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Sono le parole che mancano!
C hi era veramente Jacques Lacan? Provare ad avvicinarsi alla natura di questa esistenza potrebbe forse rivelare i segreti sepolti in un pensiero coraggiosamente oscuro, che procede per folgorazioni e illuminazioni e non sembra poter essere ridotto alla più tranquillizzante e canonica catena di causa-effetto. Studiare la parte più sommersa della psiche umana, come ha fatto Lacan, plasma inevitabilmente anche il modo di raccontarla, ma alla grigia intransigenza dell’analista fa da controcanto un’esistenza spumeggiante e sempre tesa al superamento dei limiti, una dissonanza in realtà solo apparente perché mostra come l’uomo e il suo pensiero non siano del tutto divisibili. Catherine Millot, allieva e poi compagna di Lacan, nel suo Vita con Lacan (2017), offre un ritratto inedito dello psicoanalista francese catturato nella sua esistenza quotidiana, tra lo studio a Parigi nel settimo arrondissement e la casa di Guitrancourt, tra le corse folli con la macchina (Lacan non sopportava le code e superava le altre auto in corsia di emergenza o abbandonava la sua in mezzo alla strada se la cosa era inaggirabile o un semaforo rosso troppo a lungo) e gli imprescindibili bagni nella piscina della sua casa di campagna qualsiasi fosse la stagione. Ma scoprendo i tic e le fissazioni di Lacan emerge pian piano il fondamento che è alla base del suo lavoro, l’idea, cioè, di un movimento inesorabile verso lo sconosciuto, una spinta sempre in avanti, la forza di protendersi fino al limite. Così come le forme del desiderio che la sua psicoanalisi ha mirato a definire, a questo anelito verso l’infinito che muove l’uomo e il pensatore, Lacan ha offerto, sempre, la sua dedizione più assoluta. Nell’inverno del 1971, settantenne, affermato già in tutto il mondo come uno dei più grandi eredi di Sigmund Freud e sempre al centro di critiche che ne contestano l’insegnamento o la pratica di analisi tanto da venire a un certo punto scomunicato dall’IPA (International Psychoanalytical Association), Jacques Lacan viene chiamato all’Ospedale Sainte-Anne di Parigi per tenere una serie di conferenze per i medici psichiatri dell’istituto. Il Sainte-Anne, situato nel quattordicesimo arrondissement e dal 1863, per volere di Napoleone III, dedicato alle cure psichiatriche, di cui usufruiranno anche Antonin Artaud e Paul Celan, non era un posto qualunque per Lacan perché alla fine degli anni Venti in quelle sale cominciò a esercitare la professione medica come psichiatra. Tornarci quindi, dopo quasi mezzo secolo e dopo aver fondato due scuole centrali per la storia della psicoanalisi e delle scienze umane tutte, l’École freudienne de Paris che poi scioglie e l’École de la Cause freudienne, significava per Lacan guardarsi indietro, capire il luogo da dove si era sviluppato il suo pensiero e, per certi versi, fare i conti con la strada che fino a quel momento aveva percorso. > All’interno di un’opera che è quasi esclusivamente orale e basata sui suoi > seminari affollatissimi Lacan è consapevole dell’insufficienza della parola e > dell’impossibilità di trasmettere attraverso i suoi significati i segreti > dell’esistenza psichica umana. Eppure, non esiste altro modo. La raccolta di quegli interventi ha un titolo emblematico, che nella sua icasticità rende bene le forme ermetiche, e per certi versi impenetrabili, della sua opera: Io parlo ai muri, questo il titolo, è infatti un concetto in grado di restituire l’opacità di una parola che, andando a indagare gli spazi più reconditi dello spirito umano, quelli dell’inconscio, per sua stessa natura risulta inafferrabile e inspiegabile, una dichiarazione di poetica che accetta le difficoltà e ne assume tutto il valore per provare ad andare oltre alla limitatezza del parlare. Nell’incontro che tiene nella cappella dell’ospedale, Lacan prova a spiegare al suo uditorio il paradosso di tutta la sua esperienza: all’interno di un’opera che è quasi esclusivamente orale e basata sui seminari affollatissimi che tenne per tutta la vita e che videro affollarsi migliaia di studenti, personalità dell’intellighenzia mondiale e curiosi, Lacan è consapevole dell’insufficienza della parola e dell’impossibilità di trasmettere attraverso i suoi significati i segreti dell’esistenza psichica umana. Eppure, non esiste altro modo. Perché però provare? Perché tentare di forzare i limiti del linguaggio davanti a un’impresa che si preannuncia, sin dall’inizio, impossibile? In queste domande è racchiuso il senso intero di un’opera lanciata verso l’impossibile, sfidare il monito di Wittgenstein su quello su cui si dovrebbe tacere: nel suo desiderio di sondare l’insondabile l’opera di Lacan è rivoluzionaria e non solo si ricollega al magistero di Freud (attraverso il suo celebre e auspicato “ritorno a Freud”) ma in un certo senso lo oltrepassa perché lo studio dell’inconscio finisce per superare abbondantemente i confini della psicoanalisi e incrociare proficuamente la sua strada con altri campi del sapere, dalla letteratura alla filosofia fino alla matematica. Il segno probabilmente più evidente di questo slancio verso l’impossibile è testimoniato dalla natura orale e seminariale del suo lavoro: l’unica opera scritta pubblicata nel corso della sua vita sono i due volumi degli Scritti (che comunque sono una raccolta di testi già pubblicati altrove o di discorsi e conferenze pronunciate in giro per il mondo) mentre tutto il cuore del suo insegnamento e della sua eredità sta proprio nei seminari che tenne a Parigi tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta e che sono dapprima un’analisi dei concetti di Freud e poi, a partire dal celebre seminario I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, una riscrittura di Freud con la lenta e inesorabile emersione dell’originale pensiero lacaniano. > Nel suo desiderio di sondare l’insondabile l’opera di Lacan è rivoluzionaria e > non solo si ricollega al magistero di Freud ma in un certo senso lo oltrepassa > perché lo studio dell’inconscio finisce per superare i confini della > psicoanalisi e incrociare la sua strada con altri campi del sapere. Come uno dei suoi maestri, Alexandre Kojève, le cui lezioni parigine su Hegel ebbero una ricaduta fondamentale per tutta la cultura del secondo Novecento e a cui partecipò anche Lacan in compagnia di personaggi come Raymond Queneau, Georges Bataille, André Breton, Hannah Arendt e molti altri, Lacan ripone una fiducia massima nell’ambito seminariale che diventa da un lato la messa alla prova più estrema dell’uso della parola e, dall’altro, l’unico mezzo attraverso il quale diffondere le proprie idee, difficilissime da ingabbiare sulla pagina scritta. Riveste quindi un ruolo centrale, che emerge bene anche da Io parlo ai muri, l’insegnamento, un gesto non riducibile solo alla trasmissione del sapere, ma che si tinge di una relazione decisiva con chi ascolta, chiamato a collaborare alla costruzione della conoscenza: “Mi sforzo – dice Lacan – affinché non abbiate un accesso troppo facile al sapere, così che voi dobbiate metterne del vostro”. Jacques-Alain Miller, durante una delle conferenze che tenne in Brasile su Lacan e che sono raccolte nell’importante volume Delucidazioni su Lacan (2025) spiega bene come l’insegnamento di Lacan “impedisce di credere che lo si possa comprendere immediatamente”: in questo senso leggere Lacan, provare a cogliere il mistero più profondo del suo pensiero, e quindi il segreto intero dell’essere umano, è un atto di fede assoluto. La parola è quindi lo strumento fondamentale dell’insegnamento di Lacan nonostante per lui la verità sia per sua stessa natura impossibile: “Io dico sempre la verità: non tutta! Perché a dirla tutta non ci si arriva. Dirla tutta è impossibile materialmente: sono le parole che mancano! È proprio per questo ‘impossibile’ che la verità tocca il reale”. “I muri in fondo sono fatti per circondare un vuoto” dice Lacan e in effetti insegnare rappresenta proprio lo sforzo di circoscrivere questo vuoto, di dargli una forma e fare in modo che nell’aula, nelle quattro mura che la costituiscono e che custodiscono gli uditori, si possa formare un sapere da condividere che oltrepassi i confini della verità, la limitatezza del parlare. In questo senso la parola assume un valore decisivo e un’importanza ancora maggiore all’interno di un pensiero che considera e studia l’inconscio come un linguaggio: qui sta la novità assoluta del pensiero di Lacan che riprendendo la distinzione del linguista De Saussure tra langue e parole (e cioè tra il linguaggio come sistema e la sua espressione) in un saggio fondamentale, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicanalisi, espone come il linguaggio venga legittimato solamente dall’incontro con l’altro: “non v’è parola senza risposta, anche se non incontra che il silenzio, purché abbia un uditore”. Se quindi la langue può esistere anche senza soggetti, la parole necessita dell’intervento di un altro soggetto per poter funzionare: questo rivela come per Lacan l’intera esistenza umana, di cui l’analisi e il rapporto analista-paziente non è che un epifenomeno, sia segnata dalla necessità dell’Altro. Negli ultimi anni della sua vita Lacan diventa ostaggio della sua ossessione per il nodo Borromeo (fa comprare ogni tipo di corde e dissemina il pavimento del suo studio e della sua camera da letto di questi nodi, oltre a mostrarne tutte le implicazioni a un Heidegger oramai anziano che non sembra coglierne l’importanza) e anche i suoi seminari cominciano a scivolare verso un silenzio che appare molto lontano dalla teatralità degli anni precedenti. Maillot racconta un evento accaduto in quegli anni che oltre a rivelarsi commovente testimonia anche lo scivolamento dell’uomo e del suo pensiero verso il silenzio. Una notte il vecchio Lacan esce dalla sua casa parigina in rue de Lille, per andare da suo genero, nonché successivamente esecutore testamentario, Jacques-Alain Miller e dalla figlia Judith per infilarsi nel letto del piccolo nipote Luc: sembra trattarsi di un’estrema richiesta di compagnia che si tinge, come ha scritto Massimo Recalcati, della “forma della supplica, della preghiera” diventando la concretizzazione assoluta di quell’invocazione dell’Altro che aveva segnato tutta la sua vita. In questo senso le fasi finali della vita di Lacan sono attraversate da una lacerazione insanabile: se dal punto di vista teorico lo studio della topologia dei nodi borromei lo allontana sempre di più dalle spire umanistiche, dall’altro avverte radicalmente il suo essere inerme e solo, abbandonato a un’afasia simbolica che trova corrispettivo nell’opera di James Joyce (da ragazzo aveva assistito, poco prima della pubblicazione francese dell’Ulisse da Shakespeare and Company, alla lettura di alcuni passi del romanzo) e, in particolare, nel Finnegans Wake, a cui dedicherà importanti analisi nei suoi ultimi seminari (Il sinthomo e Ancora), ritrovando in Joyce lo stesso rigore e lo stesso coraggio con il quale aveva rinnovato la clinica. In una lettera al padre un Lacan diciassettenne, difendendo la sua strenua opposizione alle idee dello zio, scrive: “la mia personalità consiste nel fatto che mi rifiuto nel modo più assoluto di farmi riempire la testa”. Questa ostinata fiducia nel proprio pensiero trasforma Lacan in Edipo perché il suo desiderio di sapere diventa il desiderio di conoscersi. Ma questo itinerario non è individuale, non è una lunga ricerca solitaria perché la mediazione dell’Altro è imprescindibile ed è solo attraverso un confronto con la sua immagine che può pian piano emergere la propria. > Se dal punto di vista teorico lo studio della topologia dei nodi borromei > allontana Lacan sempre di più dalle spire umanistiche, dall’altro avverte > radicalmente il suo essere inerme e solo, abbandonato a un’afasia simbolica > che trova corrispettivo nell’opera di James Joyce. Il nodo Borromeo che ossessiona Lacan negli ultimi anni della sua vita, quella in cui, per contrasto, riconosce la natura distruttiva della solitudine, viene soprannominato “nodo Bo” che, con un gioco di parole assimilabile alle acrobazie linguistiche del Finnegans Wake, rimanda da un lato al “neud-bo” ma, dall’altro, al “mont Nébo”, il monte Nebo, il luogo in cui Mosè ebbe la visione della Terra Promessa e dove, secondo l’Antico Testamento, Dio stesso lo seppellì. Lacan ha provato a scalare questa montagna per tutta la sua vita in una lotta con il reale che terminò nel 1981 a causa di un cancro all’intestino a cui, come raccontò la figlia Judith, decise di non opporre alcuna resistenza “così, per capriccio”. La morte non lo spaventò mai, tant’è che quando un ladro entrò nel suo studio durante una supervisione Lacan gli disse di non avere alcuna paura di morire (alla fine fu il suo paziente a dare i soldi al malvivente e Lacan cominciò a viaggiare sempre con un tirapugni di ferro), poiché la considerava non tanto un evento distruttivo quanto una tendenza ultima a ritrovare la quiete definitiva. Così la sua morte si pone all’ombra di Edipo a Colono, il vecchio che svanendo lascia al mondo una domanda che non può avere una risposta se non lo stesso mutismo della fase finale della vita di Lacan. In questo Lacan ricorda il protagonista di un racconto di Maurice Blanchot in cui un uomo, in attesa della scarica di fucili del plotone di esecuzione che gli si para davanti, comprende, per un istante, il tutto: “restava in attesa soltanto della scarica dei fucili, quella sensazione di leggerezza che non saprei tradurre: liberato dalla vita? L’infinito che si apre? Né felicità, né infelicità. Né l’assenza di timore e forse già un passo al di là”. L'articolo Sono le parole che mancano! proviene da Il Tascabile.
