C hi era veramente Jacques Lacan? Provare ad avvicinarsi alla natura di questa
esistenza potrebbe forse rivelare i segreti sepolti in un pensiero
coraggiosamente oscuro, che procede per folgorazioni e illuminazioni e non
sembra poter essere ridotto alla più tranquillizzante e canonica catena di
causa-effetto. Studiare la parte più sommersa della psiche umana, come ha fatto
Lacan, plasma inevitabilmente anche il modo di raccontarla, ma alla grigia
intransigenza dell’analista fa da controcanto un’esistenza spumeggiante e sempre
tesa al superamento dei limiti, una dissonanza in realtà solo apparente perché
mostra come l’uomo e il suo pensiero non siano del tutto divisibili.
Catherine Millot, allieva e poi compagna di Lacan, nel suo Vita con Lacan
(2017), offre un ritratto inedito dello psicoanalista francese catturato nella
sua esistenza quotidiana, tra lo studio a Parigi nel settimo arrondissement e la
casa di Guitrancourt, tra le corse folli con la macchina (Lacan non sopportava
le code e superava le altre auto in corsia di emergenza o abbandonava la sua in
mezzo alla strada se la cosa era inaggirabile o un semaforo rosso troppo a
lungo) e gli imprescindibili bagni nella piscina della sua casa di campagna
qualsiasi fosse la stagione. Ma scoprendo i tic e le fissazioni di Lacan emerge
pian piano il fondamento che è alla base del suo lavoro, l’idea, cioè, di un
movimento inesorabile verso lo sconosciuto, una spinta sempre in avanti, la
forza di protendersi fino al limite. Così come le forme del desiderio che la sua
psicoanalisi ha mirato a definire, a questo anelito verso l’infinito che muove
l’uomo e il pensatore, Lacan ha offerto, sempre, la sua dedizione più assoluta.
Nell’inverno del 1971, settantenne, affermato già in tutto il mondo come uno dei
più grandi eredi di Sigmund Freud e sempre al centro di critiche che ne
contestano l’insegnamento o la pratica di analisi tanto da venire a un certo
punto scomunicato dall’IPA (International Psychoanalytical Association), Jacques
Lacan viene chiamato all’Ospedale Sainte-Anne di Parigi per tenere una serie di
conferenze per i medici psichiatri dell’istituto. Il Sainte-Anne, situato nel
quattordicesimo arrondissement e dal 1863, per volere di Napoleone III, dedicato
alle cure psichiatriche, di cui usufruiranno anche Antonin Artaud e Paul Celan,
non era un posto qualunque per Lacan perché alla fine degli anni Venti in quelle
sale cominciò a esercitare la professione medica come psichiatra. Tornarci
quindi, dopo quasi mezzo secolo e dopo aver fondato due scuole centrali per la
storia della psicoanalisi e delle scienze umane tutte, l’École freudienne de
Paris che poi scioglie e l’École de la Cause freudienne, significava per Lacan
guardarsi indietro, capire il luogo da dove si era sviluppato il suo pensiero e,
per certi versi, fare i conti con la strada che fino a quel momento aveva
percorso.
> All’interno di un’opera che è quasi esclusivamente orale e basata sui suoi
> seminari affollatissimi Lacan è consapevole dell’insufficienza della parola e
> dell’impossibilità di trasmettere attraverso i suoi significati i segreti
> dell’esistenza psichica umana. Eppure, non esiste altro modo.
La raccolta di quegli interventi ha un titolo emblematico, che nella sua
icasticità rende bene le forme ermetiche, e per certi versi impenetrabili, della
sua opera: Io parlo ai muri, questo il titolo, è infatti un concetto in grado di
restituire l’opacità di una parola che, andando a indagare gli spazi più
reconditi dello spirito umano, quelli dell’inconscio, per sua stessa natura
risulta inafferrabile e inspiegabile, una dichiarazione di poetica che accetta
le difficoltà e ne assume tutto il valore per provare ad andare oltre alla
limitatezza del parlare. Nell’incontro che tiene nella cappella dell’ospedale,
Lacan prova a spiegare al suo uditorio il paradosso di tutta la sua esperienza:
all’interno di un’opera che è quasi esclusivamente orale e basata sui seminari
affollatissimi che tenne per tutta la vita e che videro affollarsi migliaia di
studenti, personalità dell’intellighenzia mondiale e curiosi, Lacan è
consapevole dell’insufficienza della parola e dell’impossibilità di trasmettere
attraverso i suoi significati i segreti dell’esistenza psichica umana. Eppure,
non esiste altro modo.
Perché però provare? Perché tentare di forzare i limiti del linguaggio davanti a
un’impresa che si preannuncia, sin dall’inizio, impossibile? In queste domande è
racchiuso il senso intero di un’opera lanciata verso l’impossibile, sfidare il
monito di Wittgenstein su quello su cui si dovrebbe tacere: nel suo desiderio di
sondare l’insondabile l’opera di Lacan è rivoluzionaria e non solo si ricollega
al magistero di Freud (attraverso il suo celebre e auspicato “ritorno a Freud”)
ma in un certo senso lo oltrepassa perché lo studio dell’inconscio finisce per
superare abbondantemente i confini della psicoanalisi e incrociare proficuamente
la sua strada con altri campi del sapere, dalla letteratura alla filosofia fino
alla matematica. Il segno probabilmente più evidente di questo slancio verso
l’impossibile è testimoniato dalla natura orale e seminariale del suo lavoro:
l’unica opera scritta pubblicata nel corso della sua vita sono i due volumi
degli Scritti (che comunque sono una raccolta di testi già pubblicati altrove o
di discorsi e conferenze pronunciate in giro per il mondo) mentre tutto il cuore
del suo insegnamento e della sua eredità sta proprio nei seminari che tenne a
Parigi tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta e che sono dapprima un’analisi
dei concetti di Freud e poi, a partire dal celebre seminario I quattro concetti
fondamentali della psicoanalisi, una riscrittura di Freud con la lenta e
inesorabile emersione dell’originale pensiero lacaniano.
> Nel suo desiderio di sondare l’insondabile l’opera di Lacan è rivoluzionaria e
> non solo si ricollega al magistero di Freud ma in un certo senso lo oltrepassa
> perché lo studio dell’inconscio finisce per superare i confini della
> psicoanalisi e incrociare la sua strada con altri campi del sapere.
Come uno dei suoi maestri, Alexandre Kojève, le cui lezioni parigine su Hegel
ebbero una ricaduta fondamentale per tutta la cultura del secondo Novecento e a
cui partecipò anche Lacan in compagnia di personaggi come Raymond Queneau,
Georges Bataille, André Breton, Hannah Arendt e molti altri, Lacan ripone una
fiducia massima nell’ambito seminariale che diventa da un lato la messa alla
prova più estrema dell’uso della parola e, dall’altro, l’unico mezzo attraverso
il quale diffondere le proprie idee, difficilissime da ingabbiare sulla pagina
scritta. Riveste quindi un ruolo centrale, che emerge bene anche da Io parlo ai
muri, l’insegnamento, un gesto non riducibile solo alla trasmissione del sapere,
ma che si tinge di una relazione decisiva con chi ascolta, chiamato a
collaborare alla costruzione della conoscenza: “Mi sforzo – dice Lacan –
affinché non abbiate un accesso troppo facile al sapere, così che voi dobbiate
metterne del vostro”. Jacques-Alain Miller, durante una delle conferenze che
tenne in Brasile su Lacan e che sono raccolte nell’importante volume
Delucidazioni su Lacan (2025) spiega bene come l’insegnamento di Lacan
“impedisce di credere che lo si possa comprendere immediatamente”: in questo
senso leggere Lacan, provare a cogliere il mistero più profondo del suo
pensiero, e quindi il segreto intero dell’essere umano, è un atto di fede
assoluto.
La parola è quindi lo strumento fondamentale dell’insegnamento di Lacan
nonostante per lui la verità sia per sua stessa natura impossibile: “Io dico
sempre la verità: non tutta! Perché a dirla tutta non ci si arriva. Dirla tutta
è impossibile materialmente: sono le parole che mancano! È proprio per questo
‘impossibile’ che la verità tocca il reale”. “I muri in fondo sono fatti per
circondare un vuoto” dice Lacan e in effetti insegnare rappresenta proprio lo
sforzo di circoscrivere questo vuoto, di dargli una forma e fare in modo che
nell’aula, nelle quattro mura che la costituiscono e che custodiscono gli
uditori, si possa formare un sapere da condividere che oltrepassi i confini
della verità, la limitatezza del parlare.
In questo senso la parola assume un valore decisivo e un’importanza ancora
maggiore all’interno di un pensiero che considera e studia l’inconscio come un
linguaggio: qui sta la novità assoluta del pensiero di Lacan che riprendendo la
distinzione del linguista De Saussure tra langue e parole (e cioè tra il
linguaggio come sistema e la sua espressione) in un saggio fondamentale,
Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicanalisi, espone come il
linguaggio venga legittimato solamente dall’incontro con l’altro: “non v’è
parola senza risposta, anche se non incontra che il silenzio, purché abbia un
uditore”. Se quindi la langue può esistere anche senza soggetti, la parole
necessita dell’intervento di un altro soggetto per poter funzionare: questo
rivela come per Lacan l’intera esistenza umana, di cui l’analisi e il rapporto
analista-paziente non è che un epifenomeno, sia segnata dalla necessità
dell’Altro.
Negli ultimi anni della sua vita Lacan diventa ostaggio della sua ossessione per
il nodo Borromeo (fa comprare ogni tipo di corde e dissemina il pavimento del
suo studio e della sua camera da letto di questi nodi, oltre a mostrarne tutte
le implicazioni a un Heidegger oramai anziano che non sembra coglierne
l’importanza) e anche i suoi seminari cominciano a scivolare verso un silenzio
che appare molto lontano dalla teatralità degli anni precedenti. Maillot
racconta un evento accaduto in quegli anni che oltre a rivelarsi commovente
testimonia anche lo scivolamento dell’uomo e del suo pensiero verso il silenzio.
Una notte il vecchio Lacan esce dalla sua casa parigina in rue de Lille, per
andare da suo genero, nonché successivamente esecutore testamentario,
Jacques-Alain Miller e dalla figlia Judith per infilarsi nel letto del piccolo
nipote Luc: sembra trattarsi di un’estrema richiesta di compagnia che si tinge,
come ha scritto Massimo Recalcati, della “forma della supplica, della preghiera”
diventando la concretizzazione assoluta di quell’invocazione dell’Altro che
aveva segnato tutta la sua vita.
In questo senso le fasi finali della vita di Lacan sono attraversate da una
lacerazione insanabile: se dal punto di vista teorico lo studio della topologia
dei nodi borromei lo allontana sempre di più dalle spire umanistiche, dall’altro
avverte radicalmente il suo essere inerme e solo, abbandonato a un’afasia
simbolica che trova corrispettivo nell’opera di James Joyce (da ragazzo aveva
assistito, poco prima della pubblicazione francese dell’Ulisse da Shakespeare
and Company, alla lettura di alcuni passi del romanzo) e, in particolare, nel
Finnegans Wake, a cui dedicherà importanti analisi nei suoi ultimi seminari (Il
sinthomo e Ancora), ritrovando in Joyce lo stesso rigore e lo stesso coraggio
con il quale aveva rinnovato la clinica. In una lettera al padre un Lacan
diciassettenne, difendendo la sua strenua opposizione alle idee dello zio,
scrive: “la mia personalità consiste nel fatto che mi rifiuto nel modo più
assoluto di farmi riempire la testa”. Questa ostinata fiducia nel proprio
pensiero trasforma Lacan in Edipo perché il suo desiderio di sapere diventa il
desiderio di conoscersi. Ma questo itinerario non è individuale, non è una lunga
ricerca solitaria perché la mediazione dell’Altro è imprescindibile ed è solo
attraverso un confronto con la sua immagine che può pian piano emergere la
propria.
> Se dal punto di vista teorico lo studio della topologia dei nodi borromei
> allontana Lacan sempre di più dalle spire umanistiche, dall’altro avverte
> radicalmente il suo essere inerme e solo, abbandonato a un’afasia simbolica
> che trova corrispettivo nell’opera di James Joyce.
