R omanzo ricchissimo di battute, ironia e scene comiche, Che succede a Baum?
(2025, traduzione di Alberto Pezzotta) di Woody Allen è certamente più efficace
di molti dei suoi ultimi film, quanto meno da A Rainy Day in New York del 2019
in poi. Tuttavia questa premessa non è sufficiente per definire Che succede a
Baum? un buon romanzo e soprattutto un romanzo che possa rispondere alle
aspettative degli spettatori/lettori del grande regista newyorkese. Scritto alla
soglia dei novant’anni, Che succede a Baum? è un ottimo compendio delle qualità
del suo autore, un pastiche sicuramente riuscito dell’idealtipo alleniano tra
nevrosi e occhiali dalla montatura nera.
La vicenda ha per protagonista uno scrittore in via di fallimento crescente che
vaga tra le strade di New York in cerca di sé stesso come di quel che resta dei
negozi di dischi e delle librerie della città, ultime zone franche possibili per
lui, per le sue passioni e per le sue malinconie. Il mondo attorno infatti pur
essendo da sempre per Baum profondamente assurdo e incomprensibile appare ora
anche parecchio ostile e dichiaratamente pericoloso. Quel poco di fortuna che
sembrava avere con sé sembra essersi del tutto diradata con la pubblicazione
degli ultimi romanzi e ora a poco più di cinquanta anni davanti a lui resta solo
la prospettiva sempre più negletta di una vita ridotta ai margini. Un pensiero
totalmente angosciante, tanto più che nel medesimo momento l’odiato figlio della
moglie, ora brillante scrittore esordiente, viene acclamato da critica e
pubblico come il nuovo grande romanziere americano.
> Scritto alla soglia dei novant’anni, Che succede a Baum? è un ottimo compendio
> delle qualità del suo autore, un pastiche sicuramente riuscito dell’idealtipo
> alleniano tra nevrosi e occhiali dalla montatura nera.
Al solito per i personaggi di Woody Allen il rapporto problematico e ossessivo
con le donne non è solo centrale, ma una vera costante fatta di errori di
valutazione e assurde quanto improbabili fascinazioni che si traducono per Baum
rapidamente in matrimoni sbagliati, brutte figure, delusioni e ora anche in
approcci maldestri e sconsiderati che rischiano oltre tutto di rovinargli
definitivamente quel poco che gli resta di reputazione e di esistenza pubblica.
Baum predilige però l’implosione all’esplosione e si chiude così drammaticamente
come comicamente in sé stesso alimentando un monologo e un borbottio continuo
con cui si accompagna per le strade di New York. In questi frangenti Baum
ricorda a sé stesso l’infanzia felice e il debito con l’universo che subito ne
ha esaurito ogni possibile gioia e leggerezza:
> No, non c’era motivo per crescere con la paura della solitudine perché non era
> mai stato lasciato solo, traumatizzato, affidato a governanti, abbandonato,
> perso in metropolitana. Eppure, per qualche ragione, in tenera età un’ombra
> era scesa su Baum, quando gli era stato chiaro che il minuscolo spazio che
> occupava nell’universo ostile, l’universo un giorno lo avrebbe rivoluto
> indietro.
Nessuna via di fuga gli era più possibile che non fosse il lavoro, come la
condanna di Sisifo, non gli restava così che riprendere quotidianamente
quell’enorme masso e riportarlo nuovamente sulla cima, per ogni giorno della sua
vita.
Baum non è infatti diverso da Sam/Allan Felix, da Alvy Singer, da Ike Davis, da
Sandy Bates e da quasi tutti i personaggi portati in scena da Allen o da altri
interpreti da lui scelti in particolare negli ultimi anni. Una forma di
autobiografismo espanso al limite estremo perché in fondo il grande romanzo,
Woody Allen lo ha scritto con la sua autobiografia A proposito di niente (2020),
che non a caso esprimeva il medesimo ritmo efficacemente straordinario della sua
migliore filmografia. Qui invece sembra offrire più che altro il catalogo delle
proprie ragioni narrative e in tal senso Che succede a Baum? è più rivelatore
della sua arte e della sua incredibile capacità di scrittura e riscrittura che
della sua comunque certa capacità narrativa. Il borbottio di Baum è in fondo il
borbottio di un artista che da novanta anni scrive e riscrive di sé e della sua
città tentando di dare ragione del proprio spazio fisico e urbano, della propria
irriducibilità umana prima ancora che delle proprie ragioni e dei propri
sentimenti, che in fondo non sono altro che parti di una cronaca tutto sommato
irrilevante rispetto alla paura che fa la vita e ai brividi e alle meraviglie
che può comportare.