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Umani, animali e macchine. Filosofia e neuroscienze del linguaggio di Damiano Cantone e Franco Fabbro
E ra l’anno 1864 e il futuro primo ministro britannico Benjamin Disraeli espose in un suo discorso a Oxford la propria indignazione verso l’opera di Charles Darwin. Trovava sbalorditiva la domanda implicita che la teoria dell’evoluzione imponeva alla società vittoriana: “L’uomo è una scimmia o un angelo? Io, mio signore, io sto dalla parte degli angeli. Ripudio con indignazione e orrore quelle nuove teorie”. Sono trascorsi circa due secoli dal discorso di Disraeli e per tutto questo tempo la nostra specie ha cercato di tracciare una linea netta che ci separasse dagli altri animali, che confermasse la nostra natura “angelica”. Il linguaggio è stato e continua a essere ciò che sembra renderci unici nel regno animale: la nostra capacità di articolare suoni e attribuirvi un significato, di combinare parole in innumerevoli modi per ricordare il passato, descrivere il presente e prefigurare il futuro ci ha permesso di plasmare noi stessi e l’ambiente in cui viviamo. Ma per quanto ancora sarà il nostro segno distintivo, il baluardo del nostro essere umani, se consideriamo che abbiamo insegnato alle intelligenze artificiali a usare il linguaggio naturale per comunicare con noi? È uno dei dubbi che scaturiscono dalla lettura del libro Umani, animali e macchine. Filosofia e neuroscienze del linguaggio (2025). Gli autori, Damiano Cantone, ricercatore in filosofia e teoria dei linguaggi all’Università di Udine, e Franco Fabbro, professore ordinario di fisiologia, neuropsichiatria infantile e psicologia clinica nella stessa università, riflettono sul linguaggio e sulla sua evoluzione attraverso i tre domini citati nel titolo ‒ esseri umani, animali e macchine ‒ e quattro temi al centro del dibattito su questa abilità: il ruolo delle relazioni sociali nella sua nascita, ciò che unisce l’origine del linguaggio gestuale e di quello vocale, la visione del linguaggio come tecnologia sociale e i suoi meccanismi di apprendimento. > La nostra capacità di combinare parole per ricordare il passato, descrivere il > presente e prefigurare il futuro ci ha permesso di plasmare noi stessi e > l’ambiente in cui viviamo. Ma per quanto ancora sarà il nostro segno > distintivo? La prima parte dell’opera è focalizzata sull’evoluzione e lo studio del linguaggio negli esseri umani. È il racconto denso di un’indagine che può basarsi solo su fonti indirette, perché la lingua parlata non lascia tracce. Si cercano indizi nei volumi dei crani dei nostri antenati e degli altri primati, si scava all’interno di cervelli umani e non umani per capire se ci siano aree specificamente dedicate al linguaggio e come esse possano essersi sviluppate, si tenta di rintracciare le vestigia delle strutture fisiologiche e anatomiche primordiali connesse alle capacità linguistiche attraverso la loro analisi nei bambini o in chi è stato colpito da disabilità legate al loro utilizzo. A oggi abbiamo solo ipotesi, nessuna risposta definitiva. Le parole potrebbero aver sostituito la pulizia reciproca di pelle e mantello (grooming) per consolidare legami e gerarchie in gruppi umani sempre più ampi, con un numero più elevato di relazioni da coltivare, oppure essere state un modo di colmare il divario di esperienze tra individui per rendere più efficace la cooperazione. O ancora, la crescente complessità del linguaggio potrebbe aver dato l’opportunità all’essere umano di diventare il più abile degli ingannatori: sebbene l’inganno esista anche in altre specie animali, negli umani l’uso della menzogna, per un tornaconto spesso personale, avrebbe richiesto il raggiungimento di un livello cognitivo superiore e sarebbe stato un utile allenamento per conquistare il controllo che attualmente mostriamo nell’eloquio. Il linguaggio umano possiede un grado di complessità che pare non poter essere eguagliato da altre forme di comunicazione animale. È un sistema di simboli arbitrari che gli esseri umani usano per codificare e comunicare la loro esperienza del mondo e degli altri, e possiede caratteristiche specifiche: è composto da un insieme di unità, come suoni o parole; queste parole possono essere combinate secondo delle regole più o meno variabili per comunicare nuove idee; le combinazioni tra queste unità possono veicolare un numero sconfinato  di messaggi, che possono riferirsi a eventi passati, presenti, futuri o addirittura immaginari. Questa rappresentazione del linguaggio, che descrive una minima parte degli attributi propri del nostro modo di comunicare, mostra alcune proprietà che abbiamo osservato solo in alcune altre specie e sovente separatamente. > La danza dell’addome delle api non è solo un sistema di comunicazione > simbolico: consente di veicolare messaggi riferiti a qualcosa che non è > fisicamente presente nel luogo dell’esibizione e riguarda un evento passato. Cantone e Fabbro citano il classico esempio della danza delle api, scoperta da Karl von Frisch e che gli valse il premio Nobel nel 1973. L’etologo osservò che le api bottinatrici si esibivano in una danza il cui percorso e modalità di esecuzione permettevano di trasmettere alle compagne informazioni precise sulla direzione, sulla distanza e persino sulla qualità della fonte di cibo visitata. La danza dell’addome delle api non è solo un sistema di comunicazione simbolico: consente, infatti, di veicolare messaggi riferiti a qualcosa che non è fisicamente presente nel luogo dell’esibizione e riguarda un evento passato, ossia l’esperienza di esplorazione compiuta dall’ape bottinatrice. In Umani, animali e macchine non si parla solo di api, vengono approfonditi gli studi sulle vocalizzazioni dei cetacei e sui canti degli uccelli, con i loro dialetti e le loro culture. Con una prosa chiara e lineare, Catone e Fabbro narrano anche gli esperimenti sull’apprendimento del pappagallo cenerino Alex e quelli dei primati: l’utilizzo di lessigrammi del bonobo Kanzi, le esperienze di Washoe, la scimpanzé, e di Koko, la gorilla, con il linguaggio dei segni sono state sperimentazioni che ‒ sebbene spesso accolte con un certo scetticismo dalla comunità scientifica a causa dei metodi utilizzati ‒ hanno aperto la strada per ulteriori ricerche. A proposito dello studio del linguaggio negli animali non umani, Damiano Catone scrive: > Anziché negare del tutto la presenza di un “linguaggio” nel mondo animale, > basandoci sulla definizione del nostro per poi scoprire che quello degli > animali non ha le stesse caratteristiche, è diventato più proficuo partire > dalla prospettiva dell’esistenza di altri “linguaggi” […]. Questo ha permesso > di individuare tratti cognitivi significativi in specie anche molto lontane > dalla nostra […] abbandonando l’idea che solo i primati siano capaci di > prestazioni mentali paragonabili a quelle umane. L’approccio del testo è evoluzionistico, ritroviamo nelle altre specie tracce del cammino che è stato percorso da Homo sapiens. Una posizione che probabilmente farebbe storcere il naso a Noam Chomsky, secondo il quale il linguaggio umano sarebbe dovuto a una mutazione improvvisa e a un conseguente cambiamento radicale che avrebbe creato un divario tra animali umani e non umani. Del resto, lo psicologo Steven Pinker, allievo di Chomsky, non solo aveva appoggiato l’ipotesi della comparsa graduale del linguaggio, forgiato dalla selezione naturale, ma si era anche espresso sulla sua unicità, paragonandolo alla proboscide degli elefanti: un organo unico nel suo genere, presente solo in questi animali. A ciascuno la sua eccezionalità. Ritornando alla citazione iniziale di Benjamin Disraeli, se davvero l’essere umano fosse un angelo ‒ o, forse, una scimmia con le ali ‒ oggi si preparerebbe a cederle alle macchine che lui stesso ha creato. > Lo psicologo Steven Pinker non solo aveva appoggiato l’ipotesi della comparsa > graduale di un linguaggio forgiato dalla selezione naturale, ma l’aveva anche > paragonato alla proboscide degli elefanti: un organo unico nel suo genere, > presente solo in questi animali. Nell’ultima parte del libro, Damiano Cantone e Franco Fabbro ripercorrono sinteticamente la storia dell’informatica fino ai giorni nostri: un’epoca in cui il test di Turing è stato superato e ci troviamo immersi in una nuova fase dell’era digitale, segnata dall’arrivo delle intelligenze artificiali (IA) e, in particolare, dei Large language model (LLM), strumenti in grado di simulare il linguaggio naturale, che ci affascinano e spaventano al tempo stesso. Il primato che non ci è stato sottratto dalle altre specie animali potrebbe ora essere messo in discussione dall’IA. Per il momento, però, gli autori cercano di rassicurarci su questo nuovo scenario, ricorrendo a una metafora del filosofo Luciano Floridi: > è difficile, vedendo una pila di piatti puliti, capire se li ha lavati un > essere umano o una lavastoviglie. E in ogni caso nessuno si sognerebbe mai di > dire che la lavastoviglie è intelligente, anche se spesso è molto più brava di > noi a lavare i piatti in questione. Questo significa che, sebbene i LLM > riescano a generare testo coerente e a dialogare con gli esseri umani, non > significa che lo facciano esattamente allo stesso modo, né che le > conversazioni intrattenute con la macchina siano dello stesso tipo di quelle > che possiamo avere con altre persone. Eppure, davanti a un qualsiasi testo, ci ritroviamo a chiederci ‒ non senza un minimo di inquietudine ‒ se lo abbia scritto un umano o un LLM. Cantone e Fabbro evidenziano come la tecnica e il linguaggio siano strettamente intrecciati e, anzi, quanto sia probabile che per molto tempo quest’ultimo sia stato la tecnologia più potente di tutte: ha reso efficaci le comunicazioni umane, ha unito e separato popoli, ha dato origine a identità culturali e corpo a leggi e preghiere che hanno determinato la sopravvivenza delle società umane. Il connubio tra sviluppo tecnico umano e linguaggio, però, sembra destinato a dissolversi. Un esempio distopico e ancora lontano dalla realtà è la possibilità di far comunicare direttamente i nostri cervelli: nessun segno, nessun suono, solo stimoli elettrici. Se un giorno questo accadrà, e il linguaggio così come lo conosciamo non permeerà più le nostre esistenze, saremo meno umani? Umani, animali e macchine non fornisce una risposta, ma invita a una riflessione critica che trova terreno fertile nell’intreccio tra biologia, scienze cognitive e filosofia. L'articolo Umani, animali e macchine. Filosofia e neuroscienze del linguaggio di Damiano Cantone e Franco Fabbro proviene da Il Tascabile.
