A trocemente comico e felicemente tragico: sembra muoversi all’interno di questi
confini l’ultimo romanzo di Michele Mari, I convitati di pietra (2025). Il
racconto di un patto e di un gruppo di compagni di liceo. Un accordo feroce che
gioca sul futuro e sulla morte di ognuno di loro, una vittoria destinata solo
agli ultimi che resteranno in vita, dei sopravvissuti. Sotto la tessitura di una
scrittura a tratti volutamente piana e potentemente perfida, Michele Mari offre
ai suoi lettori una densissima stratificazione di elementi che in questo breve
romanzo vanno anche oltre l’ambito del letterario offrendo un disegno e un’idea
del mondo per come è, e per come sarà, tanto efficace quanto inquietante.
I convitati di pietra sembra dialogare direttamente con quello che è l’esordio
di Mari nel 1989, Di bestia in bestia, ma in una forma ancora (se possibile) più
estrema e formalmente rarefatta. Il mistero orrorifico non si dichiara mai se
non nella forma iniziale di uno scherzo, di un gioco che solo successivamente,
pagina dopo pagina, rivela pienamente la propria forza mefistofelica. Il gioco
infatti contiene sempre un inganno, una perforazione tragica che da banale
dubbio/prurito si trasforma in un dolore assurdo e innominabile. Quello che
nasce come un accordo fra vecchi compagni di classe, un gioco di società, ecco
che assume i toni e forse la volontà inconscia di divenire un’indagine su sé
stessi, ma anche sulla presenza del male nella vita di ognuno. Un male che si
palesa nelle più indistinte forme, dal sacrificio alla truffa, dall’azzardo alla
violenza fisica, e sempre apparentemente in forme prive di ogni ragione o
motivazione:
> nulla legava le loro vite al di là del fatto casuale e ormai superatissimo di
> aver fatto parte della stessa classe per un pugno di anni scolastici: certo,
> c’era la riffa della morte, che però, una volta impostata, poteva prescindere
> dallo stanco rituale dei simposi, anzi lo doveva, se non altro per una
> questione di eleganza.
Già perché la tragedia non può avere spazio e sbocco se non è preceduta e
sostenuta da un rito sociale fortemente costituito, in questo caso
dichiaratamente borghese, che ne certifichi l’eccezionalità e al tempo stesso
sollevi il consesso e i suoi astanti da ogni insinuazione di difformità sociale.
L’ambito scolastico non è altro che la culla di quella classe dirigente
mostruosa e sterminatrice, e al tempo stesso discreta, che Luis Buñuel ha così
ben definito e a cui in parte Michele Mari sembra ispirarsi, portando però nei
nomi (e soprattutto nei cognomi) dei suoi protagonisti una traccia padana la cui
origine è giocosamente letteraria, e restituendo ai lettori una presenza
intestinale da tinello gaddiano così come da sofà arbasiniano: “in un salone
tappezzato di arazzi e di specchi oltre che di quadri, Rivadeneyra era seduto su
un divano rivestito di raso giallo brodé; su due grandi poltrone di forno e alti
sedevano la Bathory e Semprini”.
> Il mistero orrorifico non si dichiara mai se non nella forma iniziale di uno
> scherzo, di un gioco che solo successivamente, pagina dopo pagina, rivela
> pienamente la propria forza mefistofelica.
Se ne intravedono le grandi stanze degli appartamenti in centro, ma anche le
finestre piccole dei palazzi d’inizio Novecento, le tradizioni cattoliche e i
rimpianti fascisti, la vacuità da rivoluzionari distratti e la polvere di
velluti consunti e di stoffe fuori moda. Dunque un po’ Il fascino discreto della
borghesia e un po’ Venga a prendere il caffè… da noi: “Questo, in ordine
alfabetico, il quadro risultante: Bathory: mastectomia. Brancigalievore:
diabete; prostatite. Brodo: Parkinson. Coppo: epilessia. De Cruce: artrite
reumatoide; isterectomia. Gaudillo: disfunzione epatica; flebite; safenectomia.
Mascolo: gastrointerite cronica; asportazione di un linfonodo. Mercandalli: due
stent coronarici e un by-pass. Migliavacca: ovaio politeistico; acufene…”.
Michele Mari immerge i suoi personaggi ultracontemporanei eppure già millenari,
in una vicenda che li vede protagonisti fino al 2050. Classe dirigente in
disarmo, ma soprattutto classe sopravvissuta a un tempo mai compreso per
davvero, così come lo stesso gioco, una tragica riffa che sembra avvilupparsi
anno dopo anno come un fenomeno autonomo dentro cui è impossibile cogliere una
singola ‒ così come una collettiva ‒ responsabilità. Tutto si muove all’interno
di un andazzo casuale, con i protagonisti che si vivono sempre colti di
sorpresa, sempre in ritardo, sempre stupiti. Un precipitare indefesso degli
eventi che sembra in qualche modo giustificare lo scomposto atteggiamento di
questa classe di sconvolti perenni sempre ostinatamente avulsi dal proprio
tempo.
E proprio la riffa e il suo stesso meccanismo sembrano porsi come una
dichiarazione di totale impotenza rispetto agli anni in cui si vive. Un tempo
ormai ridotto a sfondo dei narcisismi e dei personalismi sterili di ognuno di
loro. I convitati di pietra assume il tono così anche di una critica esatta e
puntuale a una società che nemmeno più sembra in grado di mettere in scena uno
spettacolo, un circo Barnum fatto di fenomeni da baraccone in strenuo tentativo
di mascheramento. Ognuno ricerca una dignità e insegue un’identità che possano
essere riconosciute e validate, accettate e ritenute autorevoli e distinte.
Mascheramenti ancor più alienanti della stessa “mostrizzazione” in atto. Un
vezzo e un trucco finale che apre inevitabilmente la porta all’orrore e a una
violenza che, anche quando non appare conclamata, attraversa le persone, le loro
coscienze e i loro corpi, fino a far tremare il sangue nelle vene. Un’estesa
provincia urbana priva di discontinuità dentro alla quale ogni relazione
sottende una violenza più o meno apparente, un gioco tragico la cui uscita vede
solo la possibilità della morte.
> Proprio la riffa e il suo stesso meccanismo sembrano porsi come una
> dichiarazione di totale impotenza rispetto agli anni in cui si vive. Un tempo
> ormai ridotto a sfondo dei narcisismi e dei personalismi sterili di ognuno di
> loro.
Il mondo non si distingue da una scuola, con le sue regole e le sue campanelle a
conclusione di ogni ora, così come i suoi giovani studenti non sembrano esaurire
la loro carica di ambizione e presunzione, ma solo adagiarsi in corpi sempre più
invecchiati, flosci e indeboliti. Il microcosmo, la quotidianità, il minimo
esistere è ormai totalmente aderente al cosmo intero, alla mondanità e
all’eccezionalità. Tutto appare naturale, ma in realtà quel tutto nasconde e
ottunde ‒ non riuscendo più a opporsi ‒ proprio quell’essere naturale che
diviene nella sua ferocia sempre più estraneo a una vitalità di maniera e a una
posa e a un’ipocrisia ritenuta quale l’ultima spiaggia di una civiltà più che
possibile, quanto meno accettabile.
La tragedia, in I convitati di pietra, non ha bisogno infatti di compiersi o di
palesarsi nel divenire della trama romanzesca, ma si mostra da subito
icasticamente, pur restando discosta oltre i tendaggi sfarzosi e boriosi di un
gioco da privilegiati: “salutato inizialmente come una trovata tanto geniale
quanto divertente (oltre che, andava da sé, come prova di un’intelligenza
superiore), era destinato, anno dopo anno, a rivelare la propria disumana
spietatezza”. La condanna appare così subito nella prima pagina, quello che
viene dopo riguarda un gusto obbligato per l’orrore che diviene necessità.
L’ultimo strumento pienamente umano è infatti l’orrore stesso, utile a
restituire una sostanza fisica a un’esistenza immaginaria dentro alla quale si è
creduti intelligenti e furbi, colti e atletici e in cui ci si ritrova sempre e
solo in stato di abbandono. Si resta attoniti e senza fiato nell’attraversamento
di queste centosessanta pagine dentro cui la vita è perenne gioco, ovvero
perenne stato d’angoscia.
L'articolo I convitati di pietra di Michele Mari proviene da Il Tascabile.
Tag - Recensioni
N el 1840 Pierre-Joseph Proudhon, studente di poverissime origini e perlopiù
autodidatta, che può frequentare l’Accademia di Besançon solo grazie a una borsa
di studio per giovani meritevoli, pubblica una risposta al quesito annuale posto
dalla sua università, ovvero quali siano “le conseguenze economiche e morali che
ha prodotto in Francia, e che sembra destinata a produrre in futuro, la legge
sulla equa divisione dei beni tra i figli”. Il suo testo Che cos’è la proprietà,
un classico del pensiero anarchico, si apre con la negazione perentoria della
legittimità della proprietà. La proprietà, anzi, è furto, esattamente come la
schiavitù è assassinio.
L’equivalenza delle due affermazioni stabilisce subito il legame per lui
essenziale tra possedere e asservire. Questa relazione è di immediata
comprensione se calata nel contesto storico feudale, in cui il dominio economico
coincide con quello politico, ma diventa più oscura e meno leggibile con la
formulazione della proprietà privata come la conosciamo oggi: ben separata dal
potere pubblico. Una simile demarcazione, che si cristallizza in Francia grazie
alla Rivoluzione del 1789, porta con sé una promessa emancipatoria:
l’uguaglianza tra i cittadini si ottiene attraverso il diritto universale alla
proprietà. In questo passaggio Proudhon scorge però non la scomparsa bensì la
metamorfosi del dominio, di cui la proprietà è l’estensione economica.
> Partendo da due critiche alla proprietà privata (teoria dei beni comuni e
> decoloniale), Malabou analizza il carattere “performativo” della proprietà,
> per poi delineare una breve storia di furto, eredità e asservimento.
Nel recente La rivoluzione? Non c’è mai stata (2025), la filosofa francese
Catherine Malabou propone una critica alla proprietà, al dominio e alla servitù
radicata in quella proudhoniana, con la duplice ambizione di espanderla alle
forme contemporanee di asservimento e di metterla al riparo dalla vis polemica
di uno dei primi ammiratori ma anche, in seguito, uno dei più feroci
commentatori di Proudhon: il contemporaneo Karl Marx. Il volume si impegna
quindi per prima cosa nell’analisi di due importanti critiche contemporanee alla
proprietà privata, la teoria dei beni comuni e la teoria decoloniale, per poi
entrare nel vivo della diatriba tra Marx e Proudhon, e infine stendere una breve
storia del furto, del concetto di eredità e dell’asservimento dal feudalismo
prerivoluzionario al neofeudalelismo odierno. Lo scopo:
> interrogare gradualmente ‒ con Proudhon e oltre Proudhon ‒ l’amnesia generale
> che colpisce l’origine della condizione servile, il modo in cui il discorso
> repubblicano continua a occultare la memoria delle diverse tradizioni di
> asservimento da cui il popolo proviene nella sua stragrande maggioranza.
Le due prospettive critiche si rafforzano a vicenda. Affrontare le caustiche
osservazioni di Marx permette infatti a Malabou di districare i nodi del testo
di Proudhon. Al contempo, lo sviluppo delle tesi proudhoniane le consente di
dimostrare come esse siano tutt’altro che generiche, né tantomeno dimentiche (se
non addirittura ignare: questa l’accusa più seria mossa da Marx) delle
condizioni storiche e sociali in cui il conflitto di classe si sviluppa.
> Attingendo dal lavoro dello studioso Robert Nichols, Malabou evidenzia come la
> colonizzazione non sia soltanto una questione materiale ma intacchi e
> distrugga nei soggetti colonizzati la “sfera del sé”.
L’intuizione di Proudhon è che sia il furto a precedere la proprietà, così
inaugurandola, e non viceversa. Si tratta di un’affermazione contraddittoria sul
piano cronologico, perché l’atto stesso del furto presuppone, o dovrebbe
presupporre, che esista qualcosa da rubare: una proprietà, per l’appunto. Ma
Proudhon si muove su un terreno logico e, ancora di più, ontologico e simbolico.
Rovesciando il suo ragionamento si può sostenere che l’affermazione della
proprietà altro non è che l’istituzionalizzazione del furto, ovvero che la
proprietà si crea dichiarandola e che quindi essa non dispone che della propria
autolegittimazione.
Questa traiettoria è particolarmente chiara se si osservano quelle che Malabou
chiama le “nuove enclosures”, come i tentativi di brevettare il genoma umano, il
processo di privatizzazione dell’acqua, o la spartizione dell’Internet libera
fra i giganti del tech. Lo stesso vale per lo spossessamento coloniale,
un’appropriazione forzata di terre e risorse che prima dell’invasione europea
non appartenevano a nessuno ed erano liberamente abitate e usate dalle
popolazioni indigene. Attingendo da un importante lavoro dello studioso Robert
Nichols, debitore di Proudhon già dal titolo Theft is property! (2019), Malabou
evidenzia come la colonizzazione non sia soltanto una questione materiale ma
intacchi e distrugga nei soggetti colonizzati la “sfera del sé”: “La
subordinazione a ‘élite imperialiste’ ha impedito loro di parlare le loro
lingue, di praticare i loro culti; ha cambiato i loro nomi e li ha separati dai
loro figli e da loro stessi”. Quest’ultima puntualizzazione le permette di
preparare il terreno per alcuni ragionamenti successivi riguardo un aspetto
fondamentale della proprietà, sia essa simbolica (identità culturale, genealogia
familiare) o concreta: la capacità di riceverla e lasciarla in eredità.
Malabou non tralascia qui di sottolineare la distinzione, spesso dimenticata o
taciuta in malafede, tra la proprietà dei mezzi di produzione e quella dei mezzi
di consumo. Solo la prima è al centro delle critiche di Marx e Proudhon, in
questo sostanzialmente allineati: il possesso individuale, fondato sull’uso, è
del tutto legittimo e anzi minacciato dalla proprietà privata dei mezzi di
produzione. Non potrebbe essere altrimenti, visto che questa si radica sulla
spoliazione e sullo sfruttamento del lavoro altrui.
Il carattere performativo della proprietà, il fatto cioè che prenda forma
attraverso dispositivi politici e giuridici, costituisce il punto di divergenza
con il pensiero marxiano e una frattura di difficile ricomposizione fra i due
campi. Per Marx la proprietà non è affatto “impossibile”, come sostiene
Proudhon, ma costituisce una necessità storica perché derivante da un processo
economico e materiale, quello dell’accumulazione originaria, che pone le basi
per lo sviluppo del capitalismo. In questo senso la proprietà non dipende dalle
forme arbitrarie del dominio politico, ma risponde piuttosto alle esigenze
strutturali del capitale. Secondo i primi teorici anarchici, come lo stesso
Proudhon e Kropotkin, gli strumenti della scienza economica impiegati da Marx
sono invece insufficienti a spiegare le dinamiche politiche e simboliche che
regolano il dominio e la proprietà.
> Per Proudhon le promesse di uguaglianza della Rivoluzione francese non sono
> servite ad abolire il dominio bensì a rimuoverlo dalla memoria collettiva, in
> un’operazione che ha consolidato il potere rendendolo invisibile, non-creato e
> proprio per questo naturale.
Resta quindi da chiarire la natura del furto: una sottrazione non solo materiale
ma soprattutto ideologica, un “trafugamento” del ricordo del dominio nella
transizione tra ancien régime e periodo postrivoluzionario. Per Proudhon le
promesse di uguaglianza della Rivoluzione francese non sono servite ad abolire
il dominio bensì a rimuoverlo dalla memoria collettiva, in un’operazione di
offuscamento che ha consolidato il potere rendendolo invisibile, non-creato e
proprio per questo naturale.
Questa eliminazione della coscienza del dominio si palesa nella questione
dell’eredità e del diritto di albinaggio. In epoca feudale e prerivoluzionaria
il signore ereditava automaticamente i beni degli stranieri che morivano nel suo
territorio. Il legame tra proprietà ed estraneità alla vita civile si
concretizza in questo dispositivo giuridico, che non a caso coinvolge anche i
bastardi e i servi. L’incapacità di testare ed ereditare, di partecipare cioè
alla trasmissione dei beni, delinea il perimetro dell’appartenenza alla
condizione libera e crea fra i membri della società una gerarchia speculare a
quella che il diritto di primogenitura stabilisce tra fratelli.
> Dopo la Rivoluzione il diritto di spossessare si mantiene, traslandosi nel
> meccanismo di estrazione di plusvalore ai danni della classe lavoratrice,
> negli interessi sui prestiti, nelle rendite sugli immobili e tutto ciò che
> consente di fare profitti a spese di chi non possiede nulla.
La Rivoluzione spazza via l’insieme dei diritti feudali e con essi anche il
diritto di primogenitura, eppure questa trasformazione formale non si traduce
nell’uguale possibilità di possedere patrimoni e, di conseguenza, disporne in
eredità. Al contrario, il diritto allo spossessamento si mantiene, traslandosi
nel meccanismo di estrazione di plusvalore ai danni della classe lavoratrice,
negli interessi sui prestiti, nelle rendite sugli immobili e in tutto ciò che
consente ai proprietari di fare profitti a spese di chi non possiede nulla.
La divisione tra chi sfrutta e chi viene sfruttato muta così nella forma ma non
certo nella natura, né tantomeno nei suoi effetti, che hanno a che vedere non
tanto, o non solo, con la deprivazione materiale di oggetti e denaro. La
confisca dei beni degli stranieri non è principalmente volta ad arricchire il
signore feudale, così come la simile prassi contemporanea di sequestrare i pochi
possedimenti dei migranti al loro arrivo in Europa non ha alcuno scopo
economico. Si tratta piuttosto, allora come oggi, di una prova muscolare
dell’autorità politica, che dimostra di poter arbitrariamente scaraventare
chiunque entri nel suo raggio d’azione “ai margini del sociale”.