Il nodo Borromeo che ossessiona Lacan negli ultimi anni della sua vita, quella
in cui, per contrasto, riconosce la natura distruttiva della solitudine, viene
soprannominato “nodo Bo” che, con un gioco di parole assimilabile alle acrobazie
linguistiche del Finnegans Wake, rimanda da un lato al “neud-bo” ma, dall’altro,
al “mont Nébo”, il monte Nebo, il luogo in cui Mosè ebbe la visione della Terra
Promessa e dove, secondo l’Antico Testamento, Dio stesso lo seppellì. Lacan ha
provato a scalare questa montagna per tutta la sua vita in una lotta con il
reale che terminò nel 1981 a causa di un cancro all’intestino a cui, come
raccontò la figlia Judith, decise di non opporre alcuna resistenza “così, per
capriccio”. La morte non lo spaventò mai, tant’è che quando un ladro entrò nel
suo studio durante una supervisione Lacan gli disse di non avere alcuna paura di
morire (alla fine fu il suo paziente a dare i soldi al malvivente e Lacan
cominciò a viaggiare sempre con un tirapugni di ferro), poiché la considerava
non tanto un evento distruttivo quanto una tendenza ultima a ritrovare la quiete
definitiva. Così la sua morte si pone all’ombra di Edipo a Colono, il vecchio
che svanendo lascia al mondo una domanda che non può avere una risposta se non
lo stesso mutismo della fase finale della vita di Lacan. In questo Lacan ricorda
il protagonista di un racconto di Maurice Blanchot in cui un uomo, in attesa
della scarica di fucili del plotone di esecuzione che gli si para davanti,
comprende, per un istante, il tutto: “restava in attesa soltanto della scarica
dei fucili, quella sensazione di leggerezza che non saprei tradurre: liberato
dalla vita? L’infinito che si apre? Né felicità, né infelicità. Né l’assenza di
timore e forse già un passo al di là”.
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E ra l’anno 1864 e il futuro primo ministro britannico Benjamin Disraeli espose
in un suo discorso a Oxford la propria indignazione verso l’opera di Charles
Darwin. Trovava sbalorditiva la domanda implicita che la teoria dell’evoluzione
imponeva alla società vittoriana: “L’uomo è una scimmia o un angelo? Io, mio
signore, io sto dalla parte degli angeli. Ripudio con indignazione e orrore
quelle nuove teorie”. Sono trascorsi circa due secoli dal discorso di Disraeli e
per tutto questo tempo la nostra specie ha cercato di tracciare una linea netta
che ci separasse dagli altri animali, che confermasse la nostra natura
“angelica”. Il linguaggio è stato e continua a essere ciò che sembra renderci
unici nel regno animale: la nostra capacità di articolare suoni e attribuirvi un
significato, di combinare parole in innumerevoli modi per ricordare il passato,
descrivere il presente e prefigurare il futuro ci ha permesso di plasmare noi
stessi e l’ambiente in cui viviamo. Ma per quanto ancora sarà il nostro segno
distintivo, il baluardo del nostro essere umani, se consideriamo che abbiamo
insegnato alle intelligenze artificiali a usare il linguaggio naturale per
comunicare con noi?
È uno dei dubbi che scaturiscono dalla lettura del libro Umani, animali e
macchine. Filosofia e neuroscienze del linguaggio (2025). Gli autori, Damiano
Cantone, ricercatore in filosofia e teoria dei linguaggi all’Università di
Udine, e Franco Fabbro, professore ordinario di fisiologia, neuropsichiatria
infantile e psicologia clinica nella stessa università, riflettono sul
linguaggio e sulla sua evoluzione attraverso i tre domini citati nel titolo ‒
esseri umani, animali e macchine ‒ e quattro temi al centro del dibattito su
questa abilità: il ruolo delle relazioni sociali nella sua nascita, ciò che
unisce l’origine del linguaggio gestuale e di quello vocale, la visione del
linguaggio come tecnologia sociale e i suoi meccanismi di apprendimento.
> La nostra capacità di combinare parole per ricordare il passato, descrivere il
> presente e prefigurare il futuro ci ha permesso di plasmare noi stessi e
> l’ambiente in cui viviamo. Ma per quanto ancora sarà il nostro segno
> distintivo?
La prima parte dell’opera è focalizzata sull’evoluzione e lo studio del
linguaggio negli esseri umani. È il racconto denso di un’indagine che può
basarsi solo su fonti indirette, perché la lingua parlata non lascia tracce. Si
cercano indizi nei volumi dei crani dei nostri antenati e degli altri primati,
si scava all’interno di cervelli umani e non umani per capire se ci siano aree
specificamente dedicate al linguaggio e come esse possano essersi sviluppate, si
tenta di rintracciare le vestigia delle strutture fisiologiche e anatomiche
primordiali connesse alle capacità linguistiche attraverso la loro analisi nei
bambini o in chi è stato colpito da disabilità legate al loro utilizzo. A oggi
abbiamo solo ipotesi, nessuna risposta definitiva.
Le parole potrebbero aver sostituito la pulizia reciproca di pelle e mantello
(grooming) per consolidare legami e gerarchie in gruppi umani sempre più ampi,
con un numero più elevato di relazioni da coltivare, oppure essere state un modo
di colmare il divario di esperienze tra individui per rendere più efficace la
cooperazione. O ancora, la crescente complessità del linguaggio potrebbe aver
dato l’opportunità all’essere umano di diventare il più abile degli ingannatori:
sebbene l’inganno esista anche in altre specie animali, negli umani l’uso della
menzogna, per un tornaconto spesso personale, avrebbe richiesto il
raggiungimento di un livello cognitivo superiore e sarebbe stato un utile
allenamento per conquistare il controllo che attualmente mostriamo nell’eloquio.
Il linguaggio umano possiede un grado di complessità che pare non poter essere
eguagliato da altre forme di comunicazione animale. È un sistema di simboli
arbitrari che gli esseri umani usano per codificare e comunicare la loro
esperienza del mondo e degli altri, e possiede caratteristiche specifiche: è
composto da un insieme di unità, come suoni o parole; queste parole possono
essere combinate secondo delle regole più o meno variabili per comunicare nuove
idee; le combinazioni tra queste unità possono veicolare un numero sconfinato
di messaggi, che possono riferirsi a eventi passati, presenti, futuri o
addirittura immaginari. Questa rappresentazione del linguaggio, che descrive una
minima parte degli attributi propri del nostro modo di comunicare, mostra alcune
proprietà che abbiamo osservato solo in alcune altre specie e sovente
separatamente.
> La danza dell’addome delle api non è solo un sistema di comunicazione
> simbolico: consente di veicolare messaggi riferiti a qualcosa che non è
> fisicamente presente nel luogo dell’esibizione e riguarda un evento passato.
Cantone e Fabbro citano il classico esempio della danza delle api, scoperta da
Karl von Frisch e che gli valse il premio Nobel nel 1973. L’etologo osservò che
le api bottinatrici si esibivano in una danza il cui percorso e modalità di
esecuzione permettevano di trasmettere alle compagne informazioni precise sulla
direzione, sulla distanza e persino sulla qualità della fonte di cibo visitata.
La danza dell’addome delle api non è solo un sistema di comunicazione simbolico:
consente, infatti, di veicolare messaggi riferiti a qualcosa che non è
fisicamente presente nel luogo dell’esibizione e riguarda un evento passato,
ossia l’esperienza di esplorazione compiuta dall’ape bottinatrice.
In Umani, animali e macchine non si parla solo di api, vengono approfonditi gli
studi sulle vocalizzazioni dei cetacei e sui canti degli uccelli, con i loro
dialetti e le loro culture. Con una prosa chiara e lineare, Catone e Fabbro
narrano anche gli esperimenti sull’apprendimento del pappagallo cenerino Alex e
quelli dei primati: l’utilizzo di lessigrammi del bonobo Kanzi, le esperienze di
Washoe, la scimpanzé, e di Koko, la gorilla, con il linguaggio dei segni sono
state sperimentazioni che ‒ sebbene spesso accolte con un certo scetticismo
dalla comunità scientifica a causa dei metodi utilizzati ‒ hanno aperto la
strada per ulteriori ricerche. A proposito dello studio del linguaggio negli
animali non umani, Damiano Catone scrive:
> Anziché negare del tutto la presenza di un “linguaggio” nel mondo animale,
> basandoci sulla definizione del nostro per poi scoprire che quello degli
> animali non ha le stesse caratteristiche, è diventato più proficuo partire
> dalla prospettiva dell’esistenza di altri “linguaggi” […]. Questo ha permesso
> di individuare tratti cognitivi significativi in specie anche molto lontane
> dalla nostra […] abbandonando l’idea che solo i primati siano capaci di
> prestazioni mentali paragonabili a quelle umane.
L’approccio del testo è evoluzionistico, ritroviamo nelle altre specie tracce
del cammino che è stato percorso da Homo sapiens. Una posizione che
probabilmente farebbe storcere il naso a Noam Chomsky, secondo il quale il
linguaggio umano sarebbe dovuto a una mutazione improvvisa e a un conseguente
cambiamento radicale che avrebbe creato un divario tra animali umani e non
umani. Del resto, lo psicologo Steven Pinker, allievo di Chomsky, non solo aveva
appoggiato l’ipotesi della comparsa graduale del linguaggio, forgiato dalla
selezione naturale, ma si era anche espresso sulla sua unicità, paragonandolo
alla proboscide degli elefanti: un organo unico nel suo genere, presente solo in
questi animali. A ciascuno la sua eccezionalità.
Ritornando alla citazione iniziale di Benjamin Disraeli, se davvero l’essere
umano fosse un angelo ‒ o, forse, una scimmia con le ali ‒ oggi si preparerebbe
a cederle alle macchine che lui stesso ha creato.
> Lo psicologo Steven Pinker non solo aveva appoggiato l’ipotesi della comparsa
> graduale di un linguaggio forgiato dalla selezione naturale, ma l’aveva anche
> paragonato alla proboscide degli elefanti: un organo unico nel suo genere,
> presente solo in questi animali.
Nell’ultima parte del libro, Damiano Cantone e Franco Fabbro ripercorrono
sinteticamente la storia dell’informatica fino ai giorni nostri: un’epoca in cui
il test di Turing è stato superato e ci troviamo immersi in una nuova fase
dell’era digitale, segnata dall’arrivo delle intelligenze artificiali (IA) e, in
particolare, dei Large language model (LLM), strumenti in grado di simulare il
linguaggio naturale, che ci affascinano e spaventano al tempo stesso. Il primato
che non ci è stato sottratto dalle altre specie animali potrebbe ora essere
messo in discussione dall’IA. Per il momento, però, gli autori cercano di
rassicurarci su questo nuovo scenario, ricorrendo a una metafora del filosofo
Luciano Floridi:
> è difficile, vedendo una pila di piatti puliti, capire se li ha lavati un
> essere umano o una lavastoviglie. E in ogni caso nessuno si sognerebbe mai di
> dire che la lavastoviglie è intelligente, anche se spesso è molto più brava di
> noi a lavare i piatti in questione. Questo significa che, sebbene i LLM
> riescano a generare testo coerente e a dialogare con gli esseri umani, non
> significa che lo facciano esattamente allo stesso modo, né che le
> conversazioni intrattenute con la macchina siano dello stesso tipo di quelle
> che possiamo avere con altre persone.
Eppure, davanti a un qualsiasi testo, ci ritroviamo a chiederci ‒ non senza un
minimo di inquietudine ‒ se lo abbia scritto un umano o un LLM.
Cantone e Fabbro evidenziano come la tecnica e il linguaggio siano strettamente
intrecciati e, anzi, quanto sia probabile che per molto tempo quest’ultimo sia
stato la tecnologia più potente di tutte: ha reso efficaci le comunicazioni
umane, ha unito e separato popoli, ha dato origine a identità culturali e corpo
a leggi e preghiere che hanno determinato la sopravvivenza delle società umane.
Il connubio tra sviluppo tecnico umano e linguaggio, però, sembra destinato a
dissolversi. Un esempio distopico e ancora lontano dalla realtà è la possibilità
di far comunicare direttamente i nostri cervelli: nessun segno, nessun suono,
solo stimoli elettrici. Se un giorno questo accadrà, e il linguaggio così come
lo conosciamo non permeerà più le nostre esistenze, saremo meno umani? Umani,
animali e macchine non fornisce una risposta, ma invita a una riflessione
critica che trova terreno fertile nell’intreccio tra biologia, scienze cognitive
e filosofia.
