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Che succede a Baum? di Woody Allen
R omanzo ricchissimo di battute, ironia e scene comiche, Che succede a Baum? (2025, traduzione di Alberto Pezzotta) di Woody Allen è certamente più efficace di molti dei suoi ultimi film, quanto meno da A Rainy Day in New York del 2019 in poi. Tuttavia questa premessa non è sufficiente per definire Che succede a Baum? un buon romanzo e soprattutto un romanzo che possa rispondere alle aspettative degli spettatori/lettori del grande regista newyorkese. Scritto alla soglia dei novant’anni, Che succede a Baum? è un ottimo compendio delle qualità del suo autore, un pastiche sicuramente riuscito dell’idealtipo alleniano tra nevrosi e occhiali dalla montatura nera. La vicenda ha per protagonista uno scrittore in via di fallimento crescente che vaga tra le strade di New York in cerca di sé stesso come di quel che resta dei negozi di dischi e delle librerie della città, ultime zone franche possibili per lui, per le sue passioni e per le sue malinconie. Il mondo attorno infatti pur essendo da sempre per Baum profondamente assurdo e incomprensibile appare ora anche parecchio ostile e dichiaratamente pericoloso. Quel poco di fortuna che sembrava avere con sé sembra essersi del tutto diradata con la pubblicazione degli ultimi romanzi e ora a poco più di cinquanta anni davanti a lui resta solo la prospettiva sempre più negletta di una vita ridotta ai margini. Un pensiero totalmente angosciante, tanto più che nel medesimo momento l’odiato figlio della moglie, ora brillante scrittore esordiente, viene acclamato da critica e pubblico come il nuovo grande romanziere americano. > Scritto alla soglia dei novant’anni, Che succede a Baum? è un ottimo compendio > delle qualità del suo autore, un pastiche sicuramente riuscito dell’idealtipo > alleniano tra nevrosi e occhiali dalla montatura nera. Al solito per i personaggi di Woody Allen il rapporto problematico e ossessivo con le donne non è solo centrale, ma una vera costante fatta di errori di valutazione e assurde quanto improbabili fascinazioni che si traducono per Baum rapidamente in matrimoni sbagliati, brutte figure, delusioni e ora anche in approcci maldestri e sconsiderati che rischiano oltre tutto di rovinargli definitivamente quel poco che gli resta di reputazione e di esistenza pubblica. Baum predilige però l’implosione all’esplosione e si chiude così drammaticamente come comicamente in sé stesso alimentando un monologo e un borbottio continuo con cui si accompagna per le strade di New York. In questi frangenti Baum ricorda a sé stesso l’infanzia felice e il debito con l’universo che subito ne ha esaurito ogni possibile gioia e leggerezza: > No, non c’era motivo per crescere con la paura della solitudine perché non era > mai stato lasciato solo, traumatizzato, affidato a governanti, abbandonato, > perso in metropolitana. Eppure, per qualche ragione, in tenera età un’ombra > era scesa su Baum, quando gli era stato chiaro che il minuscolo spazio che > occupava nell’universo ostile, l’universo un giorno lo avrebbe rivoluto > indietro. Nessuna via di fuga gli era più possibile che non fosse il lavoro, come la condanna di Sisifo, non gli restava così che riprendere quotidianamente quell’enorme masso e riportarlo nuovamente sulla cima, per ogni giorno della sua vita. Baum non è infatti diverso da Sam/Allan Felix, da Alvy Singer, da Ike Davis, da Sandy Bates e da quasi tutti i personaggi portati in scena da Allen o da altri interpreti da lui scelti in particolare negli ultimi anni. Una forma di autobiografismo espanso al limite estremo perché in fondo il grande romanzo, Woody Allen lo ha scritto con la sua autobiografia A proposito di niente (2020), che non a caso esprimeva il medesimo ritmo efficacemente straordinario della sua migliore filmografia. Qui invece sembra offrire più che altro il catalogo delle proprie ragioni narrative e in tal senso Che succede a Baum? è più rivelatore della sua arte e della sua incredibile capacità di scrittura e riscrittura che della sua comunque certa capacità narrativa. Il borbottio di Baum è in fondo il borbottio di un artista che da novanta anni scrive e riscrive di sé e della sua città tentando di dare ragione del proprio spazio fisico e urbano, della propria irriducibilità umana prima ancora che delle proprie ragioni e dei propri sentimenti, che in fondo non sono altro che parti di una cronaca tutto sommato irrilevante rispetto alla paura che fa la vita e ai brividi e alle meraviglie che può comportare. > Il grande romanzo Woody Allen lo ha scritto con la sua autobiografia A > proposito di niente, che non a caso esprimeva il medesimo ritmo efficacemente > straordinario della sua migliore filmografia. Qui invece sembra offrire più > che altro il catalogo delle proprie ragioni narrative. Più