il
paradosso della controcultura, se vogliamo, è che definendosi come cultura
alternativa a quella ufficiale, finiva per ribadire lo statuto della cultura
ufficiale. In quel momento il mondo giovanile contestatario era talmente forte
che poteva effettivamente proporsi come polo alternativo, polo opposto. Di là ci
siete voi, i vecchi, la cultura ufficiale; di qua ci siamo noi, i giovani, con
la cultura nuova basata su valori alternativi e differenti da quelli che ci
propinate voi.
E questo è un discorso che si esaurisce già con lo spegnersi di quella stagione.
Già il punk, per esempio, è una storia diversa, e tutto quello che è emerso
dagli anni Ottanta in poi difficilmente acquisisce quei crismi così
onnicomprensivi della controcultura degli anni Sessanta e dei primi Settanta. La
sottocultura è diversa perché ragiona soprattutto per logiche tribali, cioè: noi
siamo un gruppo piccolo, medio, grande, ma comunque un gruppo che lavora sotto…
ecco, mi piace prendere l’espressione sotto-culturale in termini non svilenti,
ma concentrandoci su quel “sotto”. Non come subcultura, quindi cultura derivata,
ma cultura che opera sotto quella ufficiale, in maniera totalmente slegata: la
cultura ufficiale può avere i suoi valori, a noi non ce ne frega niente, noi
abbiamo i nostri, siamo totalmente autosufficienti e dobbiamo rispondere solo
alle altre persone che condividono questi codici assieme a noi, quindi agli
altri membri interni della tribù. In questo senso il punk era molto più una
sottocultura che una controcultura. Poi le sottoculture, dal punto di vista –
per così dire – ideologico, naturalmente sono molto più ambigue che la
controcultura, la nobile controcultura di un tempo. Ci sono delle sottoculture
che sono profondamente, apertamente reazionarie. Ce ne sono altre, invece, più
ambigue, in cui magari esteriormente le forme sono reazionarie, conservatrici,
preoccupanti, predatorie, ma poi se vai a vedere i codici interni tutto diventa
più scivoloso e complesso.
Per esempio in Remoria io mi concentravo molto sui coatti come sottocultura,
perché da una parte sono questa specie di esaltazione iperviolenta, machista
della vita di borgata, dall’altra se vai a vedere dentro i comportamenti delle
stesse tribù di coatti, scopri un mondo molto più ambiguo, in termini di
relazioni tra sessi per esempio, in termini di come veniva esplicitata la
mascolinità. L’apparenza esteriore celava un rapporto maschio-femmina molto più
articolato di quello che poteva sembrare a uno sguardo esterno. E poi ci sono le
sottoculture che, a partire dalla logica tribale, si impossessano anche di una
critica radicale all’esistente, e là assomigliano più alla controcultura. Anche
negli anni Novanta possiamo parlare di controcultura in questo senso qua. Poi
negli anni Novanta anche in Italia c’era chi continuamente gettava il ponte tra
gli anni Sessanta degli hippie e gli anni Novanta degli hacker cyberpunk. Io,
nel libro penso sia chiaro, trovo poco precisa questa lettura.
Però perché siamo arrivati a parlare di questo? Parlando dell’oggi, senz’altro
ci sono sottoculture. Fino a tempi recentissimi quella memetica era una
sottocultura. Dico fino a tempi recentissimi perché ormai c’è fior fiore di
critica interna alla sottocultura memer stessa su cosa è diventata da qualche
tempo a questa parte, sul fatto che ormai è pura maniera, è tutto troppo
codificato… però se ci pensi quella dei memer è stata una sottocultura che in
alcuni ambiti ha avuto anche, sia da un lato che dall’altro, delle svolte
radicali. C’è stata la cultura memer di destra, che ha definito tutti gli
immaginari dell’alt-right. Però c’è stato anche il suo contraltare. Non lo so, è
strano, perché quello che definiva una sottocultura tribale fino a non molto
tempo fa era anche l’aspetto molto fisico di condivisione degli spazi, dei
corpi. Naturalmente l’online smaterializza tutto e quindi si diluisce anche il
recinto che definisce. Puoi scivolare da un recinto all’altro senza farlo sapere
agli altri. Le sottoculture aiutavano molto anche a definire l’individuo tra sé
e sé, erano uno strumento di empowerment, adesso invece l’identità è sfumata…
però non so dove si può arrivare con questo discorso. Non mi starei a
preoccupare. Ogni stagione ha bisogno dei propri linguaggi.
UN’ULTIMA DOMANDA, SEMPRE SULLE PROSPETTIVE FUTURE, MA IN QUESTO CASO DELLA
MUSICA. IN FUTUROMANIA, SIMON REYNOLDS PERCORRE TUTTI I SUONI CHE HANNO VISTO
LONTANO, LE MUSICHE DEL PASSATO E DEL PRESENTE CHE HANNO EVOCATO IL FUTURO.
NELLA CONTEMPORANEITÀ, AD ESEMPIO, INDIVIDUA ALCUNI ARTISTI DELLA TRAP AMERICANA
ESEMPI ANCORA FUNZIONANTI DI QUESTA SPINTA INNOVATIVA. IL LIBRO SI PONE COME
CONTROCANTO A RETROMANIA, CHE INVECE MOSTRAVA LA TENDENZA DELLA MUSICA POP A
GUARDARE OSSESSIVAMENTE AL SUO PASSATO – E ALLA HAUNTOLOGY DI FISCHER, CHE
DESCRIVE COME CERTI GENERI MUSICALI SIANO PERSEGUITATI DA FANTASMI DEL PASSATO O
DALLA NOSTALGIA PER UN FUTURO NEGATO. SECONDO TE, QUALI SONO OGGI I SUONI DEL
FUTURO? LA MUSICA CONTEMPORANEA RIESCE ANCORA A PROIETTARSI IN AVANTI?
Beh, è un altro discorso molto scivoloso. Empatizzo con Reynolds: così come
altri autori è cresciuto e si è formato in un periodo storico in cui le musiche
pop sembravano seguire un percorso di progressione continua e quindi c’era
evoluzione costante, secondo un moto lineare. Era una freccia che puntava sempre
avanti, che era poi il moto lineare tipico dello sguardo occidentale e del
progresso come ideologia dell’Occidente. Questa freccia a un certo punto è
entrata in un ambiente alieno, straniero, che è appunto quello della Macchina.
L’esito ultimo dello spingere avanti, avanti, avanti, avanti: alla fine si è
oltrepassata una membrana, una soglia che è quella della Macchina, dove questo
moto lineare del tempo non ha più senso, non ha più senso per come ragiona la
Macchina stessa. Quindi anche i prodotti culturali che nascono dal relazionarsi
con la Macchina lo riflettono.
PERCHÉ LA MACCHINA ASSEMBLA COSE CHE GIÀ ESISTEVANO IN PRECEDENZA?
La temporalità della Macchina è diversa. C’è il fatto di assemblare quello che è
stato fatto in precedenza ma c’è anche un moto più spiraliforme in cui elementi
del futuro vengono proiettati dal passato e viceversa. Da qua si è aperto un
dibattito che ci accompagna da vent’anni: dalla lenta cancellazione del futuro
di cui parlava Mark Fisher alla retromania di Simon Reynolds. Qual è la causa?
Il fatto che Internet permette la compresenza di tanti materiali del passato;
poi c’è una sovrapproduzione di materiali e quindi annaspiamo nella
sovrabbondanza di immaginari che produciamo e abbiamo prodotto nei decenni
passati; c’è il realismo capitalista che, certificando che “there is no
alternative” non lascia spazio al nuovo…
Non lo so, io ad esempio in Exmachina mi concentro più su come la Macchina
stessa opera. Siamo in una temporalità di tipo diverso e quindi ragionare sui
suoni del futuro lascia un po’ il tempo che trova. Cioè, se pensi ai suoni, alle
musiche che negli ultimi anni più sono state considerate futuribili, che siano
la trap, la drill, l’hyperpop o le forme di musica da club decostruita, sono in
realtà dei suoni che riflettono un tempo presente. È difficile paragonarle a
quel future shock che poteva avere l’avvento di un genere nuovo nel 1992, quando
arriva la jungle, una roba mai sentita prima. Fino alla settimana prima quel
suono non c’era, la settimana dopo era ovunque, era qualcosa di totalmente
diverso. Di per sé ti faceva dire: “questa è musica del futuro”. Negli anni
Novanta hai tutti questi linguaggi musicali che solleticano il gusto per la
costante tensione verso l’avvenire che, ripeto, ha un’impostazione da sguardo
sul tempo assoluto occidentale. Se prendi altre tradizioni, lo sguardo sul tempo
è diverso e quindi anche quest’ansia che abbiamo sui suoni del futuro viene
meno, non è un motivo di preoccupazione.
Mi chiederei piuttosto quali sono i suoni più “utili” al presente, quelli che ti
aiutano a decodificare meglio il tempo in cui li trovi. Se domani, per
paradosso, capiamo che la musica fatta a voce e chitarra acustica, la forma più
passatista e retrò immaginabile, è importante per noi, ci sarà un motivo e va
preso sul serio proprio perché la musica è, dicevamo all’inizio, un prodotto
immediato e non mediato di circostanze più ampie.
GIÀ È IMPORTANTE LA FORMULA CHITARRA E VOCE, PER ESEMPIO NELLA LO-FI.
Certo. Naturalmente quello che c’è adesso è una parcellizzazione estrema in
microscene minuscole. Però al tempo stesso hai dei linguaggi diventati così
tanto mainstream… ad esempio il rap nelle sue mille sfaccettature ora è una
lingua franca che può mettere d’accordo dalla ragazzina di undici anni che
guarda, che ne so, Soy Luna in televisione – a undici anni magari non se lo
guarda più – al teppista di strada, il maranza.
Bisogna tenere a mente poi che anche quelli che una volta chiamavano suoni del
futuro erano suoni del presente. Non esistono i suoni del futuro. Come sola idea
è strana: da dove arriverebbe un suono del futuro? Negli anni Novanta questo
suono del presente veniva considerato del futuro perché il futuro stesso era un
tema nel presente dei Novanta. Andrebbe un po’ attorcigliata la questione.
Comunque, la Macchina ragiona diversamente.
L'articolo Che suono ha un’epoca? proviene da Il Tascabile.
L’ 11 novembre 2023 l’account ufficiale del ministero degli Affari esteri
israeliano ha pubblicato il video di un’infermiera, in preda al panico, che
denunciava l’invasione dell’ospedale Al-Shifa a Gaza City da parte di Hamas,
accusato di aver rubato morfina e carburante. Un’esplosione interrompe la sua
denuncia concitata, dando una prova tangibile dell’attacco. Al Jazeera chiederà
l’autenticazione del video a Earshot, la prima organizzazione no profit a
utilizzare il suono per la difesa dei diritti umani. L’analisi acustica rivelerà
che il suono dell’esplosione presenta un profilo completamente diverso rispetto
a quello della voce registrata nella stanza: le frequenze attivate non
coincidono, e pare che il rumore dell’esplosione sia stato aggiunto al video in
un secondo momento. Il video è pertanto un falso.
L’autenticazione è solo una delle modalità di indagine sonora di Earshot,
l’audiobalistica è un’altra. Per Forbidden Stories, un network internazionale di
giornalisti, Earshot ha analizzato l’attacco ai due giornalisti di ArabTV che
stavano filmando un raid israeliano in Cisgiordania nel maggio 2024. L’analisi
acustica ha confermato le testimonianze secondo cui gli spari, entrambi diretti
ai giornalisti, provenivano da più posizioni, da più di un tiratore, e che il
secondo sarebbe stato sparato con alta probabilità dalla posizione in cui si
trovavano i veicoli dell’esercito israeliano. L’analisi prova quindi che
l’esercito israeliano ha aperto il fuoco sui giornalisti.
Earshot pratica anche la profilazione sonora, utile a identificare e isolare le
fonti di suono non visibili nelle registrazioni. Tra il 2007 e il 2022 ha
indagato sulla presenza illecita di aerei militari israeliani sui cieli
libanesi, ha profilato e documentato meticolosamente le 22.355 violazioni aeree
illegali di veicoli israeliani. Ne è nato AirPressure.info, uno studio che ha
permesso di rendere evidente la violazione del territorio e l’esercizio di
sorveglianza e di intimidazione sui milioni di persone che vivono in Libano.
> Earshot pratica la profilazione sonora, utile a identificare e isolare le
> fonti di suono non visibili nelle registrazioni ed è derivato dalla più ampia
> ricerca nel campo delle indagini audio e analisi forensi dell’artista Lawrence
> Abu Hamdan, con l’obiettivo di dare voce alle comunità vulnerabili.
Earshot è derivato dalla più ampia ricerca e dal lavoro nel campo delle indagini
audio e analisi forensi dell’artista Lawrence Abu Hamdan, con l’obiettivo di
dare voce alle comunità vulnerabili. Lawrence Abu Hamdan ha una formazione da
musicista e una profonda conoscenza delle tecnologie che circondano la
produzione musicale, per questo tende a non definirsi propriamente un artista,
piuttosto un “private ear” giocando con l’espressione “private eye”, cioè
detective privato, sostituendo eye (occhio) con ear (orecchio). Al di là delle
definizioni, si pone quindi come testimone di crimini alla soglia della
percettibilità, e a partire dall’osservazione dei confini della visibilità e
dell’udibilità, si propone di documentare e riprodurre gli eventi che li hanno
generati.
Due le premesse di questa pratica, la prima, storico-giuridica, è stata
l’introduzione del Police and Criminal Evidence Act (PACE), la legge introdotta
nel 1984 nel Regno Unito che ha innescato una rivoluzione nelle pratiche
testimoniali e nella definizione legale della “verità”. Questa legge ha imposto
che gli interrogatori di polizia venissero registrati, sostituendo la prassi
della trascrizione scritta da parte degli agenti con le registrazioni. Questo ha
trasformato la testimonianza da forma scritta a orale, aprendo a una nuova
modalità di ascolto che ha inciso profondamente sia sul modo in cui viene
percepita la voce del soggetto interrogato, sia sulle norme che ne regolano
l’uso.
La seconda premessa, filosofica, è stata la svolta materiale nella fenomenologia
dell’ascolto. Il lavoro di Lawrence Abu Hamdan deve molto alle ricerche di Peter
French, docente del Dipartimento di Lingua e scienze linguistiche
dell’Università di York. French inaugura un approccio profondamente materiale al
suono, inteso come un oggetto fisico, con un corpo e una presenza concreta,
qualcosa che si può analizzare, sezionare e replicare. L’ascolto di conseguenza
si offre come strumento capace di comprendere l’anatomia del suono e di farne
emergere una quantità sorprendente di informazioni: il tipo di spazio in cui è
stato registrato, il dispositivo utilizzato, la provenienza geografica di una
voce, e magari anche l’età, le condizioni di salute o l’origine etnica della
persona che parla.
Il suono, che era stato letto dalla tradizione filosofica come un’esperienza
soggettiva, un elemento a-storico e intangibile, rivela nella ricerca di French
e nelle applicazioni di Lawrence Abu Hamdan la sua natura sociale e materiale.
Non si può dire che questo sia stato sufficiente a invertire la centralità del
visivo nella società contemporanea, basti pensare che continuiamo a non avere un
vocabolario per definire il suono, e spesso proviamo a imitare i suoni con la
bocca, o ricorriamo a metafore visive e tattili per descrivere suoni, che
diventano quindi “limpidi”, “aspri”, “morbidi” o “graffianti” sebbene entità che
non si lasciano né vedere né toccare o assaporare. Altrettanto spesso ricorriamo
alle similitudini: “è come se ti passasse un camion sopra la testa”, o “è come
il suono di un trapano che sfonda un cartongesso”.