Recensioni
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Intelligenza Artificiale
Vedere voci (e corpi) animali
L o scorso marzo uno studio apparso su Science ha confermato che i bonobo sono in grado di organizzare le loro vocalizzazioni seguendo strutture complesse, più simili a quelle della sintassi umana di quanto non immaginassimo. Viene definita composizionalità quella capacità di combinare elementi linguistici in strutture più ampie e che ne possono alterare il significato di volta in volta. Tra le diciannove combinazioni rilevate, alcune assumono la forma di frasi, frammenti di discorso: “yelp-grunt”, ovvero “facciamo quello che sto facendo”; “peep-whistle”: “cerchiamo la pace”. I ricercatori hanno usato lo strumento della semantica distribuzionale per analizzare non solo quali suoni vengono emessi dai bonobo, ma anche in quali contesti appaiono e con quali altri suoni sono combinati per esprimere di volta in volta intenzionalità diverse. A partire dal loro dizionario, “high-hoot + low-hoot” combinano i richiami che significano “prestami attenzione” e “sono eccitato” per dire invece: “prestami attenzione perché sono in difficoltà”. I bonobo si intendono, rispondono, piegano gli elementi della comunicazione al gesto quotidiano, alle proprie vicissitudini, e alla costruzione del loro vivere sociale. Da dove nasce questa voce? Sono la grammatica e la lingua parlata a crearla? > Classificare il linguaggio altrui vuol dire dominarlo, inglobarlo. Consiste > nel misurare le capacità cognitive e comunicative degli animali non-umani > sulla base di un parametro esplicitamente antropocentrico e logocentrico. In Technobiophilia. Nature and cyberspace (2013), Sue Thomas si chiedeva “Quando sui nostri schermi guardiamo creature lontane affaccendarsi nella loro vita quotidiana, sogniamo una connessione? Speriamo nel momento in cui il falco o l’elefante o la gazzella o l’orso incontreranno i nostri occhi rispondendo finalmente al nostro sguardo remoto?”. Il sogno di vedere gli animali rivolgerci la parola, occupa da sempre un posto speciale nella nostra solitudine esistenziale. Soundboard per l’addestramento di cani che imparano a premere il pulsante giusto per dirci “biscottino” o “ti voglio bene”; Intelligenze artificiali (IA) che decifrano versi e segnali animali; chatbot costruiti con tecnologia LLM (Large Language Model ) e COT (Chain of Thought): continuiamo a costruire oggetti parlanti forse per avere qualcosa con cui parlare, strategie di elusione contro l’angoscioso silenzio cosmico e vite sempre più isolate. Oppure, è per via della perdita di contatto con le nostre originali comunità ecologiche: una sorta di nostalgia per il nostro tempo animale, il tempo in cui noi eravamo con loro. C’è poi un senso di vertigine all’idea di decifrare appieno il pensiero di creature a noi aliene. Classificare il linguaggio altrui vuol dire dominarlo, inglobarlo. Consiste nel misurare le capacità cognitive e comunicative degli animali non-umani sulla base di un parametro esplicitamente antropocentrico e logocentrico: la loro capacità o incapacità di articolare discorsi, la loro attitudine o inettitudine a comprendere e riprodurre suoni e regole dei linguaggi umani. Il presupposto per il quale il mondo animale debba venire incontro alle nostre categorie di linguaggio, è una proiezione coloniale, anche quando si traveste da empatia. Nei miti, nei racconti, nei disegni, negli stabulari, vogliamo che gli animali dicano, dicano a noi, e dicano come noi, affidando loro ruoli funzionali al nostro immaginario. Nelle fiabe tradizionali, ad esempio, leoni e volpi insegnano il coraggio e l’astuzia, l’agnello incarna la purezza sacrificale, l’asino la stupidità laboriosa e caparbia. Ma anche nei bestiari medievali e nelle narrazioni moderne l’animale è spesso uno strumento, veicolo di insegnamenti morali e apologhi edificanti. Vite e menti non-umane sono state soggette alle stesse proiezioni e supposizioni (edipiche, manichee, ecc.) che applichiamo ai personaggi delle storie umane. Con l’avvento del positivismo e l’illusione dell’osservazione oggettiva, l’animale, sbattuto nei laboratori, invece, tace. Non è più un emissario di senso, ma un dato da misurare. In questa transizione si consumava una nuova perdita epistemologica: dalla voce al segnale, dal discorso all’impulso. La soggettività animale viene tradotta, semplificata, neutralizzata. Il ritorno del soggetto vocale L’etologia cognitiva – disciplina che studia le menti animali attraverso l’osservazione del comportamento in ambienti naturali e sociali – è stata in grado negli ultimi anni di riportare al centro l’intenzionalità e la complessità comunicativa degli animali. In parallelo, la filosofia della percezione, che indaga come gli esseri viventi costruiscono senso a partire dal corpo e dalla relazione con l’ambiente, e l’ecosemiotica, che esplora i sistemi di segni negli ecosistemi come forme di coesistenza e scambio, invitano a ripensare la voce: non più semplice veicolo di informazione, ma gesto situato, espressione incarnata di una relazione. > Vite e menti non-umane sono state soggette alle stesse proiezioni che > applichiamo ai personaggi delle storie umane. Con l’avvento del positivismo e > l’illusione dell’osservazione oggettiva, l’animale, sbattuto nei laboratori, > invece, tace. Non è più un emissario di senso, ma un dato da misurare. Anche tra gli animali meno considerati dalla nostra immaginazione sonora, emergono forme sorprendenti di vocalizzazione. La comunicazione degli animali che conducono esistenze solitarie è stata spesso sorvolata, perché considerata a uno stato primitivo dell’evoluzione, e dunque senza bisogno di particolari approfondimenti. E invece i puma, i lemuri, hanno scambi significativi e reti sociali complesse pur passando molto tempo da soli; i procioni, animali fortemente individualisti, sono in grado di insegnare ai compagni meno svegli la risoluzione di problemi; alcune tartarughe d’acqua dolce, specie di rettile silenziosa e solitaria per eccellenza, emettono suoni in specifici contesti sociali come ad esempio le vocalizzazioni che precedono l’emersione, o la comunicazione delle femmine con i piccoli appena nati per accompagnarli verso l’acqua. Anche in assenza di strutture vocali sofisticate e in contesti sociali ridotti, la voce animale trova forme inedite per emergere come fenomeno diffuso, adattativo, contestuale. Gli animali usano la loro voce per tessere trame sociali, soprattutto nei momenti liminali: nascita, migrazione, nidificazione. È in questi passaggi di soglia che la voce affiora. Da questa prospettiva il caso dei bonobo può essere analizzato in modo differente. Come osservato da David Robson, il linguaggio umano stesso è permeato di ideofoni – parole che evocano sensazioni fisiche vivide o emozioni attraverso il suono, e che trasmettono un senso immediato di corpo e intensità. Questo fenomeno, che sfida la teoria saussuriana dell’arbitrarietà del segno, mostra quanto la concettualizzazione delle parole sia legata in modo profondo all’esperienza sensoriale e corporea. Se trasliamo questo paradigma nella comunicazione animale, possiamo interpretare molte vocalizzazioni – come quelle dei bonobo appunto – non solo come segnali, ma come veri e propri atti incarnati. Sequenze vocali associate a stati emotivi e che costruiscono relazioni situate. Non solo una grammatica vicina al senso umano, ma una forma di articolazione sensoriale del mondo condiviso. > Gli animali usano la loro voce per tessere trame sociali, soprattutto nei > momenti liminali: nascita, migrazione, nidificazione. È in questi passaggi di > soglia che la voce affiora. Un esempio analogo lo offre il celebre corvo allevato in cattività da Konrad Lorenz. L’animale aveva inventato una vocalizzazione inedita per richiamare il suo custode. Non un verso della specie, ma un suono creato ad hoc, rivolto a un interlocutore preciso. Un atto d’appello, non un riflesso. È in questi episodi che la voce si manifesta come gesto performativo: una negoziazione situata e irripetibile. Irripetibile non fisiologicamente, ma irripetibile dal punto di vista relazionale. Situato cioè in una relazione specifica, che nasce da un’interazione storicamente determinata tra quel corvo e quell’umano. Un gesto che non ha l’ambizione di essere replicato altrove, ma che ha senso nel momento in cui accade. È irripetibile come lo sono i gesti di cura, i soprannomi inventati e intonati nei rapporti affettivi, o certi silenzi condivisi tra due soggetti. Senza voce Cosa accade quando la voce dell’animale non può essere ascoltata? I pesci, per molto tempo, sono stati considerati esseri silenziosi. Eppure, studi di bioacustica marina hanno rivelato una ricchissima varietà di vocalizzazioni: molte specie comunicano attraverso suoni emessi con la vescica natatoria, battiti di mascelle o sfregamenti ossei. Il pesce tamburo, ad esempio, produce suoni durante la riproduzione che rientrano tra i più forti registrati sott’acqua. Queste voci, che per secoli abbiamo ritenuto inesistenti, oggi rischiano di sparire senza essere mai state davvero udite. Non solo la pesca selvaggia, che rappresenta la causa principale dell’estinzione di queste creature, ma il traffico navale, le esplorazioni sismiche, le trivellazioni: tutte attività che generano un rumore costante e invasivo, che copre e disintegra i segnali acustici naturali. Questo riguarda i cetacei ovviamente, le cui comunicazioni basate su sonar naturali vengono neutralizzate dal rumore antropico. Gli ecosistemi acustici marini vengono riscritti dall’economia estrattiva e dalla logica del trasporto, con effetti che si estendono ben oltre il danno ambientale: colpiscono la possibilità stessa del legame, della presenza, della continuità generazionale. L’inquinamento acustico oceanico è l’equivalente sonoro della deforestazione: distrugge spazi di comunicazione, impedisce alle creature di incontrarsi, cacciare, accoppiarsi. > Studi di bioacustica hanno rivelato una ricchissima varietà di vocalizzazioni > negli animali marini: queste voci, che per secoli abbiamo ritenuto > inesistenti, oggi rischiano di sparire senza essere mai state davvero udite. Alcune specie, come il notropide a coda nera, hanno sviluppato un meccanismo di compensazione noto come effetto Lombard: alzano il volume delle loro vocalizzazioni, per contrastare il rumore ambientale. L’effetto Lombard è una risposta involontaria e automatica, presente in molte specie animali, che permette di farsi sentire meglio in ambienti rumorosi. Ma non tutte le specie possono adattarsi immediatamente. E molte tacciono. Il nostro orecchio culturale è selettivo, e spesso sordo alle voci basse, alle voci lente, alle voci senza parole. L’interferenza antropogenica sovrascrive, copre, cancella. La perdita della voce è una forma di sparizione ontologica, la voce non udita è un soggetto che non conta. Deborah Bird Rose, antropologa e teorica dell’ecologia multispecie, parlava della “responsabilità di ascoltare le voci che scompaiono”. Per Rose, la scomparsa di una voce non è solo perdita ecologica, ma una ferita relazionale che interroga la nostra stessa capacità di rispondere al mondo. La materia che parla Ricominciare ad ascoltare la voce animale significa rivedere anche la nostra idea di voce. Non tutto ciò che è voce si manifesta attraverso l’aria, e non tutto ciò che si manifesta attraverso l’aria è già riconosciuto come voce. La voce sintetica di un’Intelligenza artificiale, come quella usata in I’m Not the Only One (2019) di Martine Syms – artista afroamericana che indaga la