che un romanzo dunque un doppio manuale, di istruzioni, ma anche di preghiera. L’illusione da tenere a bada con il lavoro, ma il lavoro che occupandogli l’intera vita ha il ruolo di alimentare un’illusione di salvezza, un possibile trionfo ‒ e spesso così è stato ‒ che viene però subito spento e cancellato da una caduta improvvisa quanto fragorosa. Woody Allen è uno dei grandi geni del secondo Novecento e lo è in particolare nella sua capacità di indagare fragilità e debolezze che non sempre afferiscono però al grado di tragedia, ma vivono fortemente nell’imbarazzo là dove la debolezza è spesso raramente raccontata. Un imbarazzo che diviene nel caso di Allen comico solo a patto di riconoscerlo come comune, difetto o errore che appartiene a un tempo e a un modo di vivere che è stato tanto rivelatore come tanto ricco di contraddizioni. Fuori da questo schema organizzato e fortemente strutturato Woody Allen non può stare, le sue sono griglie narrative che illuminano lo schermo cinematografico grazie a infinite sfumature possibili, date da un’elaborazione che parte sì da lui, ma che all’interno della produzione cinematografica vive più grazie a una forma espansiva di liberazione che per una forma di controllo ossessiva. Sulla pagina invece, purtroppo il miracolo non avviene e quello che resta di Cosa succede a Baum? assomiglia a un Woody Allen minore se non di maniera. Un autore capace di pagine straordinarie, ma che nell’insieme appaiono sempre troppo fragili e a tratti addirittura sterili. Allen tende ad abbandonare la pagina troppo presto, non gli interessa esercitare un controllo, definire la scrittura, ma dare corpo alla scena e poi vada come vada. Il gesto dunque che prevale su tutto anche sull’opera finale, una modalità che prevede istantaneità più che immedesimazione, cinema più che letteratura. > Sulla pagina il miracolo non avviene e quello che resta di Cosa succede a > Baum? assomiglia a un Woody Allen minore se non di maniera. Un autore capace > di pagine straordinarie, ma che nell’insieme appaiono sempre troppo fragili e > a tratti addirittura sterili. Tuttavia resta un romanzo che illumina e non poco sulla capacità di lavoro del grande regista newyorkese e che ha il sapore di un fuori tempo massimo più malinconico che decadente perché tornando proprio a Baum, tutto quello che a lui manca sembra mancare esattamente allo stesso modo anche ai suoi lettori. E non si tratta solo di dischi e libri, di mostre e musei, ma di passeggiate e chiacchierate senza l’ossessione di una scadenza sempre imminente, di un risveglio o di un allarme sempre pronto a suonare: > Gli tornò alla mente un ricordo di molti anni prima. Perché le notti piovose > riportavano alla mente i ricordi? si chiese. Anche i pomeriggi piovosi, se per > questo. Qual era il motivo? Che connessione poteva esserci tra un’umidità del > cento per cento e l’ippocampo? Fatto sta che le gocce cadevano e riattivavano > la memoria. A Baum, almeno, succedeva sempre così. Anche in questo caso non è una mera questione di tecnologia, ma di libertà mentale, di darsi una possibilità che sia di volta in volta casuale come meditata, o come direbbe il suo Boris Yellnikoff: “Whatever works”, basta che funzioni. Ciò che la pioggia o l’amore diversamente, attivano è una distrazione da sé stessi, ma quello che è essere sé stessi per gli uomini come Woody Allen, nati negli Stati Uniti alla viglia del loro trionfo mondiale, è lavorare, realizzarsi, dare forma ai propri sogni e desideri. Una vera ossessione il cui finale e le contraddizioni che lo preannunciano portano a un vicolo cieco o meglio all’impossibilità di smettere di darsi da fare riportando sempre in cima alla montagna il masso di Sisifo. A novanta anni Woody Allen è testimone di una grandezza che ha nelle sue origini una forza ancora del tutto contemporanea, ma non nelle sue prospettive ormai legate a un Novecento che oggi ha il sapore astratto di un paese dei balocchi. Che succede a Baum? purtroppo non buca quell’immagine, non valica il secolo, ma offre il ritratto di uno dei più importanti artisti di quel tempo, anche nei suoi limiti più o meno comici: > Cosa volesse davvero, era il primo a non saperlo. Sapeva solo di essere già > stato all’inferno e non voleva tornarci. Eppure sentiva già odore di zolfo che > bruciava. Pensò che avrebbe aspettato che lei parlasse e poi avrebbe osservato > il proprio corpo e visto che cosa faceva. Si sarebbe osservato da lontano e, > come un semplice spettatore, forse non sarebbe stato responsabile delle azioni > che avrebbe potuto tentare la sua persona. Smettere dunque con tutto, con sé stesso tanto per cominciare e diventare per una volta spettatore, restare a guardare. Una volontà passiva inseguita forse per tutta la vita. L'articolo Che succede a Baum? di Woody Allen proviene da Il Tascabile.