> Il suono, che era stato letto dalla tradizione filosofica come un’esperienza
> soggettiva, un elemento a-storico e intangibile, rivela nella ricerca di
> French e nelle applicazioni di Lawrence Abu Hamdan la sua natura sociale e
> materiale.
Questi sono due esempi tratti dall’ultimo lavoro di Lawrence Abu Hamdan Zifzafa,
che provano a rendere il suono di 31 turbine eoliche che il governo israeliano
prevede di installare nel Golan. Zifzafa è la simulazione digitale del progetto
di parco eolico proposto da Energix che prevede l’occupazione di un territorio
di circa 430 ettari. Per ricostruire il paesaggio sonoro che potrebbe delinearsi
in seguito all’installazione delle pale, Lawrence Abu Hamdan s’è servito delle
registrazioni del rumore generato dalle turbine eoliche a Gaildorf, un piccolo
comune nel sud della Germania. Quella dell’annessione sonora è solo un capitolo
di una lunga storia di espropriazione e pulizia etnica che la comunità del Golan
sta affrontando da decenni.
Era il 1967 quando Israele ha occupato il 70% del territorio e sfollato i suoi
abitanti, e nell’estate 2023 ha respinto con gas lacrimogeni, proiettili con
punta di spugna e un cannone ad acqua le migliaia di manifestanti contrari
all’attuazione del piano per la costruzione di turbine eoliche, che non ha mai
avuto il consenso dei proprietari terrieri. Come in altri lavori di Lawrence Abu
Hamdan, in Zifzafa ci imbattiamo in posizionamenti filosofici, tematiche
politiche, sistemi legali, questioni riguardanti i confini, la giurisdizione, le
forme di controllo e riflessioni sul potere della ricostruzione sonora,
attraversiamo zone di conflitto geopolitico, cartografie coloniali e subdole
pratiche di ecocidio travestite da futuro decarbonizzato, e tutto nello spazio
di venti minuti.
A circa metà del video viene citata la disavventura di Don Chisciotte contro i
mulini a vento e di come Sancho Panza avesse provato a dissuaderlo dall’impresa.
Come Sancho Panza corriamo il rischio di considerare le pale eoliche innocue,
anzi utili mezzi per un futuro verde e pulito; chi abita le alture del Golan
d’altro canto, come Don Chisciotte, continuerà a vedere in esse una presenza
minacciosa, vorace di terra e mezzi di sostentamento, un pericolo per il tessuto
sociale delle comunità. “Zifzafa” vuol dire questo in arabo: il vento che scuote
e percuote tutto ciò che incontra sul suo cammino.
> Come in altri lavori di Lawrence Abu Hamdan, in Zifzafa ci imbattiamo in
> posizionamenti filosofici, tematiche politiche, sistemi legali, questioni
> riguardanti i confini, la giurisdizione, le forme di controllo e riflessioni
> sul potere della ricostruzione sonora.
Il rumore generato dalle turbine rivendica tutta la sua concretezza, occupa con
violenza lo spazio, interrompe ogni rete comunitaria e frattura ogni possibilità
che il tessuto sociale della comunità possa esistere. La ricostruzione non si
limita a riprodurre il suono delle turbine ma anche l’attuale paesaggio sonoro
di quel territorio: zappe che lavorano la terra, greggi belanti, il ronzio delle
api intorno alle arnie, il silenzio del paesaggio a riposo, voci lontane che si
cercano da una valle all’altra non temendo alcun confine. Questi suoni sono
potenti atti di resistenza e Zifzafa vuole riconoscere loro il diritto
all’autodeterminazione sonora. Sono suoni che rifiutano la morte e cantano per
la loro terra e non smettono mai di raccontarcene la vita. Sono un lascito di
speranza, amore e resistenza.
L'articolo Il suono e la furia proviene da Il Tascabile.
L e prestigiose scuole di economia e management, culle per niente oniriche in
cui vengono assemblate le menti secondo le regole della finanza, pare siano
molto vicine all’introduzione di corsi dedicati all’organizzazione del piacere.
Un solo obiettivo: sviluppare teorie e metodi che nascondano la diretta
correlazione tra divertimento, consumo e guadagno. La profanazione di questo
intreccio rivelerebbe una verità estremamente pericolosa: il tempo trascorso nei
luoghi (reali e virtuali) del piacere o dello svago anestetizza gli utenti
dell’inutilità del lavoro che, offrendo a chi lo svolge una rassicurante
sussistenza quotidiana, arricchisce esclusivamente il sistema capitalistico.
Come sostengono i filosofi postmarxisti del Ventunesimo secolo, tra i punti
all’ordine del giorno del sistema di potere egemonico non è mai stato annoverato
il miglioramento della condizione umana. Il verdetto è abbastanza intuitivo: il
capitalismo avrebbe fatto benissimo a meno dell’esistenza del piacere ma, non
essendoci le condizioni necessarie per l’abrogazione definitiva, ne ha elaborato
una versione subordinata alla logica di mercato. Il piacere è stato
riconfigurato come piacere produttivo: una forma ambigua di godimento indotto,
orientata – direttamente o indirettamente – a produrre utile. Neutralizzando il
potenziale sovversivo, il capitalismo ha reso il piacere un elemento funzionale
alla formazione di soggettività standardizzate.
> Il capitalismo avrebbe fatto benissimo a meno dell’esistenza del piacere ma,
> non essendoci le condizioni necessarie per l’abrogazione definitiva, ne ha
> elaborato una versione subordinata alla logica di mercato.
La ricerca artistica e curatoriale di ATI suffix, collettivo interdisciplinare
nato a Roma nel 2013, interroga e decostruisce le categorie di pensiero del
sistema dominante. I progetti del collettivo, di cui fanno parte architett*,
artist*, filosof* e ricercator*, sono accomunati da un’esasperazione critica e
speculativa degli immaginari urbani, replicabili su scala globale. Attraverso
installazioni, attraversamenti, azioni laboratoriali e pratiche performative,
ATI suffix si insinua all’interno dei dispositivi di sorveglianza, oppressione e
controllo disseminati negli spazi di aggregazione quotidiana, di lavoro e di
piacere. In questo senso, i progetti del collettivo possono essere considerati
come pratiche di invasione, destabilizzazione, apparizione imprevista.
Prima possibilità per attivare il piacere (strategia a lungo termine)
Pensare alla concessione di tempo libero, a cui è possibile accedere
esclusivamente dopo aver prestato servizio a una qualsiasi società che concorra
al raggiungimento degli obiettivi del capitalismo. In questo orizzonte, ogni
soggettività agente è caldamente invitata a esercitare attivamente e senza
tregua il ruolo di lavoratore e di consumatore, oscillando tra due condizioni
che si fagocitano a vicenda.
> Per lungo tempo il desiderio di svago estivo è stato il principale incentivo
> al lavoro. Lavorare per le vacanze. Lavorare per l’estate. Lavorare per la
> spiaggia. Oggi il capitalismo ha messo la sabbia al servizio della produzione.
> La rilevanza fisica degli spazi concepiti per preparare cittadini/consumatori
> all’estate è chiara a tutti. Dalle palestre ai cantieri, la città si trasforma
> in un UrbanBeachScape.
Il progetto, sviluppato al Columbia Global Centers di Istanbul nel 2015, è
concepito come un’installazione site specific per il quartier generale della
società Borusan, tra le principali produttrici di tubi in acciaio nel mondo.
UrbanBeachScape contesta le reti transnazionali dello sponsor della mostra
esplorando il valore della sabbia nel traffico di denaro. Seconda risorsa
naturale più sfruttata dopo l’acqua, la sabbia viene estratta a una velocità
molto maggiore rispetto al tempo necessario affinché si rinnovi. Il valore
economico della sabbia sul mercato globale determina un forte attrito rispetto
all’immaginario esotico pubblicizzato dai resort di lusso.
Il testo curatoriale, redatto nella forma di manifesto programmatico, insiste
sulle logiche pubblicitarie del capitalismo: sigle e acronimi per abbreviare il
tempo della lettura e facilitare il processo di memorizzazione.
> UBS è un business, perché il capitale mette in produzione il desiderio di
> spiaggia
> UBS è edilizia, perché la sabbia è la seconda risorsa naturale più utilizzata
> UBS è estetica, perché i corpi urbani sono sempre pronti per la spiaggia
> UBS è sfruttamento, perché le spiagge scompaiono mentre le città crescono.
Scrive Giorgio Agamben in Mezzi senza fine (1996), “la società nel suo insieme è
consegnata irrevocabilmente alla forma della società di consumo e di produzione
orientata al solo fine del benessere”. Spargendo oltre trenta tonnellate di
sabbia nell’atrio della multinazionale, UrbanBeachScape celebra la relazione
segreta tra sfruttamento e benessere. Una lettera firmata da un immaginario
Beach Liberation Front mette in guardia dalla tentazione di godere del sole
artificiale: non è possibile che alcun sogno appartenga al presente. Chi si
sottrae volontariamente al gioco del capitale rinuncia all’immaginazione
normativa del tempo libero. Eppure anche sviluppare una strategia per garantirsi
l’accesso al futuro senza pagare il dazio del lavoro è un’attitudine produttiva
di stampo capitalista. Non c’è via d’uscita. La spiaggia è una gabbia che
incastra i corpi.
> Spargendo oltre trenta tonnellate di sabbia nell’atrio della multinazionale,
> UrbanBeachScape celebra la relazione segreta tra sfruttamento e benessere.
Il futuro, come raccoglitore di ambizioni, è uno specchio che riflette ed esalta
i bisogni vitali del sistema: poiché siamo condannati ad avere un futuro, siamo
condannati a lavorare, e viceversa. La realizzazione dei sogni – accettando
l’accezione materialista che il capitalismo ha affidato al sogno – dipende dalla
fedeltà al lavoro. Attraverso un monumento effimero realizzato nella forma di
inciampo all’abituale fruizione dello spazio aziendale, ATI suffix ritrae il
dark side del capitalismo.
Seconda possibilità per attivare il piacere (strategia a breve termine)
Risolvere i disturbi causati dal tempo del dovere attraverso espedienti
simbolici e/o concreti messi a disposizione a basso costo dall’efficiente
sistema di produzione.
> White Sheep, una bevanda arricchita di melatonina, si confronta con l’insonnia
> indotta e la seduzione della produttività. La bevanda è disponibile tramite un
> distributore automatico posizionato in uno spazio pubblico ad Amsterdam.
White Sheep è un’installazione nello spazio pubblico, realizzata per Amsterdam
Light Festival nel 2017. Il progetto assume la forma di un distributore di
bibite alla melatonina, caratterizzate da un design patinato che ammicca a
quello delle più famose bevande energetiche. Il rebranding speculativo sovverte
la fascinazione per la cessazione del sonno adottando l’estetica del
distributore h24. Sotto forma di piacere, ovvero bevanda al gusto di caramelle
alla fragola, il capitalismo genera comportamenti che si trasformano in
abitudini e che deformano i corpi. I supporti energetici a cui si fa
affidamento, inizialmente proposti come soluzione rapida per mantenere alte le
prestazioni di uno stile di vita animato dalla concorrenza, mirano a
trasformarsi in un’esigenza radicale. La diffusione di tisane con polveri di
melatonina rappresenta il collasso dello stesso sistema. Allegoria di una classe
di lavoratori e lavoratrici intrappolate tra le maglie di un sistema
claustrofobico e ripiegato su sé stesso, White Sheep è un progetto segretamente
disturbante che ammicca ed esalta lo stesso immaginario che contesta.
> Il progetto White Sheep assume la forma di un distributore di bibite alla
> melatonina, caratterizzate da un design patinato che ammicca a quello delle
> più famose bevande energetiche: un rebranding speculativo che sovverte la
> fascinazione per la cessazione del sonno.
Una simile ambiguità caratterizza La manipolazione onirica del Carrefour, azione
collettiva e performativa realizzata per il festival di teatro Contrabbando di
Roma, nel 2017.
> Con la sua intrusione capillare, il capitalismo sta velocemente erodendo forme
> di comunità ed espressione politica, utilizzando come mezzo di controllo
> l’abolizione della naturale alternanza giorno/notte. Un tempo senza ritmo,
> senza pause, senza sonno.
Probabilmente il più grande desiderio del capitalismo è fare in modo che si
realizzi l’astensione completa dal sonno e che assuma la forma di abdicazione di
massa, scrive Jonathan Crary in 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno
(2015). Dopo aver individuato nelle sostanze energizzanti un rimedio istantaneo
a questa disfunzione ereditaria che “affligge” la specie umana, il sistema
inventa degli spazi collettivi in cui sviluppare esercizi notturni di
divertimento e consumo. Tra questi, i supermercati h24 rappresentano il modello
più riuscito. La manipolazione onirica del Carrefour guida i partecipanti
attraverso un esercizio di concentrazione e critica collettiva dedicata alla non
banalità del potere decisionale che possiamo esercitare sulle azioni routinarie.
Rifiutando la velocità che i pavimenti sempre lucidi dei supermercati impongono
alle suole delle scarpe da trekking urbano, la performance è un attraversamento
lento dei corridoi infestati da trame di potere e sfruttamento interspecie
attuato su scala globale. Percorrere senza fretta uno spazio pensato
esclusivamente per l’acquisto e uscire a mani vuote è un atto di boicottaggio.
> La manipolazione onirica del Carrefour guida i partecipanti attraverso un
> esercizio di concentrazione e critica collettiva dedicata alla non banalità
> del potere decisionale che possiamo esercitare sulle azioni routinarie.
Dopo la spedizione al Carrefour, la performance si conclude con un rituale
onirico nella sala teatrale del Cinema Palazzo. Il sonno, dopo aver abbandonato
la dimensione intima, si rivela ora nella sua temporalità imperitura del 24/7.
La manipolazione onirica del Carrefour assalta i vessilli del capitalismo
applicando segrete e impercettibili modifiche che alterano temporaneamente il
funzionamento. La prefigurazione di immaginari che alterano la scissione
disciplinata tra utopia e distopia è un gesto politico.
Epilogo (stare in guardia)
L’esistenza del tempo libero è incerta.
L’induzione del disturbo del sonno aumenta la capacità estrattiva.
Il benessere concorre al raggiungimento della massimizzazione del profitto.
L'articolo Avvelenare il banchetto capitalista proviene da Il Tascabile.
I l concetto di rifiuto modella sia le forme del viaggiare contemporaneo, sia la
struttura dell’accoglienza, facendo sì che la città, trasmutata in meta
turistica, diventi un dispositivo di esclusione e inclusione, sia nelle sue
componenti materiali che simboliche. Il rifiuto è la forma stessa della
modernità e delle sue propaggini. Da un lato, esso rappresenta ciò che viene
espulso dal quotidiano come superfluo o indesiderato; dall’altro, è il segno di
una cesura, il limite imposto dal principio di realtà contro l’illusione. Su un
piano storico, il rifiuto assume la forma della frattura epistemica, motore
delle grandi narrazioni escatologiche che, per aprire nuovi orizzonti, negano e
rigettano le eredità del passato. Tuttavia, ogni sistema è fatalmente condannato
a produrre scarti: materiali, simbolici, ideologici. L’ecologia, la psicoanalisi
e la mitologia tentano di disciplinare questo residuo, nella speranza di
neutralizzarne l’eccedenza e preservare la coerenza interna del sistema stesso
ma è nell’architettura che il surplus spirituale di un’epoca trova riparo. Ogni
gesto architettonico è impossibilitato a mentire.