> Il grande romanzo Woody Allen lo ha scritto con la sua autobiografia A
> proposito di niente, che non a caso esprimeva il medesimo ritmo efficacemente
> straordinario della sua migliore filmografia. Qui invece sembra offrire più
> che altro il catalogo delle proprie ragioni narrative.
Più che un romanzo dunque un doppio manuale, di istruzioni, ma anche di
preghiera. L’illusione da tenere a bada con il lavoro, ma il lavoro che
occupandogli l’intera vita ha il ruolo di alimentare un’illusione di salvezza,
un possibile trionfo ‒ e spesso così è stato ‒ che viene però subito spento e
cancellato da una caduta improvvisa quanto fragorosa. Woody Allen è uno dei
grandi geni del secondo Novecento e lo è in particolare nella sua capacità di
indagare fragilità e debolezze che non sempre afferiscono però al grado di
tragedia, ma vivono fortemente nell’imbarazzo là dove la debolezza è spesso
raramente raccontata. Un imbarazzo che diviene nel caso di Allen comico solo a
patto di riconoscerlo come comune, difetto o errore che appartiene a un tempo e
a un modo di vivere che è stato tanto rivelatore come tanto ricco di
contraddizioni.
Fuori da questo schema organizzato e fortemente strutturato Woody Allen non può
stare, le sue sono griglie narrative che illuminano lo schermo cinematografico
grazie a infinite sfumature possibili, date da un’elaborazione che parte sì da
lui, ma che all’interno della produzione cinematografica vive più grazie a una
forma espansiva di liberazione che per una forma di controllo ossessiva. Sulla
pagina invece, purtroppo il miracolo non avviene e quello che resta di Cosa
succede a Baum? assomiglia a un Woody Allen minore se non di maniera. Un autore
capace di pagine straordinarie, ma che nell’insieme appaiono sempre troppo
fragili e a tratti addirittura sterili. Allen tende ad abbandonare la pagina
troppo presto, non gli interessa esercitare un controllo, definire la scrittura,
ma dare corpo alla scena e poi vada come vada. Il gesto dunque che prevale su
tutto anche sull’opera finale, una modalità che prevede istantaneità più che
immedesimazione, cinema più che letteratura.
> Sulla pagina il miracolo non avviene e quello che resta di Cosa succede a
> Baum? assomiglia a un Woody Allen minore se non di maniera. Un autore capace
> di pagine straordinarie, ma che nell’insieme appaiono sempre troppo fragili e
> a tratti addirittura sterili.
Tuttavia resta un romanzo che illumina e non poco sulla capacità di lavoro del
grande regista newyorkese e che ha il sapore di un fuori tempo massimo più
malinconico che decadente perché tornando proprio a Baum, tutto quello che a lui
manca sembra mancare esattamente allo stesso modo anche ai suoi lettori. E non
si tratta solo di dischi e libri, di mostre e musei, ma di passeggiate e
chiacchierate senza l’ossessione di una scadenza sempre imminente, di un
risveglio o di un allarme sempre pronto a suonare:
> Gli tornò alla mente un ricordo di molti anni prima. Perché le notti piovose
> riportavano alla mente i ricordi? si chiese. Anche i pomeriggi piovosi, se per
> questo. Qual era il motivo? Che connessione poteva esserci tra un’umidità del
> cento per cento e l’ippocampo? Fatto sta che le gocce cadevano e riattivavano
> la memoria. A Baum, almeno, succedeva sempre così.
