Vedere voci (e corpi) animali

Il Tascabile - Tuesday, August 26, 2025

L o scorso marzo uno studio apparso su Science ha confermato che i bonobo sono in grado di organizzare le loro vocalizzazioni seguendo strutture complesse, più simili a quelle della sintassi umana di quanto non immaginassimo. Viene definita composizionalità quella capacità di combinare elementi linguistici in strutture più ampie e che ne possono alterare il significato di volta in volta. Tra le diciannove combinazioni rilevate, alcune assumono la forma di frasi, frammenti di discorso: “yelp-grunt”, ovvero “facciamo quello che sto facendo”; “peep-whistle”: “cerchiamo la pace”. I ricercatori hanno usato lo strumento della semantica distribuzionale per analizzare non solo quali suoni vengono emessi dai bonobo, ma anche in quali contesti appaiono e con quali altri suoni sono combinati per esprimere di volta in volta intenzionalità diverse. A partire dal loro dizionario, “high-hoot + low-hoot” combinano i richiami che significano “prestami attenzione” e “sono eccitato” per dire invece: “prestami attenzione perché sono in difficoltà”. I bonobo si intendono, rispondono, piegano gli elementi della comunicazione al gesto quotidiano, alle proprie vicissitudini, e alla costruzione del loro vivere sociale. Da dove nasce questa voce? Sono la grammatica e la lingua parlata a crearla?

Classificare il linguaggio altrui vuol dire dominarlo, inglobarlo. Consiste nel misurare le capacità cognitive e comunicative degli animali non-umani sulla base di un parametro esplicitamente antropocentrico e logocentrico.

In Technobiophilia. Nature and cyberspace (2013), Sue Thomas si chiedeva “Quando sui nostri schermi guardiamo creature lontane affaccendarsi nella loro vita quotidiana, sogniamo una connessione? Speriamo nel momento in cui il falco o l’elefante o la gazzella o l’orso incontreranno i nostri occhi rispondendo finalmente al nostro sguardo remoto?”. Il sogno di vedere gli animali rivolgerci la parola, occupa da sempre un posto speciale nella nostra solitudine esistenziale. Soundboard per l’addestramento di cani che imparano a premere il pulsante giusto per dirci “biscottino” o “ti voglio bene”; Intelligenze artificiali (IA) che decifrano versi e segnali animali; chatbot costruiti con tecnologia LLM (Large Language Model ) e COT (Chain of Thought): continuiamo a costruire oggetti parlanti forse per avere qualcosa con cui parlare, strategie di elusione contro l’angoscioso silenzio cosmico e vite sempre più isolate. Oppure, è per via della perdita di contatto con le nostre originali comunità ecologiche: una sorta di nostalgia per il nostro tempo animale, il tempo in cui noi eravamo con loro.

C’è poi un senso di vertigine all’idea di decifrare appieno il pensiero di creature a noi aliene. Classificare il linguaggio altrui vuol dire dominarlo, inglobarlo. Consiste nel misurare le capacità cognitive e comunicative degli animali non-umani sulla base di un parametro esplicitamente antropocentrico e logocentrico: la loro capacità o incapacità di articolare discorsi, la loro attitudine o inettitudine a comprendere e riprodurre suoni e regole dei linguaggi umani.

Il presupposto per il quale il mondo animale debba venire incontro alle nostre categorie di linguaggio, è una proiezione coloniale, anche quando si traveste da empatia. Nei miti, nei racconti, nei disegni, negli stabulari, vogliamo che gli animali dicano, dicano a noi, e dicano come noi, affidando loro ruoli funzionali al nostro immaginario. Nelle fiabe tradizionali, ad esempio, leoni e volpi insegnano il coraggio e l’astuzia, l’agnello incarna la purezza sacrificale, l’asino la stupidità laboriosa e caparbia. Ma anche nei bestiari medievali e nelle narrazioni moderne l’animale è spesso uno strumento, veicolo di insegnamenti morali e apologhi edificanti. Vite e menti non-umane sono state soggette alle stesse proiezioni e supposizioni (edipiche, manichee, ecc.) che applichiamo ai personaggi delle storie umane. Con l’avvento del positivismo e l’illusione dell’osservazione oggettiva, l’animale, sbattuto nei laboratori, invece, tace. Non è più un emissario di senso, ma un dato da misurare. In questa transizione si consumava una nuova perdita epistemologica: dalla voce al segnale, dal discorso all’impulso. La soggettività animale viene tradotta, semplificata, neutralizzata.