I mascheroni tardobarocchi della palazzistica nobiliare di Scicli, in provincia
di Ragusa, elementi scultorei dalle fattezze grottesche che sovrastano e
incorniciano gli ingressi dei palazzi nobiliari, alla luce delle riflessioni di
Walter Benjamin sulla storia e delle analisi di Furio Jesi sui simboli del
potere sono un ottimo simbolo di un potere respingente, atto a negare la
possibilità di attraversamento della soglia. Non solo soglia architettonica, ma
anche limite simbolico: il mascherone funge da monito, da guardiano
dell’inviolabilità della maestà familiare che risiede all’interno del palazzo.
In questa prospettiva, la deformazione espressiva delle figure tardobarocche non
è un semplice eccesso ornamentale, ma l’esternalizzazione di un potere che si
manifesta nella sua dimensione esclusiva ed escludente.
Fino al terremoto del 1693, la città di Scicli continuava ad aggrapparsi alle
alture, vegliando dall’alto i tre valloni che oggi l’abbracciano come un
tridente scavato nella pietra: Santa Maria La Nova, San Bartolomeo e la Fiumara
di Modica. Fino ai secoli precedenti e soprattutto prima dell’opulenza
cinquecentesca, Scicli era abbarbicata sui crinali. Poi venne il crollo. E con
esso, un altro gesto: la discesa.
> La deformazione espressiva delle figure tardobarocche non è un semplice
> eccesso ornamentale, ma l’esternalizzazione di un potere che si manifesta
> nella sua dimensione esclusiva ed escludente.
Scicli scivolò giù, crescendo a ridosso delle chiese che i cavalieri locali
avevano eretto nei decenni precedenti. La città prese dimora nel nodo
idrografico in cui convergevano tre corsi d’acqua a carattere torrentizio. Era
come decidere di abitare l’alveo di un corpo che poteva risvegliarsi. Ed è così
che la città si strutturò: dopo l’apocalisse che sconvolse il Val di Noto, la
fame di catastrofe la portò nella cavità della possibile piena, nel grembo di
una minaccia geologica mai del tutto domata. Durante il Novecento, questa
minaccia fu addomesticata ‒ o, più precisamente, occultata. I torrenti vennero
coperti: ingabbiati in condotte sotterranee, sepolti sotto asfalto e selciato.
Ma non sparirono. Continuano a scorrere invisibili, come vene profonde. L’acqua
che prima rompeva, oggi attende. Sotto i nostri piedi, Scicli è ancora liquida.
La sua storia è un palinsesto idraulico.
Abitare Scicli significa quindi vivere su una tensione. Non un equilibrio, ma
una sospensione. Una città cresciuta nella conca della catastrofe,
urbanisticamente costruita come se il trauma non fosse un’eccezione ma una
condizione. Ecco perché i suoi edifici sembrano sempre sul punto di sporgersi, i
vicoli di stringersi, le facciate di esplodere in forme. È una città che ha
scelto di rispondere alla paura non con il silenzio, ma con l’esibizione. È qui
che compaiono loro, i mascheroni, annidati tra i cagnuoli, l’espressione
sciclitana che nomina le mensole degli ampi balconi.
> Durante la stagione primaverile, passeggiando per il centro storico di Scicli
> […] Lo sguardo è catturato dalle meravigliose pieghe date alle facciate delle
> tante chiese e palazzi tardo-barocchi settecenteschi. Questi sono decorati con
> mascheroni e statue scolpite da scalpellini locali […] propensi a beffeggiare
> sia il mondo delle professioni che le autorità religiose. I grandi e mostruosi
> mascheroni di palazzo Beneventano invitano a salire verso San Matteo. Le
> ricche decorazioni dei balconi di palazzo Fava, nella centrale piazza Italia,
> irridono la facciata della Chiesa madre.
> (A. Lutri, S. Ciappi, Scicli: sguardo su un Sud inatteso, 2021, p. 47)
Lontana dal controllo politico dei conti di Modica, la piccola nobiltà
sciclitana godeva di ampie libertà e poteva quindi fare agile sfoggio della
propria ricchezza per prendersi gioco della sventura. Prima del terremoto, nei
tempi passati consegnati alle cronache locali, erano stati i pirati moreschi a
terrorizzare i contadini sulle coste, poi le cavallette. Piaghe che la
cittadinanza visse come prove divine, ostacoli superati e sulle quale era
necessario prendersi una rivincita.
Per questi motivi i mascheroni che impreziosiscono i balconi nobiliari sono
spesso rappresentazione di nemici decollati, come se per sineddoche la testa di
un moro potesse simboleggiare al contempo tutto il dolore subito, pietrificato
in un volto grottesco. Espressione di un potere che si percepiva antico e
inamovibile, la fine ironia dei cavalieri depositò nei volti di pietra anche il
dispregio per la nascente modernità e i suoi nuovi mestieri, l’altra catastrofe
pronta a erodere i loro domini, insieme all’insulto verso quella piaga
millenaria che per i cavalieri era rappresentata dal potere ecclesiastico.
> Contro la natura, contro il nuovo che avanza e contro l’antico che non
> demorde, i mascheroni barocchi fanno le pernacchie agli scienziati e irridono
> dai balconi le facciate delle chiese, divenendo avatar di pietra calcarea,
> ricettacoli dei loro committenti.
Contro la natura, contro il nuovo che avanza e contro l’antico che non demorde,
i mascheroni barocchi fanno le pernacchie agli scienziati e irridono dai balconi
le facciate delle chiese, divenendo avatar di pietra calcarea, ricettacoli dei
loro committenti. C’è qualcosa di profondamente inquieto nei volti che affiorano
sulle mensole dei balconi tardobarocchi del Settecento nel sud est siciliano.
Quei mascheroni, spesso in procinto di trasformarsi in piante, con bocche
spalancate, lingue pendule e sguardi estatici o terrificati, sono più che
decorazioni: sono resti di un linguaggio che ha perso la voce ma non la potenza.
All’interno di una genealogia del rifiuto ‒ materiale, esistenziale, simbolico ‒
i mascheroni si offrono come una sintesi perfetta tra potere e scarto. Per
Walter Benjamin ogni costruzione della storia è anche una selezione violenta, un
atto di esclusione. E questi volti, deformi e spettacolari, non sono solo
ornamento: sono strumenti di respingimento. Il potere autentico non ha bisogno
di essere spiegato, ma si manifesta in simboli che impongono e negano allo
stesso tempo. Il mascherone barocco ‒ scolpito sopra la soglia, ma con lo
sguardo rivolto fuori ‒ è un rifiuto scolpito nella pietra: un avvertimento per
chiunque osi varcare il limite. Non solo soglia architettonica, ma barriera
semiotica. Il suo ghigno non accoglie: respinge. E lo fa deformando il nemico. È
il volto stesso del potere, che si mostra attraverso le sue vittime per
impedirne l’accesso.
Questa estetica del respingimento non è una semplice eredità del passato, ma
continua a operare oggi, con altri materiali e altri linguaggi. Il turismo
televisivo, in particolare il fenomeno televisivo del commissario Montalbano, ha
trasformato Scicli in un esteso e impalpabile mascherone: una città-cartolina
che seduce con l’immagine, ma esclude con i processi di gentrificazione e
selezione sociale. La città diventa una vetrina, uno spazio pubblico reso
privato, dove solo ciò che è vendibile può apparire.
> Il turismo televisivo ha trasformato Scicli in un esteso e impalpabile
> mascherone: una città-cartolina che seduce con l’immagine, ma esclude con i
> processi di gentrificazione e selezione sociale.
Il mascherone, allora, non è solo un oggetto d’arte o un’espressione stilistica:
è un dispositivo di potere che ancora oggi struttura l’immaginario urbano,
seleziona i corpi che possono abitare e quelli che devono sparire. Comprenderne
la funzione significa smascherare il presente non solo come avatar di uno
spirito barocco mai domo, un passepartout per osservare più da vicino le
strategie contemporanee di esclusione in quei luoghi, i borghi culturali, che
definiscono il vero volto dell’Italia.
I mascheroni e l’ordine dopo la catastrofe
Il tardobarocco siciliano non è soltanto un’estetica traboccante: è una macchina
per governare l’eccesso, per disciplinare il disordine. Nasce come risposta
plastica alla catastrofe e si consolida come forma di controllo. L’apocalisse
del 1693 non generò solo rovina, ma uno stile: una strategia di rifondazione
simbolica del mondo.
Oggi quella stessa macchina è stata riattivata. Così Scicli è ogni altro luogo
sferzato dalla retorica del patrimonio culturale. La città può essere osservata
come paradigma di un’intera regione, e persino dell’Italia intera. Il meccanismo
a cui si è accennato è stato attivato negli anni recenti non da un sisma, ma da
una catastrofe più lenta e pervasiva: la crisi delle economie locali e l’avvento
del turismo come unica grammatica di sopravvivenza. Celebrato come risorsa, il
turismo ha deciso finalmente di mostrarsi come una nuova lingua del potere. Il
turismo riscrive i luoghi, li possiede. E come i mascheroni con i nemici,
trasforma il territorio in una faccia da esibire.
Scicli, Modica, Ragusa, Palazzolo Acreide: un arcipelago di centri storici che
si sfidano a colpi di “bellezza”. Ogni pietra, ogni curva, ogni vicolo
restaurato non è destinato alla vita, ma alla visibilità. Non si restaura per
abitare: si restaura per apparire. E ciò che appare è un volto estroflesso, una
maschera compiacente che deve sedurre chi guarda ‒ il turista ‒ e respingere chi
non consuma: l’indigeno povero, il lavoratore irregolare, il corpo improduttivo.
L’intera città si comporta come un grande mascherone barocco: attira con un
sorriso, nasconde l’invisibile, terrorizza i non invitati al banchetto.
Non è un caso che gli interni dei palazzi tardobarocchi sfuggano alla memoria
visiva, non è un caso se a essere ricordata è sempre e solo la loro facciata
impudica, così come non è un caso se l’immaginario urbano si costruisce oggi su
curve e scorci, su facciate e aperture. L’economia turistica, nella sua forma
più spettacolare, non ha bisogno dell’interno della casa, ma del fondale. Poiché
a contare è l’apparenza sfacciata, il privato viene cannibalizzato dalla sua
pubblica essenza.
> Celebrato come risorsa, il turismo ha deciso finalmente di mostrarsi come una
> nuova lingua del potere. Il turismo riscrive i luoghi, li possiede. E come i
> mascheroni con i nemici, trasforma il territorio in una faccia da esibire.
Così, il paesaggio urbano diventa uno spazio effimero e competitivo, dove ogni
comune è concorrente, ogni restauro un’arma, ogni evento una vetrina aperta solo
a chi può permetterselo. Il turismo non è neutro: è una forma di guerra
simbolica, e come ogni guerra produce vincitori e vinti. I vincitori sono coloro
che riescono a stare dentro la narrazione della bellezza ‒ ristoratori, host,
brand culturali, amministratori sedicenti illuminati. I vinti sono coloro che
restano fuori scena: i lavoratori a giornata, gli abitanti storici spinti ai
margini, le voci che non si accordano al tono festoso del marketing
territoriale.
Il turismo contemporaneo, come mostra Dean MacCannell, non è semplice svago, ma
un rituale di autenticazione. Il turista cerca il “dietro le quinte”, la verità
del luogo. E così, le città recitano: mettono in scena sé stesse, costruiscono
scenografie credibili proprio perché curate, addomesticate, filtrate. In questo
senso, il centro storico di Scicli diventa un dispositivo che regola ciò che può
apparire e ciò che deve restare nascosto. Il mito della città-vetrina non è
calato dall’alto: è stato interiorizzato, promosso, difeso dagli stessi soggetti
locali. Non dai marginali, ma da una costellazione sociale che si muove tra
piccola borghesia ereditaria, proprietà diffusa e nuova progettualità legata al
terzo settore, all’associazionismo culturale, al ritorno romantico alla
provincia.
> Il paesaggio urbano diventa uno spazio effimero e competitivo, dove ogni
> comune è concorrente, ogni restauro un’arma, ogni evento una vetrina aperta
> solo a chi può permetterselo.
A Scicli, la gentrificazione avviene per trasformazione simbolica: gli abitanti
non sono più cittadini, ma comparse, facilitatori, operatori. La loro identità
viene mercificata, smontata, rimontata in una narrazione pronta per essere
venduta. Le classi popolari, migranti o autoctone, vengono assorbite come
manodopera invisibile o espulse come elementi incompatibili con il nuovo
immaginario. La città si imbelletta come una prostituta consapevole del proprio
valore sul mercato, e in quel gesto si rivela tragicamente moderna: pronta a
tutto pur di non sparire, persino a prostituirsi alla narrazione del sé.
Nel frattempo, si perpetuano forme strutturali di esclusione e sfruttamento: nel
lavoro agricolo della fascia trasformata, nella segregazione abitativa delle
famiglie migranti, nell’impossibilità concreta di abitare il centro storico per
chi non possiede capitale economico o simbolico. L’acqua che scorre sotto i
nostri piedi non è solo quella dei torrenti sepolti: è il fiume carsico del
lavoro vivo, delle soggettività rimosse, del residuo umano che ogni
città-vetrina deve espellere per potersi specchiare.
Antropologia dell’effimero: il tempo rovesciato del tardobarocco municipale
Il nostro è un tempo tardobarocco e lo è per la natura effimera della sua
progettualità. Nelle città patrimonio, il calendario civile segue un’alternanza
di picchi emotivi e cerimonie del potere, spesso allineati al ritmo della guerra
civile elettorale. Ogni tornata è conflitto tra narrazioni e clientele in lotta
per la visibilità. Ogni elezione è una stasis, una guerra civile. In Stasis,
Agamben mostra come la guerra civile non sia deviazione patologica della polis,
ma suo fondamento occulto. La guerra civile è il rovescio oscuro della
costituzione: assembla il “nemico interno”.
Questo schema si ripete nel governo spettacolare delle città turistiche.
L’amministrazione non gestisce la cosa pubblica, ma mette in scena. Ogni giunta
nega la precedente. Ogni sindaco si fa artista barocco: inaugura piazze, intona
inni alla bellezza, orchestra eventi come feste di corte. Ma sotto la
superficie, la città resta disgregata, scollata dalle invidie locali. La guerra
civile nel borgo culturale si combatte senza armi, ma con bandi, slogan, foto in
cantiere. È un conflitto senza sangue, ma con vittime: gli esclusi, ridotti a
spettatori di una lotta tra fazioni per la rendita simbolica del territorio.
Ogni restauro, ogni festival diventa appropriazione economica dello spazio
pubblico.
> L’amministrazione non gestisce la cosa pubblica, ma mette in scena. Ogni
> giunta nega la precedente. Ogni sindaco si fa artista barocco: inaugura
> piazze, intona inni alla bellezza, orchestra eventi come feste di corte. Ma
> sotto la superficie, la città resta disgregata.
Come in ogni guerra civile, il fronte non è chiaro. Passa tra famiglie, dentro i
quartieri, tra generazioni. Non c’è più un nemico esterno, ma un conflitto che
corrode dall’interno. Una polis che si rappresenta ma non si riconosce. Che si
guarda in vetrina e non si vede. Come un mascherone: mostra il volto, occlude il
ventre.