relazione tra tecnologia, identità e linguaggio – mostra cosa accade quando la voce perde il corpo, quando diventa replicabile, standard. Syms lavora sullo smarrimento della voce come esperienza incarnata e posizionata, mostrando come i sistemi algoritmici tendono a normalizzare il linguaggio, a renderlo uniforme, neutro, scollegato da ogni contesto corporeo. Storicamente, i soggetti razzializzati sono stati esclusi dal diritto di parola pubblica, o vi sono stati ammessi solo a condizione di adeguarsi a un registro linguistico dominante. La voce disincarnata dell’IA, in questo senso, è il paradosso finale: una voce a cui non corrisponde più alcun corpo, nessuna storia, nessuna vulnerabilità. Una voce che parla per tutti e per nessuno. > La comunicazione tra esseri senzienti non si limita alla mera trasmissione di > informazioni, ma coinvolge la capacità di attribuire significato ed esperire > emozioni, rendendo ogni interazione un evento relazionale potenzialmente > trasformativo, non solo a livello di apprendimento. Il linguaggio prodotto dalle IA basate su algoritmi transformer ‒ reti neurali che apprendono dal modo in cui i dati linguistici vengono utilizzati tenendo traccia delle relazioni all’interno delle sequenze che li contengono ‒ è il risultato di una struttura logica derivata dal mondo, non di un pensiero o di una intenzionalità cosciente. Ciò mette in luce quanto l’imitazione dell’algebra del linguaggio umano sia un compito, in fondo, relativamente facile da svolgere, il cui risultato dipende solo da un numero sufficientemente alto di calcoli. Gemma Corradi Fiumara, nel suo libro The Other Side of Language: A Philosophy of Listening (1995) sottolinea come nella filosofia occidentale, l’ascolto sia stato trascurato a favore della produzione discorsiva, e ciò contribuisce a spiegare, almeno in parte, la nostra tendenza a proiettare comprensione o intenzionalità laddove riconosciamo forme discorsive familiari. ChatGpt, Gemini, Perplexity, Claude, o IA simili, possono leggere un volume enciclopedico in pochi secondi e produrre decine di linee di testo coerente, ma è questa una condizione sufficiente per pensare alle IA come soggetti parlanti? Come possono, nel loro stato attuale, possedere anche solo un briciolo del mondo emotivo ed esperienziale, ad esempio, di un corvide? La comunicazione tra esseri senzienti non si limita alla mera trasmissione di informazioni, ma coinvolge la capacità di attribuire significato ed esperire emozioni, rendendo ogni interazione un evento relazionale potenzialmente trasformativo, su più livelli, non solo su quello dell’apprendimento. Ci sono pipistrelli che usano nomi propri, balene che modulano canti per esprimere legami sentimentali, elefanti che ritornano dai cari sepolti nei loro cimiteri, uccelli che cantano per gioia in assenza di ricompensa: forme di comunicazione che rispondono a esigenze relazionali, affettive, forse perfino estetiche. La lingua, intesa come sistema simbolico articolato, non è l’unico mezzo attraverso cui si manifesta il pensiero. L’ipotesi di Sapir-Whorf, o teoria della relatività linguistica, suggerisce che la lingua che parliamo influenza la nostra percezione del mondo, ma non determina completamente l’origine del nostro pensare. Pertanto, mentre la lingua può modellare il pensiero, non è una condizione necessaria per la sua esistenza. La comunicazione tra esseri senzienti può avvenire attraverso una varietà di modalità, incluse vocalizzazioni, gesti, espressioni facciali, posture, attivazioni muscolari o di altri organi, attraverso le quali si esprimono desideri e stati interni. La comunicazione tra madre e neonato, ad esempio, è ricca di segnali non verbali che trasmettono affetto, sicurezza e bisogni. Allo stesso modo, la comunicazione tra esseri umani e animali domestici spesso coinvolge una comprensione reciproca che trascende le parole. I cani leggono i nostri segnali corporei quando stiamo per avere un attacco di panico, sono in grado di interpretare le espressioni facciali e il tono della voce umana per comprendere le emozioni e rispondere di conseguenza. > Ci sono pipistrelli che usano nomi propri, balene che modulano canti per > esprimere legami sentimentali, elefanti che ritornano dai cari sepolti nei > loro cimiteri, uccelli che cantano per gioia in assenza di ricompensa: forme > di comunicazione che rispondono a esigenze relazionali, affettive, forse > perfino estetiche. Nel racconto autobiografico della ricercatrice e filosofa Eva Meijer, in Linguaggi animali (2021), emerge come il linguaggio si costruisca nella relazione, con il pony Joy, con i pappagalli e gli altri animali. È una costruzione situata e interspecifica, basata su abitudini condivise, feedback corporei, apprendimenti reciproci. Meijer non cerca un codice, ma una coabitazione linguistica: “non è solo un problema di ascolto”, scrive, “dobbiamo fare anche del nostro meglio per individuare nuove modalità di interazione con gli animali”. Molti animali comunicano efficacemente attraverso sistemi propri, senza fare affidamento su un linguaggio antropicamente inteso. Queste forme di comunicazione sono adattate alle esigenze specifiche delle specie, con una efficacia che spesso supera il linguaggio umano in termini di immediatezza e connessione con l’altro, più adatta a esprimere emozioni o situazioni complesse, ricorrendo a segnali olfattivi, visivi o acustici per trasmettere informazioni vitali in tempo reale, senza la necessità di una struttura linguistica complessa. La ricchezza comunicativa che Meijer descrive è sorprendente: cani della prateria che usano un richiamo d’allarme capace di descrivere taglia, colore e oggetti di un umano intruso, uistití che “parlano a turno” e insegnano ai cuccioli a farlo, elefanti che usano infrasuoni specifici per nominare l’essere umano come minaccia. Le vocalizzazioni animali si adattano al paesaggio: i suoni delle balene si espandono per chilometri grazie all’acqua, gli elefanti usano infrasuoni che superano ostacoli terrestri, i pipistrelli mappano l’ambiente con l’ecolocalizzazione. Qui la voce è spazio attivato, è paesaggio. Per accostarci e “capire” davvero i linguaggi animali, dobbiamo comprendere come questi disarticolano le nostre categorie: tempo, spazio, intenzione, segno, significato. Il linguaggio diventa allora un luogo di apprendimento eterogeneo. “Nel momento in cui impariamo a comunicare con un’altra specie, non stiamo solo imparando una lingua nuova, ma anche un modo nuovo di abitare il mondo” scrive Meijer. La voce animale non è un enigma da risolvere, ma una soglia tra il dire e il sentire, tra il corpo e il paesaggio, tra l’intenzionalità e il contesto. Il linguaggio è una costruzione sociale e interattiva, piuttosto che una mera espressione di processi mentali combinatori. > Molti animali comunicano efficacemente attraverso sistemi propri: queste forme > di comunicazione sono adattate alle esigenze specifiche delle specie, con una > efficacia che spesso supera il linguaggio umano in termini di immediatezza e > connessione con l’altro. Al contrario delle repliche delle IA, la voce animale non è essenzialmente replicabile. Non è mai neutra. È rischio, esposizione, presenza situata. È sempre legata a un corpo che sente e che può essere ferito. Il richiamo del corvo a Lorenz, o quello tra Meijer e i suoi animali, sono gesti nati da una relazione contestuale che li rende necessari, e in quanto tali, non traducibili in codice o istruzione. La voce animale è irriducibile non perché enigmatica, ma perché materiale in senso profondamente ecologico. Perché è corpo che chiede relazione, presenza che esige implicazione. Se il corpo cosciente è già significante, la sua vibrazione – che sia udibile o meno – è già essa stessa un discorso. I corpi, quindi, partecipano attivamente alla costruzione del discorso attraverso le loro pratiche materiali. Pensiamo a quelle voci che si esprimono senza fonazione: la migrazione sincrona degli stormi, i rituali di accoppiamento basati su posture e vibrazioni, i segnali elettrochimici dei pesci in acque torbide, o alle strategie silenziose dei polpi. Sono corpi che generano significato senza passare dal canale fonico o dalla sintassi. Sono, a tutti gli effetti, soggettività parlanti. Accettare questa prospettiva significa spostarsi da un’antropologia del linguaggio a un’ecologia del discorso. Dove non si chiede più: “che cosa dice?” Ma piuttosto: “è la voce che ha dato al corpo il suo modo di stare al mondo? Oppure è il corpo stesso che parla? È la necessità di risposta al mondo ad aver spinto il corpo a creare la voce?”. La voce come memoria incorporata In Al di là delle parole (2018), Carl Safina descrive una delle notti passate nel Parco Amboseli. L’impressionante risuonare del ruggito notturno dei leoni attraversa il parco e scatena nell’etologo una sorta di recesso, che lo trasporta dal sonno profondo a un luogo più primitivo, uno stato di veglia e attenzione primordiale. “Trovandomi vivo, chissà come, su un pianeta dove le rocce, la polvere e le acque riuscivano a dar voce a dichiarazioni così enfatiche, nel cuore della notte, ne assaporai la sublime esaltazione e il terrore puro. Per raccontarlo ho bisogno di parole, ma l’esperienza imponeva il silenzio”. Trascinato in uno stato di coscienza sognante, mentre le voci si spargevano mormorando dal fianco della montagna all’argine del fiume, “i suoni trovarono un’immediata corrispondenza nella mia mente”. Il filosofo Ted Toadvine, nel saggio The Time of Animal Voices (2014), riprendendo Merleau-Ponty,  suggerisce che la voce non è solo un atto del presente, ma un corpo che parla con tutto il suo passato. Ogni voce – umana o non-umana – è una memoria incarnata, un sedimento temporale che attraversa chi la emette. Parlare, in questo caso, non è produrre significato, ma equivale a far risuonare una storia inscritta nella carne. Ogni vocalizzazione è una sopravvivenza, un’eco biologica che ci raggiunge da un tempo che non ricordiamo ma che ci riguarda. Ascoltare la voce animale è una forma di ritorno, non nostalgico, ma somatico: è il passato del vivente che ci tocca dal dentro del corpo. La potenza della voce animale sta ne “l’adesso che è antico e non lo è”, qualcosa che è al contempo originale e appena nato, ha a che fare con il passato, il presente e il futuro, qualcosa che “è stato e deve ancora avvenire, che insomma non può essere umanamente misurato”, scrive Federica Timeto in Bestiario Haraway. Per un femminismo multispecie (2020). > Ogni voce – umana o non-umana – è una memoria incarnata, un sedimento > temporale che attraversa chi la emette. Parlare, in questo caso, non è > produrre significato, ma equivale a far risuonare una storia inscritta nella > carne. La memoria non è un archivio mentale, una periferica di immagini virtuali o astratte, ma un campo di forze che si muove nel corpo, e ogni richiamo animale, anche il più debole o distorto, è il suo modo di farsi spazio nel presente, di fare emergere quella stratificazione. Il corpo animale non è mai solo biologico, ma anche storico: l’elefante non esiste solo come individuo biologico, ma anche come simbolo di potere coloniale, come corpo addomesticato nei circhi. In alcune aree fortemente segnate dal bracconaggio, si è osservato ad esempio un aumento delle femmine nate senza zanne. Così come il cane non è lo stesso animale in un villaggio andino, in un laboratorio di neurobiologia, o in un profilo Instagram. Il corpo che vediamo, interpretiamo, uccidiamo o salviamo è sempre un corpo attraversato dalla storia, e così inevitabilmente sarà la