Anche in questo caso non è una mera questione di tecnologia, ma di libertà
mentale, di darsi una possibilità che sia di volta in volta casuale come
meditata, o come direbbe il suo Boris Yellnikoff: “Whatever works”, basta che
funzioni. Ciò che la pioggia o l’amore diversamente, attivano è una distrazione
da sé stessi, ma quello che è essere sé stessi per gli uomini come Woody Allen,
nati negli Stati Uniti alla viglia del loro trionfo mondiale, è lavorare,
realizzarsi, dare forma ai propri sogni e desideri. Una vera ossessione il cui
finale e le contraddizioni che lo preannunciano portano a un vicolo cieco o
meglio all’impossibilità di smettere di darsi da fare riportando sempre in cima
alla montagna il masso di Sisifo. A novanta anni Woody Allen è testimone di una
grandezza che ha nelle sue origini una forza ancora del tutto contemporanea, ma
non nelle sue prospettive ormai legate a un Novecento che oggi ha il sapore
astratto di un paese dei balocchi. Che succede a Baum? purtroppo non buca
quell’immagine, non valica il secolo, ma offre il ritratto di uno dei più
importanti artisti di quel tempo, anche nei suoi limiti più o meno comici:
> Cosa volesse davvero, era il primo a non saperlo. Sapeva solo di essere già
> stato all’inferno e non voleva tornarci. Eppure sentiva già odore di zolfo che
> bruciava. Pensò che avrebbe aspettato che lei parlasse e poi avrebbe osservato
> il proprio corpo e visto che cosa faceva. Si sarebbe osservato da lontano e,
> come un semplice spettatore, forse non sarebbe stato responsabile delle azioni
> che avrebbe potuto tentare la sua persona.
Smettere dunque con tutto, con sé stesso tanto per cominciare e diventare per
una volta spettatore, restare a guardare. Una volontà passiva inseguita forse
per tutta la vita.
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Tag - narrativa americana
L a forma breve detta altrimenti racconto è per Lydia Davis in realtà una
strategia per arrivare a una scrittura automatica, un flusso unico, compatto e
continuo in grado di celebrare ogni singolo momento dell’esistenza, facendo
rilucere la quotidianità, anche quella considerata a torto spesso banale o
ovvia. La scrittura come un momento capace di dare corpo a una scia luminosa,
essenziale, rapida e mistica, ma soprattutto esistenzialmente fondamentale per
comprendere i chiaroscuri della vita e le sue inevitabili incertezze. Associata
alla scuola del minimalismo, Lydia Davis è ancora poco nota in Italia nonostante
gli sforzi di Rizzoli, Minimum Fax e ora di Mondadori che manda in libreria in
questi giorni ‒ dopo Osservazione sulle faccende domestiche (2022) ‒, I nostri
estranei, una raccolta uscita originariamente negli Stati Uniti nel 2023 e qui
tradotta splendidamente (come sempre) da Gioia Guerzoni.
Lydia Davis sconta la diffidenza e spesso più facilmente l’indifferenza dei
lettori che da sempre ‒ regola aura dell’editoria ‒ appaiono più attirati dalla
forma romanzo che dalla forma racconto. Un dato che in parte vive in
contraddizione con i tempi attuali che dettano in continuazione velocità e
rapidità e che in generale vedrebbero così favorita la forma breve alla forma
lunga. Ma probabilmente l’insicurezza unita all’ambizione a cogliere e
immergersi nella grande opera predispongono chi legge a imbarcarsi più
favorevolmente per un lungo viaggio che per una breve gita come sono spesso le
storie e le storielle (in senso tutt’altro che dispregiativo) che condiscono e
illuminano i libri di Davis. Racconti che spesso sono fatti di poche righe,
impressioni dettate sulla pagina che nascono da un momento rapido, da uno
sguardo abbagliato e incantato che fa resistere l’attimo e il suo accadere
espandendolo così nel fondo della memoria dei suoi lettori. Basta molto poco a
Lydia Davis per far accadere una storia su una pagina, ma oltre il racconto che
di volta in volta si pone davanti agli occhi è l’opera che appare di una
straordinaria compattezza. Sostanzialmente un unico lunghissimo racconto, un
oggetto letterario monumentale che ha la forma ultima e critica
dell’autobiografia di una scrittrice al lavoro, anzi nel mentre del suo lavoro.
> I racconti di Davis spesso sono fatti di poche righe, impressioni dettate
> sulla pagina che nascono da un momento rapido, da uno sguardo abbagliato e
> incantato che fa resistere l’attimo e il suo accadere espandendolo così nel
> fondo della memoria dei suoi lettori.