Anche nella città più sorvegliata restano luoghi densi, malmostosi e
stratificati. Se anche i cittadini si arrendessero, rimarrebbero gli spazi,
ritentori di memorie, di deviazioni e gesti che sfuggono alla narrazione
dominante. Ogni cortile abbandonato, ogni panchina sgangherata è un sabotaggio
alla linearità della programmazione turistica. Da questa resistenza ostinata
dell’inorganico possiamo dunque capire che ogni luogo può essere risignificato
da chi lo abita con altri sguardi, altri bisogni. È lì che si apre la
possibilità di una città diversa ‒ non quella mostrata, ma quella che si mostra
da sé, tra le crepe dell’immagine. E allora anche il mascherone può cambiare
funzione: non solo ghigno respingente, ma volto dell’eccedenza. Non solo
barriera, ma spiraglio.
Conclusione. Riconoscere il volto che ci guarda
Ci illudiamo che il mascherone sia immobile, che il suo ghigno sia muto. Ma non
è così. Il mascherone ci guarda. È l’occhio pietrificato della città che ci
chiede: “Chi ha diritto di stare qui? Chi può restare? Chi può mostrarsi, e chi
deve sparire?”. Riconoscere in esso non un simbolo del passato, ma un meccanismo
attuale, significa vedere la bellezza come campo di battaglia, il restauro come
strategia, la festa come maschera sulla fame.
Ecco la sua violenza: trasformare la soglia in scena, la ferita in ornamento, il
trauma in dispositivo. Non si tratta di salvare la città dall’estetica, ma di
liberare l’estetica dalla rendita. Di immaginare un nuovo barocco non come
decorazione, ma come eccedenza generativa. Di riconoscere nello scarto ‒ nel
volto grottesco, nel relitto escluso, nella pietra che non si fotografa ‒ non
l’inutile, ma l’inizio. Solo allora potremo davvero rispondere al mascherone,
non con un altro sorriso vuoto, ma con uno sguardo che finalmente non si lascia
possedere.
L'articolo Dal mascherone nobiliare alla città vetrina proviene da Il Tascabile.
P ensiamo al suono che potrebbe avere una soluzione chimica sovrasatura: un
suono ronzante, uno sciamare amorfo di atomi carichi di potenziale. Poi
interviene una singolarità, un germe cristallino, un glitch, che innesca uno
stato di tensione talmente eccessivo da non essere più sostenibile. Ecco che il
cristallo si crea, una melodia viene inventata per risolvere lo stato
ipertensivo: assistiamo alla nascita della forma, alla morfogenesi, al farsi
della musica. Ma non c’è neanche il tempo per contemplarla che il nastro scorre
a velocità infinita e l’istante dopo ci ritroviamo improvvisamente all’estremo
opposto del ciclo. La melodia ha girato su sé stessa per secoli, forse millenni,
conservando di sé soltanto una morfologia spettrale, una sorta di resistenza
minima allo sbiadimento completo. È quasi impercettibile, ma riusciamo ancora ad
ascoltarla: è ridotta a un osso leggero, piatto, che oscilla lievemente nella
corrente. Sembra sul punto di sciogliersi del tutto, di sbriciolarsi… sono gli
ultimi istanti di un Chupa Chups nella bocca di un bambino in un altro universo…
ecco: si è liquefatto; ronzio.
Si tratta di Shadows lifted from invisible hands, album realizzato dal musicista
e artista statunitense James Hoff nel 2024 e pubblicato dall’etichetta Shelter
Press, sempre impegnata sul fronte più sperimentale delle possibilità espressive
della musica elettronica. Per descrivere l’album in modo meno metaforico
potremmo dire che si muove tra due estremi che non potrebbero essere più
distanti: da un lato il ronzio stridente, quello che sentiamo nelle orecchie
quando ci concentriamo sul silenzio, e che è amplificato nel caso di alcune
malattie dell’apparato uditivo o quando un eccesso sonoro ha impattato i nostri
timpani lasciando un alone di alte frequenze; dall’altro, motivi pop di tracce
famosissime (e bellissime), i cui motivetti si insinuano nella testa, girando su
loro stessi in modo tanto alieno quanto lo è la percezione del ronzio. Tra
queste tracce troviamo “Heart of Glass” di Blondie, “Space Oddity” di David
Bowie, “Perfect day” di Lou Reed e “Into the Groove” di Madonna. Queste canzoni
sono però rese quasi irriconoscibili per come sono state alterate, ri-suonate o
ri-arrangiate e permane soltanto qualcosa della loro figura, una sorta di
propensione pop alla figura.
Ma tra questi due poli James Hoff dilata e ci rende sensibile l’intermezzo, il
movimento del farsi e disfarsi, il ritornello e il ritornellizzare come processo
sempre sul punto di cristallizzarsi e poi di smembrarsi. È l’inversione di una
comune esperienza di ascolto e forse anche un’inversione del rapporto con la
conoscenza in generale, che in musica è già stata tentata da illustri
sperimentatori del crepitio come William Basinski, Philip Jeck o The Caretaker:
“Cavalieri del medium”, per riprendere un’espressione usata da Rosalind Krauss
nell’ambito delle arti visive. Ma qui il medium non è solo il supporto
dell’opera, non vediamo tanto i bordi del quadro quanto la matrice stessa dentro
cui sprofonda il contorno distinto. Per mantenere il parallelismo col visivo
potremmo dire che l’ascolto di questa musica è simile a quando guardando un
colore ci si ritrova, con Benjamin, ad “affondare lo sguardo in un occhio
estraneo che lo inghiotte dentro di sé”, sono “colori che vedono sé stessi”, in
un mimetismo con la percezione che arriva a far dire: “se fossi materia, mi
colorerei”.
> James Hoff dilata e ci rende sensibile l’intermezzo, il movimento del farsi e
> disfarsi, il ritornello e il ritornellizzare come processo sempre sul punto di
> cristallizzarsi e poi di smembrarsi.
Prendendo sul serio questa inversione musicale della conoscenza potremmo
ritrovarci ad ascoltare qualcosa di simile al mito escatologico raccontato per
bocca di Socrate nel Fedone platonico, ma amputato proprio della sua aspirazione
escatologica alla purezza. Socrate racconta infatti di come la condizione degli
esseri umani sia quella di abitare non sulla terra, bensì nelle sue cavità,
intorno alle quali vivono “come rane o formiche intorno ad uno stagno”. Esiliati
dalla terra vera, luogo puro nell’etere degli astri e del cielo, si trovano a
essere immersi in ciò che dell’etere non è altro che il sedimento vischioso,
ormai degradato in aria, nebbia e acqua e riversatosi nelle cavità della terra.
Ma pare che la loro situazione sia quella di chi, abitando nel mezzo delle
profondità del mare, credesse di abitare invece sulla sua superficie, non
rendendosi conto di vedere il sole e gli altri astri sempre e soltanto
attraverso la densità opaca dell’acqua. Un’acqua che, per effetto della
salsedine, corrode e rovina le pietre e in cui, in generale, non cresce nulla di
buono e niente può essere perfetto. Al massimo ci sono “rocce, arene e immense
distese di melme e pantani”.
Tuttavia Platone, essendo il suo mito escatologico, ammette la possibilità
arrivare all’estremo lembo del mare e… tirarsene fuori. Chi arriva a quel punto
– racconta – e fosse capace “di sostenere una tale visione, conoscerebbe che il
vero cielo, la vera luce e la vera terra sono quelli”. E se invece la verità non
si facesse che sott’acqua e nella corrosione? Che succederebbe se la luce non
fosse altro che quel medium subacqueo, vischioso e opaco attraverso cui e in cui
si manifestano le cose, che corrode e illumina al tempo stesso?
È l’inversione in cui si trova trascinato il cercatore di perle, nella singolare
vicenda raccontata da Georges Didi-Huberman alla fine del suo libro su Aby
Warburg. Proprio questa vicenda può funzionare come immagine vivida del mito
platonico privato dell’escatologia. Ripercorriamola: inizialmente il pescatore
si immerge e, credendo ancora di essere un “detective” del mare, tra i fondali
cerca i suoi tesori come enigmi da risolvere. Un giorno trova una perla, la
porta in superficie e la bandisce come un trofeo. Poi la porta a casa e la mette
in una teca. Compila una scheda che crede definitiva e pensa di aver chiuso con
gli abissi. Molto più tardi, per caso, si accorge di non aver mai davvero
guardato la perla perché ora, contemplandola come in un sogno, la riconosce
immediatamente: “non è altro che l’occhio di suo padre morto, secondo
l’indimenticabile profezia cantata da Ariel, nella Tempesta di Shakespeare:
A cinque teste sott’acqua
Tuo padre giace.
Già corallo
Sono le sue ossa
Ed i suoi occhi
Perle.
Tutto ciò che di lui
Deve perire
Subisce una metamorfosi marina
In qualche cosa
Di ricco e di strano.
Ad ogni ora
Le ninfe del mare
Una campana
Fanno rintoccare”.
Allora il pescatore, preso dall’inquietudine, dalla schisi, dalla ricerca del
tempo perduto non riesce a non rituffarsi. Si immerge in profondità e scopre che
i tesori del mare proliferano, che suo padre gli ha lasciato molte altre
meraviglie oltre a quell’unica perla e tra esse si confondono tutte le perle di
innumerevoli generazioni di antenati, “innumerevoli padri giacciono in
innumerevoli tesori sul fondo del mare”. Ma soprattutto scopre che
> è la materia stessa in cui nuota, è il mare, l’acqua torbida e materna, tutto
> ciò che non è “tesoro” indurito, è lo spazio intermedio tra le cose,
> l’invisibile flusso che passa tra perle e coralli, è proprio questo che, con
> il tempo, ha trasformato gli occhi di suo padre in perle e le sue ossa in
> coralli. È all’intervallo, alla materia del tempo – qui fluente, là stagnante
> – che sono dovute tutte le metamorfosi che fanno di un occhio morto un tesoro
> sopravvivente.
Il desiderio di non tornare più in superficie è forte. È lo stesso spazio
intermedio in cui nuota la musica di James Hoff, quello di una cristallizzazione
dilatata e in continuo movimento, sempre sospesa e al limite con l’amorfo, che
inventa nuove forme modellandosi in relazione all’ambiente esterno, la cui
capacità corrosiva innesca nuove germinazioni. Come “un cristallo corrisponde
alla struttura fissa lasciata da un individuo che avesse vissuto per un solo
istante” (Gilbert Simondon), così le tracce dell’album di Hoff contengono, come
in miniatura o in un fermo immagine, tutto il movimento della vita di una forma.
Dalla nascita della morfogenesi ci portano direttamente alle forme che giacciono
abbandonate sul fondo del mare, ritornelli resi irriconoscibili e mossi dalla
corrente come ossi di seppia. Ma come escludere in fondo che anche in queste
ossa, prima o poi, potrà innescarsi una nuova metamorfosi?
> La musica di James Hoff nuota nello spazio intermedio di una cristallizzazione
> dilatata e in continuo movimento, sempre sospesa e al limite con l’amorfo, che
> inventa nuove forme modellandosi in relazione all’ambiente esterno, la cui
> capacità corrosiva innesca nuove germinazioni.
Mi rendo conto di aver fatto una descrizione molto materica di questo album,
tanto da farlo sembrare quasi un’opera di land art, come può essere
l’eccezionale Spiral Jetty di Robert Smithson. Ma prima di incontrare
direttamente Smithson, è forse un altro lavoro di Hoff che può portarci ancora
più in prossimità di un’arte a contatto con il tempo, con i processi e i luoghi.
Si tratta di HOBO HUFO (v. Cernobyl), un lavoro audio/video pubblicato questa
volta dall’etichetta PAN, nel 2019. Il video del lavoro consiste in una versione
modificata di Google Street view, che aleggia tra le rovine della città ucraina
di Pryp”jat’, determinando i suoi movimenti in relazione alla musica. Pryp”jat’
è una città fantasma, abbandonata dopo il disastro nucleare di Černobyl’, che
rientra nella zona di alienazione di trenta chilometri istituita intorno alla
centrale e che dal 2022 è in mano alle forze russe.
HOBO UFO tiene vertiginosamente insieme numerosi strati: c’è il livello
molecolare delle radiazioni radioattive, invisibili ma la cui forza incoercibile
ha portato a dover abbandonare un’intera area urbana; un’azione della natura che
si riappropria di un luogo affettivamente carico, trasformandolo in materiale
indifferente attraverso cui far nuovamente passare la sua azione rimodellatrice;
un software che con simile indifferenza registra immagini nello stesso modo in
cui farebbe con qualunque altro luogo (in cui il capitalismo è quantomeno
riuscito a far arrivare la Google Car o un drone per fotografare la strada); un
suono che tra il glitch, la malinconia e una solennità cosmica sembra far
passare attraverso di sé tutti questi strati, componendo un’epica che va dalle
molecole alle forme di vita umane alla loro autodistruzione.
Robert Smithson, che oggi avrebbe ottantasette anni se non fosse scomparso
prematuramente all’età di trentacinque, è il grande precursore di questo tipo di
gesti artistici, soprattutto per come è riuscito a riflettere sull’esperienza e
a rendere sensibile nella sua opera questa confusione di scale, in cui il fare
umano e una sorta di entropia cosmica riescono a trovarsi condensati, collidendo
e comunicando. Un lavoro rappresentativo del suo atteggiamento e particolarmente
affine a HOBO UFO è il testo The monuments of Passaic, del 1967. Si tratta di
un’“odissea suburbana” che in realtà non è nulla più che il fotoracconto di un
percorso a piedi nella cittadina industriale di Passaic, in provincia di New
York. Tutta l’avventura nasce a partire dallo sguardo rivolto a Passaic: uno
sguardo che cerca e crea attivamente segnali, monumenti e metafore là dove
sembrerebbe non esserci nulla. “Il tempo – scrive Smithson – trasforma le
metafore in cose, e le accumula in stanze fredde, o le colloca nei parchi giochi
celestiali delle periferie”. Passeggiando per Passaic, la realtà di Smithson si
muove in un sottile confine tra rappresentazione e distruzione, mostrandosi come
“un particolare tipo di eliografia”, “una sorta di cartolina auto-distruggentesi
di un mondo di fallita immortalità e oppressiva smania di grandezza”, «a moving
picture that I couldn’t quite picture». La smania umana di in-formare la materia
e produrre segni appare come un piccolo e comico museo di tentativi per
contrastare l’entropia dell’universo.
Ma la sua più grande opera è senza dubbio Spiral Jetty, uno dei maggiori
risultati della land art americana. Si tratta del gigantesco “molo a spirale”,
tracciato nel 1970 con una ruspa sui bordi del grande lago salato nello Utah,
poi inghiottito dall’innalzamento della marea del lago e, infine, riemerso, come
fosse Atlantide, nel 1999. Ma, dal momento che la spirale era composta di terra
e blocchi di basalto neri, durante il periodo dell’immersione si è ricoperta di
cristalli di sale e quando è risorta si è presentata in una nuova forma, fatta
di un bianco immacolato e scintillante. In un abile gioco di mise-en-abyme il
processo di realizzazione dell’opera è stato anche filmato, entrando a far parte
del materiale di un film omonimo che mischia l’opera alla sua documentazione e
al gesto di documentare in generale.
> Come racconta Smithson, Spiral Jetty non è più distinta dal territorio, non si
> stampa su di esso come su una superficie vergine, emerge e fa tutt’uno con
> esso, ne è cambiata e lo cambia.