sua voce. Il tempo dell’animale come tempo dell’ascolto Se ogni corpo è già discorso e ogni voce è memoria, ascoltare l’animale significa entrare in una temporalità altra. Non quella lineare, produttiva, finalistica che struttura l’esperienza umana moderna, ma una temporalità ecologica fatta di gestazione, di attesa, di passaggi stagionali. Un tempo che non misura ma accompagna. Toadvine lo descrive come il tempo dell’animalità: ciclico, ripetitivo, radicato nella carne e nei ritmi della vita. Il tempo della gestazione, del sonno, del respiro, dell’attesa silenziosa. Il tempo dell’animale è il tempo del mondo: non nel senso del dominio planetario, ma come orizzonte condiviso da chi lo abita. > Ascoltare l’animale significa entrare in una temporalità altra. Non quella > lineare, produttiva, finalistica che struttura l’esperienza umana moderna, ma > una temporalità ecologica fatta di gestazione, di attesa, di passaggi > stagionali. Rachel Carson lo faceva notare nel 1962, con Primavera silenziosa; questa distanza temporale si fa tragicamente visibile in ciò che chiamiamo road kills: gli animali investiti dalle auto lungo le strade. In quel corpo straziato c’è tutta la frizione tra due ordini del movimento: uno che si limita ad attraversare il mondo, l’altro, invece, che lo abita. L’automobile porta con sé una temporalità antropocentrica, fatta di velocità, urgenza, ignoranza del circostante. L’animale segue un tempo altro: attraversa perché è stagione, perché è notte, perché ha fame. Il suo tempo non coincide con il nostro. E il nostro non lo prevede. Per ascoltare l’animale bisogna rallentare fino a sintonizzarsi con quel ritmo. Quando diciamo che alcune specie parlano “poco” o “raramente”, stiamo dichiarando la nostra incapacità di abitare i loro tempi. Forse emettono un suono ogni vent’anni, forse quel suono è tutto il loro discorso. Il fatto che non lo sentiamo pone noi fuori dal tempo del mondo. Ascoltare l’animale, riconoscerlo, sentirne la voce vuol dire tenere conto di questa eterotemporalità. Diventare il tempo dell’altro Eva Meijer critica l’assunto aristotelico secondo cui solo l’umano sarebbe ‘animale politico’, perché dotato di logos, e propone di considerare il linguaggio animale non come un deficit, ma come espressione di partecipazione attiva alle comunità ecologiche e alle relazioni interspecifiche. Meijer presenta un resoconto di api che deliberano, cervi che votano con il corpo, bufali che attendono i segnali di leadership corporea prima di spostarsi. L’animale parla politicamente quando trasforma lo spazio, quando partecipa alla relazione. Il rifiuto di attribuire agli animali tratti “umani” come linguaggio o soggettività, o di riconoscere l’efficacia di quei sistemi comunicativi proprio in quanto non-umani, evidenzia la nostra ideologia specista e dell’antropo-diniego. Riconoscere la voce animale come espressione incarnata e relazionale implica una critica radicale al nostro approccio epistemologico. Se ogni silenzio imposto alle voci non-umane è una forma di cancellazione epistemica, allora l’ascolto, inteso in senso ampio, diventa un atto di resistenza. In questo contesto, le pratiche bioacustiche che registrano e conservano le vocalizzazioni animali assumono un significato politico: diventano controarchivi che resistono alla cancellazione delle voci non umane. Proteggere un paesaggio sonoro nel tentativo di garantire che queste voci possano continuare a esistere e disturbare. La domanda ultima non è più “che cosa dice l’animale?”, ma: “che cosa ci obbliga a diventare il suo dire?” Toadvine definisce la voce animale come un evento chiasmatico: in termini merleau-pontyani, il chiasmo è l’intreccio sensibile tra corpo e mondo, tra chi tocca e chi è toccato. Applicato alla voce animale, questo implica che ascoltare significa essere modificati, un ritorno tra corpi che si toccano e si trasformano a vicenda. Un po’ come nel concetto di intra-azione coniato da Karen Barad, in cui il contesto è coprodotto dall’interazione, nella voce animale, per Toadvine, soggetto e mondo si riscrivono a vicenda. > Se ogni silenzio imposto alle voci non-umane è una forma di cancellazione > epistemica, allora l’ascolto, inteso in senso ampio, diventa un atto di > resistenza. La domanda ultima non è più “che cosa dice l’animale?”, ma: “che > cosa ci obbliga a diventare il suo dire?”. Nell’archivio planetario dei video online, circola l’interazione tra una IA, che parla attraverso uno smartphone, e Molly, un pappagallo. L’IA riconosce quasi immediatamente di stare parlando con qualcuno di diverso da un umano. L’IA si vanta di potersi esprimere in oltre cento lingue diverse, ma si dice anche divertita da questa prima interazione telefonica con un pennuto. Il pappagallo, dal canto suo, risponde coerentemente se sollecitato a ripetere il proprio nome, la parola ‘cracker’ e nell’uso del ‘bye bye’ quando la telefonata volge al termine. Non si conoscono i dettagli del video, non sappiamo se e in che termini l’IA stia leggendo uno script o sia stata preparata a quel tipo di interazione, così come non sappiamo nulla in merito all’addestramento del volatile. La scenetta che viene fuori però mi ha fatto pensare in qualche modo a Blade Runner. Nel film di Ridley Scott come nel romanzo di Philip K. Dick, il mondo è abitato da umani e macchine. Gli animali sono estinti, li abbiamo sostituiti con delle mascotte robotiche. Gli unici soggetti rimasti a rivolgerci la parola e a comunicare con noi sono i replicanti, androidi e robot. Nel video tra l’IA e Molly, invece, intravediamo un futuro alternativo: gli umani si sono estinti, animali e macchine rimangono pacificamente a conversare insieme, senza di noi. Incontrare un soggetto che non è il peluche simbolico del nostro immaginario, vuol dire accettare la sua opacità, il suo modo di essere corpo. Ci permette di pensare la voce animale non come oggetto naturale da studiare in vitro ma come fenomeno relazionale che emerge tra corpi, ambienti, e sistemi di ascolto. Accettare un dominio dove “io” e “tu” non sono pronomi ma esperienza, l’uno dell’altro. Forse questo non servirà a salvare il pianeta, ma ci restituiremo, almeno, il diritto di abitarlo insieme fino alla fine. L'articolo Vedere voci (e corpi) animali proviene da Il Tascabile.
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L’ ultima opera di Jean-Luc Godard, Adieu au langage (2014), chiude un discorso che il cineasta ha condotto nell’arco di tutta la sua filmografia. L’opera si articola a partire dal pretesto di un melodramma amoroso inconsistente, attorniato dalla Storia e dalla contemporaneità, che premono all’unisono per insidiare i pensieri dei protagonisti, alle prese con la svilente contingenza del vivere quotidiano. Le riflessioni enunciate con indisciplina dai due personaggi, incapaci di comunicare, coincidono con quelle del regista. Così, senza alcuna ragione apparente, Josette (Héloise Godet) si rivolge a Gédéon (Kamel Abdelli) e racconta: “Quando un bambino, entrando nella camera a gas, ha chiesto alla madre perché, l’SS ha risposto: kein warum”. Nessun perché. La violenza assoluta non ha ragione alcuna. Nel dopoguerra, la denuncia di quanto accaduto nei campi di sterminio nazista lasciò attonita un’intera generazione di intellettuali e artisti, chiamati a interrogarsi sulle rappresentazioni possibili dell’indicibile e dell’insensatezza. Al contrario, in merito a quanto sta accadendo in Palestina, si producono incredibili quantità di contenuti testuali e visivi, nella forma di articoli di giornale, caption dei post sui social media, reel e caroselli, immagini con disclaimer ed edulcorati servizi televisivi. Nessun utente al mondo ha davvero il tempo per poter fruire di tutte le informazioni condivise, né per poterne verificare l’esattezza o le intenzioni. Si tratta di una valanga di materiali e risorse travolgente e al contempo inefficace. Una tale vanità dipende dal fatto che non esistono parole per nominare le atrocità di un genocidio come quello in corso da quasi due anni, specialmente se finanziato e normato da potenze che si appellano ai valori democratici dello Stato di diritto. Non è stato possibile sviluppare alcun tipo di dispositivo linguistico per dare un senso all’insensatezza, alla vertigine dinanzi all’abisso nichilista nel quale sprofonda la coscienza, ogni volta che le parole e le convenzioni, i patti e la giurisprudenza vengono svuotati di senso. Se tutto è opinabile, senza alcun fondamento teoretico, e nemmeno le immagini che catturano la realtà possono essere considerate veritiere, se gli accordi internazionali non sono rispettati dalle stesse istituzioni che le hanno redatte, allora il linguaggio non ha più alcuno scopo, né senso di esistere. > Non è stato possibile sviluppare alcun tipo di dispositivo linguistico per > dare un senso all’insensatezza, alla vertigine dinanzi all’abisso nichilista > nel quale sprofonda la coscienza, ogni volta che le parole e le convenzioni, i > patti e la giurisprudenza vengono svuotati di senso. Nel quadro teorico di Michel Foucault, il linguaggio è uno dei dispositivi che rientra nelle tecnologie del sé attraverso le quali individui e collettività possono esercitare la libertà di autodeterminarsi e trasformarsi, al di fuori delle dinamiche egemoniche. Partendo dall’assunto secondo cui le tecnologie del sé sono sempre ostacolate dalle tecnologie del potere, è possibile osservare come, a partire dall’inizio del nuovo millennio, l’oppressione imposta alla libera autodeterminazione dei popoli e delle soggettività sia da ricondurre agli interessi degli oligarchi ultramiliardari dell’industria digitale, correlati ai profitti dell’industria bellica. L’influenza di quest’ultima, nella sua forma più apertamente oscena, si manifesta nelle politiche per il riarmo dei Paesi occidentali, finanziato con denaro pubblico. Perciò, dal momento in cui le tecnologie del sé sono state sistematicamente impoverite e capitalizzate dalle tecnologie del potere, si potrebbe dire che la profezia di Herbert Marcuse si sia del tutto avverata: i soggetti del sistema capitalista, identificandosi come individui senza società, sono invero schiacciati da quella stessa società a una sola dimensione, privati del pensiero critico e incapaci di esprimersi liberamente. L’indottrinamento di massa opprime il pensiero, il logos, fino a indurlo all’“universo totalitario della razionalità tecnologica”, nella quale il dislivello fra il linguaggio come tecnologie del sé e gli altri dispositivi del potere rende la parola antiquata, inadeguata e sempre in ritardo rispetto a ciò che la corrompe. Così, la civiltà occidentale ha perso la capacità di nominare ciò che produce, di dare un senso alle conseguenze delle proprie azioni. L’iperconnessione tecnologica della contemporaneità ha definitivamente privato gli individui delle capacità di attribuire significato alle parole che utilizzano o, per meglio dire, dalle quali si fanno utilizzare. Di conseguenza, oggi il linguaggio è composto da unità che designano immagini senza fornire concetti, appiattendo la parola solamente a un misero cliché unidimensionale. La crisi del linguaggio è un tema degli anni Venti del nuovo millennio, ma è soprattutto una delle questioni novecentesche per antonomasia. Il secolo breve è stato attraversato dall’ultimo colpo di coda del pensiero positivista e puntellato da catastrofi come l’insediarsi dei totalitarismi, la pianificazione dell’olocausto e le persecuzioni nazifasciste ai danni di qualsiasi soggetto non fosse conforme al pensiero unico. A partire dal linguaggio, tutti gli irrisolti