Il ritorno del soggetto vocale
L’etologia cognitiva – disciplina che studia le menti animali attraverso l’osservazione del comportamento in ambienti naturali e sociali – è stata in grado negli ultimi anni di riportare al centro l’intenzionalità e la complessità comunicativa degli animali. In parallelo, la filosofia della percezione, che indaga come gli esseri viventi costruiscono senso a partire dal corpo e dalla relazione con l’ambiente, e l’ecosemiotica, che esplora i sistemi di segni negli ecosistemi come forme di coesistenza e scambio, invitano a ripensare la voce: non più semplice veicolo di informazione, ma gesto situato, espressione incarnata di una relazione.

Vite e menti non-umane sono state soggette alle stesse proiezioni che applichiamo ai personaggi delle storie umane. Con l’avvento del positivismo e l’illusione dell’osservazione oggettiva, l’animale, sbattuto nei laboratori, invece, tace. Non è più un emissario di senso, ma un dato da misurare.

Anche tra gli animali meno considerati dalla nostra immaginazione sonora, emergono forme sorprendenti di vocalizzazione. La comunicazione degli animali che conducono esistenze solitarie è stata spesso sorvolata, perché considerata a uno stato primitivo dell’evoluzione, e dunque senza bisogno di particolari approfondimenti. E invece i puma, i lemuri, hanno scambi significativi e reti sociali complesse pur passando molto tempo da soli; i procioni, animali fortemente individualisti, sono in grado di insegnare ai compagni meno svegli la risoluzione di problemi; alcune tartarughe d’acqua dolce, specie di rettile silenziosa e solitaria per eccellenza, emettono suoni in specifici contesti sociali come ad esempio le vocalizzazioni che precedono l’emersione, o la comunicazione delle femmine con i piccoli appena nati per accompagnarli verso l’acqua. Anche in assenza di strutture vocali sofisticate e in contesti sociali ridotti, la voce animale trova forme inedite per emergere come fenomeno diffuso, adattativo, contestuale. Gli animali usano la loro voce per tessere trame sociali, soprattutto nei momenti liminali: nascita, migrazione, nidificazione. È in questi passaggi di soglia che la voce affiora.

Da questa prospettiva il caso dei bonobo può essere analizzato in modo differente. Come osservato da David Robson, il linguaggio umano stesso è permeato di ideofoni – parole che evocano sensazioni fisiche vivide o emozioni attraverso il suono, e che trasmettono un senso immediato di corpo e intensità. Questo fenomeno, che sfida la teoria saussuriana dell’arbitrarietà del segno, mostra quanto la concettualizzazione delle parole sia legata in modo profondo all’esperienza sensoriale e corporea. Se trasliamo questo paradigma nella comunicazione animale, possiamo interpretare molte vocalizzazioni – come quelle dei bonobo appunto – non solo come segnali, ma come veri e propri atti incarnati. Sequenze vocali associate a stati emotivi e che costruiscono relazioni situate. Non solo una grammatica vicina al senso umano, ma una forma di articolazione sensoriale del mondo condiviso.

Gli animali usano la loro voce per tessere trame sociali, soprattutto nei momenti liminali: nascita, migrazione, nidificazione. È in questi passaggi di soglia che la voce affiora.

Un esempio analogo lo offre il celebre corvo allevato in cattività da Konrad Lorenz. L’animale aveva inventato una vocalizzazione inedita per richiamare il suo custode. Non un verso della specie, ma un suono creato ad hoc, rivolto a un interlocutore preciso. Un atto d’appello, non un riflesso. È in questi episodi che la voce si manifesta come gesto performativo: una negoziazione situata e irripetibile. Irripetibile non fisiologicamente, ma irripetibile dal punto di vista relazionale. Situato cioè in una relazione specifica, che nasce da un’interazione storicamente determinata tra quel corvo e quell’umano. Un gesto che non ha l’ambizione di essere replicato altrove, ma che ha senso nel momento in cui accade. È irripetibile come lo sono i gesti di cura, i soprannomi inventati e intonati nei rapporti affettivi, o certi silenzi condivisi tra due soggetti.