Dove comincia Spiral Jetty? Quando comincia? Forse, come un gigantesco rizoma,
“non comincia e non finisce, è sempre nel mezzo, tra le cose, interessere,
intermezzo” (Deleuze e Guattari). Effettivamente, come racconta Smithson,
l’opera non è più distinta dal territorio, non si stampa su di esso come su una
superficie vergine, emerge e fa tutt’uno con esso, ne è cambiata e lo cambia.
Come in un frattale “ogni cristallo cubico di sale fa eco alla Spiral Jetty nei
termini del reticolo molecolare del cristallo. La crescita in un cristallo
procede intorno un punto di dislocazione come una vite. La Spiral Jetty potrebbe
essere considerata uno strato interno del movimento spiraliforme del reticolo
cristallino, ingrandito trilioni di volte”. Smithson gioca realmente e
materialmente con il processo di cristallizzazione che abbiamo utilizzato
metaforicamente per descrivere il primo album di Hoff: Shadows lifted form
invisible hands e Spiral Jetty risuonano insieme.
Tra l’esperienza del luogo che cattura Smithson, l’avventura titanica della
realizzazione, il suo racconto filmato e narrato e l’azione del luogo sull’opera
si realizza un unico continuum, un unico medium, un’unica meteorologia, in cui
vari attori umani e non umani reagiscono uno nell’altro e uno con l’altro,
leggendosi e forzandosi a vicenda. Da un certo punto di vista Spiral Jetty non
esiste, ci sono solo riecheggiamenti e fluttuazioni, “mentre si afferra la
spirale, se ne viene afferrati”: è un gigantesco metabolismo. Mentre filma il
luogo dall’alto Smithson racconta:
> Il suono del motore dell’elicottero è diventato un lamento primordiale
> riecheggiante in inconsistenti visioni aeree. Ero qualcosa di diverso da
> un’ombra in una bolla di plastica fluttuante in un luogo fuori dal mio corpo e
> dalla mia mente? […] Stavo di nuovo scivolando fuori da me stesso,
> dissolvendomi in un inizio unicellulare, cercando di localizzare il nucleo
> alla fine della spirale. Tutto questo sangue in moto ci fa rendere conto di
> soluzioni protoplasmiche, la materia essenziale tra il formato e il non
> formato, masse di cellule fatte prevalentemente di acqua, proteine, lipidi,
> carboidrati e sali inorganici. Ogni goccia che schizzava sopra la Spiral Jetty
> coagulava in un cristallo. L’acqua ondeggiante diffondeva milioni e milioni di
> cristalli sopra il basalto.
Ma, prima di disintegrarci anche noi, fermiamoci un attimo. Cosa resta di tutto
questo? Il sito dell’opera è diventato luogo di migrazione per chi, conquistato
da questo racconto, ha provato a prenderne parte. Lo scrittore Geoff Dyer
ricorda, per esempio, di averlo percepito come “come un luogo abbandonato, ma
non un luogo il cui senso fosse stato abbandonato. Aveva conservato – o generato
– una sua cupa nodalità”.
> Tra l’esperienza del luogo che cattura Smithson, l’avventura titanica della
> realizzazione, il suo racconto filmato e narrato e l’azione del luogo
> sull’opera si realizza un unico continuum, un unico medium, un’unica
> meteorologia, in cui vari attori umani e non umani reagiscono uno nell’altro.
La nodalità è il tentativo umano di collocarsi, di darsi un posto nel tempo
naturale, dandogli una forma tramite strategie diverse, come si fa in modo più
burocratico con i calendari o con i musei: un far tempo del tempo. Tuttavia qui
la forma singolare si perde e quello che si esperisce è la sfasatura tra lo
sfondo e la figura, che non sono più annodati in maniera stabile, facendo
trasparire piuttosto l’annodare come tentativo fluttuante. È un’immersione in un
tempo denso, in un unico medium dentro cui si fanno e si disfano le forme
naturali e culturali. Ma le differenze sono effimere, sono velocità diverse di
impressione che catturano un insetto nell’ambra, il suono in un ritornello pop e
un reperto storico in un museo. Velocità e rallentamenti di una stessa
vetrinizzazione del tempo, che Smithson e Hoff ci rendono sensibile. Un ralenti
insieme umano e cosmico, sospeso tra le cose, un solo fenomeno emotivo “né Eros
né Thanatos, ma Vita-Morte, con un solo pensiero, uno stesso gesto” (Barthes).
Se allora non c’è un luogo fuori da questo intreccio che sia al riparo da
radiazioni e spettri, resta la possibilità di sperimentare con i nodi, per
trovarci tramite e attraverso i legami che scopriamo, muovendoci tra cristalli,
ossa e corrosioni.
L'articolo Cristalli, ossa e corrosioni proviene da Il Tascabile.
È almeno dal 2007 che ogni volta che esce un film di Paul Thomas Anderson è un
evento. L’esordio del 1996, Sydney, poi l’acclamato e piccante Boogie Nights –
L’altra Hollywood (1997). Con Magnolia (1999) ci trovavamo già di fronte a un
regista che affrontava il tema dell’esistenza in maniera sfaccettata, ma capace
anche di parlare diretto con commedie romantiche come Ubriaco d’amore (2002).
Poi il successo e l’ingresso nel pantheon dei grandi registi con una pellicola,
Il petroliere (2007), che parla della ferocia umana e del potere avendo in mente
il capitalismo contemporaneo, ma nel cuore film come Quarto potere. È stato da
quel momento infatti che si è iniziato a parlare del “cinema di Paul Thomas
Anderson”; con il suo perfezionismo tecnico, capace di portare in auge classici
del minimalismo (Fratres di Arvo Pärt), rendendoli ineditamente cinematografici,
epurandoli dallo spiritualismo – quindi secolarizzandoli – per coglierne la
trama insitamente paranoica e schizofrenica.
The Master (2012) ha molti punti in comune con Il petroliere, perlomeno quelle
parti iniziali in cui Anderson fa ambientare molto lentamente lo spettatore,
mostrandogli una serie di eventi e fatti, cose che succedono nel tempo,
raccontate quasi distrattamente, fino a cambiare improvvisamente ritmo, per
costruire dialoghi serrati e sequenze memorabili. Vizio di forma (2014) invece
punta molto sulla psichedelia, sul confine tra realtà e illusione, sull’acidità
della Storia: insomma su Thomas Pynchon. Questa cosa la condivide un po’, anche
se in maniera molto più scanzonata, con Licorice Pizza (2018). Il filo nascosto
(2017) resta il suo film più anomalo e incatalogabile. Intanto non è ambientato
come diversi altri suoi film a San Fernando Valley (dove è realmente cresciuto),
ma in Europa, più precisamente nell’Inghilterra degli anni Cinquanta.
Sembrerebbe un Ubriaco d’amore borghese, ma è quanto di più diverso. È un film
che racconta il lato oscuro dell’amore (e in generale dei rapporti umani),
ovvero i suoi capovolgimenti repentini di potere, irrazionali. Un ricco e
famosissimo stilista (Daniel Day-Lewis) può essere sottomesso da una cameriera
qualunque (Vicky Krieps) che per quasi tutto il film viene umiliata e derisa.
> Paul Thomas Anderson è un grandissimo regista hollywoodiano, capace di
> mescolare grandi e profonde tematiche all’intrattenimento, che non ha
> sbagliato un colpo. Almeno fino a quest’ultimo Una battaglia dopo l’altra.
Non è la favola del ricco che sposa la povera. È un’altra cosa: chiunque può
sottomettere il prossimo solo detenendo i mezzi materiali per farlo. Non conta
la bellezza, l’intelligenza e, addirittura, nemmeno il denaro. Conta la capacità
di costruire il potere, in qualche modo, con qualche mezzo. Anderson lo racconta
attraverso una storia antididascalica che disorienta, e fa interrogare per
giorni, portandoci a fare i conti con la parte oscura di ognuno di noi. È il
Thomas Anderson più dark e scomodo. Come per certi versi lo è anche quello di
Licorice Pizza, film dichiaratamente inattuale, ambientato nel 1973, in cui
sembra suggerire di mettere da parte tutte le mode contemporanee e lasciarsi
guidare dalla vita. Ami qualcuno? Tartassa questa persona fino a provocare un
miracolo, fino a farla innamorare, anche se prima ti considerava uno sfigato.
Fregatene di chi dice che tra trenta, quarant’anni verrai etichettato come
“stalker”. Un film che è un piccolo atto politico.
Un breve commento sulla carriera di Paul Thomas Anderson? È un grandissimo
regista hollywoodiano. Capace di mescolare grandi e profonde tematiche
all’intrattenimento, non ha sbagliato un colpo. Almeno fino a quest’ultimo Una
battaglia dopo l’altra (2025).
Si tratta del suo decimo lungometraggio, ed è senza dubbio il suo progetto più
ambizioso e dispendioso. Un film epico a tinte politiche (il cui titolo proviene
nientemeno che da una frase di Angela Davis), tratto liberamente dal romanzo
Vineland, ancora una volta di Thomas Pynchon, che ha richiesto un investimento
produttivo fuori scala per gli standard del regista. Basti pensare che la Warner
Bros. ha finanziato l’opera con un budget di circa 130-140 milioni di dollari
(su Wikipedia si parla di 130-175 milioni di dollari). Senza dubbio il più alto
mai ricevuto da Anderson in carriera.
Per confronto, la maggior parte dei suoi film precedenti è costata una frazione
di tale cifra (ad esempio Il petroliere ebbe un budget che si aggirava attorno
ai 25 milioni). Questo enorme balzo di risorse è dovuto in parte alla presenza
di Leonardo DiCaprio come protagonista: la star hollywoodiana, alla sua prima
collaborazione con Anderson, avrebbe percepito un cachet di circa 20-25 milioni
di dollari, elemento che ha convinto Warner Bros. a dare semaforo verde al
progetto. Accanto a DiCaprio troviamo un cast di alto profilo che include
veterani come Sean Penn, Benicio Del Toro e Regina Hall, oltre alla
cantante/attrice Teyana Taylor e alla giovane esordiente Chase Infiniti nei
panni dell’importante ruolo della figlia del protagonista.
> Perché Paul Thomas Anderson, autore di film spesso intimi e “senza tempo”, ha
> deciso di cimentarsi con un grande affresco politico d’azione?
Anderson ha scelto di girare il film interamente su pellicola 35mm, utilizzando
in alcune sequenze il formato VistaVision, ovvero una variante rara del 35mm che
sfrutta il fotogramma in orizzontale (8 perforazioni invece delle 4 verticali
standard), capace di offrire maggiore definizione e una resa spettacolare su
grande schermo. Questo contribuisce all’aspetto visivo sontuoso e “analogico”
dell’opera, di caratura seventies, che infatti è la prima del regista ad essere
distribuita anche in sale IMAX per esaltarne la portata spettacolare. Ancora una
volta le musiche vengono affidate a Jonny Greenwood, chitarrista dei Radiohead,
che cura le colonne sonore dei film di Anderson dai tempi di Il petroliere,
assumendo nel tempo un ruolo sempre più centrale nel suo cinema. Si va sul
sicuro, perché anche qui conferma la sua audacia, con uno score disarmonico e
monumentale al tempo stesso, che non è legato assolutamente ai sentimenti dei
personaggi e al mood della narrazione, ma anzi, è spesso usato per creare derive
o contrazioni.
Le riprese si sono svolte nel 2024 tra la California (nella contea di Humboldt e
a Sacramento) e il Texas, non senza qualche curiosità: durante i ciak a
Sacramento si è dovuto ad esempio sgomberare un campo di senzatetto che si
trovava nell’area prescelta come set. Insomma, una prima battaglia, cui ne hanno
fatto seguito sicuramente anche delle altre… La domanda sorge infatti spontanea.
Perché Paul Thomas Anderson, autore di film spesso intimi e “senza tempo”, ha
deciso di cimentarsi con un grande affresco politico d’azione? Intendiamoci, ci
sono momenti di cinema nel film, come ad esempio la scena dell’inseguimento tra
i sali e scendi delle strade in mezzo al deserto – ed è un Anderson inedito
questo, quasi da intrattenimento. C’è anche un DiCaprio in grandissima forma. Ma
perché Anderson ha deciso di fare un film esplicitamente politico?
Intanto Vineland, romanzo del 1990 in cui Pynchon, tornando al romanzo dopo
quasi due decenni, rifletteva con toni satirici e malinconici sulla fine delle
utopie rivoluzionarie degli anni Sessanta e sull’apatia dell’era Reagan, era un
testo che aveva in mente da decenni di portare sullo schermo, avendoci lavorato
per circa venti anni. Già nel 2014 il regista ammise che adattare fedelmente
Vineland sarebbe stato troppo complesso e che avrebbe preferito rubarne gli
elementi più stimolanti per farne qualcosa di proprio. Ed è in effetti ciò che
ha fatto, anche perché il film è scritto dal regista ed è invece, come appare
nei titoli, solamente “ispirato” dal libro di Pynchon: Anderson ha trasposto in
chiave contemporanea il conflitto centrale di Vineland, costruendo una storia
originale che ne rielabora temi e personaggi chiave, dal momento che per anni le
vicende di quel romanzo continuavano a tormentarlo creativamente. Un elemento in
particolare gli dava la motivazione per proseguire: il rapporto padre-figlia; un
tema che Anderson – padre di quattro figli nella vita reale – sentiva di poter
esplorare in modo personale: “Se sei un papà e giri un film su un papà che cerca
disperatamente di proteggere sua figlia, lo sentirai in modo profondo”, ha
dichiarato. Questa dimensione intima e familiare è dunque il filo emotivo e
principale che Anderson ha intrecciato attorno alla cornice politico-sociale del
racconto, nel tentativo di umanizzare una storia altrimenti incendiaria.
> Anderson ha trasposto in chiave contemporanea il conflitto centrale di
> Vineland, di Thomas Pynchon costruendo una storia originale che ne rielabora
> temi e personaggi chiave, dal momento che per anni le vicende di quel romanzo
> continuavano a tormentarlo creativamente.
Nonostante il regista non abbia mai palesemente militato in politica, i temi
affrontati in questo film segnano una svolta evidente: immigrazione, razzismo,
abusi del potere e conflitti sociali odierni vengono messi “sotto attacco” già
dalle primissime scene. Anche qui, come almeno in Il petroliere e in The Master,
la prima parte del film racconta episodicamente fatti e scene in maniera veloce,
scorrendo nel tempo, fino ad arrivare al primo snodo importante della
sceneggiatura. Nel mentre vengono mostrate situazioni estreme e volutamente
provocatorie: dal gruppo di guerriglieri anarchici modellati sui Weathermen
degli anni Sessanta, alle retate di immigrati clandestini detenuti, fino alla
caricatura di una setta segreta di fanatici suprematisti bianchi annidata
nell’establishment militare americano.
Anderson non ha mai fatto un film esplicitamente politico, sebbene alcuni suoi
film siano intrinsecamente politici. Eppure qui, non ha avuto timore di prendere
lo spettatore e gettarlo in mezzo al puro caos ideologico. In un’intervista ha
spiegato di non voler fare mera propaganda attuale: “Il più grande errore
sarebbe mettere la politica in primissimo piano”, ha detto, chiarendo che per
reggere un film di quasi tre ore servono personaggi e sentimenti solidi. Una
piccola lezione su come scrivere un film. Il suo obiettivo era intrecciare i
grandi temi con le vicende umane, in modo che lo spettatore si appassionasse
alle sorti dei protagonisti, al di là del messaggio ideologico. Non a caso, il
regista insiste che le dinamiche di Una battaglia dopo l’altra trascendono la
contingenza attuale: “Questa storia poteva essere raccontata 20 anni fa, nel
Medioevo, o persino nello spazio”, afferma Anderson, sottolineando come i
conflitti di fondo tra oppressori e oppressi siano ciclici. “Pensare che le cose
siano cambiate è un errore”, aggiunge, affermando che né il fascismo né la
cattiveria umana passano mai di moda.