Vista in tutta la sua interezza ‒ e forse varrebbe proprio di pensare un unico
volume fisico per tutti i suoi racconti ‒ l’opera di Lydia Davis appare come un
infinito flusso in continua evoluzione dentro cui zampilla e saltella un allegro
e musicale movimento d’onde che dà corpo a una ultracontemporanea e al tempo
stesso attualissima Antologia di Spoon River. Davis infatti riesce a giocare
brillantemente e coraggiosamente ‒ come pochissimi ‒ tra attualità e
contemporaneità mischiando abilmente i piani e restituendo al lettore una
sensazione di leggerezza là dove il discorso può facilmente assumere i toni e la
forma di un dramma, magari solo accennato, ma ben visibile nella possibilità di
un imminente accadimento. L’attesa è un elemento fondamentale della narrazione
di Lydia Davis: tutto potrebbe avvenire oltre l’ultima pagina data, una forma di
suspence non strategica, ma che vive dell’essenza delle cose, del loro naturale
accadere e agire. E da questo punto di vista l’influenza di Samuel Beckett è
percepibile in più di un racconto come una presenza di fondo che definisce le
tonalità narrative dei suoi scritti: “L’uomo acconsente, lo sconosciuto fa una
chiamata. L’uomo chiede allo sconosciuto se può venire in sinagoga. Serve un
altro uomo per raggiungere il minia. Lo sconosciuto accetta e rimane per quasi
tutta la funzione”. Così come fanno capolino situazioni metaletterarie: “A
Detroit, mentre aspettavo in coda, ho conosciuto una donna che si è rivelata
essere la figlia dell’editore di Samuel Beckett, Barney Rosset”.
> L’opera di Lydia Davis appare come un infinito flusso in continua evoluzione
> dentro cui zampilla e saltella un allegro e musicale movimento d’onde che dà
> corpo a una ultracontemporanea e al tempo stesso attualissima Antologia di
> Spoon River.
In particolare I nostri estranei offe un’irremovibile convinzione nella forma
letteraria pura capace proprio per questo di sfondare le pareti ‒ speso sterili
‒ della narrativa per invadere la strada, per tornare là dove gli eventi
accadono in continuazione, ma sempre senza il bisogno e la necessità di
riferirli se non in forma di telegrafica ovvietà. Il movimento proposto da Lydia
Davis è quello di un’attesa che possa illustrare non i fatti, ma la forma mobile
dello sguardo e della voce narrante, al punto che i suoi racconti alternano la
narrazione al punto di vista dell’autrice che risulta così uscire
improvvisamente dal ruolo di narratrice per divenire direttamente protagonista
di una vicenda, magari minima, ma che definisce un’interpunzione utile ad
accelerare o a rallentare quella che a tutti gli effetti appare come una
proiezione continua.
Il movimento che l’autrice impone ai suoi lettori è quasi cinematografico, una
sorta di piano sequenza warholiano in cui tutto quello che può accadere sta già
accadendo in quell’unico e dunque preciso istante. Un mentre che si posizione
perfettamente davanti agli occhi dello spettatore/lettore, senza però che vi sia
mai la necessità di mettere l’evento in evidenza, sottolineandolo o delineandolo
all’interno di una narrazione di particolare straordinarietà. Tutto per Davis
vive al medesimo stadio d’importanza: “quella nota sarebbe rimasta completamente
isolata nello spazio, al centro dell’attenzione di tutti coloro che ascoltavano,
isolata come qualsiasi altro suono che avresti emesso, e avrebbe riecheggiato
nella vastità della chiesa con tuo grande imbarazzo”.
> I nostri estranei alterna narrazioni lunghe, a forme più diradate, quasi degli
> haiku. Intervengono nel mentre ballate e incisive poesie narrative che
> espandono il loro senso fino a offrirlo al successivo racconto, come in una
> ritmica dall’armonia totalmente jazzistica.
Una forma che vive tranquillamente quale elemento sconosciuto la cui visibilità
e presenza è data solo dalla pretesa e voluta solitudine, come un’ombra cinese
la cui profondità non è data dalla temperatura del colore, ma dallo scambio tra
luce e buio. Un icastico imbarazzo attraversa i protagonisti dei racconti di
Lydia Davis che fanno così (sorprendentemente) capolino nelle singole memorie
esistenziali di ogni lettore. Là dove la letteratura diventa sì indagine, ma
anche memoria, un vero sistema organizzato capace ‒ sempre senza citare mai
esplicitamente ‒ di rimembrare come una percezione intima un passato privato che
diviene in questo modo autobiografia comune.