Senza voce
Cosa accade quando la voce dell’animale non può essere ascoltata? I pesci, per molto tempo, sono stati considerati esseri silenziosi. Eppure, studi di bioacustica marina hanno rivelato una ricchissima varietà di vocalizzazioni: molte specie comunicano attraverso suoni emessi con la vescica natatoria, battiti di mascelle o sfregamenti ossei. Il pesce tamburo, ad esempio, produce suoni durante la riproduzione che rientrano tra i più forti registrati sott’acqua.

Queste voci, che per secoli abbiamo ritenuto inesistenti, oggi rischiano di sparire senza essere mai state davvero udite. Non solo la pesca selvaggia, che rappresenta la causa principale dell’estinzione di queste creature, ma il traffico navale, le esplorazioni sismiche, le trivellazioni: tutte attività che generano un rumore costante e invasivo, che copre e disintegra i segnali acustici naturali. Questo riguarda i cetacei ovviamente, le cui comunicazioni basate su sonar naturali vengono neutralizzate dal rumore antropico. Gli ecosistemi acustici marini vengono riscritti dall’economia estrattiva e dalla logica del trasporto, con effetti che si estendono ben oltre il danno ambientale: colpiscono la possibilità stessa del legame, della presenza, della continuità generazionale. L’inquinamento acustico oceanico è l’equivalente sonoro della deforestazione: distrugge spazi di comunicazione, impedisce alle creature di incontrarsi, cacciare, accoppiarsi.

Studi di bioacustica hanno rivelato una ricchissima varietà di vocalizzazioni negli animali marini: queste voci, che per secoli abbiamo ritenuto inesistenti, oggi rischiano di sparire senza essere mai state davvero udite.

Alcune specie, come il notropide a coda nera, hanno sviluppato un meccanismo di compensazione noto come effetto Lombard: alzano il volume delle loro vocalizzazioni, per contrastare il rumore ambientale. L’effetto Lombard è una risposta involontaria e automatica, presente in molte specie animali, che permette di farsi sentire meglio in ambienti rumorosi. Ma non tutte le specie possono adattarsi immediatamente. E molte tacciono. Il nostro orecchio culturale è selettivo, e spesso sordo alle voci basse, alle voci lente, alle voci senza parole. L’interferenza antropogenica sovrascrive, copre, cancella. La perdita della voce è una forma di sparizione ontologica, la voce non udita è un soggetto che non conta.

Deborah Bird Rose, antropologa e teorica dell’ecologia multispecie, parlava della “responsabilità di ascoltare le voci che scompaiono”. Per Rose, la scomparsa di una voce non è solo perdita ecologica, ma una ferita relazionale che interroga la nostra stessa capacità di rispondere al mondo.

La materia che parla
Ricominciare ad ascoltare la voce animale significa rivedere anche la nostra idea di voce. Non tutto ciò che è voce si manifesta attraverso l’aria, e non tutto ciò che si manifesta attraverso l’aria è già riconosciuto come voce. La voce sintetica di un’Intelligenza artificiale, come quella usata in I’m Not the Only One (2019) di Martine Syms – artista afroamericana che indaga la relazione tra tecnologia, identità e linguaggio – mostra cosa accade quando la voce perde il corpo, quando diventa replicabile, standard. Syms lavora sullo smarrimento della voce come esperienza incarnata e posizionata, mostrando come i sistemi algoritmici tendono a normalizzare il linguaggio, a renderlo uniforme, neutro, scollegato da ogni contesto corporeo.

Storicamente, i soggetti razzializzati sono stati esclusi dal diritto di parola pubblica, o vi sono stati ammessi solo a condizione di adeguarsi a un registro linguistico dominante. La voce disincarnata dell’IA, in questo senso, è il paradosso finale: una voce a cui non corrisponde più alcun corpo, nessuna storia, nessuna vulnerabilità. Una voce che parla per tutti e per nessuno.

La comunicazione tra esseri senzienti non si limita alla mera trasmissione di informazioni, ma coinvolge la capacità di attribuire significato ed esperire emozioni, rendendo ogni interazione un evento relazionale potenzialmente trasformativo, non solo a livello di apprendimento.