> L’obiettivo di Anderson era intrecciare i grandi temi con le vicende umane, in
> modo che lo spettatore si appassionasse alle sorti dei protagonisti, al di là
> del messaggio ideologico.
Proprio questa visione circolare della storia lo ha probabilmente spinto a
realizzare il suo film più politico. Nella pellicola c’è un omaggio a Gillo
Pontecorvo (un frame dal classico del cinema politico italiano La battaglia di
Algeri, 1966). In parole povere: Anderson ha sentito che il momento era maturo
perché vicende di ribellione e repressione che lo affascinavano da anni
risuonassero con forza nel mondo di oggi (“dopo due decenni, non sono mai state
così rilevanti”).
Un aspetto peculiare di Una battaglia dopo l’altra è proprio la sua
ambientazione temporale sfuggente. Il film è dichiaratamente collocato ai giorni
nostri, con allusioni all’America post-Trump, eppure, l’estetica e i riferimenti
culturali richiamano spesso gli anni Sessanta/Settanta: lo stesso gruppo French
75 è modellato sui movimenti radicali di quell’epoca (come detto, gli Weathermen
americani), mentre il personaggio di Perfidia sembra uscito da un film
blaxploitation di inizio anni Settanta, come quelli impersonati da Pam Grier,
con il suo stile aggressivo e slogan incendiari. Anderson ha di proposito creato
un presente “sospeso” e anacronistico, in cui tecnicamente siamo nel Ventunesimo
secolo ma tutto – dai costumi, alle musiche rock psichedeliche, fino ai metodi
da guerriglia vintage – ricorda l’iconografia delle vecchie rivoluzioni. Il
presente appare “macchiato” dal passato, quasi fossimo di fronte a una realtà
parallela in cui il tempo non è progredito.
Da un lato, questa scelta rinforza uno dei messaggi chiave del film – ovvero che
gli ideali e i conflitti di ieri ritornano immutati oggi, in un eterno ciclo. Le
immagini di manifestazioni, repressioni violente e complotti ricordano
volutamente quelle che vediamo nei cinegiornali d’archivio tanto quanto nei
telegiornali attuali. D’altro canto, questa ibridazione temporale rischia di
confondere lo spettatore. La narrazione non chiarisce mai del tutto in che anno
preciso ci si trovi, e alcuni elementi risultano volutamente fuori dal tempo: ad
esempio, le giovani reclute del French 75 comunicano con codici e rituali quasi
da cultura hippie, oppure brandiscono armi analogiche come fossero in un vecchio
film di guerriglia, mentre i loro nemici complottano in salotti massonici rétro.
Questa scelta artistica può essere affascinante – dona al film un’aura da
allegoria universale – ma allo stesso tempo può apparire artificiosa. Una
battaglia dopo l’altra finisce per raffigurare un oggi immaginato tramite il
filtro dei ricordi storici. La battaglia generazionale messa in scena – con
giovani rivoluzionari confusi ma pieni di entusiasmo, contrapposti a vecchi
potenti corrotti e reazionari – sembra quasi figlia di un altro periodo, e non
sempre coglie le specificità del mondo contemporaneo. Sicuramente i giovani
rivoluzionari di oggi sono confusi, ma tanto per cominciare non mettono più le
bombe – nel bene e nel male.
> Una battaglia dopo l’altra finisce per raffigurare un oggi immaginato tramite
> il filtro dei ricordi storici. La battaglia generazionale messa in scena
> sembra quasi figlia di un altro periodo, e non sempre coglie le specificità
> del mondo contemporaneo.
Un elemento centrale del film è infatti proprio la rappresentazione della
gioventù ribelle. I ragazzi del French 75 vengono mostrati come idealisti
appassionati ma disorganizzati. Agiscono più per istinto e furia contro “il
sistema” che con un piano coerente: fanno esplodere bombe, derubano banche,
attaccano simboli del potere in modo quasi casuale. Tutte cose oggi impossibili
da fare, proprio perché non siamo più negli anni Settanta. Questa confusione
strategica, unita alla modalità fantasiosa ispirata al passato, è in parte
voluta: Anderson sembra suggerire che la rabbia giovanile odierna sia autentica
ma priva di una direzione unitaria, frammentata in gesti isolati. In una scena
chiave, Perfidia urla che “la violenza rivoluzionaria è l’unica via”, incitando
i compagni alla lotta armata, ma allo stesso tempo un personaggio osserva
amaramente che “le rivoluzioni iniziano contro dei demoni, e finisce che quei
demoni combattono loro stessi”. È un riconoscimento del rischio insito in questi
movimenti: l’implosione interna, la perdita di vista del nemico originale.
Un altro dei punti deboli del film è proprio l’assenza di un nemico
esplicitamente riconosciuto. O, al contrario, forse semplicemente troppo
riconoscibile. Anderson dice di non voler mettere la politica in primo piano,
facendo di tutto per camuffare il nemico, addirittura provando a confonderci con
la dimensione temporale, eppure ciò che emerge dalla pellicola sembra essere
molto schiettamente un film contro l’era Trump, come tanti altri. Tra l’altro,
Una battaglia dopo l’altra è stato vittima di un selvaggio review bombing da
parte del movimento MAGA (Make America Great Again), la destra trumpiana, che,
evidentemente si è sentita chiamata in causa, e ha iniziato a dare una stelletta
sui vari siti di recensioni cinematografiche, nonostante gli altri voti
altissimi.
> Un altro dei punti deboli del film è proprio l’assenza di un nemico
> esplicitamente riconosciuto. O, al contrario, forse semplicemente troppo
> riconoscibile.
DiCaprio, parlando del film, ha spiegato che Anderson ha voluto mostrare
“l’estremismo da entrambi i lati” dello spettro ideologico per riflettere su
“dove siamo nella società oggi”. Il risultato di questa scelta è che non c’è un
antagonista monolitico e chiaro contro cui tifare: i “cattivi” sono ovviamente
identificabili (il colonnello e i suoi accoliti razzisti), ma anche i “buoni”
rivoluzionari hanno le loro colpe ed eccessi. Potrebbe apparire così sulla
carta, se non fosse che i cattivi sono rappresentati come vecchi bavosi,
razzisti, misogini, omofobi col culto del corpo che però sotto sotto sono anche
attratti dal proprio stesso sesso, e per questo sono repressi, mentre i buoni
sono impersonati da donne “cazzutissime” che aggirano il potere senza il minimo
problema o sforzo. Magari fosse tutto così semplice!
Il personaggio interpretato da Sean Penn è talmente parodistico da risultare
imbarazzante. Non dovrebbe ricordare nessuno di realmente esistito, eppure
quando a un certo punto del film appare sfigurato nel volto somiglia in maniera
impressionante all’ufficiale nazista Otto Skorzeny: colui che fu a capo
dell’Operazione Quercia, ovvero quell’intervento che su ordine di Hitler,
permise la liberazione di Mussolini, tenuto prigioniero a Campo Imperatore, sul
Gran Sasso, dopo essere stato arrestato nel luglio del 1943. Inoltre, dopo le
apparizioni di Sean Penn al festival di Cannes con i soldati dell’esercito
ucraino al suo fianco, coinvolgerlo in progetti rappresenta per certi versi
anche questo un piccolo gesto politico.
Per concludere, se l’intento era quello di fomentare nello spettatore un senso
di urgenza e indignazione verso i mali del presente, questa narrazione rischia
di lasciarlo spiazzato, chiedendogli di parteggiare per una causa che appare
quantomeno confusa – se si cerca, come suggerisce il regista, di andare oltre
alla battutissima critica trumpiana di questi tempi. In altre parole, Paul
Thomas Anderson ha sempre saputo trasformare l’epoca rappresentata in un
dispositivo universale; qui invece è l’oggi a risultare opaco, filtrato da un
immaginario che appartiene ad altri decenni.
L'articolo Una battaglia apolitica dopo l’altra proviene da Il Tascabile.
C hi era veramente Jacques Lacan? Provare ad avvicinarsi alla natura di questa
esistenza potrebbe forse rivelare i segreti sepolti in un pensiero
coraggiosamente oscuro, che procede per folgorazioni e illuminazioni e non
sembra poter essere ridotto alla più tranquillizzante e canonica catena di
causa-effetto. Studiare la parte più sommersa della psiche umana, come ha fatto
Lacan, plasma inevitabilmente anche il modo di raccontarla, ma alla grigia
intransigenza dell’analista fa da controcanto un’esistenza spumeggiante e sempre
tesa al superamento dei limiti, una dissonanza in realtà solo apparente perché
mostra come l’uomo e il suo pensiero non siano del tutto divisibili.
Catherine Millot, allieva e poi compagna di Lacan, nel suo Vita con Lacan
(2017), offre un ritratto inedito dello psicoanalista francese catturato nella
sua esistenza quotidiana, tra lo studio a Parigi nel settimo arrondissement e la
casa di Guitrancourt, tra le corse folli con la macchina (Lacan non sopportava
le code e superava le altre auto in corsia di emergenza o abbandonava la sua in
mezzo alla strada se la cosa era inaggirabile o un semaforo rosso troppo a
lungo) e gli imprescindibili bagni nella piscina della sua casa di campagna
qualsiasi fosse la stagione. Ma scoprendo i tic e le fissazioni di Lacan emerge
pian piano il fondamento che è alla base del suo lavoro, l’idea, cioè, di un
movimento inesorabile verso lo sconosciuto, una spinta sempre in avanti, la
forza di protendersi fino al limite. Così come le forme del desiderio che la sua
psicoanalisi ha mirato a definire, a questo anelito verso l’infinito che muove
l’uomo e il pensatore, Lacan ha offerto, sempre, la sua dedizione più assoluta.
Nell’inverno del 1971, settantenne, affermato già in tutto il mondo come uno dei
più grandi eredi di Sigmund Freud e sempre al centro di critiche che ne
contestano l’insegnamento o la pratica di analisi tanto da venire a un certo
punto scomunicato dall’IPA (International Psychoanalytical Association), Jacques
Lacan viene chiamato all’Ospedale Sainte-Anne di Parigi per tenere una serie di
conferenze per i medici psichiatri dell’istituto. Il Sainte-Anne, situato nel
quattordicesimo arrondissement e dal 1863, per volere di Napoleone III, dedicato
alle cure psichiatriche, di cui usufruiranno anche Antonin Artaud e Paul Celan,
non era un posto qualunque per Lacan perché alla fine degli anni Venti in quelle
sale cominciò a esercitare la professione medica come psichiatra. Tornarci
quindi, dopo quasi mezzo secolo e dopo aver fondato due scuole centrali per la
storia della psicoanalisi e delle scienze umane tutte, l’École freudienne de
Paris che poi scioglie e l’École de la Cause freudienne, significava per Lacan
guardarsi indietro, capire il luogo da dove si era sviluppato il suo pensiero e,
per certi versi, fare i conti con la strada che fino a quel momento aveva
percorso.
> All’interno di un’opera che è quasi esclusivamente orale e basata sui suoi
> seminari affollatissimi Lacan è consapevole dell’insufficienza della parola e
> dell’impossibilità di trasmettere attraverso i suoi significati i segreti
> dell’esistenza psichica umana. Eppure, non esiste altro modo.
La raccolta di quegli interventi ha un titolo emblematico, che nella sua
icasticità rende bene le forme ermetiche, e per certi versi impenetrabili, della
sua opera: Io parlo ai muri, questo il titolo, è infatti un concetto in grado di
restituire l’opacità di una parola che, andando a indagare gli spazi più
reconditi dello spirito umano, quelli dell’inconscio, per sua stessa natura
risulta inafferrabile e inspiegabile, una dichiarazione di poetica che accetta
le difficoltà e ne assume tutto il valore per provare ad andare oltre alla
limitatezza del parlare. Nell’incontro che tiene nella cappella dell’ospedale,
Lacan prova a spiegare al suo uditorio il paradosso di tutta la sua esperienza:
all’interno di un’opera che è quasi esclusivamente orale e basata sui seminari
affollatissimi che tenne per tutta la vita e che videro affollarsi migliaia di
studenti, personalità dell’intellighenzia mondiale e curiosi, Lacan è
consapevole dell’insufficienza della parola e dell’impossibilità di trasmettere
attraverso i suoi significati i segreti dell’esistenza psichica umana. Eppure,
non esiste altro modo.
Perché però provare? Perché tentare di forzare i limiti del linguaggio davanti a
un’impresa che si preannuncia, sin dall’inizio, impossibile? In queste domande è
racchiuso il senso intero di un’opera lanciata verso l’impossibile, sfidare il
monito di Wittgenstein su quello su cui si dovrebbe tacere: nel suo desiderio di
sondare l’insondabile l’opera di Lacan è rivoluzionaria e non solo si ricollega
al magistero di Freud (attraverso il suo celebre e auspicato “ritorno a Freud”)
ma in un certo senso lo oltrepassa perché lo studio dell’inconscio finisce per
superare abbondantemente i confini della psicoanalisi e incrociare proficuamente
la sua strada con altri campi del sapere, dalla letteratura alla filosofia fino
alla matematica. Il segno probabilmente più evidente di questo slancio verso
l’impossibile è testimoniato dalla natura orale e seminariale del suo lavoro:
l’unica opera scritta pubblicata nel corso della sua vita sono i due volumi
degli Scritti (che comunque sono una raccolta di testi già pubblicati altrove o
di discorsi e conferenze pronunciate in giro per il mondo) mentre tutto il cuore
del suo insegnamento e della sua eredità sta proprio nei seminari che tenne a
Parigi tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta e che sono dapprima un’analisi
dei concetti di Freud e poi, a partire dal celebre seminario I quattro concetti
fondamentali della psicoanalisi, una riscrittura di Freud con la lenta e
inesorabile emersione dell’originale pensiero lacaniano.
> Nel suo desiderio di sondare l’insondabile l’opera di Lacan è rivoluzionaria e
> non solo si ricollega al magistero di Freud ma in un certo senso lo oltrepassa
> perché lo studio dell’inconscio finisce per superare i confini della
> psicoanalisi e incrociare la sua strada con altri campi del sapere.
Come uno dei suoi maestri, Alexandre Kojève, le cui lezioni parigine su Hegel
ebbero una ricaduta fondamentale per tutta la cultura del secondo Novecento e a
cui partecipò anche Lacan in compagnia di personaggi come Raymond Queneau,
Georges Bataille, André Breton, Hannah Arendt e molti altri, Lacan ripone una
fiducia massima nell’ambito seminariale che diventa da un lato la messa alla
prova più estrema dell’uso della parola e, dall’altro, l’unico mezzo attraverso
il quale diffondere le proprie idee, difficilissime da ingabbiare sulla pagina
scritta. Riveste quindi un ruolo centrale, che emerge bene anche da Io parlo ai
muri, l’insegnamento, un gesto non riducibile solo alla trasmissione del sapere,
ma che si tinge di una relazione decisiva con chi ascolta, chiamato a
collaborare alla costruzione della conoscenza: “Mi sforzo – dice Lacan –
affinché non abbiate un accesso troppo facile al sapere, così che voi dobbiate
metterne del vostro”. Jacques-Alain Miller, durante una delle conferenze che
tenne in Brasile su Lacan e che sono raccolte nell’importante volume
Delucidazioni su Lacan (2025) spiega bene come l’insegnamento di Lacan
“impedisce di credere che lo si possa comprendere immediatamente”: in questo
senso leggere Lacan, provare a cogliere il mistero più profondo del suo
pensiero, e quindi il segreto intero dell’essere umano, è un atto di fede
assoluto.