I nostri estranei alterna narrazioni lunghe, a forme più diradate, quasi degli
haiku. Intervengono nel mentre ballate e incisive poesie narrative che espandono
il loro senso fino a offrirlo al successivo racconto, come in una ritmica
dall’armonia totalmente jazzistica. Minute che riportano alla letteratura di
Robert Walser, da sempre un riferimento per Davis, dentro cui a guidare è la
lingua prima della trama. È nell’essere ferma, istantanea che si definisce
infatti la cifra della scrittrice americana, in particolare in questa ultima
raccolta in parte criticata proprio perché sembra non andare oltre l’abituale e
confortevole giardino che da sempre Davis offre ai suoi lettori. Ma forse la
direzione da ricercare non è nel movimento, ma in quel non movimento che offre
una fotografia diretta della vita come della morte e del guaio che è riuscire a
far tornare ‒ da bambini come da vecchi ‒ tutti i conti.
L'articolo I nostri estranei di Lydia Davis proviene da Il Tascabile.
L’ assoluto protagonista dell’ultimo romanzo di Michael Bible, Goodbye Hotel
(2025, traduzione di Martina Testa) è un luogo immaginario e difficile da
collocare se non in una qualche periferia estrema e sconosciuta, isolata e
nascosta di New York. Un luogo che è aderente direttamente al suo sentimento, un
movimento necessario di rifugio. Un riparo dunque da qualcosa d’indefinito, ma
che proprio oggi non può che essere più chiaro ed evidente. In un tempo dettato
da un ritorno repentino alla violenza da parte degli Stati nazione, dalla guerra
nuovamente in voga come risoluzione estrema, e dalla riduzione a ombra di ogni
forma di cittadinanza in quanto modalità di vita considerata desueta, ognuno si
ritrova infatti lasciato nudo di fronte alla propria esistenza.
Goodbye Hotel, titolo originario pensato dall’autore, ma non titolo della
versione originale che in realtà è Little Lazarus, come spiega lo stesso Bible
in un’intervista a Giorgio Biferali, arriva come un urto potente addosso ai
lettori. Un movimento che scombussola e inquieta, che fa male e lascia
profondamente perplessi perché la sua forza e la sua angosciante irresolutezza
appaiono estremamente difficili da decifrare se non dal punto di vista di un
organismo letterario che ha disperso ogni necessità strutturale per ridefinirsi
come un corpo disseminato nello spazio e nel tempo.
La lezione è quella di William Faulkner il più americano degli autori americani,
ma anche il più europeo perché è proprio nel vecchio continente che il premio
Nobel di New Albany ha trovato negli anni un pubblico di lettori affezionati ben
più che negli Stati Uniti. La forma narrativa che vacuamente si può definire
innovativa in realtà è per Faulkner l’unica possibilità di racconto di un
movimento dato e agito da chi dal Paese di nascita non si è praticamente mai
mosso, ma è anche il modo più efficace e poco sperimentato per descrivere quei
moti dell’animo che sovrappongono caoticamente pensiero a desiderio, urgenza a
necessità, fare ad ambizione.
Bible conferma la propria qualità e statura letteraria dopo il precedente
L’ultima cosa bella sulla faccia della terra (2023) con una rara capacità di
controllo del discorso letterario, fortemente trattenuto all’interno di una
forma che non è fatta per chiarire e disporre tutti gli elementi narrativi ben
in vista, ma che si pone come ultimo e vero obiettivo quello di rivelare.
Leggere Bible è un atto di deliberata curiosità, un’avventura dentro alla quale
si è chiamati come parte in causa: soppesare ogni parola, ogni elemento della
punteggiatura non per definire e precisare, ma per accogliere le sfumature di un
discorso mai volutamente esplicativo. Bible lavora infatti sulla chiarezza come
una pura forma di luce e ogni pagina è una forma di scoperta necessaria che va
affrontata obbligatoriamente quale unico elemento cronologico a disposizione.
> Bible conferma la propria qualità e statura letteraria con una rara capacità
> di controllo del discorso letterario, fortemente trattenuto all’interno di una
> forma che non è fatta per chiarire e disporre tutti gli elementi narrativi ben
> in vista, ma che si pone come ultimo e vero obiettivo quello di rivelare.
I numeri delle pagine sono così il parapetto più utile, ma anche la corda
fissata alle pareti di una scalata che ha la forza di coinvolgere e distrarre,
di respingere nella sua verticalità, ma infine di concedersi in uno splendore
sentimentale potente e mai patetico: “Lazarus la guardava. La trovava
simpatica e semplice. I ricordi di altre notti passate a nascondersi gli
affollarono la mente. In tutti quegli anni gli era capitato di trovarsi alla
periferia di qualche città sconosciuta a cercare rifugio dove poteva. Questo
appartamentino al confronto era un paradiso”.