> La confisca dei beni degli stranieri non è principalmente volta ad arricchire
> il signore feudale, così come la prassi contemporanea di sequestrare i pochi
> possedimenti dei migranti al loro arrivo non ha alcuno scopo economico.
Il capitalismo sopravvive dunque non malgrado il gesto rivoluzionario che
vorrebbe superarlo, ma proprio in esso. Con questa premessa, Malabou non può che
essere scettica nei confronti di alcune moderne teorie secondo cui il
capitalismo possa autoregolarsi se non addirittura modificarsi nei suoi
caratteri essenziali. Diverse pagine sono dedicate al lavoro dell’economista
Jeremy Rifkin e in particolare al suo saggio del 2000 L’era dell’accesso.
Secondo Rifkin l’economia contemporanea tende a spostarsi sempre di più dal
possesso all’accesso: l’esplosione di servizi a noleggio o in abbonamento,
l’intero settore della cultura e del divertimento, il turismo di massa,
l’industria del benessere e del fitness descrivono a suo dire un nuovo modello
economico che pone maggior rilievo all’esperire rispetto al possedere, e di
conseguenza all’accesso (provvisorio e di certo non trasmissibile) piuttosto che
allo scambio. Di conseguenza, possedere beni materiali è sempre meno importante
fintanto che la possibilità di farne comunque uso resta garantita. Eppure,
riflette Malabou, la proprietà delle infrastrutture che assicurano tale
esperienza non scompare, e neanche lo spossessamento. L’autrice ha ulteriormente
chiarito questo punto in un’intervista concessa a Philosophie Magazine:
> Quando si guarda alla storia della proprietà privata, essa non è mai stata,
> per la gente comune, un fattore di emancipazione. Piuttosto è il contrario. Si
> deve pur vivere da qualche parte e, per chi voglia possedere quella “qualche
> parte”, l’accesso alla proprietà avviene solitamente a costo di rinunce. Al
> giorno d’oggi molti giovani preferiscono affittare piuttosto che acquistare.
> C’è una vera crisi del mercato immobiliare e una sensibile restrizione dei
> crediti bancari. Quanto ai beni di consumo: ne possediamo senza dubbio di più,
> ma quanto valgono? Per la maggior parte nulla. Quando si perdono i genitori e
> si svuota la loro casa, si scopre presto che i tre quarti degli oggetti non
> hanno alcun valore, e quelli che forse ne hanno sono spesso privi di ogni
> legame affettivo. Si eredita pochissimo. L’apparente abbondanza di beni
> nasconde la futilità, la liquidità dei beni personali. Non è che la ricchezza,
> la vera ricchezza, a determinare il senso e l’effettività dell’eredità.
Secondo Malabou la proprietà non va quindi regolata: deve piuttosto essere
abolita non solo sul piano materiale dei beni ma anche su quello simbolico, cioè
dei meccanismi che legittimano il potere. In questa prospettiva, l’autrice si
interroga sul ruolo dell’anarchismo in questo processo, esaminando le proposte
del movimento politico e teorico dei beni comuni sul solco delle direzioni
individuate da Proudhon (riconquista della forza collettiva, mutualismo,
federalismo).
Ma questo movimento, come ogni altro, si coagula attorno a un’idea di futuro,
all’auspicio di un miglioramento delle condizioni presenti. Tale futuro e le sue
caratteristiche non possono restare indeterminati perché devono orientare
l’azione politica che mira a conseguirli. In altre parole, lo slancio verso un
futuro immaginato parte da un principio (in questo caso il comune) nel suo
doppio significato di “idea centrale” e “cominciamento”: tutto ciò che
l’an-archè (assenza di principio) rifiuta. Il principio si trova all’inizio e
nel nucleo rovente della teoria e della pratica politica: tutto dovrà seguirlo
ed essere in armonia con esso, pena lo snaturamento del progetto stesso. È qui
che Malabou rileva un’insidia appostata: quella della gerarchia, rigida e
intollerante.
> Ogni movimento si coagula attorno a un’idea di futuro e a un auspicio di un
> miglioramento delle condizioni presenti che non possono restare indeterminati,
> perché devono orientare l’azione politica che mira a conseguirli.
È in questo spazio di tensione tra teoria e prassi che Malabou colloca la figura
dell’anarchico. Lo spazio in cui agisce l’anarchico, per tradizione estraneo e
sradicato, è infatti “incerto e pericoloso”. Qualsiasi tentativo di associarlo a
un ideale politico univoco e definito comporterebbe la chiusura di questo
spazio. Conviene allora usare l’anarchismo come Malabou si serve delle teorie
proudhoniane: non un progetto politico di carattere normativo quanto un “quadro
politico interpretativo” che consenta all’anarchico di
> diventare il portavoce di ubenati, servi, bastardi e operai restando uno
> straniero: interrogare la memoria rubata della servitù senza creare memoria
> servile né discepoli obbedienti. Restare l’altro, improprio e
> “improprietario”.
L'articolo La rivoluzione? Non c’è mai stata di Catherine Malabou proviene da Il
Tascabile.
S colaresche ciarliere, turisti provenienti da tutto il mondo, bambine e bambini
che sfuggono dalle mani dei genitori, impazienti di ciò che li attenderà.
Nonostante il caos, l’ingresso del Natural History Museum di Londra mantiene la
sua solennità, in un’atmosfera che si manifesta appieno quando la visitatrice o
il visitatore alza lo sguardo al di sopra della scalinata, lì dove sorge la
statua di Charles Darwin. Terminato dallo scultore Joseph Edgar Boehm nel 1885,
tre anni dopo la morte dello studioso, questo monumento celebra “uno di quei
rari ministri e interpreti della natura i cui nomi segnano epoche nel progresso
della conoscenza naturale”, come lo descriveva Thomas Huxley, a quel tempo
presidente della Royal Society, che forse ricordava ancora il peso del feretro
sorretto durante i funerali. Le emozioni evocate dal marmo candido e dalla cifra
neoclassica dell’opera si diradano man mano che ci si avvicina alla scultura. Le
gambe incrociate, una mano che stringe le dita dell’altra, gli occhi che
guardano altrove. Si coglie una particolare inquietudine, la stessa rivelata
nelle pagine di L’evoluzionista riluttante. Il ritratto privato di Charles
Darwin e la nascita della teoria dell’evoluzione dello scrittore e divulgatore
scientifico David Quammen, libro apparso per la prima volta nel 2008 e
ripubblicato nel 2025 con un’introduzione di Telmo Pievani.
> Quammen lascia da parte le peripezie di Darwin in viaggio sul Beagle, per
> condurci attraverso un’avventura meno nota e più privata: la lunga e
> tormentata elaborazione della sua teoria e del volume che la portò nel mondo.
Quammen racconta di essere stato inizialmente poco convinto della necessità di
imbarcarsi nella scrittura di una nuova biografia su Charles Darwin: chi lo
aveva preceduto ‒ tra cui Janet Browne con i suoi due tomi Charles Darwin:
Voyaging e Charles Darwin: The Power of Place, e Adrian Desmond e James Moore
con Darwin: The Life of a Tormented Evolutionist ‒, aveva già ampiamente
trattato la vita e le opere del padre della teoria dell’evoluzione. L’editore
James Atlas fugò i dubbi dello scrittore replicando che le biografie precedenti
avrebbero dovuto essere la sua fonte e non i suoi potenziali concorrenti. Ciò
che gli chiedeva era un saggio conciso e letterario, più che didattico. Atlas
ebbe una buona intuizione. L’evoluzionista riluttante lascia da parte le
peripezie di Darwin in viaggio sul Beagle, per condurci attraverso un’altra
avventura: l’elaborazione della sua teoria e la scrittura e pubblicazione di
L’origine delle specie, la cui prima edizione vide la luce nel 1859. L’autore
non ci trascina in una serie di date, luoghi ed eventi: ci accompagna in
un’indagine interiore basata su numerose fonti, tra cui i corposi scambi
epistolari e gli scritti personali.
Il libro è suddiviso per intervalli temporali: parte dal 1837, poco dopo il
ritorno a Londra dalla spedizione nell’Oceano Pacifico, quando Darwin era ancora
un giovanotto “ambizioso, intellettualmente ridestatosi da una post-adolescenza
sonnolenta e animato da grandi aspettative”, per arrivare all’anno della sua
morte, il 1882, con una moglie, dieci figli, una logorante stanchezza e sei
edizioni del libro che cambiò per sempre la nostra conoscenza e percezione della
vita sulla Terra. A differenza del monumento di cui sopra, il Charles Darwin
svelato dalla penna di David Quammen è tutt’altro che solido e forte, ma al pari
di una statua ‒ e di qualsiasi essere umano ‒ mostra luci e ombre.
> L’idea che Darwin covava non era solo rivoluzionaria, per l’epoca, era anche
> pericolosa: non esisteva alcun disegno superiore, l’universo era governato da
> leggi, non dal capriccio divino, e la trasmutazione delle specie per selezione
> naturale è una di queste.
Tra le parole dell’opera scorgiamo un uomo ambizioso in preda a insicurezze e
ansie, generoso e calcolatore, razionale ma pronto a credere alla
pseudomedicina, riservato e al contempo in cerca di gloria. Una tempesta
interiore che lo consumerà a fondo per oltre quarant’anni, tanto che fino alla
fine dei suoi giorni soffrirà di tachicardia, nausea, accessi di vomito, mal di
testa e di “una flatulenza fuori dalla norma”. La sua carriera cominciò nel
1837, prima come geologo e scrittore, poi allargandosi alle scienze naturali.
Durante questi anni, in cui gli vennero tributati i primi riconoscimenti da
parte della comunità scientifica e che trascorse all’insegna di una certa
mondanità (che abbandonò piuttosto presto), covò segretamente un’idea pericolosa
e rivoluzionaria. Davanti all’estrema varietà di animali che aveva osservato e
che stava studiando, non poté più mentire a sé stesso. Non c’era nessun
“orologiaio”, come supposto dalla teologia naturale di William Paley, nessun
architetto aveva progettato gli esseri viventi che popolano il nostro pianeta.
Già altri avevano ipotizzato che le specie non fossero immutabili, in questo
caso, però, si trattava di compiere un passo ulteriore. Come scrive Quammen:
“L’idea che Darwin stava suggerendo andava oltre la selezione naturale:
l’universo è governato da leggi, non dal capriccio divino, e la trasmutazione
delle specie per selezione naturale altro non è che una di queste leggi”. Lo
stesso Darwin confidò al botanico Joseph Dalton Hooker, suo amico e
collaboratore, che affermare che le specie mutassero nel tempo sarebbe equivalso
a confessare di avere commesso un assassinio. Aveva ragione: in questo modo
stava uccidendo Dio e, soprattutto, quell’afflato divino che separa l’essere
umano dagli altri animali. È questo il motivo per cui Charles Darwin impiegò più
di vent’anni per condividere le sue scoperte?
> Darwin sapeva che affermare che le specie mutassero nel tempo equivaleva a
> confessare un assassinio: quello di Dio, e dell’afflato divino che a lungo
> aveva separato l’essere umano dagli altri animali.
Quammen vaglia le diverse ipotesi e lo fa osservando da vicino la vita del
naturalista inglese. L’autore ci mostra Darwin mentre annota le proprie idee sui
piccoli taccuini che nasconde nella giacca, oppure durante le attività
quotidiane, impegnato a inviare lettere a colleghi, conoscenti e perfetti
sconosciuti per raccogliere campioni e informazioni provenienti da tutto il
mondo. Per pagine e pagine ci troviamo a seguire il protagonista lungo gli anni
di attenta ed estenuante classificazione dei cirripedi, una sottoclasse di
Crostacei tra cui ci sono i più conosciuti balani. Quello che poteva sembrare un
lavoro noioso e di poca rilevanza, è stato in realtà un allenamento fondamentale
per imparare a osservare le innumerevoli variazioni tra popolazioni di questi
strani animali e capire quanto la tassonomia fosse una questione di genealogia e
non di metafisica; inoltre contribuì ad accrescere l’autorevolezza dell’autore,
cosa fondamentale quando si è sul punto di proporre una teoria rivoluzionaria.
Ma Quammen non si limita a raccontare uno scienziato: Charles Darwin è anche un
marito innamorato che non vuole ferire con il proprio materialismo la
cattolicissima moglie, e cugina, Emma Wedgwood; è un padre addolorato che perde
Annie, la figlia prediletta, a soli dieci anni; è un uomo curioso che ama le
piccole cose, come la quotidianità in campagna, la routine e una manciata di
tabacco da fiuto.
> Se il Darwin naturalista aveva una motivazione scientifica per non credere in
> un dio, il Darwin uomo covava una convinzione più intima: un essere divino non
> potrebbe permettere che una bambina di dieci anni muoia tra atroci sofferenze,
> come era successo alla sua Annie.
In un gioco di incastri, cause ed effetti, l’autore mostra come le scelte
professionali di Darwin debbano molto alle sue vicissitudini e al suo
temperamento. La sua riluttanza era alimentata dall’insicurezza, dal desiderio
di tranquillità, dal timore di mandare in frantumi un confortevole status quo.
Finché la paura di perdere la pace non si trasformò nel terrore di essere
superato, quando Alfred Russell Wallace, commerciante di animali di umili
origini e fondatore della biogeografia, mostrò di essere quasi giunto alle sue
stesse conclusioni. E se il Darwin naturalista aveva una motivazione scientifica
per non credere in un dio, il Darwin uomo covava una convinzione più intima: un
essere divino non potrebbe permettere che una dolce bambina muoia soffrendo,
come era accaduto ad Annie. Darwin confermerà questa sua riflessione anche nella
lettera del 1860 indirizzata al botanico Asa Gray:
> Io non riesco a vedere, con la stessa semplicità di altri, le prove del
> disegno e della benevolenza divini tutt’attorno a noi. Mi sembra che nel mondo
> vi sia troppa miseria. Non riesco a persuadermi del fatto che un Dio benevolo
> e onnipotente abbia creato di proposito gli Ichneumonidae con la precisa
> intenzione che si nutrissero del corpo dei bruchi ancora vivi, divorandolo
> dall’interno, o che un gatto dovesse giocare con i topi.
Se siamo qui ancora oggi a parlare di Charles Darwin è anche perché, come
ricorda David Quammen, c’è ancora molta strada da fare nella comprensione
pubblica dell’evoluzione. Raccontare Darwin non significa solo esercitare la
memoria storica, ma è un modo efficace per rendere accessibili i meccanismi
dell’evoluzione a chi ancora non li conosce o non li accetta pienamente. Se
diamo uno sguardo ai sondaggi aggiornati al 2024 dell’organizzazione
statunitense GallUp, una parte consistente degli americani intervistati non
crede nella teoria dell’evoluzione: il gruppo più ampio, che si attesta al 37%
dei partecipanti, è quello dei “creazionisti puri”, convinti che Dio abbia
creato gli esseri umani nella forma attuale negli ultimi 10.000 anni, il 34%
crede che l’evoluzione sia stata guidata dalla divinità e il 24% accetta che gli
esseri umani si siano evoluti da altre forme di vita nel corso di milioni di
anni, senza il coinvolgimento divino. In Europa la situazione è differente, con
il 74% dei partecipanti a una ricerca della BBVA Foundation secondo cui gli
esseri umani si sono evoluti a partire da specie animali precedenti e il
rimanente 26% che afferma che siamo stati creati da Dio più o meno nella forma
odierna.
> Leggere la storia di Charles Darwin oggi non significa solo esercitare la
> memoria storica, è anche un modo efficace per rendere accessibili i meccanismi
> dell’evoluzione a chi ancora non li conosce, o non li accetta pienamente.
Eppure, leggendo L’evoluzionista riluttante, diventa chiaro che l’importanza
della storia di Charles Darwin risiede proprio, come evidenzia Telmo Pievani
nella sua introduzione, in quella coralità presa in prestito dallo scrittore e
drammaturgo William Faulkner, che rende ai nostri occhi evidente l’impresa
scientifica come opera umana e collettiva. È il procedere per prove ed errori,
il confronto, il vaglio della comunità scientifica, la curiosità, l’ambizione,
il progresso che modifica e amplia le conoscenze tanto faticosamente
conquistate. “Nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes”, siamo come
nani sulle spalle dei giganti, sosteneva nel Medioevo Bernardo di Chartres
(ripreso da Isaac Newton secoli dopo).
Tornando con la mente alle sale del Natural History Museum di Londra e
immaginando di dare le spalle alla statua di Darwin, la vastità e la varietà
delle collezioni e il numero delle persone che quotidianamente le visitano
rendono palpabile questa eredità comune. Da questa prospettiva risuonano le
parole che chiudono L’origine delle specie:
> Vi è qualcosa di grandioso in questa concezione della vita, con le sue molte
> capacità, che inizialmente fu data a poche forme o ad una sola e che, mentre
> il pianeta seguita a girare secondo la legge immutabile della gravità, si è
> evoluta e si evolve, partendo da inizi così semplici, fino a creare infinite
> forme estremamente belle e meravigliose.
L'articolo L’evoluzionista riluttante di David Quammen proviene da Il Tascabile.