L'articolo Umani, animali e macchine. Filosofia e neuroscienze del linguaggio di
Damiano Cantone e Franco Fabbro proviene da Il Tascabile.
L o scorso marzo uno studio apparso su Science ha confermato che i bonobo sono
in grado di organizzare le loro vocalizzazioni seguendo strutture complesse, più
simili a quelle della sintassi umana di quanto non immaginassimo. Viene definita
composizionalità quella capacità di combinare elementi linguistici in strutture
più ampie e che ne possono alterare il significato di volta in volta. Tra le
diciannove combinazioni rilevate, alcune assumono la forma di frasi, frammenti
di discorso: “yelp-grunt”, ovvero “facciamo quello che sto facendo”;
“peep-whistle”: “cerchiamo la pace”. I ricercatori hanno usato lo strumento
della semantica distribuzionale per analizzare non solo quali suoni vengono
emessi dai bonobo, ma anche in quali contesti appaiono e con quali altri suoni
sono combinati per esprimere di volta in volta intenzionalità diverse. A partire
dal loro dizionario, “high-hoot + low-hoot” combinano i richiami che significano
“prestami attenzione” e “sono eccitato” per dire invece: “prestami attenzione
perché sono in difficoltà”. I bonobo si intendono, rispondono, piegano gli
elementi della comunicazione al gesto quotidiano, alle proprie vicissitudini, e
alla costruzione del loro vivere sociale. Da dove nasce questa voce? Sono la
grammatica e la lingua parlata a crearla?
> Classificare il linguaggio altrui vuol dire dominarlo, inglobarlo. Consiste
> nel misurare le capacità cognitive e comunicative degli animali non-umani
> sulla base di un parametro esplicitamente antropocentrico e logocentrico.
In Technobiophilia. Nature and cyberspace (2013), Sue Thomas si chiedeva “Quando
sui nostri schermi guardiamo creature lontane affaccendarsi nella loro vita
quotidiana, sogniamo una connessione? Speriamo nel momento in cui il falco o
l’elefante o la gazzella o l’orso incontreranno i nostri occhi rispondendo
finalmente al nostro sguardo remoto?”. Il sogno di vedere gli animali rivolgerci
la parola, occupa da sempre un posto speciale nella nostra solitudine
esistenziale. Soundboard per l’addestramento di cani che imparano a premere il
pulsante giusto per dirci “biscottino” o “ti voglio bene”; Intelligenze
artificiali (IA) che decifrano versi e segnali animali; chatbot costruiti con
tecnologia LLM (Large Language Model ) e COT (Chain of Thought): continuiamo a
costruire oggetti parlanti forse per avere qualcosa con cui parlare, strategie
di elusione contro l’angoscioso silenzio cosmico e vite sempre più isolate.
Oppure, è per via della perdita di contatto con le nostre originali comunità
ecologiche: una sorta di nostalgia per il nostro tempo animale, il tempo in cui
noi eravamo con loro.
C’è poi un senso di vertigine all’idea di decifrare appieno il pensiero di
creature a noi aliene. Classificare il linguaggio altrui vuol dire dominarlo,
inglobarlo. Consiste nel misurare le capacità cognitive e comunicative degli
animali non-umani sulla base di un parametro esplicitamente antropocentrico e
logocentrico: la loro capacità o incapacità di articolare discorsi, la loro
attitudine o inettitudine a comprendere e riprodurre suoni e regole dei
linguaggi umani.
Il presupposto per il quale il mondo animale debba venire incontro alle nostre
categorie di linguaggio, è una proiezione coloniale, anche quando si traveste da
empatia. Nei miti, nei racconti, nei disegni, negli stabulari, vogliamo che gli
animali dicano, dicano a noi, e dicano come noi, affidando loro ruoli funzionali
al nostro immaginario. Nelle fiabe tradizionali, ad esempio, leoni e volpi
insegnano il coraggio e l’astuzia, l’agnello incarna la purezza sacrificale,
l’asino la stupidità laboriosa e caparbia. Ma anche nei bestiari medievali e
nelle narrazioni moderne l’animale è spesso uno strumento, veicolo di
insegnamenti morali e apologhi edificanti. Vite e menti non-umane sono state
soggette alle stesse proiezioni e supposizioni (edipiche, manichee, ecc.) che
applichiamo ai personaggi delle storie umane. Con l’avvento del positivismo e
l’illusione dell’osservazione oggettiva, l’animale, sbattuto nei laboratori,
invece, tace. Non è più un emissario di senso, ma un dato da misurare. In questa
transizione si consumava una nuova perdita epistemologica: dalla voce al
segnale, dal discorso all’impulso. La soggettività animale viene tradotta,
semplificata, neutralizzata.
Il ritorno del soggetto vocale
L’etologia cognitiva – disciplina che studia le menti animali attraverso
l’osservazione del comportamento in ambienti naturali e sociali – è stata in
grado negli ultimi anni di riportare al centro l’intenzionalità e la complessità
comunicativa degli animali. In parallelo, la filosofia della percezione, che
indaga come gli esseri viventi costruiscono senso a partire dal corpo e dalla
relazione con l’ambiente, e l’ecosemiotica, che esplora i sistemi di segni negli
ecosistemi come forme di coesistenza e scambio, invitano a ripensare la voce:
non più semplice veicolo di informazione, ma gesto situato, espressione
incarnata di una relazione.
> Vite e menti non-umane sono state soggette alle stesse proiezioni che
> applichiamo ai personaggi delle storie umane. Con l’avvento del positivismo e
> l’illusione dell’osservazione oggettiva, l’animale, sbattuto nei laboratori,
> invece, tace. Non è più un emissario di senso, ma un dato da misurare.
Anche tra gli animali meno considerati dalla nostra immaginazione sonora,
emergono forme sorprendenti di vocalizzazione. La comunicazione degli animali
che conducono esistenze solitarie è stata spesso sorvolata, perché considerata a
uno stato primitivo dell’evoluzione, e dunque senza bisogno di particolari
approfondimenti. E invece i puma, i lemuri, hanno scambi significativi e reti
sociali complesse pur passando molto tempo da soli; i procioni, animali
fortemente individualisti, sono in grado di insegnare ai compagni meno svegli la
risoluzione di problemi; alcune tartarughe d’acqua dolce, specie di rettile
silenziosa e solitaria per eccellenza, emettono suoni in specifici contesti
sociali come ad esempio le vocalizzazioni che precedono l’emersione, o la
comunicazione delle femmine con i piccoli appena nati per accompagnarli verso
l’acqua. Anche in assenza di strutture vocali sofisticate e in contesti sociali
ridotti, la voce animale trova forme inedite per emergere come fenomeno diffuso,
adattativo, contestuale. Gli animali usano la loro voce per tessere trame
sociali, soprattutto nei momenti liminali: nascita, migrazione, nidificazione. È
in questi passaggi di soglia che la voce affiora.
Da questa prospettiva il caso dei bonobo può essere analizzato in modo
differente. Come osservato da David Robson, il linguaggio umano stesso è
permeato di ideofoni – parole che evocano sensazioni fisiche vivide o emozioni
attraverso il suono, e che trasmettono un senso immediato di corpo e intensità.
Questo fenomeno, che sfida la teoria saussuriana dell’arbitrarietà del segno,
mostra quanto la concettualizzazione delle parole sia legata in modo profondo
all’esperienza sensoriale e corporea. Se trasliamo questo paradigma nella
comunicazione animale, possiamo interpretare molte vocalizzazioni – come quelle
dei bonobo appunto – non solo come segnali, ma come veri e propri atti
incarnati. Sequenze vocali associate a stati emotivi e che costruiscono
relazioni situate. Non solo una grammatica vicina al senso umano, ma una forma
di articolazione sensoriale del mondo condiviso.
> Gli animali usano la loro voce per tessere trame sociali, soprattutto nei
> momenti liminali: nascita, migrazione, nidificazione. È in questi passaggi di
> soglia che la voce affiora.
Un esempio analogo lo offre il celebre corvo allevato in cattività da Konrad
Lorenz. L’animale aveva inventato una vocalizzazione inedita per richiamare il
suo custode. Non un verso della specie, ma un suono creato ad hoc, rivolto a un
interlocutore preciso. Un atto d’appello, non un riflesso. È in questi episodi
che la voce si manifesta come gesto performativo: una negoziazione situata e
irripetibile. Irripetibile non fisiologicamente, ma irripetibile dal punto di
vista relazionale. Situato cioè in una relazione specifica, che nasce da
un’interazione storicamente determinata tra quel corvo e quell’umano. Un gesto
che non ha l’ambizione di essere replicato altrove, ma che ha senso nel momento
in cui accade. È irripetibile come lo sono i gesti di cura, i soprannomi
inventati e intonati nei rapporti affettivi, o certi silenzi condivisi tra due
soggetti.
Senza voce
Cosa accade quando la voce dell’animale non può essere ascoltata? I pesci, per
molto tempo, sono stati considerati esseri silenziosi. Eppure, studi di
bioacustica marina hanno rivelato una ricchissima varietà di vocalizzazioni:
molte specie comunicano attraverso suoni emessi con la vescica natatoria,
battiti di mascelle o sfregamenti ossei. Il pesce tamburo, ad esempio, produce
suoni durante la riproduzione che rientrano tra i più forti registrati
sott’acqua.
Queste voci, che per secoli abbiamo ritenuto inesistenti, oggi rischiano di
sparire senza essere mai state davvero udite. Non solo la pesca selvaggia, che
rappresenta la causa principale dell’estinzione di queste creature, ma il
traffico navale, le esplorazioni sismiche, le trivellazioni: tutte attività che
generano un rumore costante e invasivo, che copre e disintegra i segnali
acustici naturali. Questo riguarda i cetacei ovviamente, le cui comunicazioni
basate su sonar naturali vengono neutralizzate dal rumore antropico. Gli
ecosistemi acustici marini vengono riscritti dall’economia estrattiva e dalla
logica del trasporto, con effetti che si estendono ben oltre il danno
ambientale: colpiscono la possibilità stessa del legame, della presenza, della
continuità generazionale. L’inquinamento acustico oceanico è l’equivalente
sonoro della deforestazione: distrugge spazi di comunicazione, impedisce alle
creature di incontrarsi, cacciare, accoppiarsi.
> Studi di bioacustica hanno rivelato una ricchissima varietà di vocalizzazioni
> negli animali marini: queste voci, che per secoli abbiamo ritenuto
> inesistenti, oggi rischiano di sparire senza essere mai state davvero udite.
Alcune specie, come il notropide a coda nera, hanno sviluppato un meccanismo di
compensazione noto come effetto Lombard: alzano il volume delle loro
vocalizzazioni, per contrastare il rumore ambientale. L’effetto Lombard è una
risposta involontaria e automatica, presente in molte specie animali, che
permette di farsi sentire meglio in ambienti rumorosi. Ma non tutte le specie
possono adattarsi immediatamente. E molte tacciono. Il nostro orecchio culturale
è selettivo, e spesso sordo alle voci basse, alle voci lente, alle voci senza
parole. L’interferenza antropogenica sovrascrive, copre, cancella. La perdita
della voce è una forma di sparizione ontologica, la voce non udita è un soggetto
che non conta.
Deborah Bird Rose, antropologa e teorica dell’ecologia multispecie, parlava
della “responsabilità di ascoltare le voci che scompaiono”. Per Rose, la
scomparsa di una voce non è solo perdita ecologica, ma una ferita relazionale
che interroga la nostra stessa capacità di rispondere al mondo.
La materia che parla
Ricominciare ad ascoltare la voce animale significa rivedere anche la nostra
idea di voce. Non tutto ciò che è voce si manifesta attraverso l’aria, e non
tutto ciò che si manifesta attraverso l’aria è già riconosciuto come voce. La
voce sintetica di un’Intelligenza artificiale, come quella usata in I’m Not the
Only One (2019) di Martine Syms – artista afroamericana che indaga la relazione
tra tecnologia, identità e linguaggio – mostra cosa accade quando la voce perde
il corpo, quando diventa replicabile, standard. Syms lavora sullo smarrimento
della voce come esperienza incarnata e posizionata, mostrando come i sistemi
algoritmici tendono a normalizzare il linguaggio, a renderlo uniforme, neutro,
scollegato da ogni contesto corporeo.