del Novecento si ripropongono nell’epoca attuale in una forma esasperata. Se dalle ceneri della Seconda guerra mondiale sono sorte le parole che compongono la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e solo settantasette anni dopo il mondo è nelle mani dei neofascisti; se le sorti della civiltà umana dipendono dalla volontà di Trump e Netanyahu, di al-Sisi ed Erdoǧan, di Orbán e Putin, di Bolsonaro e Milei, allora i diritti universali sono solo cliché. Lo sono anche le parole degli intellettuali che tentano di tenere insieme i valori democratici, rinnegandoli. Sulla maggior parte dei quotidiani occidentali, si sostituisce il termine resistenza con terrorismo e si rinnega la legittimazione politica di Hamas, eletto da un popolo senza Stato e senza costituzione, poiché occupato. Al contempo, l’informazione mainstream non fatica a riconoscere come democratico l’esito che ha portato Netanyahu a essere presidente dell’entità colonialista israeliana dal 1996 al 1999, dal 2009 al 2021 e dal 29 dicembre 2022 a oggi. > L’iperconnessione tecnologica della contemporaneità ha definitivamente privato > gli individui delle capacità di attribuire significato alle parole che > utilizzano: oggi il linguaggio è composto da unità che designano immagini > senza fornire concetti. Parrebbe che una lunga tradizione stia conducendo l’umanità alla fine della Storia, al collasso della civiltà, senza troppi intoppi. La crisi del pensiero occidentale è imbrigliata in un vortice che lo costringe in un presente continuo, senza memoria né futuro. Sono ancora terribilmente attuali l’inerzia davanti all’orrore, lo smascheramento del logos come dispositivo e la messa in discussione dei valori fondanti della civiltà egemonica e colonizzatrice, che ha permeato il mondo intero. Pertanto, un’opera come Persona (1966), una delle più note di Ingmar Bergman, soprattutto se esaminata attraverso l’analisi critica di Susan Sontag, può essere considerata estremamente contemporanea. In uno dei capitoli centrali della raccolta di saggi intitolata Stili di volontà radicale (1969), Sontag si dedica al film del cineasta svedese a partire da alcune falle argomentative, mosse dalla critica culturale dell’epoca, per poi concentrarsi sulle questioni esistenziali e metafisiche che rendono Persona un’opera sempiterna, ma anche un esempio canonico di cinema moderno. Lo fa sottolineando come sia del tutto inutile, per non dire svilente, ridurre un lavoro del genere a un dramma psicologico da camera, o peggio a un tentativo di estetizzare la natura cannibalica dell’artista rispetto alla realtà, intesa come materia prima di cui nutrirsi per creare o performare. La sinossi del film, nella sua versione più essenziale, è la storia di Elisabeth (Liv Ullmann), una famosa attrice di teatro, e della sua infermiera Alma (Bibi Andersson), incaricata di prendersi cura della paziente e di stimolarla a riprendere l’uso della parola, alla quale ha deliberatamente rinunciato. La psichiatra si è fatta convinta di aver compreso il caso di Elisabeth. Esclude disturbi mentali o danni neurali e sostiene che la sua paziente voglia smettere di parlare perché non intende più recitare né sul palcoscenico, né al di fuori. Non vuole più mentire e per farlo, escludendo il suicidio, non le resta che rifugiarsi nel mutismo. Così come Bergman trascende sul legame passionale o sessuale fra le due protagoniste, allo stesso modo agisce rispetto al piano dell’etica, della psicologia e della narrazione lineare, perché, seguendo l’analisi critica di Sontag, il cineasta “può fare molto di più che limitarsi a raccontare una storia”. Il suo obiettivo è quello di coinvolgere il pubblico in modo più diretto su altre questioni. La de-drammatizzazione, come modalità narrativa, prevede che il significato di un film non sia determinato dalla trama. La filosofa e intellettuale femminista contrappone concettualmente l’andamento progressivo e lineare della narrazione, tipica dei film hollywoodiani, a quello composto da “continui rimandi retrospettivi o incrociati”, che invitano a “un’esperienza ripetuta, alla visione multipla”, esigendo che “lo spettatore o il lettore ideale si collochi simultaneamente in punti diversi della narrazione”; un espediente che “ovvia alla necessità di stabilire uno schema cronologico convenzionale”. In Persona, il nodo concettuale è quello delle variazioni sul tema del raddoppiamento, “quali la duplicazione, l’inversione, lo scambio reciproco, l’unità e la scissione, la ripetizione”, che impedisce di interpretare l’azione dei personaggi in modo univoco. I livelli di lettura si articolano, da un lato, in una dimensione più superficiale, incentrata sul duello identitario; dall’altro, in una chiave più astratta, che mette in scena il conflitto tra componenti mitiche di un medesimo Io, lacerato tra corruzione e ingenuità. Ancora, il tema del raddoppiamento è soprattutto un’idea di forma, più che di sostanza, poiché il raddoppiamento si manifesta anche in senso metacinematografico, cioè metalinguistico. Al duello fra identità, Sontag preferisce concentrarsi sull’ambiguità insita nel linguaggio, costituito, nella sua ultima essenza, da significato e significante. L’elemento autoriflessivo non è sovrapposto all’azione drammatica, ma corrisponde al livello di lettura privilegiato dall’autore, dedicato alla forma e al tema del raddoppiamento. > Sono ancora terribilmente attuali l’inerzia davanti all’orrore, lo > smascheramento del logos come dispositivo e la messa in discussione dei valori > fondanti della civiltà egemonica e colonizzatrice, che ha permeato il mondo > intero. Nella seconda parte di Stili di volontà radicale, ci si può soffermare sulle descrizioni di alcune sequenze che manifestano episodi di autoriflessione metacinematografica, collocati sia all’inizio, sia alla fine del film, componendo una cornice. Si menziona anche il monologo ripetuto due volte da Alma sulla maternità di Elisabeth, dove i loro volti in primo piano si alternano come unici protagonisti dell’inquadratura, fino a spartirla per metà, confondendosi. Il mezzo cinematografico non si nasconde, ma divelta lo schermo; sfida la sospensione dell’incredulità esercitata dallo spettatore e lo disillude per condurlo a riflettere. Sontag inquadra la scena culturale internazionale nella quale scrisse il saggio dedicato a Persona, citando una frase estrapolata dalla nota lettera di Pier Paolo Pasolini a Marco Bellocchio, nella quale osserva come nel cinema moderno “si sente continuamente la presenza della macchina da presa”. In realtà, Pasolini si riferiva non tanto a Bergman quanto a Godard rispetto all’individuazione della nascita del cinema di poesia. Nella lettera, riconduce il cinema delle origini a questa categoria “a causa soprattutto, probabilmente, delle restrizioni prosodiche del muto”. Nel ripercorrere la storia del cinema, prosegue fino a rintracciare la perdita di lirismo nelle ragioni commerciali, che ha condizionato la settima arte a esprimersi in prosa, in uno stile che predilige il dramma alla forma e la narrazione al linguaggio. Al contrario, nel cinema di poesia, traspare ogni elemento teorico o materico che compone il mezzo cinematografico, sovrapponendosi alla diegesi. Senza cadere in congetture elitarie, Pasolini non pone gerarchicamente un linguaggio al di sopra dell’altro e per di più sostiene che “si sono avuti dei capolavori di prosa – veri e propri romanzi – mettiamo da Ford a Bergman.” Rispetto a quello pasoliniano, il punto di vista di Sontag è differente: in Persona, il lirismo è dato dal movimento di flessione metalinguistico, da una cura della forma, che svela la mano dell’autore e trascura la trama. Lo dimostra con l’analisi del monologo di Alma, a seguito del quale i volti delle due protagoniste convergono, accennando a come Bergman, in senso brechtiano, alteri il ruolo dello spettatore. Se si manifesta la presenza della macchina da presa, allora ciò che si filma perde lo statuto di realtà documentata: il mezzo non appare più neutrale, assume il ruolo di strumento attraverso cui la realtà è manipolata per essere immortalata e resa visibile. Nel cinema moderno, la differenza fra le produzioni hollywoodiane del dopoguerra e i film d’autore, secondo Sontag, deriva da un atteggiamento stilistico: “quello che i cineasti contemporanei mostrano sempre più spesso è il processo stesso della visione, fornendo ragioni o prove dell’esistenza di modi diversi di vedere la stessa cosa, che lo spettatore può sperimentare simultaneamente o sequenzialmente”. In Persona, i momenti dialettici della riflessione metacinematografica conducono a un’autofagocitazione del film stesso, in linea con “l’iper-raffinata autocoscienza dell’arte contemporanea, che condurrebbe a una sorta di autocannibalismo”, ma anche a una “liberazione di nuove energie di pensiero e di sensibilità”. La lettura proposta diverge da quella di Pasolini non solamente rispetto al mutamento di relazione fra autore, linguaggio cinematografico e spettatore. Secondo l’autrice, Bergman supera Bertolt Brecht e aggiunge un altro elemento allo shock dello svelamento, mostrando non solo la presenza della macchina da presa, ma anche l’impossibilità di catturare e restituire una realtà uniforme e oggettiva. L’autore di Il settimo sigillo (1957), Il posto delle fragole (1957) e Sussurri e grida (1972) sposta l’attenzione su ciò che della realtà non si può raccontare. In Stili di volontà radicale, Sontag introduce il concetto di principio di intensità per il quale nei film di Bergman “i personaggi che percepiscono qualcosa intensamente finiscono per consumare, per esaudire, ciò che sanno e sono costretti a passare ad altro” perché “ogni conoscenza profonda e indefessa si rivela prima o poi deleteria”. Malgrado ogni epoca storica ne abbia prodotte di svariate, incongrue fra loro e spesso anacronistiche, l’umanità non può ambire ad alcuna verità assoluta. E sebbene ogni individuo della specie umana debba necessariamente ricondurre le proprie esperienze, il proprio vissuto, a una singola unità soggettiva, nessuno può rientrare in un’unica definizione identitaria, poiché nemmeno l’identità personale è assoluta o immutabile, ma sempre composita, ambigua e volubile. Riflettere sull’artificio dell’individualità conduce a una vertigine “in cui sprofonda la coscienza” minando il coesistere in società: “Se per conservare l’identità personale occorre salvaguardare l’integrità della maschera, e se la verità su una persona comporta sempre il suo smascheramento, l’incrinatura della maschera, la verità sulla vita nel suo complesso, comportano lo sgretolamento dell’intera facciata, dietro cui si cela una crudeltà assoluta”. > Secondo Sontag, Bergman supera Bertolt Brecht e aggiunge un altro elemento > allo shock dello svelamento, mostrando non solo la presenza della macchina da > presa, ma anche l’impossibilità di catturare e restituire una realtà uniforme > e oggettiva. L’esistenza tiene in serbo un destino ineludibile e con esso quello che Sontag, rispetto al tema centrale di Bergman in Persona, definisce come “violenza dello spirito”, evidente nella sequenza iniziale del film. La cornice d’apertura metalinguistica è composta dal susseguirsi di una carrellata di immagini rapide, sia conturbanti che perturbanti: si alterna la visione di un chiodo conficcato a colpi di martello sul palmo di una mano a quella di un pene in erezione, il sacrificio di un monaco buddista nel Vietnam del Sud all’inquadratura stretta sui cadaveri di un obitorio. Oltre all’orrore, Bergman mostra una platea vuota, il palcoscenico e chi lo calpesta con una