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narrativa americana
I nostri estranei di Lydia Davis
L a forma breve detta altrimenti racconto è per Lydia Davis in realtà una strategia per arrivare a una scrittura automatica, un flusso unico, compatto e continuo in grado di celebrare ogni singolo momento dell’esistenza, facendo rilucere la quotidianità, anche quella considerata a torto spesso banale o ovvia. La scrittura come un momento capace di dare corpo a una scia luminosa, essenziale, rapida e mistica, ma soprattutto esistenzialmente fondamentale per comprendere i chiaroscuri della vita e le sue inevitabili incertezze. Associata alla scuola del minimalismo, Lydia Davis è ancora poco nota in Italia nonostante gli sforzi di Rizzoli, Minimum Fax e ora di Mondadori che manda in libreria in questi giorni ‒ dopo Osservazione sulle faccende domestiche (2022) ‒, I nostri estranei, una raccolta uscita originariamente negli Stati Uniti nel 2023 e qui tradotta splendidamente (come sempre) da Gioia Guerzoni. Lydia Davis sconta la diffidenza e spesso più facilmente l’indifferenza dei lettori che da sempre ‒ regola aura dell’editoria ‒ appaiono più attirati dalla forma romanzo che dalla forma racconto. Un dato che in parte vive in contraddizione con i tempi attuali che dettano in continuazione velocità e rapidità e che in generale vedrebbero così favorita la forma breve alla forma lunga. Ma probabilmente l’insicurezza unita all’ambizione a cogliere e immergersi nella grande opera predispongono chi legge a imbarcarsi più favorevolmente per un lungo viaggio che per una breve gita come sono spesso le storie e le storielle (in senso tutt’altro che dispregiativo) che condiscono e illuminano i libri di Davis. Racconti che spesso sono fatti di poche righe, impressioni dettate sulla pagina che nascono da un momento rapido, da uno sguardo abbagliato e incantato che fa resistere l’attimo e il suo accadere espandendolo così nel fondo della memoria dei suoi lettori. Basta molto poco a Lydia Davis per far accadere una storia su una pagina, ma oltre il racconto che di volta in volta si pone davanti agli occhi è l’opera che appare di una straordinaria compattezza. Sostanzialmente un unico lunghissimo racconto, un oggetto letterario monumentale che ha la forma ultima e critica dell’autobiografia di una scrittrice al lavoro, anzi nel mentre del suo lavoro. > I racconti di Davis spesso sono fatti di poche righe, impressioni dettate > sulla pagina che nascono da un momento rapido, da uno sguardo abbagliato e > incantato che fa resistere l’attimo e il suo accadere espandendolo così nel > fondo della memoria dei suoi lettori. Vista in tutta la sua interezza ‒ e forse varrebbe proprio di pensare un unico volume fisico per tutti i suoi racconti ‒ l’opera di Lydia Davis appare come un infinito flusso in continua evoluzione dentro cui zampilla e saltella un allegro e musicale movimento d’onde che dà corpo a una ultracontemporanea e al tempo stesso attualissima Antologia di Spoon River. Davis infatti riesce a giocare brillantemente e coraggiosamente ‒ come pochissimi ‒ tra attualità e contemporaneità mischiando abilmente i piani e restituendo al lettore una sensazione di leggerezza là dove il discorso può facilmente assumere i toni e la forma di un dramma, magari solo accennato, ma ben visibile nella possibilità di un imminente accadimento. L’attesa è un elemento fondamentale della narrazione di Lydia Davis: tutto potrebbe avvenire oltre l’ultima pagina data, una forma di suspence non strategica, ma che vive dell’essenza delle cose, del loro naturale accadere e agire. E da questo punto di vista l’influenza di Samuel Beckett è percepibile in più di un racconto come una presenza di fondo che definisce le tonalità narrative dei suoi scritti: “L’uomo acconsente, lo sconosciuto fa una chiamata. L’uomo chiede allo sconosciuto se può venire in sinagoga. Serve un altro uomo per raggiungere il minia. Lo sconosciuto accetta e rimane per quasi tutta la funzione”. Così