N egli ultimi anni in Italia sono stati pubblicati e tradotti numerosi testi
dedicati all’intimità e alle relazioni. In poco tempo sono usciti Sovvertire le
intimità. Per una politicizzazione del poliamore (2025) di Nic Braida, la
traduzione di Polisicure. Etica, teoria e pratica delle relazioni non monogame
(2025) di Jessica Fern, mentre nell’ambito della traduzione militante la fanzine
Amare senza emergenza di Clementine Morrigan, e alcuni capitoli di Spero
sceglieremo l’amore di Kai Cheng Thom. Questi testi si affiancano ad altri ormai
fondamentali come Per una rivoluzione degli affetti (2022) di Brigitte Vasallo,
alla ripubblicazione nel 2022 di Tutto sull’amore di bell hooks e a molti altri
contributi che interrogano il modo in cui costruiamo e viviamo le relazioni.
Questa costellazione di testi è testimone di un’urgenza collettiva, che nasce
anche da anni di riflessioni e pratiche transfemministe: quella di ripensare le
relazioni non come fatto privato ma come questione politica e sociale. È sempre
più diffuso ed evidente il desiderio di interrogarsi sulle nostre relazioni; su
come le costruiamo, su come le viviamo e su quanto siano influenzate dalle
condizioni materiali delle nostre vite, dal poco tempo che ci lascia il lavoro
retribuito, dall’isolamento e dalla precarietà che il capitalismo produce anche
sul piano affettivo.
In questo contesto si inserisce anche la traduzione di Il cuore scoperto. Per
ri-fare l’amore di Victoire Tuaillon, pubblicato quest’anno da add editore. Il
libro nasce dal percorso collettivo e autogestito dell’Associazione Vanvera che,
dopo aver realizzato la traduzione italiana del podcast Le cœur sur la table di
Tuaillon, ne ha curato un adattamento in forma di libro, situando contenuti e
riflessioni in ambito italiano.
Nel volume – oltre alla trascrizione delle puntate del podcast – sono raccolti
gli interventi di Leo Acquistapace, Marie Moïse, Giusi Palomba, Valentina
Amenta, la collettiva Sessfem, Giorgia Serughetti, Antonia Caruso, Giulia
Siviero e Carlotta Cossutta: attivistə e studiosə italianə invitatə a collocare
i discorsi proposti nel podcast, e situati in Francia, all’interno dei discorsi
collettivi, delle teorie e delle pratiche sviluppate in Italia. A fianco a
queste, ogni capitolo si chiude con la bibliografia consigliata da una libreria
indipendente.
> È sempre più evidente il desiderio di interrogarsi sulle relazioni e su quanto
> siano influenzate dalle condizioni materiali delle nostre vite,
> dall’isolamento e dalla precarietà che il capitalismo produce anche sul piano
> affettivo.
Il libro è un’indagine corale sulle relazioni, un discorso collettivo sulla
necessità di scardinare le normazioni e i dogmi dell’amore romantico, è
l’osservazione di quanto il sistema-coppia (eteronormata e monogama), per come
ci viene raccontato e venduto, sia funzionale alla sopravvivenza di un sistema
economico e socioculturale e al contempo origine di molte delle nostre
sofferenze. Il cuore scoperto, che nasce dall’esigenza di Tuaillon di
“preservare quello che conta: la cura, l’amore, l’arte, la vita, le relazioni
ricche e profonde”, è arrivato in Italia grazie all’urgenza che le persone di
Associazione Vanvera hanno sentito:
> l’urgenza che sentiamo di far fronte ai tempi bui, al dilagare di parole
> povere e di intenzioni prevaricatrici, a questo odio che è sempre stato lì, ma
> che oggi prende ancora più spazio. Un odio che assume anche la forma della
> violenza patriarcale, dell’oppressione eteronormativa, delle discriminazioni,
> dei femminicidi. In maniera più subdola, quest’odio passa anche dallo
> svilimento delle relazioni e del senso di comunità, ci isola nella nostra
> individualità e nella perpetua riconferma delle nostre identità frammentarie.
Fin dall’inizio della lettura, le parole di Tuaillon ci raccontano come l’amore
romantico che ci viene insegnato fin da bambinə – specialmente se si è
socializzate donne – sia un insieme di prescrizioni e limiti che poco hanno a
che fare con il costruire relazioni di cura. Nel primo capitolo, che introduce
le intenzioni delle riflessioni successive, Tuaillon afferma di voler indagare
“l’amore come questione sociale. Vorrei capire in che modo il fatto di essere
persone cresciute, socializzate, identificate come donne o uomini, come persone
bianche o non bianche, abili o no, abbia un impatto diretto sulle nostre
relazioni”.
> Il libro è l’osservazione di quanto il sistema-coppia (eteronormata e
> monogama), per come ci viene raccontato e venduto, sia funzionale alla
> sopravvivenza di un sistema economico e socioculturale e al contempo origine
> di molte delle nostre sofferenze.
Cresciamo pensando che la nostra principale ambizione debba essere quella di
avere una relazione romantica duratura, che dobbiamo salire il prima possibile
su quella scala mobile relazionale che ci costringe a innamorarci-fare
sesso-convivere-sposarci-fare figli. Cresciamo pensando che l’amore debba un po’
far soffrire, che sia legittimo mentirsi ogni tanto, che sia giusto mettere sé
stessə da parte per la persona che amiamo. Che non esiste altro modello d’amore
legittimo. Percorrendo diverse immagini dell’amore romantico, ascoltando le
esperienze di persone con vissuti diversi e facendole dialogare con teorie
femministe sull’amore, Tuaillon ci mostra quanta sofferenza derivi da questo
modello, e quanto potenzialmente trasformativo e liberatorio è cominciare,
collettivamente, a vedere limiti e storture, fino eventualmente a superarlo e
rifiutarlo.
Il libro parte da storie personali, alcune anche molto negative, pessimiste,
frustrate dalla rarità di rapporti umani basati sulla cura, sulla reciprocità,
sull’onestà. Tuaillon, insieme alle voci di chi racconta le proprie esperienze,
affronta vari aspetti e implicazioni dell’amore esplorando, tra le altre cose,
quanto sia diffusa nella società l’idea dell’essere ‘single’ (termine che già
suggerisce una mancanza) come fase transitoria della vita, qualcosa da superare
se si vuole essere accettati. Ci invita invece a riflettere sul fatto che la
scelta di non avere relazioni considerate convenzionalmente romantiche può
essere una decisione consapevole e altrettanto valida.
Le narrazioni che alimentano i nostri immaginari amorosi, però, vanno in
direzione opposta. Siamo immerse in racconti “che, nella stragrande maggioranza,
rappresentano coppie eterosessuali in cui uomini e donne non recitano la stessa
parte. Agli uomini spettano l’azione e la conquista, alle donne la dolcezza, la
passività e l’attesa”. Si tratta di un meccanismo di potere che assegna ruoli
definiti, che legittima solo un certo tipo di relazione e che rafforza l’idea
dell’amore come caccia costante, come competizione per ottenere la propria altra
metà, senza la quale saremmo incompletə, uno standard da raggiungere e
mantenere. Idee che, molto più spesso di quanto vorremmo ammettere, finiscono
per legittimare comportamenti molesti, violazioni del consenso e dinamiche di
prevaricazione, alimentando “la confusione tra amore e violenza, amore e
dominio, amore e paura”.
> Tuaillon ci mostra quanta sofferenza derivi dal modello dell’amore romantico,
> e quanto potenzialmente trasformativo e liberatorio sia cominciare,
> collettivamente, a vederne limiti e storture, fino a superarlo.
Le storie che attraversano il testo ci parlano di uomini cresciuti con l’idea di
dover essere aggressivi e di conquistare, di donne che invece erano educate a
essere mansuete e a lasciarsi conquistare, e di persone trans e non binarie che
hanno dovuto lottare per costruire un proprio spazio emotivo e relazionale. Ma
l’amore, ci dice Tuaillon “richiede di rinunciare all’esercizio del potere.
L’amore ha bisogno del riconoscimento dell’esistenza e della vulnerabilità
dell’altrə. L’amore è rifiutarsi di ferire, anche quando avremmo il potere di
farlo”.
Moltissimi sono gli stereotipi che nutrono questo immaginario, moltissime sono
le parole e le frasi che creano questa normazione. Ma non si tratta solo di
immagini e simboli, quanto di concretezza e materialità. Addentrandosi ancora di
più nel rapporto stretto che esiste tra sistema economico e relazioni, e
utilizzando anche le parole della sociologa Eva Illouz, Tuaillon ci fa
riflettere su quanto le nostre relazioni siano invase e condizionate dalle leggi
del mercato, facendoci concentrare sull’accumulo di capitale sessuale e rendendo
sempre più difficile costruire relazioni basate su uno scambio onesto, sulla
cura reciproca.
Il modello della coppia romantica eterosessuale monogama è normato anche da
leggi e dinamiche commerciali; in Italia non esiste una legittimazione
legislativa a nessun’altra forma di vita comune, se si esclude la possibilità
delle unioni civili, che comunque non garantisce gli stessi diritti, per esempio
quelli sulla genitorialità. E al di là delle concessioni legislative, che non
sono gli unici obiettivi di questo tipo di riflessioni e rivendicazioni, vivere
in coppia è più sostenibile da un punto di vista economico, perché tutto è
pensato per la coppia, dalle case ai bonus sociali, dalle confezioni di cibo al
supermercato alle promozioni per viaggi e cene. In questo modo, il sistema
economico premia la coppia come sistema normale di vita, e scoraggia ogni altra
forma di relazione o comunità, come per esempio la scelta di vivere uno spazio
domestico comunitario, considerato non adatto alla costruzione di una vita
adulta. Allo stesso modo, impariamo molto presto che le relazioni debbano
seguire, in linea con la scala mobile relazionale, un preciso susseguirsi di
step:
> anche le relazioni seguono il ciclo classico del consumo: prima l’eccitazione
> per l’acquisto di una novità (“sei fantastico”, “sei bellissima, averti mi
> rende speciale”), poi ci si abitua (“non è che mi sto accontentando?”, “credo
> di meritare di meglio”), poi ci si lascia perché ci sono sempre nuove merci
> disponibili (“una ne perdi, cento ne trovi”), quindi cerchiamo di nuovo
> l’eccitazione della novità (“sono di nuovo sul mercato”) e si ricomincia,
> ancora e ancora.
“Decostruire questi miti” che limitano il nostro immaginario relazionale, dice
Tuaillon, “non significa rifiutare le nostre emozioni, ma aprire la strada a
relazioni ancora più intense, esaltanti, magiche, finalmente basate
sull’onestà, l’uguaglianza, il rispetto dei nostri limiti”.
> Il sistema economico premia la coppia come sistema normale di vita, e
> scoraggia ogni altra forma di relazione o comunità.
In un mondo dominato da violenza, guerra e ingiustizie, manca lo spazio per un
discorso sull’amore. Le condizioni sociali e materiali ci sottraggono tempo ed
energia per coltivare relazioni di cura diffusa. La gerarchia per la quale la
coppia sia al di sopra di tutte le altre nostre relazioni, che a essa dobbiamo
tutta la nostra attenzione e le nostre energie, ci fa dimenticare quanto
importanti siano tutti gli altri nostri amori. Le nostre sorelle, le persone
amiche, lə nostrə nipoti, le persone con cui condividiamo un periodo di vita
anche breve, le compagnə di collettivi, quella persona conosciuta a un workshop,
lə nostrə insegnanti, le nostre passioni. Quel “bosco”, con le parole di
Brigitte Vasallo, quell’amore che ci salva ma che spesso non vediamo, “che
consideriamo meno amore degli altri, a cui non diamo l’importanza che merita e
senza il quale non potremmo andare avanti in questo mondo di merda”.
Il cuore scoperto è un’indagine sincera e profonda, che non offre ricette o
modelli alternativi da seguire, ma apre uno spazio di ascolto e di riflessione
collettiva. Gli argomenti che Tuaillon affronta ci riguardano tuttə da vicino; e
chi si aspetta un manuale di self-help per le relazioni troverà invece un invito
ad attraversare domande, a prendersi il tempo per guardarsi dentro e per parlare
insieme. Il podcast/libro ci accompagna in un percorso di autoindagine
condivisa: ci invita a ripensare il modo in cui siamo cresciutə, i modelli
familiari che ci hanno insegnato l’amore, ciò che ci ha fatto soffrire, ciò che
desideriamo e come i nostri desideri plasmano le relazioni che viviamo. C’è il
bisogno di comprendere i legami tra economia e intimità, di costruire strumenti
e pratiche per abitare la connessione e il conflitto.
Proprio a partire da questa necessità di discutere insieme e condividere
esperienze nasce tutta l’esperienza di Il cuore scoperto, che non si conclude
con le puntate del podcast o nelle pagine del libro. Tuaillon, e Associazione
Vanvera in Italia, organizzano dei cerchi di parola, una pratica mutuata dai
gruppi di autocoscienza femminista in cui le persone si incontrano per parlare e
ascoltare, fuori dalla logica del dibattito, senza la pressione di dover
rispondere, ma con la libertà di raccontarsi e di essere ascoltate. Nella bonus
track del podcast si trovano anche alcune indicazioni pratiche su come
organizzarne uno. Oltre a questo, Associazione Vanvera ha aperto uno spazio
virtuale in cui poter condividere esperienze, sensazioni, emozioni in seguito
all’ascolto o alla lettura di Il cuore scoperto, che poi vengono utilizzate per
performance o condivise anonimamente in altro modo.
Facendo un salto apparentemente lungo, in realtà piccolissimo, penso a un
recente post Facebook di Margherita Cioppi – una dellə attivistə a bordo della
Karma, una delle barche della Global Sumud Flotilla – in cui racconta del
sequestro da parte delle forze armate israeliane e di come si sia offerta di
aprire un tendalino per permettere ai soldati, che avevano preso il controllo
della barca, di ripararsi dal sole e dalle temperature molto alte. Cioppi
conclude così il suo racconto: “Ci penso da quel momento: perché ho provato a
dare sollievo a un assassino non lo so proprio. Ma in quel momento volevo che
fosse chiaro che non sono come loro. E che l’amore – solo quello – è la fine
dell’assedio”.
L'articolo Il cuore scoperto di Victoire Tuaillon proviene da Il Tascabile.
H o dimenticato di quale torto pensai di essere stato vittima durante la gita di
maturità. Ricordo solo che durante quella settimana parlai pochissimo e di
controvoglia. Invece che andare a sballarmi con il resto dei miei compagni,
passavo le poche ore libere che i professori ci concedevano ogni giorno
infilandomi nella metropolitana. Senza curarmi della direzione, salivo sul primo
treno di passaggio. Qualche volta, a un’intersezione tra due linee, smontavo dal
treno e prendevo una coincidenza, lasciandomi trasportare da un altro convoglio.
Poi, a un certo punto, senza seguire un principio preciso, sceglievo una fermata
e smontavo. Obbedendo alla segnaletica procedevo verso l’uscita e, una volta
ritornato in superficie, mi dedicavo all’esplorazione del quartiere in cui il
caso aveva deciso di portarmi.
A volte andava male. Il quartiere scelto poteva essere un quartiere dormitorio,
il cui paesaggio era dominato da un’infilata di alveari per umani in un anonimo
stile brutalista. Altre volte, invece, il caso regalava qualcosa. Come quando,
girovagando per un piacevole blocco di condomini in stile liberty, m’imbattei in
un pittoresco negozio che vendeva oggettistica rockabilly; una rarità per chi,
come me, veniva dalla provincia profonda.
Che andassero bene o male, quando l’orologio m’imponeva di tornare sui miei
passi e ritornare sotto terra per rientrare in ostello, quelle esplorazioni mi
lasciavano lo stesso qualcosa sulla pelle. Era una sorta di brivido, come una
scarica elettrica che faceva drizzare i peli delle braccia. L’esaltazione o la
spossatezza del giocatore d’azzardo che, almeno per un istante, aveva
contemplato l’inebriante girotondo di infinte possibilità tutte ancora da
attualizzare.
Solo che la mia slot machine, in quei frangenti, era la metropolitana, un treno
urbano che correva sotto la superficie della città, divorando le distanze senza
che me ne accorgessi. La cosa più simile a cui potevo ricondurre quei viaggi
senza meta era l’esperienza di una partita a Super Mario. I momenti in cui,
ignaro di quel che potrebbe accadere, posizioni la figurina dell’idraulico sopra
uno dei tanti tubi di cui sono costellati i livelli del gioco e pigi il tasto
inferiore della croce direzionale per farla accucciare. Il tubo potrebbe essere
un passaggio che conduce a un’area segreta del mondo di gioco, carica di tesori.
Oppure a una scorciatoia, che può farti avanzare rapidamente verso il livello
finale. Oppure, più spesso, essere bloccato e non portare da nessuna parte. La
metro, che ‒ curiosa coincidenza ‒, si può chiamare anche tube (tubo),
funzionava per me allo stesso modo. O meglio, ero io che la facevo funzionare
così, perché il resto delle persone che condividevano con me quei viaggi
sapevano alla perfezione dove stavano andando, quanto sarebbe durato il loro
tempo sottoterra e, soprattutto, cosa avrebbero trovato una volta riemersi dalla
rete metropolitana.
> La mia slot machine era la metropolitana, un treno urbano che correva sotto la
> superficie della città, divorando le distanze senza che me ne accorgessi.
O almeno così pensavo. Magari, su quei treni, seduto a fianco a me o aggrappato
a uno dei pali di sostegno, c’era qualcun altro che aveva deciso di scendere
nella metropolitana per smontare a una fermata sconosciuta solo per provare il
brivido di scoprire che aspetto aveva la città sopra di lui. Chissà, forse non
ero solo. Non lo so; quello che so è che questi ricordi e le sensazioni a loro
collegate e a lungo sopite nel mio cervello sono state riattivate dalla lettura
di un saggio uscito qualche settimana fa per il marchio MachinaLibro
dell’editore DeriveApprodi. Scritto dal giornalista culturale Luca Gricinella,
Giù in metrò. Società, arti e culture è un libro dedicato a ricostruire il ruolo
che la metropolitana riveste nell’immaginario contemporaneo e le influenze che
essa ha esercitato su ogni forma di espressione.