Il linguaggio prodotto dalle IA basate su algoritmi transformer ‒ reti neurali che apprendono dal modo in cui i dati linguistici vengono utilizzati tenendo traccia delle relazioni all’interno delle sequenze che li contengono ‒ è il risultato di una struttura logica derivata dal mondo, non di un pensiero o di una intenzionalità cosciente. Ciò mette in luce quanto l’imitazione dell’algebra del linguaggio umano sia un compito, in fondo, relativamente facile da svolgere, il cui risultato dipende solo da un numero sufficientemente alto di calcoli. Gemma Corradi Fiumara, nel suo libro The Other Side of Language: A Philosophy of Listening (1995) sottolinea come nella filosofia occidentale, l’ascolto sia stato trascurato a favore della produzione discorsiva, e ciò contribuisce a spiegare, almeno in parte, la nostra tendenza a proiettare comprensione o intenzionalità laddove riconosciamo forme discorsive familiari.

ChatGpt, Gemini, Perplexity, Claude, o IA simili, possono leggere un volume enciclopedico in pochi secondi e produrre decine di linee di testo coerente, ma è questa una condizione sufficiente per pensare alle IA come soggetti parlanti? Come possono, nel loro stato attuale, possedere anche solo un briciolo del mondo emotivo ed esperienziale, ad esempio, di un corvide? La comunicazione tra esseri senzienti non si limita alla mera trasmissione di informazioni, ma coinvolge la capacità di attribuire significato ed esperire emozioni, rendendo ogni interazione un evento relazionale potenzialmente trasformativo, su più livelli, non solo su quello dell’apprendimento. Ci sono pipistrelli che usano nomi propri, balene che modulano canti per esprimere legami sentimentali, elefanti che ritornano dai cari sepolti nei loro cimiteri, uccelli che cantano per gioia in assenza di ricompensa: forme di comunicazione che rispondono a esigenze relazionali, affettive, forse perfino estetiche.

La lingua, intesa come sistema simbolico articolato, non è l’unico mezzo attraverso cui si manifesta il pensiero. L’ipotesi di Sapir-Whorf, o teoria della relatività linguistica, suggerisce che la lingua che parliamo influenza la nostra percezione del mondo, ma non determina completamente l’origine del nostro pensare. Pertanto, mentre la lingua può modellare il pensiero, non è una condizione necessaria per la sua esistenza.

La comunicazione tra esseri senzienti può avvenire attraverso una varietà di modalità, incluse vocalizzazioni, gesti, espressioni facciali, posture, attivazioni muscolari o di altri organi, attraverso le quali si esprimono desideri e stati interni. La comunicazione tra madre e neonato, ad esempio, è ricca di segnali non verbali che trasmettono affetto, sicurezza e bisogni. Allo stesso modo, la comunicazione tra esseri umani e animali domestici spesso coinvolge una comprensione reciproca che trascende le parole. I cani leggono i nostri segnali corporei quando stiamo per avere un attacco di panico, sono in grado di interpretare le espressioni facciali e il tono della voce umana per comprendere le emozioni e rispondere di conseguenza.

Ci sono pipistrelli che usano nomi propri, balene che modulano canti per esprimere legami sentimentali, elefanti che ritornano dai cari sepolti nei loro cimiteri, uccelli che cantano per gioia in assenza di ricompensa: forme di comunicazione che rispondono a esigenze relazionali, affettive, forse perfino estetiche.

Nel racconto autobiografico della ricercatrice e filosofa Eva Meijer, in Linguaggi animali (2021), emerge come il linguaggio si costruisca nella relazione, con il pony Joy, con i pappagalli e gli altri animali. È una costruzione situata e interspecifica, basata su abitudini condivise, feedback corporei, apprendimenti reciproci. Meijer non cerca un codice, ma una coabitazione linguistica: “non è solo un problema di ascolto”, scrive, “dobbiamo fare anche del nostro meglio per individuare nuove modalità di interazione con gli animali”. Molti animali comunicano efficacemente attraverso sistemi propri, senza fare affidamento su un linguaggio antropicamente inteso. Queste forme di comunicazione sono adattate alle esigenze specifiche delle specie, con una efficacia che spesso supera il linguaggio umano in termini di immediatezza e connessione con l’altro, più adatta a esprimere emozioni o situazioni complesse, ricorrendo a segnali olfattivi, visivi o acustici per trasmettere informazioni vitali in tempo reale, senza la necessità di una struttura linguistica complessa.