maschera di trucco sul volto. L’attrice è Elisabeth, la stessa che, nell’articolarsi del film, più volte si sofferma su immagini di violenza assoluta, come la nota fotografia del bambino deportato dal ghetto di Varsavia, o su altre, identiche a quelle dell’incipit, come quella del bonzo che si dà fuoco a Saigon. L’utilizzo di riferimenti alla contemporaneità nel film di Bergman non ha la stessa valenza politica di quelli presenti nelle opere di Jean-Luc Godard, bensì ha lo scopo di dire l’indicibile, mostrare l’inimmaginabile, al di sopra di qualsiasi considerazione sulla morale o sulla politica. Come sottolinea Sontag, “Bergman fa un uso estetico della violenza”, divergendo dalla retorica progressista dell’epoca. Una successione simile di fotogrammi disturbanti sull’orrore dell’abisso si può ritrovare nell’ultimo film di Lars von Trier: The House That Jack Built (2018). L’espediente narrativo è quello di entrare nella mente di un serial killer, compiendo una discesa agli inferi, in una catabasi sempre più surreale, dove il protagonista pluriomicida è accompagnato da Virgilio. Il montaggio seziona il film in capitoli, puntellati di sequenze extradiegetiche, dove il tema principale riguarda il precetto classicista del kalòs kai agathós e il ruolo dell’etica nel fare arte. Jack è un narcisista patologico, ossessivo compulsivo e predisposto alle dipendenze. È convinto di essere dotato di eccezionale talento artistico e crede che sarebbe potuto diventare un grande architetto, se solo non glielo avessero impedito. Il suo unico scopo è quello di realizzare un edificio iconico. Nel tentativo di raggiungere la consacrazione artistica, l’ostacolo principale nel quale si imbatte il protagonista dipende dal fatto che la casa costruita da Jack è composta da materiali del tutto inediti nel campo dell’edilizia, dato che quelli solitamente impiegati non lo soddisfacevano abbastanza. Si tratta di cadaveri umani congelati, modellati e assemblati l’uno a l’altro per mano del sedicente architetto. Rispetto al rapporto fra etica e arte, il punto di vista di Jack risulta particolarmente esplicito in una delle scene finali del film, quando dichiara che “tutte le icone che hanno avuto e avranno sempre un impatto sul mondo sono per me arte stravagante”. L’affermazione, pronunciata in voice over, è sottolineata da una carrellata di filmati e immagini che ritraggono i dittatori del Novecento e le peggiori atrocità, delle quali sono i principali responsabili: mucchi di cadaveri ammassati con una macchina spalatrice, persone ancora vive nelle baracche dei lager nazisti, cadaveri lanciati in fosse comuni, mutilati di guerra, bambini malnutriti ridotti a scheletri. Secondo il protagonista, il suo modo di fare arte è quello di svelare l’indicibile e mostrare il male assoluto, per definirlo nichilisticamente solo come una mera categoria morale, relativa al bene, assente in natura e presente solo nella logica del pensiero umano. Il bene e il male, il bello e il brutto sono artifici. È possibile commettere dei crimini perfetti così come è possibile riconoscere il bello nella decadenza o persino nella decomposizione della materia. Nel dialogare con Virgilio, Jack espone le sue ragioni, paragonando il processo di decomposizione di un essere umano con quelli adottati per la produzione di vini da dessert. Cita il gelo, la disidratazione e l’utilizzo della muffa nobile come le tre più comuni forme di decomposizione degli uvaggi e chiosa: “È il degrado a nobilitare il grappolo vivo, fino a farlo diventare un’opera d’arte”. In The House That Jack Built, l’estetica della morte e della violenza rappresenta il filo conduttore di tutto il film. Tornando a Bergman, il male, l’abisso e l’orrore si manifestano in Persona a partire da un altro principio nichilista, ovvero la dissoluzione dell’identità delle due protagoniste. Il processo di annullamento e disgregazione della personalità dei due soggetti avviene a partire dalla messa in discussione del ruolo del linguaggio, definito da Sontag come il dispositivo capace di “gettare un ponte sull’abisso”. La parola definisce, mette ordine, crea la norma e stabilisce i confini necessari per significare sia il soggetto che parla, sia l’oggetto di cui si parla. L’autrice non trascura il contesto in seno al quale avviene la contestazione del linguaggio negli ambiti del cinema moderno e della letteratura dell’epoca, citando, fra i tanti, Jean-Luc Godard, Michelangelo Antonioni, Gertrude Stein e Samuel Beckett. Con Persona, Bergman si spinge oltre al tema dell’incomunicabilità o del fallimento della parola e si concentra sul dimostrare “l’assenza di un linguaggio appropriato, di un linguaggio veramente pieno”. Se Elisabeth ha deciso scientemente di preferire il mutismo e rinunciare all’oralità, Alma è impegnata nella verbalizzazione del mondo a fini terapeutici, come atto generoso e benefico, compiuto per il benessere della sua paziente. Il dramma o la rottura avviene nel momento in cui il silenzio diviene violento, provocatorio e crudele. Sontag definisce il mutismo di Elisabeth come strumento di inganno, di smascheramento e di autorivelazione. Per tutta la durata del film, la narrazione procede per sottrazione o per “assenze di enunciazione” che, a poco a poco, minano la fiducia riposta nel linguaggio da parte di Alma, portandola a farsi carico dell’angoscia di Elisabeth. Lo scambio di identità fra le due protagoniste avviene attraverso il vuoto che l’attrice crea in risposta al tentativo dell’infermiera di mostrare il linguaggio come un dispositivo innocuo. Lo sforzo compiuto da Alma le si ritorce contro: la verbalizzazione del mondo, priva di alcun tipo di interlocuzione, rivela l’insensatezza della parola e la sua pericolosa contingenza. In modo analogo, il silenzio attorno alla condizione palestinese ‒ oppure il rumore assordante dei discorsi svuotati di contenuto ‒ riflette la stessa impossibilità di comunicazione autentica. Il linguaggio, anziché fungere da ponte, diventa strumento di esclusione, rimozione, delegittimazione. > Con Persona, Bergman si spinge oltre al tema dell’incomunicabilità o del > fallimento della parola e si concentra sul dimostrare “l’assenza di un > linguaggio appropriato, di un linguaggio veramente pieno”. Sontag usa la lente del cinema di Godard per comprendere lo sviluppo del tema del linguaggio in Bergman. Entrambi sono definiti come “asceti esemplari”, “grandi eroi culturali” e al contempo “grandi distruttori”, ma il cineasta francese lo è stato con ancor più scientezza, contribuendo a tracciare il solco di una tendenza che accomuna le forme d’arte dell’epoca, ovvero quella all’autoreferenzialità. La produzione di opere meta-artistiche ha lo scopo di risemantizzare la relazione fra artista e pubblico, di riconfigurare la sensibilità degli spettatori, e Godard lo ha fatto a partire dalla realtà fuori dal cinema, dalla contemporaneità e dalla politica, mettendo in scena idee astratte. Come lui stesso dichiarava, “Noi cineasti, come i romanzieri, siamo condannati ad analizzare il mondo e la realtà”. Si definiva un saggista o un romanziere, immerso nel contesto della letteratura moderna, per la quale non è più d’interesse raccontare la vita delle persone, raccontare una storia, ma piuttosto scrivere solamente della vita. Rifiutando radicalmente le strutture formali della narrativa, Godard erige un cinema poetico e concettuale, fatto di trame intermittenti e grossolane, al contrario di quelle delle opere di Bergman, che Sontag definisce come “indeterminate”. Ambiva ad abitare la realtà tramite una struttura filmica che utilizzi il presente come tempo verbale e che stia nel solco fra la perfezione delle idee, del seducente artificio insito nel logos, e “l’opacità brutale della condizione umana”. Il linguaggio filmico adottato dall’autore di Bande à part (1964) è in totale apertura verso il pensiero astratto e il mondo delle idee; pertanto è dissociativo, composto da una colonna sonora intermittente, un montaggio rapido e inquadrature disorientanti. Godard trasgredisce la regola estetica del punto di vista unitario, annullando la distinzione tra narrazione in prima persona e in terza persona, “facendo della persona del cineasta l’elemento strutturale centrale della narrazione cinematografica” e che però non corrisponde “a una lucida intelligenza autoriale”. In altre parole, l’autore fuori campo è dotato di una coscienza turbata e più estesa rispetto ai personaggi del film. Muovendosi nella scena modernista, Godard confonde le prospettive narrative per favorire un maggiore rigore formale, dall’effetto alienante. Si tratta di un metodo che consente l’apertura verso la concettualizzazione astratta di ciò che non può essere espresso attraverso la logica di una narrazione lineare e che consente di esplorare il cinema, facendo cinema. > La realtà contemporanea ha ormai superato l’immaginazione più distopica. Il > linguaggio è probabilmente il primo dispositivo tecnologico sfuggito al > controllo dell’umanità, incapace di utilizzarlo senza esserne sopraffatto, > fino ad arrivare alla sua totale dissoluzione. Ordinando il discorso in soggetto e oggetto, il linguaggio è capace di mediare e definire. Di fatto, se non esistono definizioni di identità senza la parola, mettere in discussione la normatività del dispositivo linguistico significa smascherarne l’artificiosità e dubitare di qualsiasi assolutismo, ma anche della presunta autenticità dietro alla determinazione di ogni individualità. Il cinema è il mezzo individuato da Godard per distruggere e demistificare il linguaggio, proprio perché è “la truffa più bella del mondo”, parafrasando il titolo del film collettivo di cui il cineasta francese diresse il quinto episodio, Il profeta falsario (1964). Sulla scia della riflessione proposta da Sontag, rinunciare a una narrazione sensata e lineare, porre l’attenzione sul significante e non sul significato, consente di “incorporare il caso” attraverso l’improvvisazione. Catturare ciò che sfugge alla logica significa stare nella spontaneità della contingenza. Godard lo ha fatto attraverso l’utilizzo di auricolari per guidare gli attori, in un dialogo diretto con la macchina da presa, ma anche conservando suoni extradiegetici o rumori ambientali nelle tracce audio e arrivando sul set senza una scaletta tecnica o un piano di regia dettagliato. La radicalità del gesto godardiano stava nell’aver previsto, già dagli anni Sessanta, la dissoluzione imminente della parola come veicolo di senso. Il suo cinema, rinunciando programmaticamente alla linearità narrativa, intuiva una condizione di spaesamento cognitivo che oggi si è pienamente realizzata: l’incapacità collettiva di discernere, comunicare e comprendere. In questo scenario, le immagini non raccontano più, ma si accumulano, svuotate di forza semantica; le parole si moltiplicano, ma non incidono. La realtà contemporanea ha ormai superato l’immaginazione più distopica. Il linguaggio è probabilmente il primo dispositivo tecnologico sfuggito al controllo dell’umanità, incapace di utilizzarlo senza esserne sopraffatto, fino ad arrivare alla sua totale dissoluzione, alla quale attualmente si assiste. Oggi, di autori come Bergman e Godard, Sontag e Pasolini si sente la mancanza; del logos rimane solo la sua rigida e sadica spietatezza, tale per cui l’intellighenzia occidentale si è interrogata per quasi due anni sull’utilizzo appropriato del termine genocidio, scrollando video e immagini del massacro di un popolo, finanziato con il benestare della sedicente società civile. L'articolo Oltre la parola proviene da Il Tascabile.