come fanno capolino situazioni metaletterarie: “A Detroit, mentre aspettavo in coda, ho conosciuto una donna che si è rivelata essere la figlia dell’editore di Samuel Beckett, Barney Rosset”. > L’opera di Lydia Davis appare come un infinito flusso in continua evoluzione > dentro cui zampilla e saltella un allegro e musicale movimento d’onde che dà > corpo a una ultracontemporanea e al tempo stesso attualissima Antologia di > Spoon River. In particolare I nostri estranei offe un’irremovibile convinzione nella forma letteraria pura capace proprio per questo di sfondare le pareti ‒ speso sterili ‒ della narrativa per invadere la strada, per tornare là dove gli eventi accadono in continuazione, ma sempre senza il bisogno e la necessità di riferirli se non in forma di telegrafica ovvietà. Il movimento proposto da Lydia Davis è quello di un’attesa che possa illustrare non i fatti, ma la forma mobile dello sguardo e della voce narrante, al punto che i suoi racconti alternano la narrazione al punto di vista dell’autrice che risulta così uscire improvvisamente dal ruolo di narratrice per divenire direttamente protagonista di una vicenda, magari minima, ma che definisce un’interpunzione utile ad accelerare o a rallentare quella che a tutti gli effetti appare come una proiezione continua. Il movimento che l’autrice impone ai suoi lettori è quasi cinematografico, una sorta di piano sequenza warholiano in cui tutto quello che può accadere sta già accadendo in quell’unico e dunque preciso istante. Un mentre che si posizione perfettamente davanti agli occhi dello spettatore/lettore, senza però che vi sia mai la necessità di mettere l’evento in evidenza, sottolineandolo o delineandolo all’interno di una narrazione di particolare straordinarietà. Tutto per Davis vive al medesimo stadio d’importanza: “quella nota sarebbe rimasta completamente isolata nello spazio, al centro dell’attenzione di tutti coloro che ascoltavano, isolata come qualsiasi altro suono che avresti emesso, e avrebbe riecheggiato nella vastità della chiesa con tuo grande imbarazzo”. > I nostri estranei alterna narrazioni lunghe, a forme più diradate, quasi degli > haiku. Intervengono nel mentre ballate e incisive poesie narrative che > espandono il loro senso fino a offrirlo al successivo racconto, come in una > ritmica dall’armonia totalmente jazzistica. Una forma che vive tranquillamente quale elemento sconosciuto la cui visibilità e presenza è data solo dalla pretesa e voluta solitudine, come un’ombra cinese la cui profondità non è data dalla temperatura del colore, ma dallo scambio tra luce e buio. Un icastico imbarazzo attraversa i protagonisti dei racconti di Lydia Davis che fanno così (sorprendentemente) capolino nelle singole memorie esistenziali di ogni lettore. Là dove la letteratura diventa sì indagine, ma anche memoria, un vero sistema organizzato capace ‒ sempre senza citare mai esplicitamente ‒ di rimembrare come una percezione intima un passato privato che diviene in questo modo autobiografia comune. I nostri estranei alterna narrazioni lunghe, a forme più diradate, quasi degli haiku. Intervengono nel mentre ballate e incisive poesie narrative che espandono il loro senso fino a offrirlo al successivo racconto, come in una ritmica dall’armonia totalmente jazzistica. Minute che riportano alla letteratura di Robert Walser, da sempre un riferimento per Davis, dentro cui a guidare è la lingua prima della trama. È nell’essere ferma, istantanea che si definisce infatti la cifra della scrittrice americana, in particolare in questa ultima raccolta in parte criticata proprio perché sembra non andare oltre l’abituale e confortevole giardino che da sempre Davis offre ai suoi lettori. Ma forse la direzione da ricercare non è nel movimento, ma in quel non movimento che offre una fotografia diretta della vita come della morte e del guaio che è riuscire a far tornare ‒ da bambini come da vecchi ‒ tutti i conti. L'articolo I nostri estranei di Lydia Davis proviene da Il Tascabile.