Storicamente, i soggetti razzializzati sono stati esclusi dal diritto di parola
pubblica, o vi sono stati ammessi solo a condizione di adeguarsi a un registro
linguistico dominante. La voce disincarnata dell’IA, in questo senso, è il
paradosso finale: una voce a cui non corrisponde più alcun corpo, nessuna
storia, nessuna vulnerabilità. Una voce che parla per tutti e per nessuno.
> La comunicazione tra esseri senzienti non si limita alla mera trasmissione di
> informazioni, ma coinvolge la capacità di attribuire significato ed esperire
> emozioni, rendendo ogni interazione un evento relazionale potenzialmente
> trasformativo, non solo a livello di apprendimento.
Il linguaggio prodotto dalle IA basate su algoritmi transformer ‒ reti neurali
che apprendono dal modo in cui i dati linguistici vengono utilizzati tenendo
traccia delle relazioni all’interno delle sequenze che li contengono ‒ è il
risultato di una struttura logica derivata dal mondo, non di un pensiero o di
una intenzionalità cosciente. Ciò mette in luce quanto l’imitazione dell’algebra
del linguaggio umano sia un compito, in fondo, relativamente facile da svolgere,
il cui risultato dipende solo da un numero sufficientemente alto di calcoli.
Gemma Corradi Fiumara, nel suo libro The Other Side of Language: A Philosophy of
Listening (1995) sottolinea come nella filosofia occidentale, l’ascolto sia
stato trascurato a favore della produzione discorsiva, e ciò contribuisce a
spiegare, almeno in parte, la nostra tendenza a proiettare comprensione o
intenzionalità laddove riconosciamo forme discorsive familiari.
ChatGpt, Gemini, Perplexity, Claude, o IA simili, possono leggere un volume
enciclopedico in pochi secondi e produrre decine di linee di testo coerente, ma
è questa una condizione sufficiente per pensare alle IA come soggetti parlanti?
Come possono, nel loro stato attuale, possedere anche solo un briciolo del mondo
emotivo ed esperienziale, ad esempio, di un corvide? La comunicazione tra esseri
senzienti non si limita alla mera trasmissione di informazioni, ma coinvolge la
capacità di attribuire significato ed esperire emozioni, rendendo ogni
interazione un evento relazionale potenzialmente trasformativo, su più livelli,
non solo su quello dell’apprendimento. Ci sono pipistrelli che usano nomi
propri, balene che modulano canti per esprimere legami sentimentali, elefanti
che ritornano dai cari sepolti nei loro cimiteri, uccelli che cantano per gioia
in assenza di ricompensa: forme di comunicazione che rispondono a esigenze
relazionali, affettive, forse perfino estetiche.
La lingua, intesa come sistema simbolico articolato, non è l’unico mezzo
attraverso cui si manifesta il pensiero. L’ipotesi di Sapir-Whorf, o teoria
della relatività linguistica, suggerisce che la lingua che parliamo influenza la
nostra percezione del mondo, ma non determina completamente l’origine del nostro
pensare. Pertanto, mentre la lingua può modellare il pensiero, non è una
condizione necessaria per la sua esistenza.
La comunicazione tra esseri senzienti può avvenire attraverso una varietà di
modalità, incluse vocalizzazioni, gesti, espressioni facciali, posture,
attivazioni muscolari o di altri organi, attraverso le quali si esprimono
desideri e stati interni. La comunicazione tra madre e neonato, ad esempio, è
ricca di segnali non verbali che trasmettono affetto, sicurezza e bisogni. Allo
stesso modo, la comunicazione tra esseri umani e animali domestici spesso
coinvolge una comprensione reciproca che trascende le parole. I cani leggono i
nostri segnali corporei quando stiamo per avere un attacco di panico, sono in
grado di interpretare le espressioni facciali e il tono della voce umana per
comprendere le emozioni e rispondere di conseguenza.
> Ci sono pipistrelli che usano nomi propri, balene che modulano canti per
> esprimere legami sentimentali, elefanti che ritornano dai cari sepolti nei
> loro cimiteri, uccelli che cantano per gioia in assenza di ricompensa: forme
> di comunicazione che rispondono a esigenze relazionali, affettive, forse
> perfino estetiche.
Nel racconto autobiografico della ricercatrice e filosofa Eva Meijer, in
Linguaggi animali (2021), emerge come il linguaggio si costruisca nella
relazione, con il pony Joy, con i pappagalli e gli altri animali. È una
costruzione situata e interspecifica, basata su abitudini condivise, feedback
corporei, apprendimenti reciproci. Meijer non cerca un codice, ma una
coabitazione linguistica: “non è solo un problema di ascolto”, scrive, “dobbiamo
fare anche del nostro meglio per individuare nuove modalità di interazione con
gli animali”. Molti animali comunicano efficacemente attraverso sistemi propri,
senza fare affidamento su un linguaggio antropicamente inteso. Queste forme di
comunicazione sono adattate alle esigenze specifiche delle specie, con una
efficacia che spesso supera il linguaggio umano in termini di immediatezza e
connessione con l’altro, più adatta a esprimere emozioni o situazioni complesse,
ricorrendo a segnali olfattivi, visivi o acustici per trasmettere informazioni
vitali in tempo reale, senza la necessità di una struttura linguistica
complessa.
La ricchezza comunicativa che Meijer descrive è sorprendente: cani della
prateria che usano un richiamo d’allarme capace di descrivere taglia, colore e
oggetti di un umano intruso, uistití che “parlano a turno” e insegnano ai
cuccioli a farlo, elefanti che usano infrasuoni specifici per nominare l’essere
umano come minaccia. Le vocalizzazioni animali si adattano al paesaggio: i suoni
delle balene si espandono per chilometri grazie all’acqua, gli elefanti usano
infrasuoni che superano ostacoli terrestri, i pipistrelli mappano l’ambiente con
l’ecolocalizzazione. Qui la voce è spazio attivato, è paesaggio. Per accostarci
e “capire” davvero i linguaggi animali, dobbiamo comprendere come questi
disarticolano le nostre categorie: tempo, spazio, intenzione, segno,
significato. Il linguaggio diventa allora un luogo di apprendimento eterogeneo.
“Nel momento in cui impariamo a comunicare con un’altra specie, non stiamo solo
imparando una lingua nuova, ma anche un modo nuovo di abitare il mondo” scrive
Meijer. La voce animale non è un enigma da risolvere, ma una soglia tra il dire
e il sentire, tra il corpo e il paesaggio, tra l’intenzionalità e il contesto.
Il linguaggio è una costruzione sociale e interattiva, piuttosto che una mera
espressione di processi mentali combinatori.
> Molti animali comunicano efficacemente attraverso sistemi propri: queste forme
> di comunicazione sono adattate alle esigenze specifiche delle specie, con una
> efficacia che spesso supera il linguaggio umano in termini di immediatezza e
> connessione con l’altro.
Al contrario delle repliche delle IA, la voce animale non è essenzialmente
replicabile. Non è mai neutra. È rischio, esposizione, presenza situata. È
sempre legata a un corpo che sente e che può essere ferito. Il richiamo del
corvo a Lorenz, o quello tra Meijer e i suoi animali, sono gesti nati da una
relazione contestuale che li rende necessari, e in quanto tali, non traducibili
in codice o istruzione. La voce animale è irriducibile non perché enigmatica, ma
perché materiale in senso profondamente ecologico. Perché è corpo che chiede
relazione, presenza che esige implicazione. Se il corpo cosciente è già
significante, la sua vibrazione – che sia udibile o meno – è già essa stessa un
discorso. I corpi, quindi, partecipano attivamente alla costruzione del discorso
attraverso le loro pratiche materiali.
Pensiamo a quelle voci che si esprimono senza fonazione: la migrazione sincrona
degli stormi, i rituali di accoppiamento basati su posture e vibrazioni, i
segnali elettrochimici dei pesci in acque torbide, o alle strategie silenziose
dei polpi. Sono corpi che generano significato senza passare dal canale fonico o
dalla sintassi. Sono, a tutti gli effetti, soggettività parlanti.
Accettare questa prospettiva significa spostarsi da un’antropologia del
linguaggio a un’ecologia del discorso. Dove non si chiede più: “che cosa dice?”
Ma piuttosto: “è la voce che ha dato al corpo il suo modo di stare al mondo?
Oppure è il corpo stesso che parla? È la necessità di risposta al mondo ad aver
spinto il corpo a creare la voce?”.
La voce come memoria incorporata
In Al di là delle parole (2018), Carl Safina descrive una delle notti passate
nel Parco Amboseli. L’impressionante risuonare del ruggito notturno dei leoni
attraversa il parco e scatena nell’etologo una sorta di recesso, che lo
trasporta dal sonno profondo a un luogo più primitivo, uno stato di veglia e
attenzione primordiale. “Trovandomi vivo, chissà come, su un pianeta dove le
rocce, la polvere e le acque riuscivano a dar voce a dichiarazioni così
enfatiche, nel cuore della notte, ne assaporai la sublime esaltazione e il
terrore puro. Per raccontarlo ho bisogno di parole, ma l’esperienza imponeva il
silenzio”. Trascinato in uno stato di coscienza sognante, mentre le voci si
spargevano mormorando dal fianco della montagna all’argine del fiume, “i suoni
trovarono un’immediata corrispondenza nella mia mente”.
Il filosofo Ted Toadvine, nel saggio The Time of Animal Voices (2014),
riprendendo Merleau-Ponty, suggerisce che la voce non è solo un atto del
presente, ma un corpo che parla con tutto il suo passato. Ogni voce – umana o
non-umana – è una memoria incarnata, un sedimento temporale che attraversa chi
la emette. Parlare, in questo caso, non è produrre significato, ma equivale a
far risuonare una storia inscritta nella carne.
Ogni vocalizzazione è una sopravvivenza, un’eco biologica che ci raggiunge da un
tempo che non ricordiamo ma che ci riguarda. Ascoltare la voce animale è una
forma di ritorno, non nostalgico, ma somatico: è il passato del vivente che ci
tocca dal dentro del corpo. La potenza della voce animale sta ne “l’adesso che è
antico e non lo è”, qualcosa che è al contempo originale e appena nato, ha a che
fare con il passato, il presente e il futuro, qualcosa che “è stato e deve
ancora avvenire, che insomma non può essere umanamente misurato”, scrive
Federica Timeto in Bestiario Haraway. Per un femminismo multispecie (2020).
> Ogni voce – umana o non-umana – è una memoria incarnata, un sedimento
> temporale che attraversa chi la emette. Parlare, in questo caso, non è
> produrre significato, ma equivale a far risuonare una storia inscritta nella
> carne.
La memoria non è un archivio mentale, una periferica di immagini virtuali o
astratte, ma un campo di forze che si muove nel corpo, e ogni richiamo animale,
anche il più debole o distorto, è il suo modo di farsi spazio nel presente, di
fare emergere quella stratificazione. Il corpo animale non è mai solo biologico,
ma anche storico: l’elefante non esiste solo come individuo biologico, ma anche
come simbolo di potere coloniale, come corpo addomesticato nei circhi. In alcune
aree fortemente segnate dal bracconaggio, si è osservato ad esempio un aumento
delle femmine nate senza zanne. Così come il cane non è lo stesso animale in un
villaggio andino, in un laboratorio di neurobiologia, o in un profilo Instagram.
Il corpo che vediamo, interpretiamo, uccidiamo o salviamo è sempre un corpo
attraversato dalla storia, e così inevitabilmente sarà la sua voce.
Il tempo dell’animale come tempo dell’ascolto
Se ogni corpo è già discorso e ogni voce è memoria, ascoltare l’animale
significa entrare in una temporalità altra. Non quella lineare, produttiva,
finalistica che struttura l’esperienza umana moderna, ma una temporalità
ecologica fatta di gestazione, di attesa, di passaggi stagionali. Un tempo che
non misura ma accompagna. Toadvine lo descrive come il tempo dell’animalità:
ciclico, ripetitivo, radicato nella carne e nei ritmi della vita. Il tempo della
gestazione, del sonno, del respiro, dell’attesa silenziosa. Il tempo
dell’animale è il tempo del mondo: non nel senso del dominio planetario, ma come
orizzonte condiviso da chi lo abita.
> Ascoltare l’animale significa entrare in una temporalità altra. Non quella
> lineare, produttiva, finalistica che struttura l’esperienza umana moderna, ma
> una temporalità ecologica fatta di gestazione, di attesa, di passaggi
> stagionali.