Dalla fotografia alla musica, dal cinema alla letteratura, fino alle arti
performative, quello della metropolitana nell’immaginario collettivo è un ruolo
caratterizzato da un ampio ventaglio di sfaccettature. Per poterlo raccontare in
modo esaustivo, l’autore ricorre ‒ non potrebbe fare altrimenti ‒, a molte,
diverse forme di scrittura: dall’autobiografia alla saggistica, dall’intervista
al reportage, dalla recensione all’etnografia. A imporre questo stile ibrido è
la natura stessa della metropolitana. Essa è infatti molte cose diverse allo
stesso tempo.
Prima di tutto è un mezzo di trasporto. Un treno che corre sottoterra grazie a
un reticolo di gallerie. È grazie a questa caratteristica che permette a un
vasto numero di persone di spostarsi rapidamente, percorrendo lunghe distanze.
La costruzione dei primi treni metropolitani ha inizio alla fine del
Diciannovesimo secolo. La prima vera linea meritevole di questa definizione è
stata quella di Londra, che ha cominciato a operare il 10 gennaio del 1863. Ad
avanzare la proposta di costruirla pare sia stato l’allora sindaco della
capitale britannica, Charles Pearson, determinato a ridurre il caos
insopportabile delle vie del centro, dovuto in parte anche alla mancanza di un
interscambio diretto tra le stazioni ferroviarie londinesi.
Da allora e fino agli anni cinquanta del Ventesimo secolo, la costruzione di
reti di trasporto ferroviario metropolitano visse un periodo di forte e rapida
espansione. Una crescita che non si limitò solo al numero di città che
adottavano questa soluzione o alla lunghezza complessiva delle loro reti, ma che
fu anche un progresso tecnologico. La metropolitana deriva dalla ferrovia, da
cui mutua buona parte del suo apparato tecnologico. Tuttavia, le particolarità
dello spazio in cui opera hanno fatto sì che questi impianti fossero oggetto di
innovazioni, come il controllo della marcia dei treni e la guida automatica.
> Giù in metrò è un libro dedicato a ricostruire il ruolo che la metropolitana
> riveste nell’immaginario contemporaneo e le influenze che essa ha esercitato
> su ogni forma di espressione.
Oggi, i diversi tipi di tecnologia impiegati distinguono i sistemi di
metropolitana, dando origine a molteplici categorie. Le metropolitane si
distinguono così in base al loro tipo di guida, con o senza conducente; al tipo
di rotaia usata, metallica o gommata; al tipo di sede, che può essere
sotterranea, sopraelevata o di superficie; in base al genere di servizio, dunque
pesante o leggero. Potrebbe sembrare una nota di poco conto, ma una parte
dell’identità di ogni metropolitana nasce proprio dalle molte combinazioni
possibili di queste tecnologie.
Ruote e rotaie di quella di New York, racconta Gricinella nel capitolo a essa
dedicato, continuano a essere entrambe di metallo, dando così origine al forte
stridio che ne è diventato ormai un simbolo. Mentre i convogli automatizzati
della linea lilla (M5) della metropolitana di Milano ‒ che attraversa la città
da nord a nord ovest collegando lo stadio di San Siro con il capolinea di
Bignami Parco Nord ‒ la rendono la linea più amata dai bambini. Seduto su uno
dei seggiolini, l’autore li osserva con tenerezza correre verso l’ampia vetrata
rivolta nel senso di marcia per potersi godere l’emozione di veder comparire la
luce al fondo dell’oscurità del tunnel, mano a mano che il treno si avvicina a
una stazione.
Ma la metropolitana non è solo un mezzo di trasporto tecnologico, è anche uno
spazio. Uno spazio molto particolare; un non luogo, per dirla con il concetto
coniato dall’antropologo francese Marc Augé, che alla metropolitana ha dedicato
Un etnologo nel metrò (1992), uno dei suoi testi più celebri. A renderla tale è
la sua posizione sotterranea. Alla metropolitana si accede infatti attraverso un
complesso sistema di soglie composto da scale, portali, tornelli, ascensori,
rampe e diversi altri tipi di forme architettoniche. Attraversando i quali non
ci si lascia solo alle spalle il mondo di superficie, si perdono tutti i
riferimenti e le coordinate spaziali che rendono possibile orientarsi nello
spazio.
L’esperienza di un viaggio in metropolitana è un’esperienza straniante, durante
la quale ci vengono sottratti i riferimenti cardinali a cui siamo abituati ad
affidarci quando attraversiamo gli spazi di superficie. A meno di non possedere
un’approfondita e inusuale conoscenza della rete e delle corrispondenze che essa
ha con i punti di riferimento che scorrono sopra le nostre teste, è impossibile
stabilire in quale direzione ci si stia muovendo quando si procede all’interno
dei suoi tunnel.
> Un viaggio in metropolitana è un’esperienza straniante, durante la quale ci
> vengono sottratti i riferimenti cardinali a cui siamo abituati ad affidarci
> quando attraversiamo gli spazi di superficie.
Un compito per cui non troviamo aiuto nemmeno nelle mappe che rappresentano le
diverse linee della metropolitana di una città. Se il modo in cui vengono
rappresentate ricorda più uno schema elettrico che una carta geografica è
proprio perché disegnare circuiti elettrici era il mestiere di Harry Charles
Beck, la persona che ha inventato questo sistema di rappresentazione allo scopo
di tracciare la mappa della metropolitana di Londra nel 1933. Ma prendendoci il
tempo per guardarla con più attenzione e provando a smettere di attraversarne
gli spazi frenetici come elettroni, e Gricinella ci sollecita a farlo con il suo
libro, ci accorgiamo che la natura di non luogo ‒ anche Augé lo era nella sua
definizione ‒ è molto meno netta e stabile di quanto possiamo pensare.
L’antropologo francese specificava infatti che “ciò che per alcuni è un luogo,
per altri può essere un non luogo e viceversa”.
Scopriamo così che nella stazione di piazza Venezia della metropolitana di
Milano ‒ che, è la città in cui l’autore del libro è nato e vive ‒ esiste un
grande spazio vuoto, un mezzanino appartato ma non inaccessibile, di cui si sono
appropriate persone delle comunità sudamericane o asiatiche che lo utilizzano
come sala prove per le loro coreografie collettive, in quello che Gricinella
definisce “un esempio di spazio pubblico completamente in disuso che è stato ben
sfruttato”.
Oppure veniamo a sapere delle scorribande dei writer, che studiano le reti alla
ricerca di varchi o passaggi incustoditi da cui calarsi all’interno dei tunnel
della metropolitana per raggiungere i depositi dei treni e marchiarli con tag e
graffiti. O, ancora, dalle parole di Gricinella impariamo come le carrozze dei
treni metropolitani possano diventare il palcoscenico per un ampio ventaglio di
artisti di strada: dai senzatetto che si improvvisano intrattenitori fino agli
artisti affermati che usano la metropolitana come ispirazione per i propri
lavori.
> Guardando la metro con più attenzione, e provando a smettere di attraversarne
> gli spazi frenetici come elettroni, ci accorgiamo che la natura di non luogo è
> molto meno netta e stabile di quanto possiamo pensare.
È il caso di Sara Pizzi, performance artist italiana che vive e lavora a New
York, città dalla cui metropolitana si è fatta ispirare per lo spettacolo L
Train, realizzato insieme ad Aida Takashima. Ispirato all’omonima linea della
metro newyorkese, L Train, una coreografia di danza contemporanea, ha debuttato
il 21 e 22 gennaio del 2022 al Green Space Theatre nel Queens e, oltre alla
musica, conteneva annunci registrati della linea L e una narrazione recitata. Al
centro di questo lavoro c’è il desiderio di parlare “di come la vita sia
instabile, di come tutto cambi regolarmente senza che ce ne rendiamo conto, di
quante persone abbiamo lasciato nella nostra vita, di quante persone
dimentichiamo, di quanto siano imprevedibili le relazioni e di quanto sia facile
sentirsi sostituibili. Tutte queste domande portano alla conclusione che la vita
sembra come la linea del treno L: tutti vanno nella stessa direzione ma nessuno
ha la stessa destinazione.”
La linea L della metropolitana di New York collega Manhattan a Brooklyn con
ventisette fermate. È stata la prima linea automatizzata della città ed essendo
così lunga serve un considerevole numero di persone diverse, che si alternano
sui suoi convoglia a seconda del momento della giornata. “Dalle sei alle otto”
dice Pizzi, intervistata nel libro,
> studenti, insegnanti, altri lavoratori. Dalle nove del mattino fino alle tre
> del pomeriggio, tutti gli altri lavoratori con orari normali, senzatetto,
> artisti, turisti. Dalle quattro fino alle sette del pomeriggio è il delirio:
> fiumi di persone che tornano a casa dal lavoro e qui devi sgomitare tra
> skateboard, animali, buste della spesa e borse per entrare nella carrozza e
> sentirsi come una sardina in lattina. Dalle otto di sera in poi, invece, c’è
> la gente che torna tardi o va a lavoro, a cena, a un evento, e te la ritrovi a
> mezzanotte sullo stesso treno per tornare a casa ubriaca. Dalle due alle
> quattro del mattino, infine, è quell’orario magico in cui non sai se stai
> sognando o sei sveglio: tra carrozze vuote, o solo con senzatetto
> addormentati, lavoratori della metropolitana o giovani adulti ubriachi,
> l’unica cosa che si può temere è di addormentarsi e ritrovarsi all’altro capo
> della città.
Per quanto emblematica, quella testimoniata da Pizzi è solo una delle tante
storie che Luca Gricinella raccoglie per raccontare cosa sia davvero la
metropolitana e il legame che abbiamo con essa. Non soltanto un ambiente urbano,
né un comodo per quanto affollato mezzo di trasporto. Vista attraverso la penna
dello scrittore milanese, la metropolitana ‒ o metro, oppure metrò, alla
francese ‒ si rivela per quello che è in realtà: un complesso oggetto culturale
che, in virtù del fascino che le sue caratteristiche esercitano su di noi,
occupa un posto di rilievo nel nostro immaginario e continua a rappresentare un
luogo in cui storie personali, dinamiche di comunità, pratiche artistiche
spontanee e marketing corporativo continuano a incontrarsi e influenzarsi le une
con le altre, in quell’incessante lavorio creativo ed espressivo che siamo
abituati a chiamare “cultura”.
L'articolo Giù in metrò di Luca Gricinella proviene da Il Tascabile.
R omanzo ricchissimo di battute, ironia e scene comiche, Che succede a Baum?
(2025, traduzione di Alberto Pezzotta) di Woody Allen è certamente più efficace
di molti dei suoi ultimi film, quanto meno da A Rainy Day in New York del 2019
in poi. Tuttavia questa premessa non è sufficiente per definire Che succede a
Baum? un buon romanzo e soprattutto un romanzo che possa rispondere alle
aspettative degli spettatori/lettori del grande regista newyorkese. Scritto alla
soglia dei novant’anni, Che succede a Baum? è un ottimo compendio delle qualità
del suo autore, un pastiche sicuramente riuscito dell’idealtipo alleniano tra
nevrosi e occhiali dalla montatura nera.
La vicenda ha per protagonista uno scrittore in via di fallimento crescente che
vaga tra le strade di New York in cerca di sé stesso come di quel che resta dei
negozi di dischi e delle librerie della città, ultime zone franche possibili per
lui, per le sue passioni e per le sue malinconie. Il mondo attorno infatti pur
essendo da sempre per Baum profondamente assurdo e incomprensibile appare ora
anche parecchio ostile e dichiaratamente pericoloso. Quel poco di fortuna che
sembrava avere con sé sembra essersi del tutto diradata con la pubblicazione
degli ultimi romanzi e ora a poco più di cinquanta anni davanti a lui resta solo
la prospettiva sempre più negletta di una vita ridotta ai margini. Un pensiero
totalmente angosciante, tanto più che nel medesimo momento l’odiato figlio della
moglie, ora brillante scrittore esordiente, viene acclamato da critica e
pubblico come il nuovo grande romanziere americano.
> Scritto alla soglia dei novant’anni, Che succede a Baum? è un ottimo compendio
> delle qualità del suo autore, un pastiche sicuramente riuscito dell’idealtipo
> alleniano tra nevrosi e occhiali dalla montatura nera.
Al solito per i personaggi di Woody Allen il rapporto problematico e ossessivo
con le donne non è solo centrale, ma una vera costante fatta di errori di
valutazione e assurde quanto improbabili fascinazioni che si traducono per Baum
rapidamente in matrimoni sbagliati, brutte figure, delusioni e ora anche in
approcci maldestri e sconsiderati che rischiano oltre tutto di rovinargli
definitivamente quel poco che gli resta di reputazione e di esistenza pubblica.
Baum predilige però l’implosione all’esplosione e si chiude così drammaticamente
come comicamente in sé stesso alimentando un monologo e un borbottio continuo
con cui si accompagna per le strade di New York. In questi frangenti Baum
ricorda a sé stesso l’infanzia felice e il debito con l’universo che subito ne
ha esaurito ogni possibile gioia e leggerezza:
> No, non c’era motivo per crescere con la paura della solitudine perché non era
> mai stato lasciato solo, traumatizzato, affidato a governanti, abbandonato,
> perso in metropolitana. Eppure, per qualche ragione, in tenera età un’ombra
> era scesa su Baum, quando gli era stato chiaro che il minuscolo spazio che
> occupava nell’universo ostile, l’universo un giorno lo avrebbe rivoluto
> indietro.
Nessuna via di fuga gli era più possibile che non fosse il lavoro, come la
condanna di Sisifo, non gli restava così che riprendere quotidianamente
quell’enorme masso e riportarlo nuovamente sulla cima, per ogni giorno della sua
vita.
Baum non è infatti diverso da Sam/Allan Felix, da Alvy Singer, da Ike Davis, da
Sandy Bates e da quasi tutti i personaggi portati in scena da Allen o da altri
interpreti da lui scelti in particolare negli ultimi anni. Una forma di
autobiografismo espanso al limite estremo perché in fondo il grande romanzo,
Woody Allen lo ha scritto con la sua autobiografia A proposito di niente (2020),
che non a caso esprimeva il medesimo ritmo efficacemente straordinario della sua
migliore filmografia. Qui invece sembra offrire più che altro il catalogo delle
proprie ragioni narrative e in tal senso Che succede a Baum? è più rivelatore
della sua arte e della sua incredibile capacità di scrittura e riscrittura che
della sua comunque certa capacità narrativa. Il borbottio di Baum è in fondo il
borbottio di un artista che da novanta anni scrive e riscrive di sé e della sua
città tentando di dare ragione del proprio spazio fisico e urbano, della propria
irriducibilità umana prima ancora che delle proprie ragioni e dei propri
sentimenti, che in fondo non sono altro che parti di una cronaca tutto sommato
irrilevante rispetto alla paura che fa la vita e ai brividi e alle meraviglie
che può comportare.
> Il grande romanzo Woody Allen lo ha scritto con la sua autobiografia A
> proposito di niente, che non a caso esprimeva il medesimo ritmo efficacemente
> straordinario della sua migliore filmografia. Qui invece sembra offrire più
> che altro il catalogo delle proprie ragioni narrative.
Più che un romanzo dunque un doppio manuale, di istruzioni, ma anche di
preghiera. L’illusione da tenere a bada con il lavoro, ma il lavoro che
occupandogli l’intera vita ha il ruolo di alimentare un’illusione di salvezza,
un possibile trionfo ‒ e spesso così è stato ‒ che viene però subito spento e
cancellato da una caduta improvvisa quanto fragorosa. Woody Allen è uno dei
grandi geni del secondo Novecento e lo è in particolare nella sua capacità di
indagare fragilità e debolezze che non sempre afferiscono però al grado di
tragedia, ma vivono fortemente nell’imbarazzo là dove la debolezza è spesso
raramente raccontata. Un imbarazzo che diviene nel caso di Allen comico solo a
patto di riconoscerlo come comune, difetto o errore che appartiene a un tempo e
a un modo di vivere che è stato tanto rivelatore come tanto ricco di
contraddizioni.
Fuori da questo schema organizzato e fortemente strutturato Woody Allen non può
stare, le sue sono griglie narrative che illuminano lo schermo cinematografico
grazie a infinite sfumature possibili, date da un’elaborazione che parte sì da
lui, ma che all’interno della produzione cinematografica vive più grazie a una
forma espansiva di liberazione che per una forma di controllo ossessiva. Sulla
pagina invece, purtroppo il miracolo non avviene e quello che resta di Cosa
succede a Baum? assomiglia a un Woody Allen minore se non di maniera. Un autore
capace di pagine straordinarie, ma che nell’insieme appaiono sempre troppo
fragili e a tratti addirittura sterili. Allen tende ad abbandonare la pagina
troppo presto, non gli interessa esercitare un controllo, definire la scrittura,
ma dare corpo alla scena e poi vada come vada. Il gesto dunque che prevale su
tutto anche sull’opera finale, una modalità che prevede istantaneità più che
immedesimazione, cinema più che letteratura.
> Sulla pagina il miracolo non avviene e quello che resta di Cosa succede a
> Baum? assomiglia a un Woody Allen minore se non di maniera. Un autore capace
> di pagine straordinarie, ma che nell’insieme appaiono sempre troppo fragili e
> a tratti addirittura sterili.