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racconti
Goodbye Hotel di Michael Bible
L’ assoluto protagonista dell’ultimo romanzo di Michael Bible, Goodbye Hotel (2025, traduzione di Martina Testa) è un luogo immaginario e difficile da collocare se non in una qualche periferia estrema e sconosciuta, isolata e nascosta di New York. Un luogo che è aderente direttamente al suo sentimento, un movimento necessario di rifugio. Un riparo dunque da qualcosa d’indefinito, ma che proprio oggi non può che essere più chiaro ed evidente. In un tempo dettato da un ritorno repentino alla violenza da parte degli Stati nazione, dalla guerra nuovamente in voga come risoluzione estrema, e dalla riduzione a ombra di ogni forma di cittadinanza in quanto modalità di vita considerata desueta, ognuno si ritrova infatti lasciato nudo di fronte alla propria esistenza. Goodbye Hotel, titolo originario pensato dall’autore, ma non titolo della versione originale che in realtà è Little Lazarus, come spiega lo stesso Bible in un’intervista a Giorgio Biferali, arriva come un urto potente addosso ai lettori. Un movimento che scombussola e inquieta, che fa male e lascia profondamente perplessi perché la sua forza e la sua angosciante irresolutezza appaiono estremamente difficili da decifrare se non dal punto di vista di un organismo letterario che ha disperso ogni necessità strutturale per ridefinirsi come un corpo disseminato nello spazio e nel tempo. La lezione è quella di William Faulkner il più americano degli autori americani, ma anche il più europeo perché è proprio nel vecchio continente che il premio Nobel di New Albany ha trovato negli anni un pubblico di lettori affezionati ben più che negli Stati Uniti. La forma narrativa che vacuamente si può definire innovativa in realtà è per Faulkner l’unica possibilità di racconto di un movimento dato e agito da chi dal Paese di nascita non si è praticamente mai mosso, ma è anche il modo più efficace e poco sperimentato per descrivere quei moti dell’animo che sovrappongono caoticamente pensiero a desiderio, urgenza a necessità, fare ad ambizione. Bible conferma la propria qualità e statura letteraria dopo il precedente L’ultima cosa bella sulla faccia della terra (2023) con una rara capacità di controllo del discorso letterario, fortemente trattenuto all’interno di una forma che non è fatta per chiarire e disporre tutti gli elementi narrativi ben in vista, ma che si pone come ultimo e vero obiettivo quello di rivelare. Leggere Bible è un atto di deliberata curiosità, un’avventura dentro alla quale si è chiamati come parte in causa: soppesare ogni parola, ogni elemento della punteggiatura non per definire e precisare, ma per accogliere le sfumature di un discorso mai volutamente esplicativo. Bible lavora infatti sulla chiarezza come una pura forma di luce e ogni pagina è una forma di scoperta necessaria che va affrontata obbligatoriamente quale unico elemento cronologico a disposizione. > Bible conferma la propria qualità e statura letteraria con una rara capacità > di controllo del discorso letterario, fortemente trattenuto all’interno di una > forma che non è fatta per chiarire e disporre tutti gli elementi narrativi ben > in vista, ma che si pone come ultimo e vero obiettivo quello di rivelare. I numeri delle pagine sono così il parapetto più utile, ma anche la corda fissata alle pareti di una scalata che ha la forza di coinvolgere e distrarre, di respingere nella sua verticalità, ma infine di concedersi in uno splendore sentimentale potente e mai patetico: “Laz­a­rus la guardava. La trovava simpatica e semplice. I ricordi di altre notti passate a nascondersi gli affollarono la mente. In tutti quegli anni gli era capitato di trovarsi alla periferia di qualche città sconosciuta a cercare rifugio dove poteva. Questo appartamentino al confronto era un paradiso”. Trickster del romanzo è Lazarus, una tartaruga dai poteri magici, una sorta di oracolo capace d’incarnare e in alcuni casi di anticipare gli eventi. Il suo sguardo è aperto e include