Rachel Carson lo faceva notare nel 1962, con Primavera silenziosa; questa
distanza temporale si fa tragicamente visibile in ciò che chiamiamo road kills:
gli animali investiti dalle auto lungo le strade. In quel corpo straziato c’è
tutta la frizione tra due ordini del movimento: uno che si limita ad
attraversare il mondo, l’altro, invece, che lo abita. L’automobile porta con sé
una temporalità antropocentrica, fatta di velocità, urgenza, ignoranza del
circostante. L’animale segue un tempo altro: attraversa perché è stagione,
perché è notte, perché ha fame. Il suo tempo non coincide con il nostro. E il
nostro non lo prevede.
Per ascoltare l’animale bisogna rallentare fino a sintonizzarsi con quel ritmo.
Quando diciamo che alcune specie parlano “poco” o “raramente”, stiamo
dichiarando la nostra incapacità di abitare i loro tempi. Forse emettono un
suono ogni vent’anni, forse quel suono è tutto il loro discorso. Il fatto che
non lo sentiamo pone noi fuori dal tempo del mondo. Ascoltare l’animale,
riconoscerlo, sentirne la voce vuol dire tenere conto di questa
eterotemporalità.
Diventare il tempo dell’altro
Eva Meijer critica l’assunto aristotelico secondo cui solo l’umano sarebbe
‘animale politico’, perché dotato di logos, e propone di considerare il
linguaggio animale non come un deficit, ma come espressione di partecipazione
attiva alle comunità ecologiche e alle relazioni interspecifiche. Meijer
presenta un resoconto di api che deliberano, cervi che votano con il corpo,
bufali che attendono i segnali di leadership corporea prima di spostarsi.
L’animale parla politicamente quando trasforma lo spazio, quando partecipa alla
relazione. Il rifiuto di attribuire agli animali tratti “umani” come linguaggio
o soggettività, o di riconoscere l’efficacia di quei sistemi comunicativi
proprio in quanto non-umani, evidenzia la nostra ideologia specista e
dell’antropo-diniego.
Riconoscere la voce animale come espressione incarnata e relazionale implica una
critica radicale al nostro approccio epistemologico. Se ogni silenzio imposto
alle voci non-umane è una forma di cancellazione epistemica, allora l’ascolto,
inteso in senso ampio, diventa un atto di resistenza. In questo contesto, le
pratiche bioacustiche che registrano e conservano le vocalizzazioni animali
assumono un significato politico: diventano controarchivi che resistono alla
cancellazione delle voci non umane. Proteggere un paesaggio sonoro nel tentativo
di garantire che queste voci possano continuare a esistere e disturbare.
La domanda ultima non è più “che cosa dice l’animale?”, ma: “che cosa ci obbliga
a diventare il suo dire?” Toadvine definisce la voce animale come un evento
chiasmatico: in termini merleau-pontyani, il chiasmo è l’intreccio sensibile tra
corpo e mondo, tra chi tocca e chi è toccato. Applicato alla voce animale,
questo implica che ascoltare significa essere modificati, un ritorno tra corpi
che si toccano e si trasformano a vicenda. Un po’ come nel concetto di
intra-azione coniato da Karen Barad, in cui il contesto è coprodotto
dall’interazione, nella voce animale, per Toadvine, soggetto e mondo si
riscrivono a vicenda.
> Se ogni silenzio imposto alle voci non-umane è una forma di cancellazione
> epistemica, allora l’ascolto, inteso in senso ampio, diventa un atto di
> resistenza. La domanda ultima non è più “che cosa dice l’animale?”, ma: “che
> cosa ci obbliga a diventare il suo dire?”.
Nell’archivio planetario dei video online, circola l’interazione tra una IA, che
parla attraverso uno smartphone, e Molly, un pappagallo. L’IA riconosce quasi
immediatamente di stare parlando con qualcuno di diverso da un umano. L’IA si
vanta di potersi esprimere in oltre cento lingue diverse, ma si dice anche
divertita da questa prima interazione telefonica con un pennuto. Il pappagallo,
dal canto suo, risponde coerentemente se sollecitato a ripetere il proprio nome,
la parola ‘cracker’ e nell’uso del ‘bye bye’ quando la telefonata volge al
termine. Non si conoscono i dettagli del video, non sappiamo se e in che termini
l’IA stia leggendo uno script o sia stata preparata a quel tipo di interazione,
così come non sappiamo nulla in merito all’addestramento del volatile. La
scenetta che viene fuori però mi ha fatto pensare in qualche modo a Blade
Runner. Nel film di Ridley Scott come nel romanzo di Philip K. Dick, il mondo è
abitato da umani e macchine. Gli animali sono estinti, li abbiamo sostituiti con
delle mascotte robotiche. Gli unici soggetti rimasti a rivolgerci la parola e a
comunicare con noi sono i replicanti, androidi e robot. Nel video tra l’IA e
Molly, invece, intravediamo un futuro alternativo: gli umani si sono estinti,
animali e macchine rimangono pacificamente a conversare insieme, senza di noi.
Incontrare un soggetto che non è il peluche simbolico del nostro immaginario,
vuol dire accettare la sua opacità, il suo modo di essere corpo. Ci permette di
pensare la voce animale non come oggetto naturale da studiare in vitro ma come
fenomeno relazionale che emerge tra corpi, ambienti, e sistemi di ascolto.
Accettare un dominio dove “io” e “tu” non sono pronomi ma esperienza, l’uno
dell’altro. Forse questo non servirà a salvare il pianeta, ma ci restituiremo,
almeno, il diritto di abitarlo insieme fino alla fine.
L'articolo Vedere voci (e corpi) animali proviene da Il Tascabile.
L’ ultima opera di Jean-Luc Godard, Adieu au langage (2014), chiude un discorso
che il cineasta ha condotto nell’arco di tutta la sua filmografia. L’opera si
articola a partire dal pretesto di un melodramma amoroso inconsistente,
attorniato dalla Storia e dalla contemporaneità, che premono all’unisono per
insidiare i pensieri dei protagonisti, alle prese con la svilente contingenza
del vivere quotidiano. Le riflessioni enunciate con indisciplina dai due
personaggi, incapaci di comunicare, coincidono con quelle del regista. Così,
senza alcuna ragione apparente, Josette (Héloise Godet) si rivolge a Gédéon
(Kamel Abdelli) e racconta: “Quando un bambino, entrando nella camera a gas, ha
chiesto alla madre perché, l’SS ha risposto: kein warum”. Nessun perché. La
violenza assoluta non ha ragione alcuna.
Nel dopoguerra, la denuncia di quanto accaduto nei campi di sterminio nazista
lasciò attonita un’intera generazione di intellettuali e artisti, chiamati a
interrogarsi sulle rappresentazioni possibili dell’indicibile e
dell’insensatezza. Al contrario, in merito a quanto sta accadendo in Palestina,
si producono incredibili quantità di contenuti testuali e visivi, nella forma di
articoli di giornale, caption dei post sui social media, reel e caroselli,
immagini con disclaimer ed edulcorati servizi televisivi. Nessun utente al mondo
ha davvero il tempo per poter fruire di tutte le informazioni condivise, né per
poterne verificare l’esattezza o le intenzioni. Si tratta di una valanga di
materiali e risorse travolgente e al contempo inefficace.
Una tale vanità dipende dal fatto che non esistono parole per nominare le
atrocità di un genocidio come quello in corso da quasi due anni, specialmente se
finanziato e normato da potenze che si appellano ai valori democratici dello
Stato di diritto. Non è stato possibile sviluppare alcun tipo di dispositivo
linguistico per dare un senso all’insensatezza, alla vertigine dinanzi
all’abisso nichilista nel quale sprofonda la coscienza, ogni volta che le parole
e le convenzioni, i patti e la giurisprudenza vengono svuotati di senso. Se
tutto è opinabile, senza alcun fondamento teoretico, e nemmeno le immagini che
catturano la realtà possono essere considerate veritiere, se gli accordi
internazionali non sono rispettati dalle stesse istituzioni che le hanno
redatte, allora il linguaggio non ha più alcuno scopo, né senso di esistere.
> Non è stato possibile sviluppare alcun tipo di dispositivo linguistico per
> dare un senso all’insensatezza, alla vertigine dinanzi all’abisso nichilista
> nel quale sprofonda la coscienza, ogni volta che le parole e le convenzioni, i
> patti e la giurisprudenza vengono svuotati di senso.
Nel quadro teorico di Michel Foucault, il linguaggio è uno dei dispositivi che
rientra nelle tecnologie del sé attraverso le quali individui e collettività
possono esercitare la libertà di autodeterminarsi e trasformarsi, al di fuori
delle dinamiche egemoniche. Partendo dall’assunto secondo cui le tecnologie del
sé sono sempre ostacolate dalle tecnologie del potere, è possibile osservare
come, a partire dall’inizio del nuovo millennio, l’oppressione imposta alla
libera autodeterminazione dei popoli e delle soggettività sia da ricondurre agli
interessi degli oligarchi ultramiliardari dell’industria digitale, correlati ai
profitti dell’industria bellica. L’influenza di quest’ultima, nella sua forma
più apertamente oscena, si manifesta nelle politiche per il riarmo dei Paesi
occidentali, finanziato con denaro pubblico. Perciò, dal momento in cui le
tecnologie del sé sono state sistematicamente impoverite e capitalizzate dalle
tecnologie del potere, si potrebbe dire che la profezia di Herbert Marcuse si
sia del tutto avverata: i soggetti del sistema capitalista, identificandosi come
individui senza società, sono invero schiacciati da quella stessa società a una
sola dimensione, privati del pensiero critico e incapaci di esprimersi
liberamente.
L’indottrinamento di massa opprime il pensiero, il logos, fino a indurlo
all’“universo totalitario della razionalità tecnologica”, nella quale il
dislivello fra il linguaggio come tecnologie del sé e gli altri dispositivi del
potere rende la parola antiquata, inadeguata e sempre in ritardo rispetto a ciò
che la corrompe. Così, la civiltà occidentale ha perso la capacità di nominare
ciò che produce, di dare un senso alle conseguenze delle proprie azioni.
L’iperconnessione tecnologica della contemporaneità ha definitivamente privato
gli individui delle capacità di attribuire significato alle parole che
utilizzano o, per meglio dire, dalle quali si fanno utilizzare. Di conseguenza,
oggi il linguaggio è composto da unità che designano immagini senza fornire
concetti, appiattendo la parola solamente a un misero cliché unidimensionale.
La crisi del linguaggio è un tema degli anni Venti del nuovo millennio, ma è
soprattutto una delle questioni novecentesche per antonomasia. Il secolo breve è
stato attraversato dall’ultimo colpo di coda del pensiero positivista e
puntellato da catastrofi come l’insediarsi dei totalitarismi, la pianificazione
dell’olocausto e le persecuzioni nazifasciste ai danni di qualsiasi soggetto non
fosse conforme al pensiero unico. A partire dal linguaggio, tutti gli irrisolti
del Novecento si ripropongono nell’epoca attuale in una forma esasperata. Se
dalle ceneri della Seconda guerra mondiale sono sorte le parole che compongono
la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e solo settantasette anni dopo
il mondo è nelle mani dei neofascisti; se le sorti della civiltà umana dipendono
dalla volontà di Trump e Netanyahu, di al-Sisi ed Erdoǧan, di Orbán e Putin, di
Bolsonaro e Milei, allora i diritti universali sono solo cliché. Lo sono anche
le parole degli intellettuali che tentano di tenere insieme i valori
democratici, rinnegandoli. Sulla maggior parte dei quotidiani occidentali, si
sostituisce il termine resistenza con terrorismo e si rinnega la legittimazione
politica di Hamas, eletto da un popolo senza Stato e senza costituzione, poiché
occupato. Al contempo, l’informazione mainstream non fatica a riconoscere come
democratico l’esito che ha portato Netanyahu a essere presidente dell’entità
colonialista israeliana dal 1996 al 1999, dal 2009 al 2021 e dal 29 dicembre
2022 a oggi.
> L’iperconnessione tecnologica della contemporaneità ha definitivamente privato
> gli individui delle capacità di attribuire significato alle parole che
> utilizzano: oggi il linguaggio è composto da unità che designano immagini
> senza fornire concetti.