Trickster del romanzo è Lazarus, una tartaruga dai poteri magici, una sorta di
oracolo capace d’incarnare e in alcuni casi di anticipare gli eventi. Il suo
sguardo è aperto e include le figure che di volta in volta gli si parano davanti
agli occhi. Il rifugio, oltre le mura del misero e misterioso hotel arriva a
darsi piena forma nella mente dei suoi ospiti, che tendono inevitabilmente a
ripercorre la propria memoria ritornando, come è già avvenuto nel precedente
romanzo di Bible, ad Harmony, dispersa cittadina del Sud degli Stati Uniti.
I piani si sovrappongono sospendendosi a vicenda, connettendosi e negandosi di
volta in volta. Il ritmo è certamente fondamentale per evitare di perdere i
preziosi agganci che il racconto offre, ma non è da meno l’altra influenza che
segna in maniera determinante la scrittura dell’autore nato nel North Carolina,
ovvero quella di Flannery O’Connor, perché di fronte a ogni accettazione di
rivelazione è necessario sempre un atto di fede. Bible restituisce
un’originalità assoluta intersecando due autori estremamente vicini eppure
radicalmente opposti l’uno all’altra come due simili estraneità.
Qui sta la grande qualità e originalità di un autore che in poche pagine offre
parimenti luminosità e buio profondo: “Per Lazarus quei primi anni di viaggio
furono un sogno bellissimo. La nebbia bassa sopra le montagne mentre si
inerpicavano verso una grotta dove dormire tutta la notte in mezzo al frinire
dei grilli. O le albe viola e i temporali pomeridiani. Percorrevano le strade
maestre e quelle secondarie. Si tenevano alla larga dalle grandi città e
giravano solo per i piccoli centri e la campagna. Lazarus imparò a conoscere il
territorio”. Lazarus è guida e spettatore, filtro tra la storia e i suoi
lettori. Dunque protagonista assoluto, ma anche voce narrante per ‒ si potrebbe
dire ‒ interposto autore.
L’aspetto favolistico in Goodbye Hotel non è solo determinante, ma è anche
l’unico elemento strutturale che sottende a un viaggio nella memoria intimo e
privato, dalla forma fortemente religiosa. Slitta infatti continuamente il senso
e il timbro del romanzo, rigenerandosi però sempre alla pagina successiva. La
forma, la misura è data così solo dalla presenza della tartaruga, mai
antropomorfizzata ma descritta come elemento divino di rispecchiamento.
> L’aspetto favolistico in Goodbye Hotel non è solo determinante, ma è anche
> l’unico elemento strutturale che sottende a un viaggio nella memoria intimo e
> privato, dalla forma fortemente religiosa.
La tensione è retta anche, e non per ultimo, da una forma di ironia giocosa (che
risiede e risale dalla forma originaria tipica della favola) che non priva mai
dell’intensità a cui obbliga la scrittura, ma offre spazio a un disincanto
necessario per non trasformare il romanzo in una forma di assurda litania. E non
fa mai difetto a Bible una forma di accorta misura che lo rende immune da un
eccesso di sperimentalismo che lo possa portare verso territori più spesso
retorici e provinciali che rivelatori.
Il tratto di Goodbye Hotel è così sostanzialmente popolare, un girovagare
allegro e onesto con la sola urgenza di una pace che sia ‒ per quanto vergata da
qualche stratagemma letterario ‒, pura e sincera: “Osservando la gente di
Harmony si era reso conto che quelle persone avevano bisogno di qualcosa,
qualunque cosa, in grado di confermare che il mondo era più della somma delle
sue parti. Quando andavano a trovarlo nel parco e facevano una domanda a
Lazarus, gli rivelavano le loro piccole speranze per il mondo e grazie a
Lazarus sentivano che quelle speranze forse un giorno si sarebbero avverate”.
I romanzi di Bible mantengono la promessa di andare oltre la banale somma delle
parti, oltre la singola lettura che sia occasionale come critica, offrendo a
ogni lettore un punto di vista sul mondo diverso e diversamente possibile.
Pagina dopo pagina il romanzo si offre agli infiniti diversi occhi che vi si
poseranno, restituendo un’immagine sempre diversa di Lazarus e del suo viaggio,
di Harmony e dei suoi abitanti, come è tipico della grande letteratura.
L'articolo Goodbye Hotel di Michael Bible proviene da Il Tascabile.