Tuttavia resta un romanzo che illumina e non poco sulla capacità di lavoro del
grande regista newyorkese e che ha il sapore di un fuori tempo massimo più
malinconico che decadente perché tornando proprio a Baum, tutto quello che a lui
manca sembra mancare esattamente allo stesso modo anche ai suoi lettori. E non
si tratta solo di dischi e libri, di mostre e musei, ma di passeggiate e
chiacchierate senza l’ossessione di una scadenza sempre imminente, di un
risveglio o di un allarme sempre pronto a suonare:
> Gli tornò alla mente un ricordo di molti anni prima. Perché le notti piovose
> riportavano alla mente i ricordi? si chiese. Anche i pomeriggi piovosi, se per
> questo. Qual era il motivo? Che connessione poteva esserci tra un’umidità del
> cento per cento e l’ippocampo? Fatto sta che le gocce cadevano e riattivavano
> la memoria. A Baum, almeno, succedeva sempre così.
Anche in questo caso non è una mera questione di tecnologia, ma di libertà
mentale, di darsi una possibilità che sia di volta in volta casuale come
meditata, o come direbbe il suo Boris Yellnikoff: “Whatever works”, basta che
funzioni. Ciò che la pioggia o l’amore diversamente, attivano è una distrazione
da sé stessi, ma quello che è essere sé stessi per gli uomini come Woody Allen,
nati negli Stati Uniti alla viglia del loro trionfo mondiale, è lavorare,
realizzarsi, dare forma ai propri sogni e desideri. Una vera ossessione il cui
finale e le contraddizioni che lo preannunciano portano a un vicolo cieco o
meglio all’impossibilità di smettere di darsi da fare riportando sempre in cima
alla montagna il masso di Sisifo. A novanta anni Woody Allen è testimone di una
grandezza che ha nelle sue origini una forza ancora del tutto contemporanea, ma
non nelle sue prospettive ormai legate a un Novecento che oggi ha il sapore
astratto di un paese dei balocchi. Che succede a Baum? purtroppo non buca
quell’immagine, non valica il secolo, ma offre il ritratto di uno dei più
importanti artisti di quel tempo, anche nei suoi limiti più o meno comici:
> Cosa volesse davvero, era il primo a non saperlo. Sapeva solo di essere già
> stato all’inferno e non voleva tornarci. Eppure sentiva già odore di zolfo che
> bruciava. Pensò che avrebbe aspettato che lei parlasse e poi avrebbe osservato
> il proprio corpo e visto che cosa faceva. Si sarebbe osservato da lontano e,
> come un semplice spettatore, forse non sarebbe stato responsabile delle azioni
> che avrebbe potuto tentare la sua persona.
Smettere dunque con tutto, con sé stesso tanto per cominciare e diventare per
una volta spettatore, restare a guardare. Una volontà passiva inseguita forse
per tutta la vita.
L'articolo Che succede a Baum? di Woody Allen proviene da Il Tascabile.
A lla parola paesaggio comunemente associamo la vista su delle colline, il verde
dei boschi, una pianura nella nebbia: molto dipende da dove siamo cresciuti,
qual è il posto a cui siamo legati in modo particolare, ma tendenzialmente il
paesaggio, nella nostra testa, somiglia molto a un quadro, è un panorama legato
quasi esclusivamente alla vista. Eppure un aspetto fondamentale dei luoghi è
quello sonoro: ogni posto ha un suo soundscape, un paesaggio sonoro specifico,
che varia, esattamente come l’aspetto visivo, allo scorrere delle ore del giorno
e della notte, nell’alternarsi delle stagioni, al passare degli anni.
Per chi vive in città il soundscape è un assedio di rumori incessanti, ma anche
quei luoghi che consideriamo più silenziosi – la cima di una montagna, una
spiaggia deserta – sono intessuti di suoni.
Fra questi due estremi, dal fastidio violento alla piacevolezza pacifica, si
muove la considerazione quasi puramente estetica che abbiamo del paesaggio
sonoro: ma prestare attenzione a cosa ci dicono i suoni può essere fondamentale
per accorgerci dei cambiamenti avvenuti in un ambiente, della riduzione della
biodiversità, della salute di un territorio, e dei benefici o danni che i suoni
possono apportare agli esseri viventi che lo abitano. A volte, infatti, è
proprio tendendo l’orecchio al paesaggio che ci arriva un segnale di allarme.
Primavera silenziosa, il famoso saggio di Rachel Carson pubblicato nel 1962 che
in qualche modo ha dato avvio al movimento ecologista statunitense, si apre con
una domanda: “Perché tacciono le voci della primavera in innumerevoli contrade
d’America?”. Il silenzio che improvvisamente dominava la primavera, al posto del
canto di innumerevoli specie di uccelli e del ronzio delle api, è l’aspetto
scelto dalla biologa per presentare, fin dal titolo, la sua indagine sulle
conseguenze dell’uso indiscriminato del DDT e di altri fitofarmaci.
Qualche anno dopo, all’incirca dalla fine degli anni Sessanta, alcuni studiosi
hanno cominciato a occuparsi di ecologia acustica, o ecologia dei paesaggi
sonori – ossia quella branca dell’ecologia che studia le relazioni fra i suoni
di un paesaggio e gli esseri viventi che lo abitano – nella convinzione che
l’aspetto sonoro delle questioni ambientali sia un tassello importante, che ci
può dire molto sullo stato di salute degli ecosistemi, sulla progettazione degli
spazi urbani, sui modi di condurre la transizione, sulle vite che vogliamo,
perfino sulla pace che desideriamo.
> Quando parliamo di paesaggio tendenzialmente pensiamo a un panorama legato
> quasi esclusivamente alla vista. Eppure, un aspetto fondamentale dei luoghi è
> quello sonoro: un paesaggio altrettanto specifico, che varia allo scorrere
> delle ore del giorno e della notte, nell’alternarsi delle stagioni, al passare
> degli anni.
Occuparsi di ecologia richiede spesso di impegnarsi a prestare attenzione a ciò
che alla nostra attenzione sfugge, perché difficile da comprendere, perché
invisibile, perché su scala troppo grande per averne una visione completa,
perché ha una dimensione temporale sfasata rispetto agli interessi politici e
alla nostra capacità di proiettarci nel futuro: a queste difficoltà, nel caso
dell’ecologia dei paesaggi sonori, si aggiunge il fatto che la vista, per gli
umani, è il senso a cui affidiamo gran parte delle nostre valutazioni, l’udito
ha un posto secondario, almeno a livello conscio, ed è così che sottovalutiamo
gli effetti dell’inquinamento acustico sulla nostra salute, i danni provocati
dai rumori delle guerre, la ricchezza sonora che stiamo perdendo assieme alla
biodiversità, e quanto sia importante, nell’immaginare il futuro, pensare anche
a come questo suonerà.
L’antropofonia e l’inquinamento acustico
Per cominciare a indagare di cosa è fatto un paesaggio sonoro possiamo partire
dalla divisione dei suoni in tre macrocategorie, o domini. Il primo è la
geofonia, ossia l’insieme dei suoni naturali provenienti da fonti abiotiche – il
mare, un fiume, il vento, un tuono, il brontolio selvaggio di un terremoto,
l’eruzione di un vulcano: ed è proprio l’eruzione del Krakatoa nel 1883 ad aver
generato l’onda sonora più potente mai registrata, con un boato di 310 decibel
(dB). C’è poi la biofonia, tutti quei suoni naturali emessi dagli esseri
viventi, animali e vegetali. Infine, l’antropofonia, cioè ogni nota, rumore,
boato o scricchiolio prodotti dagli umani, dalla musica più raffinata
all’insopportabile rombo di un aereo in decollo.
> Se sul posto di lavoro esistono, in Italia, norme precise sui limiti di
> esposizione al rumore, per quanto riguarda le città esistono solo delle
> raccomandazioni dell’OMS che vengono in larghissima parte disattese.
È proprio l’insieme dei rumori artificiali prodotti dalle attività umane a
costituire il tappeto sonoro predominante per chi vive nelle aree urbane: nel
mondo circa il 55% della popolazione, che si stima diventerà il 68% entro il
2050; in Italia la percentuale si aggira già attorno al 70% e sale al 91%,
secondo i dati Istat, che però comprendono anche i centri abitati più piccoli.
Se sul posto di lavoro esistono, in Italia, norme precise sui limiti di
esposizione che fissano a 80 dB la soglia media di attenzione (con picchi non
oltre i 135 dB) e a 87 dB la media massima che non può essere superata (con
picchi di 140 dB), per i rumori degli ambienti urbani in cui siamo immersi
esistono solo delle raccomandazioni dell’OMS (Organizzazione Mondiale della
Sanità) che vengono in larghissima parte disattese. Secondo le linee guida sul
rumore ambientale per l’Europa dell’OMS, infatti, il limite di esposizione al
rumore del traffico su strada sarebbe di 53 dB di giorno, 45 dB di notte. Quasi
un cittadino su tre, in Europa, vive in ambienti che superano, spesso anche di
molto, questi limiti: sono circa novantadue milioni di persone. Diciotto milioni
di persone, sempre in Europa, vivono in zone in cui il traffico ferroviario
produce rumori oltre la soglia prevista; e due milioni e mezzo di persone sono
esposte al rumore del traffico aereo.
Effetti dell’inquinamento acustico
La scarsa attenzione che prestiamo agli aspetti sonori dell’ambiente in cui
viviamo si riflette anche nella poca considerazione che abbiamo per i danni che
l’esposizione al rumore può avere: l’inquinamento acustico è fra le minacce
ambientali più pericolose per la salute, dopo quello atmosferico e il caldo
estremo. Lo scorso giugno, l’EEA (l’agenzia europea per l’ambiente) ha
presentato il rapporto Environmental noise in Europe, secondo il quale
l’inquinamento acustico è la causa di circa 66.000 decessi prematuri all’anno in
Europa, 50.000 nuovi casi di malattie cardiovascolari e 22.000 casi di diabete
di tipo 2. Oltre agli effetti diretti, ci sono quelli indiretti o a lungo
termine, come acufeni, stress, ansia, disturbi del sonno e difficoltà di
concentrazione, fino a depressione e demenza. Sono preoccupanti anche gli
effetti sui più piccoli: pare che l’esposizione continua al rumore del traffico
provochi difficoltà e ritardi nella lettura in circa mezzo milione di bambini e
disturbi del comportamento su circa 60.000. Si stima anche che circa 272.000
casi di sovrappeso infantile possano essere associati a livelli alti di rumore.
> L’inquinamento acustico è fra le minacce ambientali più pericolose per la
> salute: basti pensare che ogni anno, solo in Europa, causa 66.000 decessi
> prematuri. Per non parlare degli effetti indiretti su acufene, ansia, disturbi
> del sonno, difficoltà di concentrazione e depressione.
In complesso, sempre secondo lo stesso rapporto, in Europa perdiamo ogni anno
1,3 miliardi di anni di vita in buona salute (è l’indice DALY che somma gli anni
di vita persi per morti premature a quelli vissuti con malattie o disturbi
invalidanti). Un numero che fa impressione, ma forse non abbastanza da muoverci
all’azione: stando alle proiezioni dell’agenzia europea, senza forti misure
aggiuntive e senza nuovi investimenti non riusciremo a raggiungere l’obiettivo
di ridurre del 30% entro il 2030 il numero di persone che subiscono alti livelli
di inquinamento acustico (nello specifico, quello generato dal sistema dei
trasporti). Eppure i danni elencati hanno un costo elevato, stimato in 95,6
miliardi di euro l’anno: un numero da citare non perché serva assegnare un
valore economico alla nostra salute, ma per dare concretezza a qualcosa che ci
sembra semplice tappeto sonoro – il rumore del traffico nelle città – e che
solitamente consideriamo come secondario, incapace di produrre effetti concreti,
quando invece è perfino misurabile, sui nostri corpi e sui bilanci degli Stati.
Il rumore delle armi, il rumore come arma
Se il rumore del traffico è diventato una presenza costante e pervasiva del
paesaggio sonoro in cui siamo immersi, nel dominio dell’antropofonia in cima
alla lista dell’intensità si trovano i suoni prodotti da armi e mezzi di guerra:
il suono antropico più potente è quello generato dall’esplosione di una bomba
atomica, che supera i 200 dB. Anche in questi casi l’aspetto acustico ci sembra
marginale – e chiaramente di fronte a strumenti che producono morte il fatto che
producano anche dei rumori è marginale – ma essere sottoposti continuamente a
rumori così forti e innaturali, dal ronzio costante dei droni, al rombo degli
aerei militari, e poi le esplosioni, gli spari, gli allarmi, le urla, ha degli
impatti a lungo termine: in chi sopravvive; le conseguenze dell’esposizione
prolungata a questo tipo di rumori sono una parte importante dei disturbi
post-traumatici da stress, che spesso comprendono ipersensibilità ai rumori,
specie se forti e improvvisi.
> In cima alla lista dei suoni più potenti prodotti dall’essere umano ci sono
> quelli generati da armi e mezzi di guerra: l’esplosione di una bomba atomica,
> per dire, provoca un rumore che supera i 200 dB.
Esiste inoltre un’intera categoria di armi che usano proprio le onde sonore come
strumento di offesa: sono le armi soniche, o LRAD – Longe-Rage Acustic Device,
dispositivi acustici a lungo raggio –, vietate in molti Paesi, fra cui la
Serbia, che però è sospettata di averle utilizzate per disperdere la folla di
manifestanti in piazza il 15 marzo 2025. Le autorità di Belgrado negano di aver
utilizzato armi soniche, anche se hanno ammesso di averne acquistate. La
popolazione ha richiesto delle indagini indipendenti per chiarire i fatti, ma
quello che colpisce dei video diffusi in rete è l’invisibilità dell’onda che si
abbatte sul corteo, che si divide in due, con le persone che scappano dal centro
della strada, un’immagine che somiglia molto al rapporto che abbiamo con il
suono: qualcosa che sfugge alla nostra attenzione, ma di cui subiamo l’impatto.
Nel documentario Vibrations from Gaza, dell’artista Rehab Nazzal, il suono della
guerra oltre che invisibile diventa anche inudibile: i protagonisti sono bambini
sordomuti della Striscia di Gaza – una di loro, Amani, dice che “è una
benedizione essere sorda, così sono la meno terrorizzata quando bombardano” –, e
per tutto il film gli unici rumori sono il ronzio dei droni e le onde del mare.
I bambini raccontano quello che percepiscono degli aerei da guerra e delle bombe
che cadono: le vibrazioni dell’aria, del pavimento e dei loro corpi: la fisicità
del rumore, che rende impossibile il silenzio, finché non c’è pace, perfino per
chi non è in grado di udire la guerra.
Il silenzio: non solo un’assenza di suoni
Pace e silenzio sono due parole spesso associate: e come non si può definire la
pace per negazione, come solo assenza di guerra, così non si può definire il
silenzio per pura sottrazione del rumore.
> Un esempio chiaro del modo antropocentrico che abbiamo di intendere il mondo è
> che abbiamo fissato lo zero decibel non su un valore di reale silenzio, ma
> sulla soglia minima di percezione umana.
Eppure una prima idea di silenzio che ci viene alla mente è l’assenza di rumori
umani: niente rombi di motori o stridore dei freni, niente auto, aerei e navi,
niente bombe, niente fuochi d’artificio, niente allarmi, sirene e suonerie,
niente annunci, megafoni e altoparlanti, niente cantieri, demolizioni e
costruzioni. In breve, potremmo definire l’idea comune di silenzio come un
paesaggio sonoro in cui manca tutto l’insieme dell’antropofonia: sottraendo i
suoni di origine umana, rimangono quelli degli altri esseri viventi, o biofonia,
e degli elementi naturali non viventi, come quelli prodotti dai movimenti
dell’aria, dell’acqua o della terra, ossia la geofonia. Non è un silenzio
assoluto, ma un silenzio naturale, che non ha niente a che vedere con un vuoto,
ma è uno spazio sonoro pieno delle voci che altrimenti sono sopraffatte dai
rumori artificiali: canti degli uccelli, frinire di insetti, onde del mare,
scrosciare di fiumi e frusciare di foglie.
In Storia naturale del silenzio (2024) Jérôme Sueur va a indagare proprio cosa
c’è dentro il silenzio naturale, rendendo evidente che, se già prestiamo poca
attenzione agli aspetti sonori delle nostre vite, ancora meno ne prestiamo al
silenzio, che non è affatto univoco, né assoluto, né vuoto o assenza. Un esempio
chiaro del modo tutto antropocentrico che abbiamo di intendere il mondo è che
abbiamo fissato lo zero decibel non su un valore di reale silenzio, ma sulla
soglia minima di percezione umana: esistono in realtà suoni che misurano decibel
negativi perfettamente udibili da molte specie, ciascuna con una sua soglia di
silenzio differente.
> La nostra idea comune di silenzio è un paesaggio sonoro in cui mancano del
> tutto i rumori umani: niente rombi di motori o stridore dei freni, niente
> allarmi, sirene e suonerie, niente annunci, megafoni e altoparlanti, niente
> cantieri, demolizioni e costruzioni.
Nei linguaggi animali il silenzio non è vuoto, può essere un segnale amoroso, di
allerta o di sfida, ma può essere anche un segnale di morte e perdita: quando
una specie scompare, scompare anche il suono che è in grado di produrre. Così,
come “il silenzio nelle contrade di America” indicava che qualcosa stava
accadendo alle popolazioni di uccelli, registrare suoni e vibrazioni può dare
indicazioni precise sullo stato di salute degli ecosistemi e sulla biodiversità
che li abita.