La parola è quindi lo strumento fondamentale dell’insegnamento di Lacan
nonostante per lui la verità sia per sua stessa natura impossibile: “Io dico
sempre la verità: non tutta! Perché a dirla tutta non ci si arriva. Dirla tutta
è impossibile materialmente: sono le parole che mancano! È proprio per questo
‘impossibile’ che la verità tocca il reale”. “I muri in fondo sono fatti per
circondare un vuoto” dice Lacan e in effetti insegnare rappresenta proprio lo
sforzo di circoscrivere questo vuoto, di dargli una forma e fare in modo che
nell’aula, nelle quattro mura che la costituiscono e che custodiscono gli
uditori, si possa formare un sapere da condividere che oltrepassi i confini
della verità, la limitatezza del parlare.
In questo senso la parola assume un valore decisivo e un’importanza ancora
maggiore all’interno di un pensiero che considera e studia l’inconscio come un
linguaggio: qui sta la novità assoluta del pensiero di Lacan che riprendendo la
distinzione del linguista De Saussure tra langue e parole (e cioè tra il
linguaggio come sistema e la sua espressione) in un saggio fondamentale,
Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicanalisi, espone come il
linguaggio venga legittimato solamente dall’incontro con l’altro: “non v’è
parola senza risposta, anche se non incontra che il silenzio, purché abbia un
uditore”. Se quindi la langue può esistere anche senza soggetti, la parole
necessita dell’intervento di un altro soggetto per poter funzionare: questo
rivela come per Lacan l’intera esistenza umana, di cui l’analisi e il rapporto
analista-paziente non è che un epifenomeno, sia segnata dalla necessità
dell’Altro.
Negli ultimi anni della sua vita Lacan diventa ostaggio della sua ossessione per
il nodo Borromeo (fa comprare ogni tipo di corde e dissemina il pavimento del
suo studio e della sua camera da letto di questi nodi, oltre a mostrarne tutte
le implicazioni a un Heidegger oramai anziano che non sembra coglierne
l’importanza) e anche i suoi seminari cominciano a scivolare verso un silenzio
che appare molto lontano dalla teatralità degli anni precedenti. Maillot
racconta un evento accaduto in quegli anni che oltre a rivelarsi commovente
testimonia anche lo scivolamento dell’uomo e del suo pensiero verso il silenzio.
Una notte il vecchio Lacan esce dalla sua casa parigina in rue de Lille, per
andare da suo genero, nonché successivamente esecutore testamentario,
Jacques-Alain Miller e dalla figlia Judith per infilarsi nel letto del piccolo
nipote Luc: sembra trattarsi di un’estrema richiesta di compagnia che si tinge,
come ha scritto Massimo Recalcati, della “forma della supplica, della preghiera”
diventando la concretizzazione assoluta di quell’invocazione dell’Altro che
aveva segnato tutta la sua vita.
In questo senso le fasi finali della vita di Lacan sono attraversate da una
lacerazione insanabile: se dal punto di vista teorico lo studio della topologia
dei nodi borromei lo allontana sempre di più dalle spire umanistiche, dall’altro
avverte radicalmente il suo essere inerme e solo, abbandonato a un’afasia
simbolica che trova corrispettivo nell’opera di James Joyce (da ragazzo aveva
assistito, poco prima della pubblicazione francese dell’Ulisse da Shakespeare
and Company, alla lettura di alcuni passi del romanzo) e, in particolare, nel
Finnegans Wake, a cui dedicherà importanti analisi nei suoi ultimi seminari (Il
sinthomo e Ancora), ritrovando in Joyce lo stesso rigore e lo stesso coraggio
con il quale aveva rinnovato la clinica. In una lettera al padre un Lacan
diciassettenne, difendendo la sua strenua opposizione alle idee dello zio,
scrive: “la mia personalità consiste nel fatto che mi rifiuto nel modo più
assoluto di farmi riempire la testa”. Questa ostinata fiducia nel proprio
pensiero trasforma Lacan in Edipo perché il suo desiderio di sapere diventa il
desiderio di conoscersi. Ma questo itinerario non è individuale, non è una lunga
ricerca solitaria perché la mediazione dell’Altro è imprescindibile ed è solo
attraverso un confronto con la sua immagine che può pian piano emergere la
propria.
> Se dal punto di vista teorico lo studio della topologia dei nodi borromei
> allontana Lacan sempre di più dalle spire umanistiche, dall’altro avverte
> radicalmente il suo essere inerme e solo, abbandonato a un’afasia simbolica
> che trova corrispettivo nell’opera di James Joyce.
Il nodo Borromeo che ossessiona Lacan negli ultimi anni della sua vita, quella
in cui, per contrasto, riconosce la natura distruttiva della solitudine, viene
soprannominato “nodo Bo” che, con un gioco di parole assimilabile alle acrobazie
linguistiche del Finnegans Wake, rimanda da un lato al “neud-bo” ma, dall’altro,
al “mont Nébo”, il monte Nebo, il luogo in cui Mosè ebbe la visione della Terra
Promessa e dove, secondo l’Antico Testamento, Dio stesso lo seppellì. Lacan ha
provato a scalare questa montagna per tutta la sua vita in una lotta con il
reale che terminò nel 1981 a causa di un cancro all’intestino a cui, come
raccontò la figlia Judith, decise di non opporre alcuna resistenza “così, per
capriccio”. La morte non lo spaventò mai, tant’è che quando un ladro entrò nel
suo studio durante una supervisione Lacan gli disse di non avere alcuna paura di
morire (alla fine fu il suo paziente a dare i soldi al malvivente e Lacan
cominciò a viaggiare sempre con un tirapugni di ferro), poiché la considerava
non tanto un evento distruttivo quanto una tendenza ultima a ritrovare la quiete
definitiva. Così la sua morte si pone all’ombra di Edipo a Colono, il vecchio
che svanendo lascia al mondo una domanda che non può avere una risposta se non
lo stesso mutismo della fase finale della vita di Lacan. In questo Lacan ricorda
il protagonista di un racconto di Maurice Blanchot in cui un uomo, in attesa
della scarica di fucili del plotone di esecuzione che gli si para davanti,
comprende, per un istante, il tutto: “restava in attesa soltanto della scarica
dei fucili, quella sensazione di leggerezza che non saprei tradurre: liberato
dalla vita? L’infinito che si apre? Né felicità, né infelicità. Né l’assenza di
timore e forse già un passo al di là”.
L'articolo Sono le parole che mancano! proviene da Il Tascabile.
È (già) tempo di tracciare un bilancio per Alex Garland. In relativamente pochi
anni di carriera ha costruito opere di densità e rilevanza imprescindibili, per
presa sulla contemporaneità e coraggio di intraprendere riflessioni filosofiche
in un’epoca ostile al pensiero (libero, ma non solo). Ogni suo film assomiglia a
una profezia, e non di quelle rassicuranti: più vicina a Cassandra che a
Nostradamus, più a un Palantír di Mordor che a una sfera di cristallo. Con quel
sesto senso proprio di chi è stato toccato da un’intelligenza superiore Garland
arriva semplicemente prima degli altri, in virtù di un meccanismo di autodifesa
contro la mediocrità e di un sottile sentimento antiamericano, tipico di una
britishness in via di estinzione. Seppur arrivando per tempo al problema,
Garland non ne esce con delle risposte chiare e distinte. La sua esposizione del
dubbio, la sua “verifica incerta”, testimonia con lucidità la difficoltà estrema
di raccontare il presente, di discernere la verità, di capire da che parte
stare. Il che non significa “fare di viltà il gran rifiuto”, bensì arrendersi
alla insensata e fuggevole complessità di un mondo che è, innanzitutto, troppo
veloce per essere afferrato e compreso.
Ad accomunare Ex Machina (2014), Annientamento (2018) o Civil War (2024) è
l’ipercinesia che non lascia spazio all’elaborazione di un pensiero, che obbliga
a una deriva istintuale, sovente quasi ferina. Uscito in sala con un tempismo
mirabile, Civil War ha suscitato inevitabili discussioni, talora facete – perché
proprio la California very Blue State e il Texas very Red State come alleati in
chiave secessionista? – ma ha saputo tradurre in immagini di rara ferocia quella
deriva autodistruttiva inestricabilmente legata a un Paese-bambino come gli
Stati Uniti, armato fino ai denti e dilaniato da divisioni interne sempre più
esacerbate. Un discorso di cui Warfare (2025, in sala dal 21 agosto in Italia) –
codiretto con il reduce di guerra Ray Mendoza – è la naturale prosecuzione: il
passaggio da un ipotetico scenario di conflitti futuri a uno effettivo del
passato prossimo (la seconda guerra in Iraq) comporta un ulteriore spostamento
della soggettiva. Warfare non è un pamphlet antimilitarista, così come Men
(2022) non è un banale pamphlet contro la mascolinità tossica. L’ambivalenza del
primo – l’immersione nel dettaglio bellico a livello di singolo uomo che altera
il linguaggio, ricco di acronimi fino all’esoterismo – si riflette
nell’ambiguità del secondo (sono gli uomini a essere “tutti uguali” o è la
protagonista a vederli così?).
> Civil War ha saputo tradurre in immagini di rara ferocia quella deriva
> autodistruttiva inestricabilmente legata a un Paese-bambino come gli Stati
> Uniti, armato fino ai denti e dilaniato da divisioni interne sempre più
> esacerbate.
Warfare non è un film sulla guerra o contro la guerra. È un film della guerra.
In cui il conflitto è la soggettiva, ignorante e acritica, così immersa nel
proprio presente eterodiretto da risultare cieca a ogni elemento esterno. Una
forma di alienazione radicale, che può essere “preparata” assumendo dosi di
immagini, attraverso il filtro della distorsione mediatica – il video di Eric
Prydz a cui assistono i soldati e con cui si apre il film. Smettere di pensare e
astenersi dal dover esercitare il libero arbitrio sembra essere l’unica via.
Perché per Garland e Mendoza il videogioco-già-giocato-da-qualcuno è l’unica
metafora possibile per una tecnica e una tattica di combattimento (il titolo è
Warfare, infatti) che hanno rimosso il lato umano fino al puro nonsense. Per i
Navy Seals asserragliati in un’abitazione irachena il passaggio dalla baldanza
al panico è rapido, almeno quanto la transizione da esseri umani a oggetti. Dopo
l’esplosione improvvisa e il ferimento grave di due soldati, avviene la
reificazione. L’insensibilità alle casualties of war è il male necessario di un
conflitto impossibile da osservare nella sua interezza e complessità.
Nascondendosi negli acronimi di un gergo bellico imperscrutabile, i Navy Seals
si rifugiano in un microcosmo alienante quanto serve.
Se Civil War e Warfare esplorano le fratture geopolitiche e il potere
distruttivo delle narrazioni, è anche perché Garland vede il cinema come un
campo di battaglia per le idee. Il suo rifiuto di schierarsi in maniera
didascalica non è neutralità, ma consapevolezza che il linguaggio stesso è
un’arma. In un panorama dominato da franchising e riscritture rassicuranti, la
sua ostinazione a creare mondi autonomi, non negoziabili, lo rende un autore
raro. E se la profezia è una maledizione per chi la formula, Garland sembra
averla accettata come condizione del mestiere: guardare un passo oltre, pur
sapendo che nessuno ascolterà in tempo.
> Garland vede il cinema come un campo di battaglia per le idee. Il suo rifiuto
> di schierarsi in maniera didascalica non è neutralità, ma consapevolezza che
> il linguaggio stesso è un’arma.
Volendo individuare un protagonista incognito e ricorrente delle opere di Alex
Garland, occorre concentrarsi sul libero arbitrio, esplicitamente citato nella
serie TV del 2020 che il regista ci ha costruito attorno: DEVS, con ogni
probabilità la migliore serie degli ultimi dieci anni (e naturalmente inedita in
Italia). Uno spy-thriller sulla Silicon Valley costruito attorno a un’invenzione
misteriosa, che si trasforma gradualmente in riflessione filosofica sul libero
arbitrio e sulla predeterminazione del comportamento umano, come se fosse
possibile calcolare in maniera deterministica azioni e reazioni. Il confine tra
tecnologia, filosofia e magia è felicemente abbattuto, per la gioia di Arthur C.
Clarke (“Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla
magia”). Tecnicamente perfetta, densissima nei dialoghi e impreziosita da una
delle migliori battute sulla capacità tutta americana di nascondere e edulcorare
le peggiori verità, concentrandosi sul messaggio e sminuendo la sostanza, in una
contrapposizione degna di Le Carré con l’onesta nudità del male di matrice
russa.
La poetica di Garland, in fondo, è sempre un laboratorio di esperimenti
concettuali ‒ in cui la trama è un vettore, non il fine ‒, e di interrogativi
insoluti: cosa succede se un’Intelligenza artificiale diventa cosciente (Ex
Machina)? Se la natura riformula le sue leggi (Annientamento)? Se il conflitto
armato viene percepito come routine in cui annullarsi (Warfare)? Se un trauma
personale deforma l’intero spettro delle relazioni (Men)?
> In Annientamento, forse il manifesto della poetica garlandiana,
> l’inaffidabilità dell’immagine è totale, la sua paternità ignota. Forse ciò
> che vediamo è attribuibile a una spora che sembra riformulare la natura e
> ricalcolarla.
In quest’ultimo caso, quello di Men, Garland compie un passo rischioso: spoglia
il racconto di sovrastrutture fantascientifiche e lo riduce a un incubo
allegorico, in cui un solo attore (Rory Kinnear) incarna tutte le figure
maschili, moltiplicando l’effetto perturbante. Forse il lavoro meno riuscito di
Garland, o comunque il più problematico, ha suscitato critiche spesso
fuorvianti, legate alla lettura più superficiale del film. Soffermarsi sulla
parabola MeToo e su come la mascolinità tossica si annidi in ogni maschio
significa dimenticare che osserviamo ogni dettaglio attraverso lo sguardo
deformante e traumatizzato della protagonista, senza altri punti di vista. E
quindi ancora una volta discernere soggettività e oggettività, predeterminazione
e libertà di scelta diviene esercizio impossibile. Allo spettatore resta la
possibilità di osservare attraverso un vetro colorato, opaco. Come per lo Harry
Caul di La conversazione (1974), ottenere la certezza di una visione chiara e
distinta è arduo e opinabile quanto ricavare l’audio di una conversazione
privata priva di manipolazioni.
In Annientamento, forse il manifesto della poetica garlandiana, l’inaffidabilità
dell’immagine è totale, la sua paternità ignota. Forse ciò che vediamo è
attribuibile a una spora che sembra riformulare la natura e ricalcolarla, in
direzione uguale e opposta a quanto elaborato dall’Intelligenza artificiale del
lungometraggio di debutto, Ex Machina. Là era un costrutto artificiale a
divenire “more human than human”, e quindi manipolatorio e bugiardo; in
Annientamento è una forza aliena “ecologista” a cambiare le regole del gioco ed
escludere il fattore umano dall’equazione. La resa a un ordine che sfugge a
qualsiasi mappa razionale rimanda, più ancora che ai sinistri vaticini di H.P.