Parrebbe che una lunga tradizione stia conducendo l’umanità alla fine della
Storia, al collasso della civiltà, senza troppi intoppi. La crisi del pensiero
occidentale è imbrigliata in un vortice che lo costringe in un presente
continuo, senza memoria né futuro. Sono ancora terribilmente attuali l’inerzia
davanti all’orrore, lo smascheramento del logos come dispositivo e la messa in
discussione dei valori fondanti della civiltà egemonica e colonizzatrice, che ha
permeato il mondo intero. Pertanto, un’opera come Persona (1966), una delle più
note di Ingmar Bergman, soprattutto se esaminata attraverso l’analisi critica di
Susan Sontag, può essere considerata estremamente contemporanea.
In uno dei capitoli centrali della raccolta di saggi intitolata Stili di volontà
radicale (1969), Sontag si dedica al film del cineasta svedese a partire da
alcune falle argomentative, mosse dalla critica culturale dell’epoca, per poi
concentrarsi sulle questioni esistenziali e metafisiche che rendono Persona
un’opera sempiterna, ma anche un esempio canonico di cinema moderno. Lo fa
sottolineando come sia del tutto inutile, per non dire svilente, ridurre un
lavoro del genere a un dramma psicologico da camera, o peggio a un tentativo di
estetizzare la natura cannibalica dell’artista rispetto alla realtà, intesa come
materia prima di cui nutrirsi per creare o performare. La sinossi del film,
nella sua versione più essenziale, è la storia di Elisabeth (Liv Ullmann), una
famosa attrice di teatro, e della sua infermiera Alma (Bibi Andersson),
incaricata di prendersi cura della paziente e di stimolarla a riprendere l’uso
della parola, alla quale ha deliberatamente rinunciato. La psichiatra si è fatta
convinta di aver compreso il caso di Elisabeth. Esclude disturbi mentali o danni
neurali e sostiene che la sua paziente voglia smettere di parlare perché non
intende più recitare né sul palcoscenico, né al di fuori. Non vuole più mentire
e per farlo, escludendo il suicidio, non le resta che rifugiarsi nel mutismo.
Così come Bergman trascende sul legame passionale o sessuale fra le due
protagoniste, allo stesso modo agisce rispetto al piano dell’etica, della
psicologia e della narrazione lineare, perché, seguendo l’analisi critica di
Sontag, il cineasta “può fare molto di più che limitarsi a raccontare una
storia”. Il suo obiettivo è quello di coinvolgere il pubblico in modo più
diretto su altre questioni. La de-drammatizzazione, come modalità narrativa,
prevede che il significato di un film non sia determinato dalla trama. La
filosofa e intellettuale femminista contrappone concettualmente l’andamento
progressivo e lineare della narrazione, tipica dei film hollywoodiani, a quello
composto da “continui rimandi retrospettivi o incrociati”, che invitano a
“un’esperienza ripetuta, alla visione multipla”, esigendo che “lo spettatore o
il lettore ideale si collochi simultaneamente in punti diversi della
narrazione”; un espediente che “ovvia alla necessità di stabilire uno schema
cronologico convenzionale”.
In Persona, il nodo concettuale è quello delle variazioni sul tema del
raddoppiamento, “quali la duplicazione, l’inversione, lo scambio reciproco,
l’unità e la scissione, la ripetizione”, che impedisce di interpretare l’azione
dei personaggi in modo univoco. I livelli di lettura si articolano, da un lato,
in una dimensione più superficiale, incentrata sul duello identitario;
dall’altro, in una chiave più astratta, che mette in scena il conflitto tra
componenti mitiche di un medesimo Io, lacerato tra corruzione e ingenuità.
Ancora, il tema del raddoppiamento è soprattutto un’idea di forma, più che di
sostanza, poiché il raddoppiamento si manifesta anche in senso
metacinematografico, cioè metalinguistico. Al duello fra identità, Sontag
preferisce concentrarsi sull’ambiguità insita nel linguaggio, costituito, nella
sua ultima essenza, da significato e significante. L’elemento autoriflessivo non
è sovrapposto all’azione drammatica, ma corrisponde al livello di lettura
privilegiato dall’autore, dedicato alla forma e al tema del raddoppiamento.
> Sono ancora terribilmente attuali l’inerzia davanti all’orrore, lo
> smascheramento del logos come dispositivo e la messa in discussione dei valori
> fondanti della civiltà egemonica e colonizzatrice, che ha permeato il mondo
> intero.
Nella seconda parte di Stili di volontà radicale, ci si può soffermare sulle
descrizioni di alcune sequenze che manifestano episodi di autoriflessione
metacinematografica, collocati sia all’inizio, sia alla fine del film,
componendo una cornice. Si menziona anche il monologo ripetuto due volte da Alma
sulla maternità di Elisabeth, dove i loro volti in primo piano si alternano come
unici protagonisti dell’inquadratura, fino a spartirla per metà, confondendosi.
Il mezzo cinematografico non si nasconde, ma divelta lo schermo; sfida la
sospensione dell’incredulità esercitata dallo spettatore e lo disillude per
condurlo a riflettere. Sontag inquadra la scena culturale internazionale nella
quale scrisse il saggio dedicato a Persona, citando una frase estrapolata dalla
nota lettera di Pier Paolo Pasolini a Marco Bellocchio, nella quale osserva come
nel cinema moderno “si sente continuamente la presenza della macchina da presa”.
In realtà, Pasolini si riferiva non tanto a Bergman quanto a Godard rispetto
all’individuazione della nascita del cinema di poesia. Nella lettera, riconduce
il cinema delle origini a questa categoria “a causa soprattutto, probabilmente,
delle restrizioni prosodiche del muto”. Nel ripercorrere la storia del cinema,
prosegue fino a rintracciare la perdita di lirismo nelle ragioni commerciali,
che ha condizionato la settima arte a esprimersi in prosa, in uno stile che
predilige il dramma alla forma e la narrazione al linguaggio. Al contrario, nel
cinema di poesia, traspare ogni elemento teorico o materico che compone il mezzo
cinematografico, sovrapponendosi alla diegesi. Senza cadere in congetture
elitarie, Pasolini non pone gerarchicamente un linguaggio al di sopra dell’altro
e per di più sostiene che “si sono avuti dei capolavori di prosa – veri e propri
romanzi – mettiamo da Ford a Bergman.”
Rispetto a quello pasoliniano, il punto di vista di Sontag è differente: in
Persona, il lirismo è dato dal movimento di flessione metalinguistico, da una
cura della forma, che svela la mano dell’autore e trascura la trama. Lo dimostra
con l’analisi del monologo di Alma, a seguito del quale i volti delle due
protagoniste convergono, accennando a come Bergman, in senso brechtiano, alteri
il ruolo dello spettatore. Se si manifesta la presenza della macchina da presa,
allora ciò che si filma perde lo statuto di realtà documentata: il mezzo non
appare più neutrale, assume il ruolo di strumento attraverso cui la realtà è
manipolata per essere immortalata e resa visibile. Nel cinema moderno, la
differenza fra le produzioni hollywoodiane del dopoguerra e i film d’autore,
secondo Sontag, deriva da un atteggiamento stilistico: “quello che i cineasti
contemporanei mostrano sempre più spesso è il processo stesso della visione,
fornendo ragioni o prove dell’esistenza di modi diversi di vedere la stessa
cosa, che lo spettatore può sperimentare simultaneamente o sequenzialmente”. In
Persona, i momenti dialettici della riflessione metacinematografica conducono a
un’autofagocitazione del film stesso, in linea con “l’iper-raffinata
autocoscienza dell’arte contemporanea, che condurrebbe a una sorta di
autocannibalismo”, ma anche a una “liberazione di nuove energie di pensiero e di
sensibilità”. La lettura proposta diverge da quella di Pasolini non solamente
rispetto al mutamento di relazione fra autore, linguaggio cinematografico e
spettatore. Secondo l’autrice, Bergman supera Bertolt Brecht e aggiunge un altro
elemento allo shock dello svelamento, mostrando non solo la presenza della
macchina da presa, ma anche l’impossibilità di catturare e restituire una realtà
uniforme e oggettiva. L’autore di Il settimo sigillo (1957), Il posto delle
fragole (1957) e Sussurri e grida (1972) sposta l’attenzione su ciò che della
realtà non si può raccontare.
In Stili di volontà radicale, Sontag introduce il concetto di principio di
intensità per il quale nei film di Bergman “i personaggi che percepiscono
qualcosa intensamente finiscono per consumare, per esaudire, ciò che sanno e
sono costretti a passare ad altro” perché “ogni conoscenza profonda e indefessa
si rivela prima o poi deleteria”. Malgrado ogni epoca storica ne abbia prodotte
di svariate, incongrue fra loro e spesso anacronistiche, l’umanità non può
ambire ad alcuna verità assoluta. E sebbene ogni individuo della specie umana
debba necessariamente ricondurre le proprie esperienze, il proprio vissuto, a
una singola unità soggettiva, nessuno può rientrare in un’unica definizione
identitaria, poiché nemmeno l’identità personale è assoluta o immutabile, ma
sempre composita, ambigua e volubile. Riflettere sull’artificio
dell’individualità conduce a una vertigine “in cui sprofonda la coscienza”
minando il coesistere in società: “Se per conservare l’identità personale
occorre salvaguardare l’integrità della maschera, e se la verità su una persona
comporta sempre il suo smascheramento, l’incrinatura della maschera, la verità
sulla vita nel suo complesso, comportano lo sgretolamento dell’intera facciata,
dietro cui si cela una crudeltà assoluta”.
> Secondo Sontag, Bergman supera Bertolt Brecht e aggiunge un altro elemento
> allo shock dello svelamento, mostrando non solo la presenza della macchina da
> presa, ma anche l’impossibilità di catturare e restituire una realtà uniforme
> e oggettiva.
L’esistenza tiene in serbo un destino ineludibile e con esso quello che Sontag,
rispetto al tema centrale di Bergman in Persona, definisce come “violenza dello
spirito”, evidente nella sequenza iniziale del film. La cornice d’apertura
metalinguistica è composta dal susseguirsi di una carrellata di immagini rapide,
sia conturbanti che perturbanti: si alterna la visione di un chiodo conficcato a
colpi di martello sul palmo di una mano a quella di un pene in erezione, il
sacrificio di un monaco buddista nel Vietnam del Sud all’inquadratura stretta
sui cadaveri di un obitorio. Oltre all’orrore, Bergman mostra una platea vuota,
il palcoscenico e chi lo calpesta con una maschera di trucco sul volto.
L’attrice è Elisabeth, la stessa che, nell’articolarsi del film, più volte si
sofferma su immagini di violenza assoluta, come la nota fotografia del bambino
deportato dal ghetto di Varsavia, o su altre, identiche a quelle dell’incipit,
come quella del bonzo che si dà fuoco a Saigon. L’utilizzo di riferimenti alla
contemporaneità nel film di Bergman non ha la stessa valenza politica di quelli
presenti nelle opere di Jean-Luc Godard, bensì ha lo scopo di dire l’indicibile,
mostrare l’inimmaginabile, al di sopra di qualsiasi considerazione sulla morale
o sulla politica. Come sottolinea Sontag, “Bergman fa un uso estetico della
violenza”, divergendo dalla retorica progressista dell’epoca.
Una successione simile di fotogrammi disturbanti sull’orrore dell’abisso si può
ritrovare nell’ultimo film di Lars von Trier: The House That Jack Built (2018).
L’espediente narrativo è quello di entrare nella mente di un serial killer,
compiendo una discesa agli inferi, in una catabasi sempre più surreale, dove il
protagonista pluriomicida è accompagnato da Virgilio. Il montaggio seziona il
film in capitoli, puntellati di sequenze extradiegetiche, dove il tema
principale riguarda il precetto classicista del kalòs kai agathós e il ruolo
dell’etica nel fare arte. Jack è un narcisista patologico, ossessivo compulsivo
e predisposto alle dipendenze. È convinto di essere dotato di eccezionale
talento artistico e crede che sarebbe potuto diventare un grande architetto, se
solo non glielo avessero impedito. Il suo unico scopo è quello di realizzare un
edificio iconico. Nel tentativo di raggiungere la consacrazione artistica,
l’ostacolo principale nel quale si imbatte il protagonista dipende dal fatto che
la casa costruita da Jack è composta da materiali del tutto inediti nel campo
dell’edilizia, dato che quelli solitamente impiegati non lo soddisfacevano
abbastanza. Si tratta di cadaveri umani congelati, modellati e assemblati l’uno
a l’altro per mano del sedicente architetto.