Il silenzio dell’estinzione: l’ecoacustica per il monitoraggio della
biodiversità
È da questo proposito – monitorare la biodiversità attraverso il suono – che,
circa mezzo secolo dopo quell’intuizione di Rachel Carson, l’ecoacustica nasce
ufficialmente come disciplina, nel 2014, in Francia, al Muséum national
d’Histoire naturelle, grazie al lavoro di un gruppo di ricercatori, fra cui lo
stesso Jérôme Sueur. Alcuni ecosistemi sono nascosti alla vista: è il caso dei
ricercatori della Flinders University di Adelaide, nell’Australia meridionale,
che hanno registrato i suoni prodotti dalle comunità sotterranee di invertebrati
per monitorare lo stato di salute e di fertilità del suolo; oppure di specie
indistinguibili all’occhio, ma non all’orecchio, come alcune specie di rane; o
ancora di ecosistemi così vasti e difficili da raggiungere – l’oceano più
aperto, le profondità marine più inaccessibili – dove poter semplicemente
registrare e analizzare i suoni diventa il metodo più praticabile, e meno
invasivo, di monitoraggio.
I suoni prodotti da ciascuna specie sono un indicatore della biodiversità ma
anche, e soprattutto, una ricchezza in sé: e quando una specie scompare, quando
l’ultimo esemplare rinuncia a mandare i suoi richiami d’amore rivolti ormai a
nessuno, perdiamo per sempre delle note, un gorgoglio, delle vibrazioni, una
melodia che nessun altro essere vivente potrà replicare. Ogni singola specie non
solo produce dei suoni caratteristici ma ha un diverso modo di percepirli,
diversi spettri uditivi, diversi organi predisposti e diversi modi in cui le
vibrazioni sonore vengono percepite ed elaborate. Così quando una specie
scompare, non scompare solo il suono che produce, ma anche il suono che ascolta.
> Quando una specie scompare, quando l’ultimo esemplare rinuncia a mandare i
> suoi richiami d’amore rivolti ormai a nessuno, perdiamo per sempre delle note,
> un gorgoglio, delle vibrazioni, una melodia che nessun altro essere vivente
> potrà replicare.
Fra i vari compiti della tutela della biodiversità c’è anche fare in modo che le
altre specie animali possano continuare ad ascoltarsi fra loro: ridurre il
nostro peso sugli ecosistemi comprende quindi anche la riduzione del nostro
impatto sonoro – come, per esempio, l’inquinamento acustico del trasporto
marittimo, delle trivellazioni offshore e del deep-sea mining che stressa e
disorienta, provocando danni uditivi e a volte anche la morte, nei pesci e nei
mammiferi marini.
Immaginare un futuro silenzioso
Possiamo ripensare il nostro impatto sui paesaggi sonori; ripensare le città
tenendo a mente anche la necessità di contenere l’inquinamento acustico, per il
benessere di chi in città ci vive; ripensare la pace: “far tacere le armi” non
significa solo smettere di combattere, ma è un modo di lasciare spazio alla voce
dei popoli che con le armi vengono sottomessi, soggiogati, silenziati,
annientati; ripensare il silenzio: tacere, ridurre il rumore, non è creare un
vuoto ma creare spazio, così come quella che chiamiamo decrescita non è una
riduzione ma un modo diverso di crescere, dove alla crescita del PIL si
sostituisce quella del benessere, della salute e della giustizia.
Abbassare il livello, e il peso, dell’antropofonia sull’ambiente significa
quindi dare la possibilità di espressione ad altre specie animali, dar loro la
possibilità di tornare a comunicare, a quell’ultimo esemplare di scoprire magari
di non essere rimasto solo, e intercettare il verso di un suo simile prima che
entrambi smettano di cantare. Significa dare a noi, specie umana, la possibilità
di ascolto – delle altre specie, uscendo dal nostro antropocentrismo acustico, e
di chi, all’interno della nostra, è stato meno ascoltato –, e di immaginare un
cambiamento che tenga presente anche come potrebbe suonare il futuro che
vorremmo, una transizione non solo ecologica, non solo energetica, non solo
giusta socialmente, ma anche silenziosa, non per creare un vuoto sonoro assoluto
ma per poter ascoltare tutta quella ricchezza di voci di cui è fatto il mondo,
prima di perderle per sempre.
L'articolo Il paesaggio che (non) ascoltiamo proviene da Il Tascabile.
È il 19 aprile del 1943 quando Albert Hofmann, chimico svizzero della Sandoz,
assume volontariamente 250 microgrammi di LSD-25, sostanza da lui sintetizzata.
L’aveva già testata involontariamente pochi giorni prima, in quantità minime,
percependo effetti inattesi. Quel giorno decide di replicare in modo più
sistematico: in laboratorio, nel pomeriggio, ingerisce la sostanza e poco più
tardi torna a casa in bicicletta, dopo aver chiesto a un assistente di
accompagnarlo. Quel giorno passerà alla storia come il Bicycle day, e segna la
nascita del primo viaggio psichedelico documentato con rigore scientifico
nell’era contemporanea.
Da quel momento prende forma una tradizione ibrida ‒ a tratti scientifica, a
tratti letteraria, a tratti mistica ‒ di autosperimentatori che usano su di sé
sostanze psicoattive per esplorare la coscienza. Aldous Huxley assume mescalina
nel 1953 sotto la supervisione del medico Humphry Osmond e traduce
quell’esperienza in Le porte della percezione (1954), un libro che influenzerà
generazioni e che modificherà il lessico visionario del Novecento. Timothy
Leary, da psicologo ad Harvard, diventa promotore della psilocibina come chiave
per la liberazione dell’individuo e la decostruzione delle strutture sociali.
Hunter S. Thompson ne fa uno strumento gonzo per raccontare il collasso della
controcultura americana. Nel loro PIHKAL (Phenethylamines I Have Known And
Loved), i coniugi Shulgin ‒ Alexander, chimico di formazione, e Ann, terapeuta e
scrittrice ‒ sperimentano centinaia di molecole, annotandone gli effetti
psichici, corporei e relazionali.
Dieci trip di Andy Mitchell (2025; ed. orig. 2023) si inserisce in questa
genealogia, spostando l’attenzione dalle epifanie interiori a ciò che rende
un’esperienza psichedelica davvero terapeutica: il contesto, le relazioni, la
cornice in cui avviene. Mitchell, neuropsicologo clinico britannico, decide di
attraversare dieci esperienze con dieci sostanze diverse ‒ psilocibina, MDMA,
ayahuasca, ketamina, ibogaina, tra le altre ‒ in altrettanti setting: dai
laboratori universitari ai soggiorni terapeutici, dalle cliniche private alla
cucina di casa di amici. Al momento di scriverlo, Mitchell è astemio e non fa
uso di sostanze da vent’anni, perciò è un neofita degli psichedelici. Prende in
cura soggetti con traumi cerebrali o affetti da malattie neurologiche e ha una
lunga esperienza di disturbi mentali e dipendenze. Mentre attraversa un
periodo di sofferenza segnato da perdite e malattie famigliari, riceve l’invito
a partecipare a una cerimonia di ayahuasca, guidata da un’ayahuascara nel Big
Sur. Mitchell accetta. L’esperienza che ne segue ‒ potente, perturbante,
intensamente emotiva – è il catalizzatore che da forma all’intero progetto.
> Mi è sembrato che tutta la mia vita fosse divisa a metà da questa esperienza.
> La meraviglia era pari soltanto al terrore, la circolarità alla precisione.
> Superava di diversi ordini di grandezza qualsiasi cosa avessi immaginato. […]
> Allo stesso tempo mi sembrava incontrovertibilmente mia, modellata per
> adattarsi al mio “set”. Ha trasformato il mio rapporto con il mio defunto
> padre, permettendomi di dirgli quello che era rimasto taciuto e di guarire una
> distanza che nella vita vera era stata inaccessibile. Mi ha anche consentito,
> dopo due anni pieni di dolore, di capire una cosa nuova della malattia di mia
> figlia, una specie di kōan pronunciato dall’“Universo” (era la California)
> secondo cui più cercavo di aiutarla più lei peggiorava. Così è stato piantato
> il seme che poi è diventato questo libro.
> Dieci trip si inserisce in una tradizione ibrida di autosperimentatori che
> usano su di sé sostanze psicoattive per esplorare la coscienza, focalizzandosi
> su ciò che rende un’esperienza psichedelica davvero terapeutica: il contesto,
> le relazioni, la cornice in cui avviene.
Dieci trip non si classifica facilmente. Non è un memoir, ma parte da
un’esperienza personale. Non è un saggio scientifico, ma discute studi e trial
clinici. Non è un reportage, ma si muove sul campo. Mitchell usa la prima
persona per esplorare cosa accade durante il trip, con lo sguardo di un clinico
che conosce bene potenzialità e limiti delle terapie. Il tono è sobrio, spesso
ironico, e soprattutto privo di retorica. L’autore non cerca di convincere
nessuno, e forse per questo convince di più.
Il libro dialoga apertamente con il bestseller Come cambiare la tua mente
(2018), di Michael Pollan – altro autosperimentatore ‒ che ha contribuito a
riabilitare l’uso degli psichedelici nel discorso pubblico. Dieci trip si
propone come un “aggiornamento del dibattito cinque anni dopo, nonché una
risposta ad alcune delle sue ortodossie, compresa una dose extra di
sfrenatezza”.
Negli ultimi quindici anni, gli psichedelici sono passati dall’essere sostanze
associate alla controcultura a diventare oggetti di ricerca clinica, brevetti
industriali e investimenti biotech. Questo panorama include anche molecole come
ketamina e MDMA che, pur non essendo propriamente psichedeliche, trovano spazio
nei protocolli terapeutici e che rientrano a pieno titolo nel cosiddetto
“rinascimento psichedelico”. Un ventaglio di sostanze la cui riabilitazione si è
costruita lungo assi convergenti – neuroscienze, crisi globale della salute
mentale, storytelling terapeutico – fino a delineare una nuova stagione che, a
differenza di quella visionaria degli anni Sessanta, si presenta come razionale,
sicura e misurabile, promettendo effetti rapidi attraverso strumenti di cura
innovativi. Il linguaggio è cambiato: al posto dei mistici, i medici. Al posto
degli psiconauti, i ricercatori. Al posto delle utopie, gli schemi terapeutici.
> Entro il 2028, il mercato statunitense dei soli funghi psichedelici potrebbe
> valere 6,4 miliardi di dollari, pari a quello degli omogeneizzati per neonati.
Mitchell sottolinea il pericolo di una riduzione mercantile dell’esperienza, che
rischia di svuotarla della sua portata esistenziale. La corsa ai brevetti, la
standardizzazione dei protocolli, l’influsso del capitale sul disegno delle
terapie: tutto ciò rischia di appiattire una pratica profonda in un servizio
vendibile. Aziende come Compass Pathways o Mindset Pharma puntano a brevettare
non solo molecole, ma anche esperienze. Ex dirigenti di Wall Street gestiscono
fondi d’investimento dedicati agli psichedelici. Alcune organizzazioni storiche
bussano a investitori privati o lanciano aste NFT per finanziare la ricerca.
Entro il 2028, il mercato statunitense dei soli funghi magici potrebbe valere
6,4 miliardi di dollari, pari a quello degli omogeneizzati per neonati e dieci
volte quello delle M&M’s. Il rischio, secondo Mitchell, è quello di una
“Disneyland medico-spirituale”: un sistema che promette guarigione, ma vende
format.
Quanto all’uso terapeutico, l’autore mantiene un approccio equilibrato. Da un
lato riconosce il potenziale rivoluzionario di queste sostanze: gli studi
pionieristici su LSD, psilocibina e MDMA nel trattamento di ansia, depressione e
disturbi post-traumatici aprono possibilità inedite dove la psichiatria
convenzionale è spesso in stallo. Ma non si accoda ad alcun entusiasmo acritico.
Mitchell avverte che introdurre sostanze così potenti nella relazione
terapeutica amplifica inevitabilmente la vulnerabilità del paziente. Richiama
episodi controversi come quelli raccontati nel podcast del New York Magazine
Power Trip, tra cui i dibattiti interni a MAPS (Multidisciplinary Association
for Psychedelic Studies), no profit statunitense fondata per sostenere la
ricerca clinica e la regolamentazione dell’impiego terapeutico di diverse
sostanze psichedeliche, dove sono emersi casi di abuso in contesti presentati
come sicuri e controllati.
Mitchell osserva inoltre che la maggior parte delle sperimentazioni cliniche
sono ancora in fase preliminare, che molti dati vengono comunicati in modo
parziale o enfatizzato, e – soprattutto ‒ che manca una comprensione sistemica
di come queste sostanze funzionino davvero. Per lui, gli psichedelici sono
reagenti culturali: a contare non sono solo le molecole, ma anche lo spazio
fisico, le parole della guida, le aspettative, la rete di relazioni. In questo
scenario, Dieci trip testa quindi un’ipotesi di fondo: gli psichedelici sono
come l’acqua, prendono la forma del contenitore.
> L’acqua ‒ cioè il viaggio ‒ continua a cambiare forma, animando le nostre vite
> in modi insondabili che comprendono tutto quello che siamo, che è molto più di
> quello che sappiamo. La stessa sostanza può diventare medicina o veleno,
> illuminazione o confusione, a seconda del contesto che la ospita.
È questo il contributo più prezioso del libro, l’analisi di quello che per
Mitchell è una sorta di ecosistema dell’esperienza: tutti gli elementi che,
insieme, determinano se un viaggio psichedelico sarà terapeutico o dannoso. La
letteratura scientifica si concentra tradizionalmente su set e setting ‒ la
disposizione mentale di chi assume la sostanza e l’ambiente fisico in cui
avviene l’esperienza. Ma la mappa tracciata da Mitchell è più complessa. Nella
cerimonia di ayahuasca della Chiesa di Sonqo, per esempio, Mitchell scopre come
gli icaros ‒ antichi canti sciamanici della tradizione amazzonica ‒ siano il
vero e proprio sistema nervoso del trip. Ogni melodia apre una porta emotiva
specifica: un canto può portare verso l’introspezione, un altro verso la
liberazione del dolore, un terzo verso la connessione con gli altri
partecipanti. La musica si deposita letteralmente nel corpo di chi la ascolta,
diventando parte dell’esperienza tanto quanto la sostanza chimica. Quello che
Mitchell comprende è che nulla, in questi contesti, accade in isolamento.
L’ayahuasca non agisce su un individuo astratto, ma su una persona inserita in
una rete di legami, suoni, gesti, significati condivisi. L’esperienza è
relazionale e collettiva, dall’inizio alla fine.
> Per Mitchell, gli psichedelici sono reagenti culturali: non contano solo le
> molecole, ma anche lo spazio fisico, le parole della guida, le aspettative, la
> rete di relazioni. Non agiscono su individualità astratte, ma su persone
> inserite in una rete di legami, suoni, gesti, significati condivisi.
Questa stessa logica, per quanto traslata, vale anche nei contesti clinici.
Quando Mitchell partecipa a una sperimentazione con MDMA per il trattamento del
disturbo post-traumatico da stress, intuisce che la sostanza è solo la punta
dell’iceberg. L’MDMA ha una ben documentata capacità di disattivare
l’ipervigilanza e facilitare l’accesso a memorie traumatiche senza il consueto
carico d’angoscia. Ma perché questo avvenga, serve una struttura terapeutica
ampia e solida. Settimane di preparazione psicologica precedono l’assunzione:
esercizi di consapevolezza corporea, colloqui per costruire fiducia, tecniche
per regolare l’ansia. Durante la sessione, due facilitatori restano presenti per
otto ore, pronti a sostenere ogni fase. E dopo, ha luogo l’integrazione, con
incontri per elaborare quanto emerso. Resta un ma: “com’è possibile costringere
un’esperienza tanto potente, peculiare e ineffabile nei confini di un test
clinico o di un manuale terapeutico, figurarsi quelli di una clinica
affollata?”.
Stiamo vivendo un momento in cui le pratiche psichedeliche rientrano nella
cultura occidentale dopo decenni di rimozione. E proprio perché mancava
un’eredità diretta, oggi non esistono rituali davvero condivisi o strutture
solide, li stiamo costruendo mentre li pratichiamo. Le tradizioni autentiche,
quelle capaci di restituire misura e responsabilità, si stratificano attraverso
generazioni, nutrendosi di errori e di saggezza accumulata nel tempo. Le culture
indigene ce lo ricordano con una semplicità disarmante: la relazione con le
piante sacre nasce dal rispetto dei loro tempi e delle loro regole, non dalla
nostra fretta di guarigione. Ecco perché, secondo Mitchell, prima di inventare
nuove linee guida, avremmo bisogno di riscoprire linguaggi che già possediamo, e
di trattare l’esperienza psichedelica come un connubio tra arte e scienza, per
orientarci e creare anticorpi naturali contro gli hype del momento.
> Mi domando davvero cosa gli psichedelici possano insegnarci che in un modo o
> nell’altro non conosciamo già – collettivamente, inconsciamente – grazie
> all’arte. Che conosciamo e abbiamo dimenticato, che conosciamo e non possiamo
> recuperare in un altro modo. Mi chiedo se l’apprendimento non possa funzionare
> al contrario: se il Rinascimento Psichedelico, di cui finora in Occidente si è
> appropriata la scienza clinica, non possa insegnare a sé stesso l’arte e
> l’estetica – oltre alla storia, alla cultura e al resto delle scienze
> umanistiche – e trattare il trip non come un esperimento o una terapia ma come
> una poesia, una pièce teatrale, un sogno. A essere diversi sono il modo in cui
> gli psichedelici ci portano alla conoscenza e la sensazione di conoscere che
> danno, perché per quelle poche ore ciascuno di noi si trasforma in poesia.