Lovecraft, al suo maestro Arthur Machen, che celava nel folklore rurale delle
terre britanniche misteri cosmici al di là dell’umana comprensione, tra
ribellioni della natura (The Terror, 1917) e sfoghi di violenta sessualità
pagana (The Great God Pan, 1894). Difficile escludere una influenza esplicita di
Machen quando la protagonista di Men mette piede in una chiesa isolata, in cui
spicca un altare istoriato di inquietanti bassorilievi. Gli strumenti del
terrore misterico rimangono gli stessi: dal tempo dell’inizio Novecento di
Machen al terzo millennio di Garland, più la specie umana si avvicina alla
presunzione di onniscienza e più si allontana dalla conoscenza intima
dell’ignoto, in un ciclo privo di fine apparente.
L'articolo Alex Garland: DEVS EX MACHINA proviene da Il Tascabile.
I veri intellettuali rosicano quando un fenomeno culturale non li riguarda o non
lo sanno spiegare, quando gli sorvola sopra la testa come un bombardiere B-52
pronto a nuclearizzare la loro egemonia, così decidono di prenderlo al lazo, di
cavalcarlo come Major T.J. “King” Kong del Dottor Stranamore, spesso si
schiantano e deflagrano per la goduria di tutti, raramente riescono a prendere
in giro la bomba, così tanto che non esplode. Non so se Alberto Piccinini e
Giovanni Robertini, autori del libro Maxi-rissa. I diari della trap (2025), si
siano schiantati o siano riusciti nell’operazione quasi impossibile di
descrivere la trap, ossia quel fenomeno che lo stesso Robertini descrive come
“ovunque, una sorta di iperoggetto”, sempre citando il saggio del “profeta
dell’Antropocene” Timothy Morton, che ha il titolo più accennato da chi vuole
parlare di fenomeni presenti.
È chiaro che intuendo le date di nascita di Robertini e Piccinini sarebbe facile
pensare al loro libro, che tratta proprio di un tipo di musica che ha un
pubblico tendenzialmente giovane, come un’operazione che ricorda tanto il meme
di Steve Buscemi vestito da skater (con una maglia con scritto “Music Band”),
visibilmente vecchio, che si rivolge a un gruppo di highschooler con l’iconica
“What’s up, fellow kids?”, oppure come un libro scritto in ritardo rispetto a un
fenomeno che raggiungeva uno dei suoi picchi con la creazione culturale della
Dark Polo Gang e la loro hit Sportswear uscita nel novembre del 2016, ovvero
quasi nove anni fa.
Questa, però, è una critica superficiale e fregare due volpi come questa coppia
è difficile: la loro rubrica su Rolling Stone si chiama proprio Boomer Gang, a
scanso di equivoci e di onde da poter surfare. Partendo dal fondo, lo stesso
Piccinini mette le proverbiali mani avanti, cercando di annullare, accettare o
superare hegelianamente la critica che compare nella testa di tutti quando
vediamo questo libro: “Di questa operazione vorrei rivendicare A) l’incompetenza
‒ e la faccia tosta di fingere di saper addentrarmi in discorsi complicati coi
miei figli che ne sanno parecchio più di me; B) il dilettantismo, direi
nell’accezione nobile con la quale David Foster Wallace e il suo compagno di
università Mark Costello scrissero Il rap spiegato ai bianchi nel 1989, un
reference book di questo libretto. Se qui ci fosse una bibliografia sarebbe
senz’altro il primo titolo”.
> Come uno specchio riflesso, analizzando la trap, Robertini e Piccinini
> riescono a riprodurre un “impero dei segni” della bolla della sinistra dirtbag
> italiana.
Quindi tanto vale gettarsi in questo flusso à la Blob, una cifra che sembra non
poter mai lasciare il corpo di Piccinini come la materia nera di Venom, e
cercare di destreggiarsi in quella che oscilla in tutte le sue pagine tra una
critica feroce al nostro immaginario così castrante e la chiacchierata tra due
universitari che hanno appena letto Roland Barthes (citato nell’outro). Questo
libro è seducente, ma chi deve sedurre? Io, noi? Il libro cita Toni Negri alla
primissima pagina. Come uno specchio riflesso, analizzando la trap, Robertini e
Piccinini riescono a riprodurre un “impero dei segni” della bolla della sinistra
dirtbag italiana. Questo è un libro che seduce chi è di sinistra, ma ascolta la
Zanzara, non sopporta i moralismi, ha eretto Žižek a più grande filosofo
contemporaneo, guarda Canale 5 “per analizzare il nemico” e quando ascolta “Mi
piacciono le armi” di Simba La Rue viene posseduto dal demone di Adorno che lo
costringe a spiegare perché sia davvero una canzone rivoluzionaria e che lo
diceva Fanon che il processo di decolonizzazione è un processo violento.
E sono bravissimi a farlo, alla seconda pagina viene citato il venerabile
maestro: “Nello scorso decennio il filosofo Mark Fisher ci aveva spiegato che
l’immaginario hip hop rappresentava in generale la bipolarità del tardo
capitalismo: l’alternarsi di depressione ed euforia causato dall’ideologia
secondo cui ognuno sarebbe responsabile della propria miseria così come del
proprio successo”. La seduzione continua pagine più avanti, ne è un esempio la
critica elegante alla libreria Tuba al Pigneto, dove si condensa tutto questo
lisciamento di pelo:
> Abbiamo visto le femministe radicali della Libreria Tuba del Pigneto tifare
> per Rose Villain a Sanremo 2025 intravedendo nella sua esibizione teatrale e
> queer, con styling manga modello Sailor Moon e coreografia pronta per TikTok,
> le infinite possibilità che la sua finzione poteva offrire rispetto alla
> presunta verità degli altri cantautori in gara. Rose, coi capelli blu e i
> colori primari è la nostra regina hyperpop. “L’hyperpop parte dal principio
> che, nell’era dei social network, per un* artista è impossibile essere
> autentic* e spontane*” scrive Julie Ackermann (Hyperpop, Nero Editions).
Ma attenzione a pensare che i nostri eroi siano così ingenui da produrre
l’ennesima analisi filosofico-politica del fenomeno della trap, citando Simon
Reynolds, Naomi Klein o Jameson, no, no, no. C’è di più di così e questo je ne
sais quoi sono i featuring alla fine di ogni capitoletto: ciò che li salva,
almeno all’inizio, dall’essere un articolo di una rivista online di studenti. Il
monologare “pallido e assorto” imbandisce la tavola per il contenuto reale, gli
estratti delle interviste a chi la trap la fa. Aperti come dei fiori a primavera
grazie al sex appeal delle pagine prima, arriviamo a ascoltare i nostri trappers
come i bianchi universitari di Berkeley davanti a Malcolm X. Così ascoltiamo
Simba La Rue che dice:
> Ho rischiato di morire più volte. Tra risse, coltellate, agguati, anche
> sparatorie. Ma come ti dicevo prima queste cose non mi fanno paura perché sono
> sicuro che tutto è scritto, se deve succedere succede. L’unica cosa di cui ho
> paura è tornare povero, crescere mio figlio come sono cresciuto io. Quando ero
> bambino esistevano solo i soldi. […] Chi ti dice che i soldi non fanno la
> felicità è un bugiardo! Se cresci senza avere niente e sei fissato solo con le
> cose materiali, poi quando fai i soldi e viaggi e conosci altra gente, altre
> lingue, capisci che è questa la vita. Ma a questo ragionamento ci arrivi solo
> quando hai i soldi, prima pensi solo a come farli.
O anche Paky: “Ora ci sono molti che ci imitano, che vorrebbero essere come noi,
ma non lo sono, riconosco chi è di strada e chi non lo è. Lo vedo dagli occhi. I
vostri per esempio sono occhi tranquilli, di chi ha studiato, che sta bene con
se stesso. Quando guardo gli occhi delle persone di qui vedo un’altra cosa”.
Uno dei passaggi più significativi di questo cinema verità pasoliniano è quando
Giovanni Robertini scrive della sua esperienza come testimone delle riprese di
un video (“Haram Freestyle2“) di Mowgli CLL durante l’iftar, il pasto serale che
interrompe il digiuno del Ramadan: “Al calar del sole di un sabato di fine marzo
2025 arrivo a Quarto Oggiaro spesso chiamato ‘il Bronx di Milano’, niente più di
un luogo comune da quartiere popolare” e fin qui sembra un qualsiasi articolo
del New Yorker e in parte lo è, come segue: “Nel cortile di una palazzina dei
ragazzi stanno sistemando all’aperto dei tavoli, sedie e tovaglie, con la
speranza che il tempo regga. […] [Mowgli] Mi racconta che il posto in cui ci
troviamo ‒ un magazzino con affaccio sul cortile interno ‒ è di un’associazione
che si chiama ‘Dar El Kalimat’ di cui fa parte il suo amico Hani: aiutano più di
cento famiglie ogni settimana a fare la spesa (accanto a noi sono accatastate
scatole di zuppe e cartoni di succhi di frutta), fanno corsi di italiano per
donne arabe e… pure corsi di Zumba!”. Robertini qui non riesce a perdersi nel
flusso, il tono cambia per un motivo che spiega dopo: «Io rimango come
spettatore nella mia bolla piccoloborghese a qualche chilometro verso il centro,
ringraziando Mowgli per avermi fatto parlare di musica e di politica con un
ragazzo di ventitré anni, un privilegio oggi per me superiore a quello di
incontrare una navigata rockstar d’oltreoceano. Se la sua trap arrivasse in
classifica il mondo sarebbe un posto più interessante».
> Il monologare “pallido e assorto” imbandisce la tavola per il contenuto reale,
> gli estratti delle interviste a chi la trap la fa.
È un gioco di equilibrio: la voglia caciarona di perdersi a parlare di Silvia
Sardone (citatissima nel libro), della stupidissima industria musicale italiana
e di Baby Gang che fa l’endorsement a Forza Italia deve fare i conti con
l’accorgersi che ciò che i trappers dimostrano è importante, è il distillato
purissimo del nostro mondo, perché è, come asserisce Piccinini alla fine:
“capace di svelare ogni segreto del neocapitalismo tecno-feudale in cui siamo
precipitati con tutte le scarpe perché racconta storie di luoghi dove non ci
sono regole né leggi, se non quelle che si ricavano dall’uso della strada e
dalle consuetudini mafiose, e non ci metti niente a risalire fino a Shakespeare
passando per L’odio, West Side Story e il noir americano”.
Lo scontro tra queste due forze crea intrattenimento costante, una schizofrenia
controllata indotta al lettore o alla lettrice attraverso degli elettrodi
posizionati sul rilascio di dopamina. Leggere questo libro è come parlare con un
tuo amico che scrolla reels tutto il giorno: “Dopo Ruby c’è il Berlusconi
ultimo, quello sposato con la darkissima Marta Fascina, plastica
rappresentazione di una via di uscita psichedelica ‒ l’unica possibile, scartata
quella politica ‒ dalla situazione: Silvio e Marta con la macchinetta da golf,
la panchina, la mongolfiera, i cuori, gli aeroplanini che sventolano il suo
nome” e poi via ecco un’altra linea di pensiero che si accavalla subito senza
soluzione di continuità: “Walt Disney, Jeff Koons, Douglas Sirk, tutte le
telepromozioni Mediaset in un colpo solo. Un kolossal pop. Una luce abbagliante
accesa nel cuore della Brianza, forse la mutazione seguita alla bomba N (tra i
commenti di Twitter c’è chi scrive che siamo tutti morti nel 1994, viviamo nel
sogno di Silvio)”.
Robertini e Piccinini si sono lasciati attraversare dallo spirito del tempo,
l’hanno condotto finché non potevano più controllarlo (la bomba di sopra). Ci
consegnano un’analisi più vera, più autentica e più divertente di un qualsiasi
libro di Morton, perché se nel 1989 attraverso il rap Wallace e Costello
parlavano degli Stati Uniti che si vantavano di aver vinto la storia,
dimenticandosi voci diverse da quelle dei bianchi dei sobborghi, nel 2025
Piccinini e Robertini parlano della fine della storia e dello stato attuale del
capitalismo con il suo linguaggio, il suo campo semantico, la sua stupidità e la
sua schizofrenia. Come Blob nel 1989 anticipò il saggio di Baudrillard, La
guerre du Golfe n’a pas eu lieu (1991), in modo più scanzonato e divertente e
con meno parole, così i due boomers riflettono la società dello spettacolo senza
mediare nulla, come dei monaci buddhisti in posizione di pieno ascolto, e quello
che viene fuori è un rimaneggiamento di Guy Debord letto da Barbara D’Urso, un
processo senza esclusione di colpi all’hypernormalisation descritta da Adam
Curtis, cioè quel processo di razionalizzazione ed edulcorazione della
complessità contemporanea per evitare di subire la Storia.
Le pagine che i due autori dedicano al caso di Ramy Elgaml sono le migliori del
libro. La critica di una società morente si lega al vero senso di tutta la
faccenda della trap, che poi è la stessa del rap del 1989; per i ghettizzati
della nostra società esistono due modi e basta per finire tra i salvati e non
tra i sommersi: spaccare con la musica, essere forti negli sport (“Tra loro ci
potrebbe essere il prossimo Lamine Yamal”, dice Mowgli, “sempre che non vengano
scavalcati dal figlio di quello che ha l’amico manager”). Piccinini e Robertini
ne sono consapevoli e vogliono che emerga questo groundhog day dell’oppressione,
infatti di fianco a Ramy ci mettono Rodney King, quello delle proteste a Los
Angeles nel 1994 e Carlo Giuliani, al nazi-immobiliarismo sionista per Gaza gli
antisemiti polacchi del 1937.
> Le pagine che i due autori dedicano al caso di Ramy Elgaml sono le migliori
> del libro. La critica di una società morente si lega al vero senso di tutta la
> faccenda della trap, che poi è la stessa del rap del 1989.
Finendolo e rileggendo l’introduzione, il senso di questo libro si apre in tutta
la sua chiarezza. Robertini e Piccinini parlano di trap e trappers non perché ne
parlano meglio di altri o conoscono più retroscena, ma perché parlano di tutto
il resto, perché, come spiega Robertini: “I valori dei trapper sono gli stessi
dei loro genitori, di anni di Berlusconi, di sessismo, individualismo
esasperato, culto del denaro e iperconsumismo, e che ora tornano indietro ai
padri e alle madri col filtro dell’autotune. I trapper semplicemente riflettono
il mondo così com’è, non come vorrebbero che fosse”. Bisogna andare oltre al
paraculismo, allo spezzettamento, alla finta giovinezza e soprattutto alla
mancanza totale di critica musicale per se, se non qualche pezzo in giro tipo
“L’ottanta per cento delle rime che scrive Lazza parlano di quanto è bravo a
scrivere rime che parlano di quanto è bravo a scrivere rime eccetera. E Chopin
suonato al piano? Il campionamento di Erik Satie nel suo disco?”, per apprezzare
questo libro.
Ma io sono sicuro che sul mio scaffale preferisco avere questa testimonianza del
periodo 2016-2025 italiano piuttosto che un “La trap spiegata bene”.
Rimango in attesa che qualcuno nelle alte sfere del potere mediatico offra a
Piccinini e Robertini soldi infiniti per produrre centinaia e centinaia di
documentari su qualsiasi cosa, perché sembrano sempre a loro agio.
L'articolo La trap spiegata ai bianchi proviene da Il Tascabile.