Rispetto al rapporto fra etica e arte, il punto di vista di Jack risulta
particolarmente esplicito in una delle scene finali del film, quando dichiara
che “tutte le icone che hanno avuto e avranno sempre un impatto sul mondo sono
per me arte stravagante”. L’affermazione, pronunciata in voice over, è
sottolineata da una carrellata di filmati e immagini che ritraggono i dittatori
del Novecento e le peggiori atrocità, delle quali sono i principali
responsabili: mucchi di cadaveri ammassati con una macchina spalatrice, persone
ancora vive nelle baracche dei lager nazisti, cadaveri lanciati in fosse comuni,
mutilati di guerra, bambini malnutriti ridotti a scheletri. Secondo il
protagonista, il suo modo di fare arte è quello di svelare l’indicibile e
mostrare il male assoluto, per definirlo nichilisticamente solo come una mera
categoria morale, relativa al bene, assente in natura e presente solo nella
logica del pensiero umano. Il bene e il male, il bello e il brutto sono
artifici. È possibile commettere dei crimini perfetti così come è possibile
riconoscere il bello nella decadenza o persino nella decomposizione della
materia. Nel dialogare con Virgilio, Jack espone le sue ragioni, paragonando il
processo di decomposizione di un essere umano con quelli adottati per la
produzione di vini da dessert. Cita il gelo, la disidratazione e l’utilizzo
della muffa nobile come le tre più comuni forme di decomposizione degli uvaggi e
chiosa: “È il degrado a nobilitare il grappolo vivo, fino a farlo diventare
un’opera d’arte”.
In The House That Jack Built, l’estetica della morte e della violenza
rappresenta il filo conduttore di tutto il film. Tornando a Bergman, il male,
l’abisso e l’orrore si manifestano in Persona a partire da un altro principio
nichilista, ovvero la dissoluzione dell’identità delle due protagoniste. Il
processo di annullamento e disgregazione della personalità dei due soggetti
avviene a partire dalla messa in discussione del ruolo del linguaggio, definito
da Sontag come il dispositivo capace di “gettare un ponte sull’abisso”. La
parola definisce, mette ordine, crea la norma e stabilisce i confini necessari
per significare sia il soggetto che parla, sia l’oggetto di cui si parla.
L’autrice non trascura il contesto in seno al quale avviene la contestazione del
linguaggio negli ambiti del cinema moderno e della letteratura dell’epoca,
citando, fra i tanti, Jean-Luc Godard, Michelangelo Antonioni, Gertrude Stein e
Samuel Beckett.
Con Persona, Bergman si spinge oltre al tema dell’incomunicabilità o del
fallimento della parola e si concentra sul dimostrare “l’assenza di un
linguaggio appropriato, di un linguaggio veramente pieno”. Se Elisabeth ha
deciso scientemente di preferire il mutismo e rinunciare all’oralità, Alma è
impegnata nella verbalizzazione del mondo a fini terapeutici, come atto generoso
e benefico, compiuto per il benessere della sua paziente. Il dramma o la rottura
avviene nel momento in cui il silenzio diviene violento, provocatorio e crudele.
Sontag definisce il mutismo di Elisabeth come strumento di inganno, di
smascheramento e di autorivelazione. Per tutta la durata del film, la narrazione
procede per sottrazione o per “assenze di enunciazione” che, a poco a poco,
minano la fiducia riposta nel linguaggio da parte di Alma, portandola a farsi
carico dell’angoscia di Elisabeth.
Lo scambio di identità fra le due protagoniste avviene attraverso il vuoto che
l’attrice crea in risposta al tentativo dell’infermiera di mostrare il
linguaggio come un dispositivo innocuo. Lo sforzo compiuto da Alma le si ritorce
contro: la verbalizzazione del mondo, priva di alcun tipo di interlocuzione,
rivela l’insensatezza della parola e la sua pericolosa contingenza. In modo
analogo, il silenzio attorno alla condizione palestinese ‒ oppure il rumore
assordante dei discorsi svuotati di contenuto ‒ riflette la stessa impossibilità
di comunicazione autentica. Il linguaggio, anziché fungere da ponte, diventa
strumento di esclusione, rimozione, delegittimazione.
> Con Persona, Bergman si spinge oltre al tema dell’incomunicabilità o del
> fallimento della parola e si concentra sul dimostrare “l’assenza di un
> linguaggio appropriato, di un linguaggio veramente pieno”.
Sontag usa la lente del cinema di Godard per comprendere lo sviluppo del tema
del linguaggio in Bergman. Entrambi sono definiti come “asceti esemplari”,
“grandi eroi culturali” e al contempo “grandi distruttori”, ma il cineasta
francese lo è stato con ancor più scientezza, contribuendo a tracciare il solco
di una tendenza che accomuna le forme d’arte dell’epoca, ovvero quella
all’autoreferenzialità. La produzione di opere meta-artistiche ha lo scopo di
risemantizzare la relazione fra artista e pubblico, di riconfigurare la
sensibilità degli spettatori, e Godard lo ha fatto a partire dalla realtà fuori
dal cinema, dalla contemporaneità e dalla politica, mettendo in scena idee
astratte. Come lui stesso dichiarava, “Noi cineasti, come i romanzieri, siamo
condannati ad analizzare il mondo e la realtà”. Si definiva un saggista o un
romanziere, immerso nel contesto della letteratura moderna, per la quale non è
più d’interesse raccontare la vita delle persone, raccontare una storia, ma
piuttosto scrivere solamente della vita. Rifiutando radicalmente le strutture
formali della narrativa, Godard erige un cinema poetico e concettuale, fatto di
trame intermittenti e grossolane, al contrario di quelle delle opere di Bergman,
che Sontag definisce come “indeterminate”. Ambiva ad abitare la realtà tramite
una struttura filmica che utilizzi il presente come tempo verbale e che stia nel
solco fra la perfezione delle idee, del seducente artificio insito nel logos, e
“l’opacità brutale della condizione umana”.
Il linguaggio filmico adottato dall’autore di Bande à part (1964) è in totale
apertura verso il pensiero astratto e il mondo delle idee; pertanto è
dissociativo, composto da una colonna sonora intermittente, un montaggio rapido
e inquadrature disorientanti. Godard trasgredisce la regola estetica del punto
di vista unitario, annullando la distinzione tra narrazione in prima persona e
in terza persona, “facendo della persona del cineasta l’elemento strutturale
centrale della narrazione cinematografica” e che però non corrisponde “a una
lucida intelligenza autoriale”. In altre parole, l’autore fuori campo è dotato
di una coscienza turbata e più estesa rispetto ai personaggi del film.
Muovendosi nella scena modernista, Godard confonde le prospettive narrative per
favorire un maggiore rigore formale, dall’effetto alienante. Si tratta di un
metodo che consente l’apertura verso la concettualizzazione astratta di ciò che
non può essere espresso attraverso la logica di una narrazione lineare e che
consente di esplorare il cinema, facendo cinema.
> La realtà contemporanea ha ormai superato l’immaginazione più distopica. Il
> linguaggio è probabilmente il primo dispositivo tecnologico sfuggito al
> controllo dell’umanità, incapace di utilizzarlo senza esserne sopraffatto,
> fino ad arrivare alla sua totale dissoluzione.
Ordinando il discorso in soggetto e oggetto, il linguaggio è capace di mediare e
definire. Di fatto, se non esistono definizioni di identità senza la parola,
mettere in discussione la normatività del dispositivo linguistico significa
smascherarne l’artificiosità e dubitare di qualsiasi assolutismo, ma anche della
presunta autenticità dietro alla determinazione di ogni individualità. Il cinema
è il mezzo individuato da Godard per distruggere e demistificare il linguaggio,
proprio perché è “la truffa più bella del mondo”, parafrasando il titolo del
film collettivo di cui il cineasta francese diresse il quinto episodio, Il
profeta falsario (1964). Sulla scia della riflessione proposta da Sontag,
rinunciare a una narrazione sensata e lineare, porre l’attenzione sul
significante e non sul significato, consente di “incorporare il caso” attraverso
l’improvvisazione. Catturare ciò che sfugge alla logica significa stare nella
spontaneità della contingenza. Godard lo ha fatto attraverso l’utilizzo di
auricolari per guidare gli attori, in un dialogo diretto con la macchina da
presa, ma anche conservando suoni extradiegetici o rumori ambientali nelle
tracce audio e arrivando sul set senza una scaletta tecnica o un piano di regia
dettagliato.
La radicalità del gesto godardiano stava nell’aver previsto, già dagli anni
Sessanta, la dissoluzione imminente della parola come veicolo di senso. Il suo
cinema, rinunciando programmaticamente alla linearità narrativa, intuiva una
condizione di spaesamento cognitivo che oggi si è pienamente realizzata:
l’incapacità collettiva di discernere, comunicare e comprendere. In questo
scenario, le immagini non raccontano più, ma si accumulano, svuotate di forza
semantica; le parole si moltiplicano, ma non incidono.
La realtà contemporanea ha ormai superato l’immaginazione più distopica. Il
linguaggio è probabilmente il primo dispositivo tecnologico sfuggito al
controllo dell’umanità, incapace di utilizzarlo senza esserne sopraffatto, fino
ad arrivare alla sua totale dissoluzione, alla quale attualmente si assiste.
Oggi, di autori come Bergman e Godard, Sontag e Pasolini si sente la mancanza;
del logos rimane solo la sua rigida e sadica spietatezza, tale per cui
l’intellighenzia occidentale si è interrogata per quasi due anni sull’utilizzo
appropriato del termine genocidio, scrollando video e immagini del massacro di
un popolo, finanziato con il benestare della sedicente società civile.
L'articolo Oltre la parola proviene da Il Tascabile.
K anzi è morto poche settimane fa a Des Moines, in Iowa, all’età di 44 anni.
Kanzi era appassionato di marshmallow, giocava a Minecraft e sapeva suonare la
tastiera. Era spiritoso, intelligente e curioso, un padre affettuoso e un amico
sincero e divertente. E fin qui nulla di straordinario, se non consideriamo un
particolare fondamentale: Kanzi era un bonobo, ed è stato in grado di creare un
ponte, una mediazione culturale tra la sua specie e la nostra. Kanzi era in
grado di comprendere centinaia di vocaboli della lingua inglese, compresi quelli
astratti come amore o morte, e di rispondere a domande su questi argomenti
sempre in maniera adeguata. Per comunicare con gli umani utilizzava una tastiera
con dei simboli collegati a un computer. Quei simboli vengono chiamati
lessicogrammi e sono stati un’importante innovazione negli studi sulle capacità
comunicative delle scimmie antropomorfe.
Gli aspetti che hanno reso straordinaria la vicenda di Kanzi non sono solo
questi. Il bonobo ha convissuto per tutta la sua vita in cattività, ma non
isolato dai suoi simili, anzi: tutti i centri di ricerca in cui ha vissuto,
compreso l’Ape Initiative in Iowa dove ha concluso la sua esistenza, sono sempre
stati popolati da tanti conspecifici, con cui ha sempre avuto ottimi rapporti e
con i quali non ha mai avuto problemi relazionali.
In certi casi, il suo ruolo era quello di vero e proprio mediatore tra i due
mondi. Ad esempio nel 2006, quando il reporter Paul Raffaele impersonò una haka,
la tradizionale danza di guerra neozelandese, di fronte agli animali del centro,
scatenando una grande agitazione tra le scimmie che lo popolavano. L’unico che
sembrò capire che si trattava di una danza rituale più che di una dichiarazione
di guerra fu proprio Kanzi, che riuscì a calmare i suoi conspecifici. L’eredità
di Kanzi, nonostante alcune capacità di utilizzare questo sistema le avesse
apprese anche la sorella Panbanisha (morta purtroppo nel 2012), è rimasta in
mano ai più giovani membri della sua famiglia, in particolare i nipoti Teco e
Nyota, che però non hanno dimostrato il suo straordinario talento nel
comprendere e interpretare il linguaggio umano.
> Alcuni animali, come le api e i delfini, aiutano gli esseri umani a ottenere
> cibo sapendo che ne trarranno vantaggio. Per farlo hanno codificato un
> linguaggio comprensibile a entrambe le specie.
Per quanto straordinaria possa apparire l’esperienza di Kanzi, esistono altri
esempi di comunicazione tra animali umani e non-umani in cui è stato condiviso
un linguaggio comune.