Dieci trip propone, quindi, un approccio che richiede pazienza e capacità di
tenere insieme elementi apparentemente inconciliabili: rigore e apertura,
scienza e spiritualità, speranza e prudenza. Se oggi, ogni sostanza ha l’urgenza
di essere miracolosa o letale, e ogni terapia deve funzionare subito, Mitchell
compie un gesto controcorrente: chiede di rallentare, di restare
nell’incertezza, di accettare che l’esperienza psichedelica non possa essere
interamente contenuta in una narrazione unica, né ridotta a protocollo. Non è
poco, in un tempo che predilige l’immediatezza alla complessità.
L'articolo Dieci trip di Andy Mitchell proviene da Il Tascabile.
S crivo questo testo mentre nelle piazze italiane – e, a intensità variabile, di
altri Paesi europei – divampano mobilitazioni moltitudinarie e scioperi massicci
in sostegno alla liberazione del popolo palestinese, segnalando una forte crisi
di consenso e di legittimità delle classi dirigenti europee, complici ed
ipocrite di fronte al genocidio, ma prone alla corsa generale al riarmo.
Potrebbe profilarsi all’orizzonte lo spazio per un’alternativa antifascista ed
emancipatrice contro di esse.
Tattiche e pratiche eterogenee, unite via terra e via mare da un unico obiettivo
comune, ma indipendenti le une dalle altre – flash mob, blocchi dei nodi
logistici dell’invio di armi, boicottaggio delle università e delle aziende
israeliane, blocchi delle infrastrutture della riproduzione, disobbedienza
civile, aiuti umanitari, mozioni popolari, minuti di silenzio, minuti di urla,
digiuno degli operatori sanitari – si rafforzano reciprocamente e si compongono
all’interno di un movimento plurale e diversificato.
Già nel triennio 2019-2022, anche il movimento per la giustizia climatica – non
a caso oggi “confluito” nel movimento di solidarietà internazionalista pro-Pal –
aveva saputo combinare pratiche differenti all’interno di una lotta politica,
poi polverizzata dalle impasse della congiuntura di guerra successiva al 25
febbraio 2022. Le “fiammate” degli ultimi mesi non sarebbero certo possibili
senza il lavoro costante e paziente di collettivi, sindacati e associazioni che,
da molti decenni e negli ultimi due anni, hanno tenacemente insistito sulla
lotta al fianco della Palestina, anche quando le manifestazioni rimanevano
isolate, scarsamente partecipate e quando su di esse calava lo stigma
dell’antisemitismo, nell’ambiguità e nei silenzi dei cosiddetti progressisti.
La potenza accumulata nelle piazze dovrà ora costruire una propria continuità,
coniugando l’allargamento con la capacità organizzativa, nella speranza di
incidere sul lungo periodo e nella consapevolezza che in Palestina si consuma,
accelerandola, una tappa di una tendenza imperialistica alla conquista militare
di territori e risorse, sostenuta dalla riconversione bellica delle economie
mondiali.
> La potenza accumulata nelle piazze dovrà ora coniugare l’allargamento con la
> capacità organizzativa, nella consapevolezza che in Palestina si assiste a una
> tendenza sostenuta dalla riconversione bellica delle economie mondiali.
È una “bella” coincidenza che, proprio in questi giorni, sia arrivata nelle
librerie la traduzione italiana di un libro che ci costringe a riflettere in
questa direzione: Né verticale né orizzontale. Verso una teoria
dell’organizzazione politica, di Rodrigo Nunes, pubblicato nel 2021 in lingua
inglese per Verso Books e tradotto da Enrico Gullo per Edizioni Alegre. È
possibile concepire e costruire una dimensione organizzativa che – mimando
l’eterogeneità dei movimenti sopra menzionati – possa combinare tattiche e
strumenti differenti, che si rafforzano a vicenda invece di competere, e
includere molteplici “anime” in tensione tra loro, ma che condividono un
obiettivo strategico di medio periodo? Per l’autore il passaggio teorico-pratico
necessario è quello di “pensare all’organizzazione come a un’ecologia”, in cui
tutte le componenti, ciascuna nella sua autonomia, condividono un medesimo
ambiente e possono così plasmare e favorire il campo d’azione delle altre. Solo
così sarà forse possibile integrare a livello organizzativo quella molteplicità
che può convivere (e litigare) in un movimento, ma che solitamente si dà forme
organizzative separate e concorrenti.
La diagnosi di Nunes muove dall’evanescenza dello straordinario ciclo di
mobilitazioni globali del 2011 contro l’austerity e la rendita finanziaria,
defluito velocemente, incapace di costruire una durata all’interno delle piazze
occupate, indifeso di fronte alla torsione reazionaria e securitaria che gli si
è poi contrapposta. La sua sensazione – scrive – è quella di aver mancato una
grande e storica opportunità nel 2011, da cui è poi derivato un progressivo
ridimensionamento dell’orizzonte e un senso di impotenza collettiva. Non a caso,
nel decennio successivo, da più parti sia a livello teorico sia a quello
pratico, è stata riproposta la questione dell’organizzazione, dell’articolazione
e della durata. Da angolature eterogenee, irriducibili e talvolta in contrasto
tra loro, si è discusso negli ultimi anni di “crisi dell’immanenza” e di
“istituzioni plebee” (da una prospettiva neomachiavelliana), di “auto-affezione
mediata della moltitudine” e di “effetto di trascendenza nell’immanenza” (da una
prospettiva neospinoziana), di “insurrezione democratica” e di “dualismo di
potere” (da una dichiaratamente neomarxista).
L’esigenza del nostro tempo, approfondita certo dalla crisi della pandemia e
dalla dispersione che ne è succeduta, pare quella di “articolare” quei termini
che, in altre epoche storico-filosofiche, sono stati invece separati: natura e
politica, immanenza e trascendenza, orizzontale e verticale, unità e
molteplicità, insurrezione e democrazia, autonomia ed egemonia, micropolitica e
macropolitica. La gradazione di questo dosaggio, nonché la concettualità più
idonea a esprimerla, resta questione viva e aperta, discutibile più nella
pratica che nella teoria. Ed è all’interno di questo dibattito, che si colloca
il libro di Nunes, redatto proprio tra la fine degli anni Dieci e la pandemia da
Covid-19.
> Per l’autore è necessario “pensare all’organizzazione come a un’ecologia”, in
> cui tutte le componenti, ciascuna nella sua autonomia, condividono un medesimo
> ambiente e possono così plasmare e favorire il campo d’azione delle altre.
Nunes non si abbandona a fantasticherie o idealizzazioni sulla creazione di una
“nuova organizzazione” ma, con un approccio mirabilmente pragmatico, è piuttosto
impegnato a ripensare relazioni più virtuose ed efficaci tra le organizzazioni
già esistenti. Non si tratta, infatti, di “creare” ex novo un’ecologia, perché –
aderendo all’ontologia relazionale di Spinoza – ogni soggetto (individuale o
collettivo) esiste e agisce sempre e soltanto all’interno di una rete di
interdipendenze, attraversato e influenzato dalle affezioni esterne e
dall’ambiente circostante più prossimo, che lo arricchiscono o lo contengono.
Ciascuna cosa consiste, infatti, in un’integrazione di molteplici parti entro e
attraverso una struttura di relazioni che stabilisce l’equilibrio e i limiti di
quella composizione, e che a sua volta è parte di una composizione a un livello
ulteriore. La proposta teorica di Nunes è allora quella di trasformare questa
ontologia transindividuale in azione politica e ripensare a ciò che già esiste
(in primis noi stessi e i gruppi di cui siamo parte) in termini ecologici,
dunque nutrire cooperazione, reciprocità e condivisione di risorse tra nuclei
organizzativi differenti ma accomunati da una strategia condivisa, enfatizzando
i legami che connettono gli uni agli altri.
Da un lato, all’interno di questa ecologia organizzativa, non vige
un’orizzontalità piatta ed esasperata che annulla ogni differenza (di posizione
oggettiva nella struttura sociale e di preparazione politica soggettiva) tra i
nuclei, bensì vi sono prevalenti che possono (e devono) assumere la funzione di
avanguardia in una data congiuntura e punti strutturalmente significativi della
totalità sociale (alcuni più di altri) che possono destabilizzare il sistema.
Dall’altro lato, di fronte ai limiti dell’orizzontalismo e dell’assemblearismo,
non è certo sufficiente richiamare la necessità di un’ecologia organizzativa
maggiormente articolata e integrata, ma vanno affrontanti anche tutti i limiti
che, sull’altro versante, la dimensione organizzativa ha mostrato nel corso del
Novecento, attirando su di sé sospetti e critiche.
Nunes vuole dunque offrire una terapia filosofica al cosiddetto trauma
dell’organizzazione: se per Nunes tale paura dell’organizzazione è storicamente
legata alla torsione autoritaria dei Paesi socialisti, l’inclinazione
identitaria dei vari gruppi della sinistra radicale alle nostre latitudini ha
perpetuato quel trauma anche tra le più giovani generazioni. Si può allora
ripensare l’organizzazione non come la cristallizzazione di un’identità
omogenea, da difendere dalle minacce esterne, ma come l’assemblaggio di parti
molteplici in una potenza collettiva e la concentrazione di questa potenza su
dei punti strategici condivisi. Obiettivi comuni e strategia condivisa segnano
dunque un perimetro entro cui tattiche e “anime” differenti possono non solo
coesistere, bensì arricchirsi reciprocamente: convergere. Per quanto
nell’astrattezza di un libro teorico – il metodo di Nunes suggerisce il netto
realismo di partire dalle forze già esistenti e dalla pratica dell’obiettivo
comune.
All’interno di un’ecologia organizzativa, l’agire politico viene concepito nei
termini dell’azione distribuita. Non si tratta né di un’azione aggregata, quella
che viene spontaneamente ripetuta da molti soggetti senza alcun tipo di
coordinamento, né di strategia comune, né di un’azione collettiva, pianificata
intorno a un centro decisionale che ne stabilisce modi e tempi dell’esercizio. A
lato di questi speculari eccessi – eccesso di dispersione e differenze non
coordinate da un lato, di centralizzazione verticistica dall’altro – l’azione
distribuita è promossa da un nucleo della rete e assunta dagli altri nuclei,
ciascuno secondo le proprie caratteristiche, scale e temporalità, che in questo
modo integrano e modificano lo stimolo iniziale.
> Nunes non si abbandona a fantasticherie sulla creazione di una “nuova
> organizzazione”, ma, con un approccio mirabilmente pragmatico, è piuttosto
> impegnato a ripensare relazioni più virtuose ed efficaci tra le organizzazioni
> già esistenti.
Un nucleo prende un’iniziativa, lancia un percorso e delle parole d’ordine,
aprendo uno spazio in cui altri nuclei posso a loro volta intervenire e
contribuire. Lo stimolo iniziale “condiziona ma non determina” il processo che
ne segue, secondo una logica relazionale e non proprietaria dell’azione
politica. Si genera così un sistema di scambi e risonanze, in cui la
funzione-di-avanguardia del nucleo che per primo innesca l’azione non è visto
con sospetto o gelosia, e in cui una molteplicità di nuclei portano avanti una
lotta comune in forme variegate, su una scala spaziale e temporale più ampia di
quanto un singolo nodo potrebbe fare. I processi organizzativi non sono piatti e
orizzontali, ma al loro interno si differenziano tempi e modi diversi di
attività, funzioni e capacità differenti: tali differenze possono essere
sfruttate per la crescita e l’avanzamento dell’ecologia e la leadership può
circolare da un nucleo all’altro a seconda delle fasi.
Porre il focus sull’azione distribuita permette di partire non da quel che ci
dovrebbe essere, ma da quel che c’è già, un irriducibile dato di pluralità
ecologica, e sottoporlo alla disamina dei nostri obiettivi, non delle nostre
identità. Effettivamente, nelle dinamiche “orizzontaliste” del movimento, i
nuclei spesso si chiudono risentiti in sé stessi quando un altro prende
l’iniziativa senza previo avviso e consenso di tutti gli altri, o senza averne
prima discusso insieme, e così si perdono lo spazio di opportunità e
“traducibilità” che quella ha aperto. O, altrettanto spesso, i vari collettivi
competono nella gara a chi per primo promuove un’iniziativa, invece di
concentrarsi sulla possibile moltiplicazione e risonanza che ogni azione genera.
L’azione distribuita vorrebbe dissolvere questa competizione identitaria e il
tic – tipico di una condizione di impotenza – di accusarsi o sfidarsi l’un
l’altro.
Di fondo, l’orizzontalismo prevederebbe, nel suo ideale, che ogni decisione
venga presa nell’assemblea generale alla presenza di tutte e tutti. Il principio
(sano) della massima condivisione e allargamento scade nella tendenza (malsana)
a rimandare le decisioni all’infinito, quando tutte/i sono presenti e vi è il
tempo di discutere di tutto. Questo feticismo della presenza e sete di
inclusività illimitata riproduce, secondo la critica di Nunes, quel principio di
trascendenza della sovranità contro cui vorrebbe invece battersi. La presenza di
tutte/i in assemblea configura infatti un’entità trascendente e separata, come
se fosse qualcosa di superiore alle relazioni che la creano, che deve
continuamente difendersi dalle minacce (esterne e interne) e affermare il
proprio potere decisionale (fosse anche, per esempio, la decisione della data di
un’iniziativa pubblica) nello spazio dell’ecologia con gli altri nodi.
Come si organizzano insieme i vari nuclei, senza fare assemblea sempre tutte/i
insieme? Pare questa dunque una domanda che il libro ispira, senza darvi una
risposta esaustiva. O – per slittare dal “come” al “chi”, sebbene non sia certo
un passaggio lineare – chi articola l’ecologia e il processo convergente?
Domande che reinterrogano la necessità di una mediazione capace di tessere e
articolare insieme i differenti nuclei. Nunes distingue una mediazione come
forma da una mediazione come forza, e optando per questa seconda, si distanzia
dalle posizioni che vorrebbero elevare una certa forma (il partito) o un certo
simbolo a cerniera tra le varie parti in gioco. La mediazione non è più
concepita come una sintesi superiore tra due termini contrari, bensì come un
equilibrio metastabile tra forze molteplici, variabile a seconda della
situazione in cui si trova ad agire, che conserva tutte le forze in gioco in una
certa proporzione.
Come in fisica due forze A e B che premono in direzioni opposte non si negano
l’un l’altra, ma possono coesistere in un punto di equilibrio, allo stesso modo
un’organizzazione politica non è chiamata a scegliere tra un picchetto, un
comizio, uno spazio sociale o una petizione parlamentare, bensì può combinare
differenti espressioni di una lotta a seconda delle condizioni date. “Se non è
possibile avere tutto insieme (massima identità e massima apertura, massima
centralizzazione e massima democrazia, massima autonomia e massimo
coordinamento…), è necessario averli in misure diverse e in punti diversi,
bilanciati a seconda delle esigenze dell’occasione” (p. 107).
> Nunes vuole offrire una terapia filosofica al cosiddetto trauma
> dell’organizzazione: se tale paura è storicamente legata alla torsione
> autoritaria dei Paesi socialisti, l’inclinazione identitaria dei vari gruppi
> della sinistra radicale ha perpetuato quel trauma anche tra le più giovani
> generazioni.
Mediazione non suona allora come compromesso tra le parti, ma come distribuzione
dei ruoli e differenziazione funzionale. Senza un’assemblea generale che debba
ratificare ogni passaggio e decisione, ciascun nucleo svolge le proprie funzioni
(chi indice il picchetto di fronte ai luoghi di studio o lavoro, chi gestisce
uno spazio sociale, chi offre supporto legale alle occupazioni abitative, chi
conduce una mozione in consiglio): un nodo può svolgere più ruoli
contemporaneamente, magari a intensità differenti, ma nessuno li svolgerà tutti,
né ci sarebbe il bisogno di farlo. E se alcuni nuclei svolgono una medesima
funzione, le loro tensioni possono anche rivelarsi generative e sane, se nessun
nucleo mira a depotenziare l’altro. All’interno dell’ecologia, convivono infatti
più risposte possibili: se si pensa che esista una sola risposta possibile, si
compete contro gli altri nodi al fine di estirpare le false alternative; se si
ammettono più soluzioni possibili, si è meno incentivati a competere e più a
cooperare.
“Pensare davvero le proprie azioni in termini ecologici – secondo Nunes –
significa essere meno aggrappati alla propria immagine di sé” (p. 221): vale a
dire, più concentrati sulle proprie funzioni che sulle proprie posizioni
identitarie, e agire tenendo conto degli altri nuclei della rete, proponendosi
di creare vantaggi e opportunità gli uni per gli altri. Le azioni molteplici
possono rafforzarsi reciprocamente: la “differenziazione funzionale” è uno dei
principi di un’ecologia, in cui ci sono diversi e vari ruoli (il rebel, azione
diretta e conflitto; l’organiser, l’organizzatore politico; gli helpers; gli
advocates, o figure istituzionali) e in cui maggiore è la differenziazione e la
specializzazione dei singoli nuclei, più l’ecologia si espande ed è in salute.
La concezione di mediazione come distribuzione equilibrata di forze non risolve,
nel libro di Nunes, interamente la questione del coordinamento strategico tra le
varie parti: chi coordina, se certo il coordinamento non può darsi
spontaneamente, ma nemmeno può farlo un’assemblea costante di tutte le parti in
gioco? Un nucleo tra gli altri dell’ecologia? Un nucleo separato dell’ecologia,
deputato a questa funzione? Come si forma quell’unità di azione strategica tra
nuclei che tendono alla dispersione? Un mancato chiarimento di questi
interrogativi ha reso spesso precarie le ecologie che abbiamo visto formarsi. La
riflessione di Nunes mette per lo meno sulla strada giusta. Cinque indicazioni,
in particolare, possono essere ricavate.