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Quando gli animali parlano la stessa lingua
K anzi è morto poche settimane fa a Des Moines, in Iowa, all’età di 44 anni. Kanzi era appassionato di marshmallow, giocava a Minecraft e sapeva suonare la tastiera. Era spiritoso, intelligente e curioso, un padre affettuoso e un amico sincero e divertente. E fin qui nulla di straordinario, se non consideriamo un particolare fondamentale: Kanzi era un bonobo, ed è stato in grado di creare un ponte, una mediazione culturale tra la sua specie e la nostra. Kanzi era in grado di comprendere centinaia di vocaboli della lingua inglese, compresi quelli astratti come amore o morte, e di rispondere a domande su questi argomenti sempre in maniera adeguata. Per comunicare con gli umani utilizzava una tastiera con dei simboli collegati a un computer. Quei simboli vengono chiamati lessicogrammi e sono stati un’importante innovazione negli studi sulle capacità comunicative delle scimmie antropomorfe. Gli aspetti che hanno reso straordinaria la vicenda di Kanzi non sono solo questi. Il bonobo ha convissuto per tutta la sua vita in cattività, ma non isolato dai suoi simili, anzi: tutti i centri di ricerca in cui ha vissuto, compreso l’Ape Initiative in Iowa dove ha concluso la sua esistenza, sono sempre stati popolati da tanti conspecifici, con cui ha sempre avuto ottimi rapporti e con i quali non ha mai avuto problemi relazionali. In certi casi, il suo ruolo era quello di vero e proprio mediatore tra i due mondi. Ad esempio nel 2006, quando il reporter Paul Raffaele impersonò una haka, la tradizionale danza di guerra neozelandese, di fronte agli animali del centro, scatenando una grande agitazione tra le scimmie che lo popolavano. L’unico che sembrò capire che si trattava di una danza rituale più che di una dichiarazione di guerra fu proprio Kanzi, che riuscì a calmare i suoi conspecifici. L’eredità di Kanzi, nonostante alcune capacità di utilizzare questo sistema le avesse apprese anche la sorella Panbanisha (morta purtroppo nel 2012), è rimasta in mano ai più giovani membri della sua famiglia, in particolare i nipoti Teco e Nyota, che però non hanno dimostrato il suo straordinario talento nel comprendere e interpretare il linguaggio umano. > Alcuni animali, come le api e i delfini, aiutano gli esseri umani a ottenere > cibo sapendo che ne trarranno vantaggio. Per farlo hanno codificato un > linguaggio comprensibile a entrambe le specie. Per quanto straordinaria possa apparire l’esperienza di Kanzi, esistono altri esempi di comunicazione tra animali umani e non-umani in cui è stato condiviso un linguaggio comune. Collaborazioni tra specie Da millenni la popolazione degli Yao, in Mozambico, si dedica alla ricerca e alla raccolta del miele delle api selvatiche. Per trovare il dolce bottino, però, i raccoglitori si affidano al talento di un insolito aiutante, un uccellino. L’indicatore golanera (Indicator indicator), infatti, è ben più bravo dell’uomo nel trovare i nidi degli insetti e nel condurre i suoi accompagnatori umani fino alla loro ubicazione. Spesso, infatti, gli alveari sono costruiti sui rami più alti degli alberi e trovarli non è così facile per chi non è in grado di volare. Gli esseri umani, per contro, sono molto più abili nel recupero del miele: staccano l’alveare dal ramo su cui è costruito e lo affumicano per far scappare le api. E così, seguendo una tradizione che si perpetua ormai da tantissime generazioni, i cercatori si affidano alle indicazioni del volatile, che dalla collaborazione potrà ottenere il vantaggio di nutrirsi, grazie a dei potenti enzimi digestivi, della cera dell’alveare (di scarso interesse per gli umani) una volta che questo sarà abbandonato dalle sue abitanti. Questo rapporto di collaborazione non è però esclusivo: anche i tassi del miele sfruttano le indicazioni degli uccellini per recuperare il prezioso bottino. In biologia, questo tipo di interazione tra specie viene chiamato mutualismo: entrambe le parti in gioco ottengono un vantaggio dalla reciproca collaborazione, senza entrare in competizione diretta per le risorse. Questa collaborazione tra uomini e uccelli per trovare il miele è comunque conosciuta da secoli. Tra l’altro, lo stesso sistema di raccolta del miele è stato osservato in altre popolazioni africane, in Kenya e Tanzania, mentre è risaputo che i delfini di varie parti del mondo sono in grado di aiutare i pescatori nella loro ricerca di pesce, ben consci che potranno trarre un vantaggio da questa collaborazione. La novità assoluta riguardante questo comportamento è stata presentata in un articolo pubblicato su Science nel 2016: i cercatori di miele Yao e gli uccellini, nella riserva nazionale di Niassa in Mozambico, comunicano tra di loro utilizzando un linguaggio comune. Nello specifico, il richiamo emesso e interpretato allo stesso modo da uomini e volatili è un particolare tipo di fischio vagamente tremolante, indicato dai ricercatori come “brrr-hm”. Il segnale sembra, dati alla mano, una sorta di comando che gli uomini impartiscono agli uccellini, qualcosa del tipo: “sono qui, dimmi dove si trova l’alveare e al resto penso io”. > Le vocalizzazioni degli animali possono aiutarci a comprendere il loro > comportamento e rappresentano un indicatore immediato degli stati affettivi > degli individui. Questi studi sono necessari per non perdere traccia di questo fenomeno, dato che sempre meno persone si dedicano alla ricerca “assistita” degli alveari. I segreti di questa antica pratica e della parlata comune di uomini e uccelli rischiano di andare perduti per sempre. Comunicare le emozioni Probabilmente, per chi tiene un animale domestico in casa, queste scoperte non sembreranno così rivoluzionarie: ogni mattina qualcuno fa un fischio al proprio cane e questo viene dal padrone, oppure comprende comunicazioni anche più complesse senza problemi. Nello specifico caso degli Yao e degli indicatori golanera, però, la novità consiste nel fatto che il richiamo emesso è lo stesso per uomini e uccelli e che, soprattutto, questi ultimi sono animali selvatici. La stessa lingua viene quindi parlata sia dagli esseri umani, sia da animali non umani e non addomesticati. Ci sono tantissimi esempi di comunicazione uomo-animale, che spaziano dai segnali non verbali fino alle vocalizzazioni vere e proprie, anche se con modi e forme molto diverse a seconda di chi parla e di chi ascolta. Ma, più in generale, le vocalizzazioni degli animali possono aiutarci a comprendere al meglio il loro comportamento. Possono variare in base al contesto in cui vengono emesse e rappresentano un indicatore immediato degli stati affettivi degli individui. E, se l’espressione vocale delle emozioni si è mantenuta nel corso dell’evoluzione, allora dovrebbe essere possibile confrontare direttamente diverse specie utilizzando lo stesso insieme di indicatori acustici. > Esistono algoritmi capaci di associare significati emotivi ai versi emessi > dagli animali. Un approccio nuovo che potrebbe aiutare nel monitoraggio del > benessere animale. In uno studio recente, un gruppo di ricercatori ha applicato un algoritmo di apprendimento automatico, chiamato XGBoost (eXtreme Gradient Boosting), per distinguere tra richiami di contatto associati a emozioni positive (piacevoli) e negative (spiacevoli), prodotti in vari contesti da sette specie di ungulati. Il modello utilizzato dagli scienziati si basa su una serie di variabili, tra cui la durata e l’energia dei suoni emessi, la frequenza fondamentale del suono e la sua modulazione. Il modello ha dimostrato una grande precisione: l’algoritmo è riuscito nel 90% circa dei casi a identificare il significato emotivo dei versi emessi dagli animali. Un sistema automatico basato su questo algoritmo potrebbe avere importanti applicazioni nel monitoraggio del benessere animale: si potrebbero migliorare con rapidità e precisione le pratiche di gestione e cura nelle strutture che ospitano animali. Ma uno studio del genere potrebbe applicarsi anche agli esseri umani, per capire le origini emozionali del linguaggio umano. La ricerca delle emozioni umane L’ultimo abbraccio (2020) del primatologo olandese Frans de Waal è un saggio dedicato all’esplorazione delle emozioni degli animali non umani. L’autore, recentemente scomparso, è stato per decenni uno dei punti di riferimento nel mondo dell’etologia moderna e nello studio dell’esplorazione cognitiva degli animali più simili a noi, le scimmie antropomorfe. Il titolo prende spunto da un episodio commovente, l’abbraccio tra un’anziana scimpanzé di nome Mama e il biologo olandese Jan van Hooff. I due erano legati da una profonda amicizia, e quando van Hooff venne a trovare Mama, ormai vicina alla morte, questa mostrò un grande sorriso al suo vecchio amico, a cui seguì un affettuoso abbraccio. Un segnale chiaro, forte, forse incontrovertibile delle emozioni che l’anziana scimmia stava provando in quegli attimi. L’obiettivo del libro è facilmente intuibile: de Waal, forte di una lunghissima esperienza a stretto contatto con questi primati, cerca di far capire al lettore come tanti animali non umani siano in grado di provare le nostre stesse emozioni. Ma de Waal, tra le pagine de L’ultimo abbraccio mostra come l’argomento sia complesso e non liquidabile in poche righe: per l’etologo olandese non esiste una netta separazione tra l’uomo e gli altri animali nel loro provare ed esprimere emozioni. Al contrario, l’autore sostiene che esista una graduale evoluzione in questi comportamenti e nell’esistenza degli stati d’animo associati. Nondimeno, non bisogna neppure dare per scontato che gli animali provino emozioni: bisogna osservare, studiare, approfondire, isolare i comportamenti per comprenderli appieno. > L’empatia e l’altruismo, sentimenti che per molti potrebbero apparire > esclusivi dell’essere umano, sembrano invece interessare molte altre specie. Per questi motivi, l’esplorazione di de Waal non si ferma agli scimpanzé, animali in fondo molto vicini a noi in termini di distanza evolutiva e a cui attribuire emozioni simili alle nostre potrebbe risultare fin troppo facile, ma elenca una lunga serie di esperimenti e osservazioni, sia in natura sia in cattività, che sembrano rivelare una sensibilità complessa anche in animali molto diversi. L’empatia e l’altruismo, sentimenti che per molti potrebbero apparire come esclusivi dell’essere umano, sembrano invece interessare molte altre specie. Ad esempio alcuni topi che, vedendo loro conspecifici intrappolati dentro strette gabbie di plexiglass, sembrano percepire il loro disagio e non esitano a liberarli, pur non ottenendo nulla in cambio. O anche cetacei come delfini e orche, che proteggono e aiutano a restare a galla loro conspecifici in difficoltà, evitando loro l’annegamento. Altre emozioni meno studiate, come ad esempio il disgusto, sembrano ripresentarsi in molte specie di animali. Comprendere le iniquità Anche il senso di giustizia e ingiustizia sembra appartenere a specie non umane, e de Waal non dimentica di citare un esperimento, condotto insieme alla sua collega Sarah Brosnan, che gli ha donato notorietà presso il grande pubblico tramite una conferenza TED di alcuni anni fa: a un gruppo di cebi dai cornetti (Sapajus apella), piccole scimmie del Nuovo mondo, venne insegnato come compiere semplici azioni in cambio di premi, come ad esempio restituire una pietra all’istruttore in cambio di un po’ di cibo, solitamente una fetta di cetriolo. I compiti assegnati venivano realizzati con solerzia e le scimmie sembravano pienamente soddisfatte. Quando però a due cebi, messi fianco a fianco in gabbie trasparenti in cui potevano vedere il loro vicino, venivano date ricompense diverse, allora le cose improvvisamente cambiavano. Se infatti, per aver realizzato lo stesso compito, a una scimmia veniva dato un cetriolo, mentre all’altra un ben più apprezzato acino d’uva, la prima si arrabbiava, protestava, persino lanciava all’addestratore la fetta di cetriolo, per denunciare il trattamento iniquo. > Se molti animali gioiscono, piangono, dimostrano empatia e tante altre > emozioni un tempo associate solo alla specie umana, in che modo tutto questo > potrebbe influire nei nostri rapporti con loro? Le sorprese, però, non sembrano fermarsi qui, perché de Waal racconta di come in esperimenti simili si sia osservato un comportamento ancora più inaspettato: alcune scimmie che ricevevano il premio migliore, infatti, lo rifiutavano per solidarietà nei confronti dei colleghi svantaggiati. Con ogni probabilità, rientrava in gioco l’emozione su cui lo scienziato olandese ha concentrato un’importante fetta delle sue ricerche: l’empatia. Ma gli studi sulle emozioni animali si sono sviluppati e diffusi per merito di tanti altri scienziati, che in certi casi hanno dato risultati ancora più sorprendenti. È il caso del documentario del 1999 Why Dogs Smile and Chimpanzees Cry (“Perché i cani sorridono e gli scimpanzé piangono”), in cui il neuroscienziato statunitense Jaak Panksepp, esperto negli studi sulle emozioni negli animali, commenta una ricerca sulla gioia nei topi: fare il solletico a topi addomesticati induceva la produzione di vocalizzazioni ultrasoniche ad alta frequenza (50 Hz), che potevano essere correlate a ciò che noi consideriamo una risata. Sembra inoltre che i topi, una volta abituati al gioco, cerchino spontaneamente le mani umane per godere del loro solletico. L’eredità di Kanzi E qui si delinea chiaro il dilemma: se, come sembrano dimostrare questi esperimenti, tantissimi animali gioiscono, piangono, si commuovono, dimostrano empatia e tante altre emozioni un tempo associate solo alla specie umana, in che modo tutto questo potrebbe influire nei nostri rapporti con loro? In che modo potremmo utilizzare le scoperte sul loro linguaggio per migliorare le loro condizioni di vita? Non sono domande da prendere con leggerezza. Il mondo in cui viviamo è stato plasmato in gran parte dal nostro rapporto con gli altri animali. La crisi della biodiversità in corso è legata all’enorme successo dell’essere umano sul pianeta, e comprendere meglio la socialità degli animali sarebbe sicuramente il primo passo per trovare modo di proteggerli. L’eredità che ci può lasciare Kanzi è una accresciuta presa di coscienza del mondo delle emozioni non umane, una prospettiva che ci aiuta a includere tantissime specie – alcune del tutto inaspettate – nel grande serraglio di esseri viventi che ridono, piangono, si oppongono all’ingiustizia e ridono quando gli si fa il solletico. Ma la nostra attenzione non dovrebbe concentrarsi solo sugli animali selvatici: oggi, la biomassa totale degli animali d’allevamento è ben superiore a quella della specie stessa che li alleva: la terra è popolata da oltre un miliardo e mezzo di bovini di allevamento, un miliardo di maiali e alcune decine di miliardi di polli. Il problema etico che si porrebbe nel confrontarci con questi animali – oggi esistenti unicamente in funzione dei bisogni umani – sapendo che provano emozioni simili alle nostre, sarebbe ancora più grave di quello che già affrontiamo e che ci sarà sempre meno possibile evitare di affrontare. 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