La ricchezza comunicativa che Meijer descrive è sorprendente: cani della prateria che usano un richiamo d’allarme capace di descrivere taglia, colore e oggetti di un umano intruso, uistití che “parlano a turno” e insegnano ai cuccioli a farlo, elefanti che usano infrasuoni specifici per nominare l’essere umano come minaccia. Le vocalizzazioni animali si adattano al paesaggio: i suoni delle balene si espandono per chilometri grazie all’acqua, gli elefanti usano infrasuoni che superano ostacoli terrestri, i pipistrelli mappano l’ambiente con l’ecolocalizzazione. Qui la voce è spazio attivato, è paesaggio. Per accostarci e “capire” davvero i linguaggi animali, dobbiamo comprendere come questi disarticolano le nostre categorie: tempo, spazio, intenzione, segno, significato. Il linguaggio diventa allora un luogo di apprendimento eterogeneo. “Nel momento in cui impariamo a comunicare con un’altra specie, non stiamo solo imparando una lingua nuova, ma anche un modo nuovo di abitare il mondo” scrive Meijer. La voce animale non è un enigma da risolvere, ma una soglia tra il dire e il sentire, tra il corpo e il paesaggio, tra l’intenzionalità e il contesto. Il linguaggio è una costruzione sociale e interattiva, piuttosto che una mera espressione di processi mentali combinatori.

Molti animali comunicano efficacemente attraverso sistemi propri: queste forme di comunicazione sono adattate alle esigenze specifiche delle specie, con una efficacia che spesso supera il linguaggio umano in termini di immediatezza e connessione con l’altro.

Al contrario delle repliche delle IA, la voce animale non è essenzialmente replicabile. Non è mai neutra. È rischio, esposizione, presenza situata. È sempre legata a un corpo che sente e che può essere ferito. Il richiamo del corvo a Lorenz, o quello tra Meijer e i suoi animali, sono gesti nati da una relazione contestuale che li rende necessari, e in quanto tali, non traducibili in codice o istruzione. La voce animale è irriducibile non perché enigmatica, ma perché materiale in senso profondamente ecologico. Perché è corpo che chiede relazione, presenza che esige implicazione. Se il corpo cosciente è già significante, la sua vibrazione – che sia udibile o meno – è già essa stessa un discorso. I corpi, quindi, partecipano attivamente alla costruzione del discorso attraverso le loro pratiche materiali.

Pensiamo a quelle voci che si esprimono senza fonazione: la migrazione sincrona degli stormi, i rituali di accoppiamento basati su posture e vibrazioni, i segnali elettrochimici dei pesci in acque torbide, o alle strategie silenziose dei polpi. Sono corpi che generano significato senza passare dal canale fonico o dalla sintassi. Sono, a tutti gli effetti, soggettività parlanti.

Accettare questa prospettiva significa spostarsi da un’antropologia del linguaggio a un’ecologia del discorso. Dove non si chiede più: “che cosa dice?” Ma piuttosto: “è la voce che ha dato al corpo il suo modo di stare al mondo? Oppure è il corpo stesso che parla? È la necessità di risposta al mondo ad aver spinto il corpo a creare la voce?”.

La voce come memoria incorporata
In Al di là delle parole (2018), Carl Safina descrive una delle notti passate nel Parco Amboseli. L’impressionante risuonare del ruggito notturno dei leoni attraversa il parco e scatena nell’etologo una sorta di recesso, che lo trasporta dal sonno profondo a un luogo più primitivo, uno stato di veglia e attenzione primordiale. “Trovandomi vivo, chissà come, su un pianeta dove le rocce, la polvere e le acque riuscivano a dar voce a dichiarazioni così enfatiche, nel cuore della notte, ne assaporai la sublime esaltazione e il terrore puro. Per raccontarlo ho bisogno di parole, ma l’esperienza imponeva il silenzio”. Trascinato in uno stato di coscienza sognante, mentre le voci si spargevano mormorando dal fianco della montagna all’argine del fiume, “i suoni trovarono un’immediata corrispondenza nella mia mente”.