1) In primo luogo, una critica dell’immediatezza, tanto delle filosofie che la
sostengono, quanto di quelle pratiche che la rivendicano. Se oggi è sempre più
comune affermare il primato delle relazioni (la posizione teorica secondo cui
ogni ente è costituito dalle sue stesse connessioni e soltanto nelle relazioni
possa esistere, esprimersi o trasformarsi) contro ogni sostanzialismo ed
essenzialismo, questa posizione spesso coesiste con una forte richiesta di
immediatezza: l’idea secondo cui tutte le mediazioni debbano essere eliminate e
che le differenze e le singolarità debbano esprimersi così come esistono “di per
sé”. Si tratta di due posizioni inconciliabili. In virtù del fatto che ogni
azione ed espressione è una composizione di molteplici parti, vincolate le une
alle altre in un qualche punto di equilibrio, la struttura di questi “vincoli”
determina una mediazione che connette le parti tra loro ma, al tempo stesso, le
limita. Non è possibile collocarsi all’interno di un’ecologia e, insieme,
rivendicare la piena e istantanea espressione di sé (che sia in una chat, in un
coordinamento o in un’azione). Concepirsi come parzialità significa accettarsi
come parzialità, rinviare la propria espressione ai momenti e alle forme
adeguati agli altri termini della relazione. Un eccesso di immediatezza
determina un sovraccarico del sistema e, con esso, un effetto di entropia non
desiderato. L’ecologia è quella mediazione che espande e arricchisce l’essere
delle sue parti soltanto se queste ne accettano i limiti. Ne deriva quella che
potremmo riassumere come la “positività del limite”: si rinuncia a una libertà
parziale e immediata, per conquistare una forza maggiore. L’autolimitazione
reciproca delle parti di un’ecologia è quella pratica su cui si gioca
l’efficacia di una struttura: la capacità di valorizzare e non di reprimere la
massima forza di ciascun nucleo che ne fa parte.
> All’interno dell’ecologia convivono più risposte possibili: se si pensa che
> esista una sola risposta si compete contro gli altri nodi al fine di estirpare
> le false alternative; se si ammettono più soluzioni possibili, si è meno
> incentivati a competere e più a cooperare.
2) Limiti interni, che sono a loro volta posti dai limiti complessivi della
congiuntura: il problema machiavelliano per eccellenza di adattarsi alle
circostanze esistenti e non pensare che tutto sia sempre illimitatamente
possibile. Contro la melancolica difesa di una qualche purezza ideologica, la
consapevolezza di agire all’interno di limiti determinati e la necessità di far
presa sulla realtà esterna orienta l’azione all’efficacia e, dunque,
all’esigenza di non disperdere o allontanare le forze che condividono i
nostri stessi obiettivi strategici. L’adattamento non è sinonimo né di
opportunismo conciliante, né di cinismo amorale, ma si inscrive in un progetto
di trasformazione della società. Come suggerisce Nunes, si tratta di “espandere
il regno delle possibilità, cioè i fini, nelle condizioni date”: “non si tratta
solo di agire nei limiti dati, ma di agire su quei limiti per trasformarli” (p.
328). Il comportamento collettivo o aggregato non può essere troppo lontano
rispetto alle condizioni esistenti o non sarà praticabile (forse l’eccesso di
soggettivismo della sinistra rivoluzionaria negli ultimi decenni), né troppo
vicino da perdere ogni distanza critica e obiettivo trasformativo (il problema
della sedicente sinistra tecnocratica e riformista). Si tratta di mirare al
“massimo del cambiamento possibile nei limiti esistenti” (p. 344). Il realismo
si traduce non in una politica della prudenza estrema e dello stare dentro
limiti stabiliti, ma in una politica sperimentale: “essere radicali in rapporto
a una circostanza concreta”, sostenere e amplificare ciò che già esiste
nell’ecologia, facendo attenzione a non danneggiare le condizioni che rendono
possibili le azioni altrui.
3) Egemonia e cura, spinta e ascolto, non sono necessariamente pratiche
alternative, ma possono combinarsi all’interno di relazioni ecologiche. Ogni
attore può esercitare legittimamente il massimo di egemonia di cui è capace
sugli altri nuclei, ossia il proprio potere di influenzare il corso
dell’ecologia, ma al tempo stesso prendersi la massima cura di non metterla a
repentaglio. Da un lato, qualunque spinta deve andare nella direzione
dell’obiettivo comune e sostenere il processo, senza ambire a controllarlo
interamente. Dall’altro, si riconosce l’egemonia – con la correlata “funzione”
di leadership – come un aspetto ineliminabile della politica. Dare avvio a un
comportamento collettivo ed “essere seguiti” non si traduce nella volontà di
costringere gli altri a fare una cosa, ma in quella di moltiplicare la potenza
collettiva su dei punti di lotta specifici, concentrati e non eccessivamente
dispersi (qui la differenza tra funzione-di-leadership e
posizione-di-leadership). Spingere i nuclei di un’ecologia verso un’azione fa
parte di un’ecologia in salute, attraversata da inevitabili tensioni interne,
quando questo non è finalizzato alla riproduzione di un’identità, ma alla
concentrazione della potenza collettiva su qualche punto strategico, e si
accetta che la propagazione di quell’azione non sia interamente allineata
all’input iniziale.
4) Partito ed ecologia organizzativa non sono la stessa cosa. Il partito non
rappresenta né la totalità dell’ecologia, la riunione di tutte le istanze, né la
forma più avanzata della coscienza (e dell’organizzazione) della molteplicità.
Nunes rinuncia a queste concezioni tradizionali del partito e lo circoscrive a
una funzione per lo più comunicativa: il partito come megafono mediatico, dedito
alla necessità di influenzare un’opinione pubblica esterna ai circuiti
dell’attivismo, all’occupazione degli spazi mediatici mainstream, ad articolare
interessi differenti in un’identità comune al di là di quelle già esistenti, e
dunque a guadagnarsi il sostegno di quelle parti di società non politicamente
attive.
Il partito raccoglie le istanze dei nuclei dell’ecologia, riceve da questi
direzionalità strategica con apertura e flessibilità, al pari di ogni nucleo
dell’ambiente condiviso, ma ciò che lo distingue dagli altri è la funzione
precipua di comunicare quelle istanze all’esterno dell’ecologia, nei settori
non-organizzati, dunque di fare mediazioni tra settori differenti e ottenere
consensi trasversali. Non significa che questa funzione sia svolta solamente e
interamente dal partito, ma che il partito ha questa come funzione principale,
in un quadro di distribuzione delle funzioni sopra menzionato. Nunes esce dunque
dallo schema tipico di un certo pensiero della sinistra radicale, quello della
“verticalizzazione”: non si tratta di verticalizzare le lotte sociali nel campo
della rappresentanza, ma di amplificarle nel campo della lotta mediatica e
ideologica e di permettere così che queste crescano e diano maggior forza al
partito stesso.
> Non si tratta di verticalizzare le lotte sociali nel campo della
> rappresentanza, ma di amplificarle nel campo della lotta mediatica e
> ideologica e di permettere così che queste crescano e diano maggior forza al
> partito stesso.
Nel far menzione del partito e della sua funzione, Nunes non chiarisce né il
problema del rapporto con lo Stato né propone un’analisi dei media su cui
combattere la lotta ideologica. Se da un lato viene rifiutata la posizione
appellista secondo cui il potere non risiede più nelle istituzioni dello Stato,
dall’altro viene accolta una certa parte di questa posizione, come dimostrato
dal fallimento del governo greco nel 2015 e dall’espansione globale delle catene
del valore, che supera ogni spazio di sovranità politica. Per quanto limitato,
il potere delle istituzioni pubbliche non è annullato e anzi ancora esercita una
tutela fondamentale degli interessi del capitale e la riproduzione della
forza-lavoro. Il potere dello Stato e la sua “autonomia relativa” sono emersi
durante la fase più acuta della pandemia. Nell’attuale e profonda
disarticolazione e competizione tra le istituzioni e i poteri dello Stato, forse
bisognerebbe chiarire a quale livello istituzionale possa collocarsi una
strategia della trasformazione sociale. Né, forse, si può parlarne in astratto,
ma ogni Stato presenta differenti caratteristiche istituzionali e attuali
condizioni di esercizio del potere. Allo stesso modo, il funzionamento
dell’arena mediatica viene menzionato ma non approfondito. La discussione
collettiva del libro potrà forse riprendere alcuni di questi problemi.
5) Separare interno ed esterno non pare più realmente possibile, né tanto meno
utile: isolare un soggetto politico dall’ambiente esterno, o pensarlo come
sovrano di quello spazio (imperium in impero) e capace di plasmarlo interamente,
è fallace e illusorio. Un sistema è sempre trasformato e modificato dalle
informazioni e dagli stimoli esterni. Auto-organizzazione è sempre, in parte,
etero-organizzazione, se una molteplicità di elementi all’interno di un ambiente
condiviso si influenzano gli uni con gli altri, aprendo o limitando il campo di
possibilità degli altri. Ne risulta che l’organizzazione sia sempre un dosaggio
contingente e variabile, a seconda della congiuntura, di auto- ed
etero-organizzazione, non la prevalenza di un termine sull’altro. Lo spinozismo
di cui abbiamo bisogno oggi ci mostra proprio questa reciprocità del dentro e
del fuori: molteplicità ed eterogeneità sono punti di forza se articolate
all’interno di un dispositivo di etero-determinazioni reciproche, in cui
ciascuna parte è al tempo stesso arricchita e limitata dalle altre.
L'articolo Né orizzontale né verticale di Rodrigo Nunes proviene da Il
Tascabile.
L a forma breve detta altrimenti racconto è per Lydia Davis in realtà una
strategia per arrivare a una scrittura automatica, un flusso unico, compatto e
continuo in grado di celebrare ogni singolo momento dell’esistenza, facendo
rilucere la quotidianità, anche quella considerata a torto spesso banale o
ovvia. La scrittura come un momento capace di dare corpo a una scia luminosa,
essenziale, rapida e mistica, ma soprattutto esistenzialmente fondamentale per
comprendere i chiaroscuri della vita e le sue inevitabili incertezze. Associata
alla scuola del minimalismo, Lydia Davis è ancora poco nota in Italia nonostante
gli sforzi di Rizzoli, Minimum Fax e ora di Mondadori che manda in libreria in
questi giorni ‒ dopo Osservazione sulle faccende domestiche (2022) ‒, I nostri
estranei, una raccolta uscita originariamente negli Stati Uniti nel 2023 e qui
tradotta splendidamente (come sempre) da Gioia Guerzoni.
Lydia Davis sconta la diffidenza e spesso più facilmente l’indifferenza dei
lettori che da sempre ‒ regola aura dell’editoria ‒ appaiono più attirati dalla
forma romanzo che dalla forma racconto. Un dato che in parte vive in
contraddizione con i tempi attuali che dettano in continuazione velocità e
rapidità e che in generale vedrebbero così favorita la forma breve alla forma
lunga. Ma probabilmente l’insicurezza unita all’ambizione a cogliere e
immergersi nella grande opera predispongono chi legge a imbarcarsi più
favorevolmente per un lungo viaggio che per una breve gita come sono spesso le
storie e le storielle (in senso tutt’altro che dispregiativo) che condiscono e
illuminano i libri di Davis. Racconti che spesso sono fatti di poche righe,
impressioni dettate sulla pagina che nascono da un momento rapido, da uno
sguardo abbagliato e incantato che fa resistere l’attimo e il suo accadere
espandendolo così nel fondo della memoria dei suoi lettori. Basta molto poco a
Lydia Davis per far accadere una storia su una pagina, ma oltre il racconto che
di volta in volta si pone davanti agli occhi è l’opera che appare di una
straordinaria compattezza. Sostanzialmente un unico lunghissimo racconto, un
oggetto letterario monumentale che ha la forma ultima e critica
dell’autobiografia di una scrittrice al lavoro, anzi nel mentre del suo lavoro.
> I racconti di Davis spesso sono fatti di poche righe, impressioni dettate
> sulla pagina che nascono da un momento rapido, da uno sguardo abbagliato e
> incantato che fa resistere l’attimo e il suo accadere espandendolo così nel
> fondo della memoria dei suoi lettori.
Vista in tutta la sua interezza ‒ e forse varrebbe proprio di pensare un unico
volume fisico per tutti i suoi racconti ‒ l’opera di Lydia Davis appare come un
infinito flusso in continua evoluzione dentro cui zampilla e saltella un allegro
e musicale movimento d’onde che dà corpo a una ultracontemporanea e al tempo
stesso attualissima Antologia di Spoon River. Davis infatti riesce a giocare
brillantemente e coraggiosamente ‒ come pochissimi ‒ tra attualità e
contemporaneità mischiando abilmente i piani e restituendo al lettore una
sensazione di leggerezza là dove il discorso può facilmente assumere i toni e la
forma di un dramma, magari solo accennato, ma ben visibile nella possibilità di
un imminente accadimento. L’attesa è un elemento fondamentale della narrazione
di Lydia Davis: tutto potrebbe avvenire oltre l’ultima pagina data, una forma di
suspence non strategica, ma che vive dell’essenza delle cose, del loro naturale
accadere e agire. E da questo punto di vista l’influenza di Samuel Beckett è
percepibile in più di un racconto come una presenza di fondo che definisce le
tonalità narrative dei suoi scritti: “L’uomo acconsente, lo sconosciuto fa una
chiamata. L’uomo chiede allo sconosciuto se può venire in sinagoga. Serve un
altro uomo per raggiungere il minia. Lo sconosciuto accetta e rimane per quasi
tutta la funzione”. Così come fanno capolino situazioni metaletterarie: “A
Detroit, mentre aspettavo in coda, ho conosciuto una donna che si è rivelata
essere la figlia dell’editore di Samuel Beckett, Barney Rosset”.
> L’opera di Lydia Davis appare come un infinito flusso in continua evoluzione
> dentro cui zampilla e saltella un allegro e musicale movimento d’onde che dà
> corpo a una ultracontemporanea e al tempo stesso attualissima Antologia di
> Spoon River.
In particolare I nostri estranei offe un’irremovibile convinzione nella forma
letteraria pura capace proprio per questo di sfondare le pareti ‒ speso sterili
‒ della narrativa per invadere la strada, per tornare là dove gli eventi
accadono in continuazione, ma sempre senza il bisogno e la necessità di
riferirli se non in forma di telegrafica ovvietà. Il movimento proposto da Lydia
Davis è quello di un’attesa che possa illustrare non i fatti, ma la forma mobile
dello sguardo e della voce narrante, al punto che i suoi racconti alternano la
narrazione al punto di vista dell’autrice che risulta così uscire
improvvisamente dal ruolo di narratrice per divenire direttamente protagonista
di una vicenda, magari minima, ma che definisce un’interpunzione utile ad
accelerare o a rallentare quella che a tutti gli effetti appare come una
proiezione continua.
Il movimento che l’autrice impone ai suoi lettori è quasi cinematografico, una
sorta di piano sequenza warholiano in cui tutto quello che può accadere sta già
accadendo in quell’unico e dunque preciso istante. Un mentre che si posizione
perfettamente davanti agli occhi dello spettatore/lettore, senza però che vi sia
mai la necessità di mettere l’evento in evidenza, sottolineandolo o delineandolo
all’interno di una narrazione di particolare straordinarietà. Tutto per Davis
vive al medesimo stadio d’importanza: “quella nota sarebbe rimasta completamente
isolata nello spazio, al centro dell’attenzione di tutti coloro che ascoltavano,
isolata come qualsiasi altro suono che avresti emesso, e avrebbe riecheggiato
nella vastità della chiesa con tuo grande imbarazzo”.
> I nostri estranei alterna narrazioni lunghe, a forme più diradate, quasi degli
> haiku. Intervengono nel mentre ballate e incisive poesie narrative che
> espandono il loro senso fino a offrirlo al successivo racconto, come in una
> ritmica dall’armonia totalmente jazzistica.
Una forma che vive tranquillamente quale elemento sconosciuto la cui visibilità
e presenza è data solo dalla pretesa e voluta solitudine, come un’ombra cinese
la cui profondità non è data dalla temperatura del colore, ma dallo scambio tra
luce e buio. Un icastico imbarazzo attraversa i protagonisti dei racconti di
Lydia Davis che fanno così (sorprendentemente) capolino nelle singole memorie
esistenziali di ogni lettore. Là dove la letteratura diventa sì indagine, ma
anche memoria, un vero sistema organizzato capace ‒ sempre senza citare mai
esplicitamente ‒ di rimembrare come una percezione intima un passato privato che
diviene in questo modo autobiografia comune.
I nostri estranei alterna narrazioni lunghe, a forme più diradate, quasi degli
haiku. Intervengono nel mentre ballate e incisive poesie narrative che espandono
il loro senso fino a offrirlo al successivo racconto, come in una ritmica
dall’armonia totalmente jazzistica. Minute che riportano alla letteratura di
Robert Walser, da sempre un riferimento per Davis, dentro cui a guidare è la
lingua prima della trama. È nell’essere ferma, istantanea che si definisce
infatti la cifra della scrittrice americana, in particolare in questa ultima
raccolta in parte criticata proprio perché sembra non andare oltre l’abituale e
confortevole giardino che da sempre Davis offre ai suoi lettori. Ma forse la
direzione da ricercare non è nel movimento, ma in quel non movimento che offre
una fotografia diretta della vita come della morte e del guaio che è riuscire a
far tornare ‒ da bambini come da vecchi ‒ tutti i conti.
L'articolo I nostri estranei di Lydia Davis proviene da Il Tascabile.