le figure che di volta in volta gli si parano davanti agli occhi. Il rifugio, oltre le mura del misero e misterioso hotel arriva a darsi piena forma nella mente dei suoi ospiti, che tendono inevitabilmente a ripercorre la propria memoria ritornando, come è già avvenuto nel precedente romanzo di Bible, ad Harmony, dispersa cittadina del Sud degli Stati Uniti. I piani si sovrappongono sospendendosi a vicenda, connettendosi e negandosi di volta in volta. Il ritmo è certamente fondamentale per evitare di perdere i preziosi agganci che il racconto offre, ma non è da meno l’altra influenza che segna in maniera determinante la scrittura dell’autore nato nel North Carolina, ovvero quella di Flannery O’Connor, perché di fronte a ogni accettazione di rivelazione è necessario sempre un atto di fede. Bible restituisce un’originalità assoluta intersecando due autori estremamente vicini eppure radicalmente opposti l’uno all’altra come due simili estraneità. Qui sta la grande qualità e originalità di un autore che in poche pagine offre parimenti luminosità e buio profondo: “Per Laz­a­rus quei primi anni di viaggio furono un sogno bellissimo. La nebbia bassa sopra le montagne mentre si inerpicavano verso una grotta dove dormire tutta la notte in mezzo al frinire dei grilli. O le albe viola e i temporali pomeridiani. Percorrevano le strade maestre e quelle secondarie. Si tenevano alla larga dalle grandi città e giravano solo per i piccoli centri e la campagna. Laz­arus imparò a conoscere il territorio”. Lazarus è guida e spettatore, filtro tra la storia e i suoi lettori. Dunque protagonista assoluto, ma anche voce narrante per ‒ si potrebbe dire ‒ interposto autore. L’aspetto favolistico in Goodbye Hotel non è solo determinante, ma è anche l’unico elemento strutturale che sottende a un viaggio nella memoria intimo e privato, dalla forma fortemente religiosa. Slitta infatti continuamente il senso e il timbro del romanzo, rigenerandosi però sempre alla pagina successiva. La forma, la misura è data così solo dalla presenza della tartaruga, mai antropomorfizzata ma descritta come elemento divino di rispecchiamento. > L’aspetto favolistico in Goodbye Hotel non è solo determinante, ma è anche > l’unico elemento strutturale che sottende a un viaggio nella memoria intimo e > privato, dalla forma fortemente religiosa. La tensione è retta anche, e non per ultimo, da una forma di ironia giocosa (che risiede e risale dalla forma originaria tipica della favola) che non priva mai dell’intensità a cui obbliga la scrittura, ma offre spazio a un disincanto necessario per non trasformare il romanzo in una forma di assurda litania. E non fa mai difetto a Bible una forma di accorta misura che lo rende immune da un eccesso di sperimentalismo che lo possa portare verso territori più spesso retorici e provinciali che rivelatori. Il tratto di Goodbye Hotel è così sostanzialmente popolare, un girovagare allegro e onesto con la sola urgenza di una pace che sia ‒ per quanto vergata da qualche stratagemma letterario ‒, pura e sincera: “Osservando la gente di Har­mo­ny si era reso conto che quelle persone avevano bisogno di qualcosa, qualunque cosa, in grado di confermare che il mondo era più della somma delle sue parti. Quando andavano a trovarlo nel parco e facevano una domanda a Laz­a­rus, gli rivelavano le loro piccole speranze per il mondo e grazie a Laza­rus sentivano che quelle speranze forse un giorno si sarebbero avverate”. I romanzi di Bible mantengono la promessa di andare oltre la banale somma delle parti, oltre la singola lettura che sia occasionale come critica, offrendo a ogni lettore un punto di vista sul mondo diverso e diversamente possibile. Pagina dopo pagina il romanzo si offre agli infiniti diversi occhi che vi si poseranno, restituendo un’immagine sempre diversa di Lazarus e del suo viaggio, di Harmony e dei suoi abitanti, come è tipico della grande letteratura. L'articolo Goodbye Hotel di Michael Bible proviene da Il Tascabile.
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