Il filosofo Ted Toadvine, nel saggio The Time of Animal Voices (2014), riprendendo Merleau-Ponty,  suggerisce che la voce non è solo un atto del presente, ma un corpo che parla con tutto il suo passato. Ogni voce – umana o non-umana – è una memoria incarnata, un sedimento temporale che attraversa chi la emette. Parlare, in questo caso, non è produrre significato, ma equivale a far risuonare una storia inscritta nella carne.

Ogni vocalizzazione è una sopravvivenza, un’eco biologica che ci raggiunge da un tempo che non ricordiamo ma che ci riguarda. Ascoltare la voce animale è una forma di ritorno, non nostalgico, ma somatico: è il passato del vivente che ci tocca dal dentro del corpo. La potenza della voce animale sta ne “l’adesso che è antico e non lo è”, qualcosa che è al contempo originale e appena nato, ha a che fare con il passato, il presente e il futuro, qualcosa che “è stato e deve ancora avvenire, che insomma non può essere umanamente misurato”, scrive Federica Timeto in Bestiario Haraway. Per un femminismo multispecie (2020).

Ogni voce – umana o non-umana – è una memoria incarnata, un sedimento temporale che attraversa chi la emette. Parlare, in questo caso, non è produrre significato, ma equivale a far risuonare una storia inscritta nella carne.

La memoria non è un archivio mentale, una periferica di immagini virtuali o astratte, ma un campo di forze che si muove nel corpo, e ogni richiamo animale, anche il più debole o distorto, è il suo modo di farsi spazio nel presente, di fare emergere quella stratificazione. Il corpo animale non è mai solo biologico, ma anche storico: l’elefante non esiste solo come individuo biologico, ma anche come simbolo di potere coloniale, come corpo addomesticato nei circhi. In alcune aree fortemente segnate dal bracconaggio, si è osservato ad esempio un aumento delle femmine nate senza zanne. Così come il cane non è lo stesso animale in un villaggio andino, in un laboratorio di neurobiologia, o in un profilo Instagram. Il corpo che vediamo, interpretiamo, uccidiamo o salviamo è sempre un corpo attraversato dalla storia, e così inevitabilmente sarà la sua voce.

Il tempo dell’animale come tempo dell’ascolto
Se ogni corpo è già discorso e ogni voce è memoria, ascoltare l’animale significa entrare in una temporalità altra. Non quella lineare, produttiva, finalistica che struttura l’esperienza umana moderna, ma una temporalità ecologica fatta di gestazione, di attesa, di passaggi stagionali. Un tempo che non misura ma accompagna. Toadvine lo descrive come il tempo dell’animalità: ciclico, ripetitivo, radicato nella carne e nei ritmi della vita. Il tempo della gestazione, del sonno, del respiro, dell’attesa silenziosa. Il tempo dell’animale è il tempo del mondo: non nel senso del dominio planetario, ma come orizzonte condiviso da chi lo abita.

Ascoltare l’animale significa entrare in una temporalità altra. Non quella lineare, produttiva, finalistica che struttura l’esperienza umana moderna, ma una temporalità ecologica fatta di gestazione, di attesa, di passaggi stagionali.

Rachel Carson lo faceva notare nel 1962, con Primavera silenziosa; questa distanza temporale si fa tragicamente visibile in ciò che chiamiamo road kills: gli animali investiti dalle auto lungo le strade. In quel corpo straziato c’è tutta la frizione tra due ordini del movimento: uno che si limita ad attraversare il mondo, l’altro, invece, che lo abita. L’automobile porta con sé una temporalità antropocentrica, fatta di velocità, urgenza, ignoranza del circostante. L’animale segue un tempo altro: attraversa perché è stagione, perché è notte, perché ha fame. Il suo tempo non coincide con il nostro. E il nostro non lo prevede.

Per ascoltare l’animale bisogna rallentare fino a sintonizzarsi con quel ritmo. Quando diciamo che alcune specie parlano “poco” o “raramente”, stiamo dichiarando la nostra incapacità di abitare i loro tempi. Forse emettono un suono ogni vent’anni, forse quel suono è tutto il loro discorso. Il fatto che non lo sentiamo pone noi fuori dal tempo del mondo. Ascoltare l’animale, riconoscerlo, sentirne la voce vuol dire tenere conto di questa eterotemporalità.

Diventare il tempo dell’altro
Eva Meijer critica l’assunto aristotelico secondo cui solo l’umano sarebbe ‘animale politico’, perché dotato di logos, e propone di considerare il linguaggio animale non come un deficit, ma come espressione di partecipazione attiva alle comunità ecologiche e alle relazioni interspecifiche. Meijer presenta un resoconto di api che deliberano, cervi che votano con il corpo, bufali che attendono i segnali di leadership corporea prima di spostarsi. L’animale parla politicamente quando trasforma lo spazio, quando partecipa alla relazione. Il rifiuto di attribuire agli animali tratti “umani” come linguaggio o soggettività, o di riconoscere l’efficacia di quei sistemi comunicativi proprio in quanto non-umani, evidenzia la nostra ideologia specista e dell’antropo-diniego.

Riconoscere la voce animale come espressione incarnata e relazionale implica una critica radicale al nostro approccio epistemologico. Se ogni silenzio imposto alle voci non-umane è una forma di cancellazione epistemica, allora l’ascolto, inteso in senso ampio, diventa un atto di resistenza. In questo contesto, le pratiche bioacustiche che registrano e conservano le vocalizzazioni animali assumono un significato politico: diventano controarchivi che resistono alla cancellazione delle voci non umane. Proteggere un paesaggio sonoro nel tentativo di garantire che queste voci possano continuare a esistere e disturbare.

La domanda ultima non è più “che cosa dice l’animale?”, ma: “che cosa ci obbliga a diventare il suo dire?” Toadvine definisce la voce animale come un evento chiasmatico: in termini merleau-pontyani, il chiasmo è l’intreccio sensibile tra corpo e mondo, tra chi tocca e chi è toccato. Applicato alla voce animale, questo implica che ascoltare significa essere modificati, un ritorno tra corpi che si toccano e si trasformano a vicenda. Un po’ come nel concetto di intra-azione coniato da Karen Barad, in cui il contesto è coprodotto dall’interazione, nella voce animale, per Toadvine, soggetto e mondo si riscrivono a vicenda.

Se ogni silenzio imposto alle voci non-umane è una forma di cancellazione epistemica, allora l’ascolto, inteso in senso ampio, diventa un atto di resistenza. La domanda ultima non è più “che cosa dice l’animale?”, ma: “che cosa ci obbliga a diventare il suo dire?”.

Nell’archivio planetario dei video online, circola l’interazione tra una IA, che parla attraverso uno smartphone, e Molly, un pappagallo. L’IA riconosce quasi immediatamente di stare parlando con qualcuno di diverso da un umano. L’IA si vanta di potersi esprimere in oltre cento lingue diverse, ma si dice anche divertita da questa prima interazione telefonica con un pennuto. Il pappagallo, dal canto suo, risponde coerentemente se sollecitato a ripetere il proprio nome, la parola ‘cracker’ e nell’uso del ‘bye bye’ quando la telefonata volge al termine. Non si conoscono i dettagli del video, non sappiamo se e in che termini l’IA stia leggendo uno script o sia stata preparata a quel tipo di interazione, così come non sappiamo nulla in merito all’addestramento del volatile. La scenetta che viene fuori però mi ha fatto pensare in qualche modo a Blade Runner. Nel film di Ridley Scott come nel romanzo di Philip K. Dick, il mondo è abitato da umani e macchine. Gli animali sono estinti, li abbiamo sostituiti con delle mascotte robotiche. Gli unici soggetti rimasti a rivolgerci la parola e a comunicare con noi sono i replicanti, androidi e robot. Nel video tra l’IA e Molly, invece, intravediamo un futuro alternativo: gli umani si sono estinti, animali e macchine rimangono pacificamente a conversare insieme, senza di noi.

Incontrare un soggetto che non è il peluche simbolico del nostro immaginario, vuol dire accettare la sua opacità, il suo modo di essere corpo. Ci permette di pensare la voce animale non come oggetto naturale da studiare in vitro ma come fenomeno relazionale che emerge tra corpi, ambienti, e sistemi di ascolto. Accettare un dominio dove “io” e “tu” non sono pronomi ma esperienza, l’uno dell’altro. Forse questo non servirà a salvare il pianeta, ma ci restituiremo, almeno, il diritto di abitarlo insieme fino alla fine.

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