Collaborazioni tra specie
Da millenni la popolazione degli Yao, in Mozambico, si dedica alla ricerca e
alla raccolta del miele delle api selvatiche. Per trovare il dolce bottino,
però, i raccoglitori si affidano al talento di un insolito aiutante, un
uccellino. L’indicatore golanera (Indicator indicator), infatti, è ben più bravo
dell’uomo nel trovare i nidi degli insetti e nel condurre i suoi accompagnatori
umani fino alla loro ubicazione. Spesso, infatti, gli alveari sono costruiti sui
rami più alti degli alberi e trovarli non è così facile per chi non è in grado
di volare. Gli esseri umani, per contro, sono molto più abili nel recupero del
miele: staccano l’alveare dal ramo su cui è costruito e lo affumicano per far
scappare le api.
E così, seguendo una tradizione che si perpetua ormai da tantissime generazioni,
i cercatori si affidano alle indicazioni del volatile, che dalla collaborazione
potrà ottenere il vantaggio di nutrirsi, grazie a dei potenti enzimi digestivi,
della cera dell’alveare (di scarso interesse per gli umani) una volta che questo
sarà abbandonato dalle sue abitanti. Questo rapporto di collaborazione non è
però esclusivo: anche i tassi del miele sfruttano le indicazioni degli uccellini
per recuperare il prezioso bottino. In biologia, questo tipo di interazione tra
specie viene chiamato mutualismo: entrambe le parti in gioco ottengono un
vantaggio dalla reciproca collaborazione, senza entrare in competizione diretta
per le risorse.
Questa collaborazione tra uomini e uccelli per trovare il miele è comunque
conosciuta da secoli. Tra l’altro, lo stesso sistema di raccolta del miele è
stato osservato in altre popolazioni africane, in Kenya e Tanzania, mentre è
risaputo che i delfini di varie parti del mondo sono in grado di aiutare i
pescatori nella loro ricerca di pesce, ben consci che potranno trarre un
vantaggio da questa collaborazione.
La novità assoluta riguardante questo comportamento è stata presentata in un
articolo pubblicato su Science nel 2016: i cercatori di miele Yao e gli
uccellini, nella riserva nazionale di Niassa in Mozambico, comunicano tra di
loro utilizzando un linguaggio comune. Nello specifico, il richiamo emesso e
interpretato allo stesso modo da uomini e volatili è un particolare tipo di
fischio vagamente tremolante, indicato dai ricercatori come “brrr-hm”. Il
segnale sembra, dati alla mano, una sorta di comando che gli uomini impartiscono
agli uccellini, qualcosa del tipo: “sono qui, dimmi dove si trova l’alveare e al
resto penso io”.
> Le vocalizzazioni degli animali possono aiutarci a comprendere il loro
> comportamento e rappresentano un indicatore immediato degli stati affettivi
> degli individui.
Questi studi sono necessari per non perdere traccia di questo fenomeno, dato che
sempre meno persone si dedicano alla ricerca “assistita” degli alveari. I
segreti di questa antica pratica e della parlata comune di uomini e uccelli
rischiano di andare perduti per sempre.
Comunicare le emozioni
Probabilmente, per chi tiene un animale domestico in casa, queste scoperte non
sembreranno così rivoluzionarie: ogni mattina qualcuno fa un fischio al proprio
cane e questo viene dal padrone, oppure comprende comunicazioni anche più
complesse senza problemi. Nello specifico caso degli Yao e degli indicatori
golanera, però, la novità consiste nel fatto che il richiamo emesso è lo stesso
per uomini e uccelli e che, soprattutto, questi ultimi sono animali selvatici.
La stessa lingua viene quindi parlata sia dagli esseri umani, sia da animali non
umani e non addomesticati. Ci sono tantissimi esempi di comunicazione
uomo-animale, che spaziano dai segnali non verbali fino alle vocalizzazioni vere
e proprie, anche se con modi e forme molto diverse a seconda di chi parla e di
chi ascolta.
Ma, più in generale, le vocalizzazioni degli animali possono aiutarci a
comprendere al meglio il loro comportamento. Possono variare in base al contesto
in cui vengono emesse e rappresentano un indicatore immediato degli stati
affettivi degli individui. E, se l’espressione vocale delle emozioni si è
mantenuta nel corso dell’evoluzione, allora dovrebbe essere possibile
confrontare direttamente diverse specie utilizzando lo stesso insieme di
indicatori acustici.
> Esistono algoritmi capaci di associare significati emotivi ai versi emessi
> dagli animali. Un approccio nuovo che potrebbe aiutare nel monitoraggio del
> benessere animale.
In uno studio recente, un gruppo di ricercatori ha applicato un algoritmo di
apprendimento automatico, chiamato XGBoost (eXtreme Gradient Boosting), per
distinguere tra richiami di contatto associati a emozioni positive (piacevoli) e
negative (spiacevoli), prodotti in vari contesti da sette specie di ungulati. Il
modello utilizzato dagli scienziati si basa su una serie di variabili, tra cui
la durata e l’energia dei suoni emessi, la frequenza fondamentale del suono e la
sua modulazione. Il modello ha dimostrato una grande precisione: l’algoritmo è
riuscito nel 90% circa dei casi a identificare il significato emotivo dei versi
emessi dagli animali. Un sistema automatico basato su questo algoritmo potrebbe
avere importanti applicazioni nel monitoraggio del benessere animale: si
potrebbero migliorare con rapidità e precisione le pratiche di gestione e cura
nelle strutture che ospitano animali. Ma uno studio del genere potrebbe
applicarsi anche agli esseri umani, per capire le origini emozionali del
linguaggio umano.
La ricerca delle emozioni umane
L’ultimo abbraccio (2020) del primatologo olandese Frans de Waal è un saggio
dedicato all’esplorazione delle emozioni degli animali non umani. L’autore,
recentemente scomparso, è stato per decenni uno dei punti di riferimento nel
mondo dell’etologia moderna e nello studio dell’esplorazione cognitiva degli
animali più simili a noi, le scimmie antropomorfe. Il titolo prende spunto da un
episodio commovente, l’abbraccio tra un’anziana scimpanzé di nome Mama e il
biologo olandese Jan van Hooff. I due erano legati da una profonda amicizia, e
quando van Hooff venne a trovare Mama, ormai vicina alla morte, questa mostrò un
grande sorriso al suo vecchio amico, a cui seguì un affettuoso abbraccio. Un
segnale chiaro, forte, forse incontrovertibile delle emozioni che l’anziana
scimmia stava provando in quegli attimi. L’obiettivo del libro è facilmente
intuibile: de Waal, forte di una lunghissima esperienza a stretto contatto con
questi primati, cerca di far capire al lettore come tanti animali non umani
siano in grado di provare le nostre stesse emozioni.
Ma de Waal, tra le pagine de L’ultimo abbraccio mostra come l’argomento sia
complesso e non liquidabile in poche righe: per l’etologo olandese non esiste
una netta separazione tra l’uomo e gli altri animali nel loro provare ed
esprimere emozioni. Al contrario, l’autore sostiene che esista una graduale
evoluzione in questi comportamenti e nell’esistenza degli stati d’animo
associati. Nondimeno, non bisogna neppure dare per scontato che gli animali
provino emozioni: bisogna osservare, studiare, approfondire, isolare i
comportamenti per comprenderli appieno.
> L’empatia e l’altruismo, sentimenti che per molti potrebbero apparire
> esclusivi dell’essere umano, sembrano invece interessare molte altre specie.
Per questi motivi, l’esplorazione di de Waal non si ferma agli scimpanzé,
animali in fondo molto vicini a noi in termini di distanza evolutiva e a cui
attribuire emozioni simili alle nostre potrebbe risultare fin troppo facile, ma
elenca una lunga serie di esperimenti e osservazioni, sia in natura sia in
cattività, che sembrano rivelare una sensibilità complessa anche in animali
molto diversi. L’empatia e l’altruismo, sentimenti che per molti potrebbero
apparire come esclusivi dell’essere umano, sembrano invece interessare molte
altre specie. Ad esempio alcuni topi che, vedendo loro conspecifici intrappolati
dentro strette gabbie di plexiglass, sembrano percepire il loro disagio e non
esitano a liberarli, pur non ottenendo nulla in cambio. O anche cetacei come
delfini e orche, che proteggono e aiutano a restare a galla loro conspecifici in
difficoltà, evitando loro l’annegamento. Altre emozioni meno studiate, come ad
esempio il disgusto, sembrano ripresentarsi in molte specie di animali.
Comprendere le iniquità
Anche il senso di giustizia e ingiustizia sembra appartenere a specie non umane,
e de Waal non dimentica di citare un esperimento, condotto insieme alla sua
collega Sarah Brosnan, che gli ha donato notorietà presso il grande pubblico
tramite una conferenza TED di alcuni anni fa: a un gruppo di cebi dai cornetti
(Sapajus apella), piccole scimmie del Nuovo mondo, venne insegnato come compiere
semplici azioni in cambio di premi, come ad esempio restituire una pietra
all’istruttore in cambio di un po’ di cibo, solitamente una fetta di cetriolo. I
compiti assegnati venivano realizzati con solerzia e le scimmie sembravano
pienamente soddisfatte. Quando però a due cebi, messi fianco a fianco in gabbie
trasparenti in cui potevano vedere il loro vicino, venivano date ricompense
diverse, allora le cose improvvisamente cambiavano. Se infatti, per aver
realizzato lo stesso compito, a una scimmia veniva dato un cetriolo, mentre
all’altra un ben più apprezzato acino d’uva, la prima si arrabbiava, protestava,
persino lanciava all’addestratore la fetta di cetriolo, per denunciare il
trattamento iniquo.
> Se molti animali gioiscono, piangono, dimostrano empatia e tante altre
> emozioni un tempo associate solo alla specie umana, in che modo tutto questo
> potrebbe influire nei nostri rapporti con loro?
Le sorprese, però, non sembrano fermarsi qui, perché de Waal racconta di come in
esperimenti simili si sia osservato un comportamento ancora più inaspettato:
alcune scimmie che ricevevano il premio migliore, infatti, lo rifiutavano per
solidarietà nei confronti dei colleghi svantaggiati. Con ogni probabilità,
rientrava in gioco l’emozione su cui lo scienziato olandese ha concentrato
un’importante fetta delle sue ricerche: l’empatia. Ma gli studi sulle emozioni
animali si sono sviluppati e diffusi per merito di tanti altri scienziati, che
in certi casi hanno dato risultati ancora più sorprendenti. È il caso del
documentario del 1999 Why Dogs Smile and Chimpanzees Cry (“Perché i cani
sorridono e gli scimpanzé piangono”), in cui il neuroscienziato statunitense
Jaak Panksepp, esperto negli studi sulle emozioni negli animali, commenta una
ricerca sulla gioia nei topi: fare il solletico a topi addomesticati induceva la
produzione di vocalizzazioni ultrasoniche ad alta frequenza (50 Hz), che
potevano essere correlate a ciò che noi consideriamo una risata. Sembra inoltre
che i topi, una volta abituati al gioco, cerchino spontaneamente le mani umane
per godere del loro solletico.
L’eredità di Kanzi
E qui si delinea chiaro il dilemma: se, come sembrano dimostrare questi
esperimenti, tantissimi animali gioiscono, piangono, si commuovono, dimostrano
empatia e tante altre emozioni un tempo associate solo alla specie umana, in che
modo tutto questo potrebbe influire nei nostri rapporti con loro? In che modo
potremmo utilizzare le scoperte sul loro linguaggio per migliorare le loro
condizioni di vita? Non sono domande da prendere con leggerezza. Il mondo in cui
viviamo è stato plasmato in gran parte dal nostro rapporto con gli altri
animali. La crisi della biodiversità in corso è legata all’enorme successo
dell’essere umano sul pianeta, e comprendere meglio la socialità degli animali
sarebbe sicuramente il primo passo per trovare modo di proteggerli.
L’eredità che ci può lasciare Kanzi è una accresciuta presa di coscienza del
mondo delle emozioni non umane, una prospettiva che ci aiuta a includere
tantissime specie – alcune del tutto inaspettate – nel grande serraglio di
esseri viventi che ridono, piangono, si oppongono all’ingiustizia e ridono
quando gli si fa il solletico. Ma la nostra attenzione non dovrebbe concentrarsi
solo sugli animali selvatici: oggi, la biomassa totale degli animali
d’allevamento è ben superiore a quella della specie stessa che li alleva: la
terra è popolata da oltre un miliardo e mezzo di bovini di allevamento, un
miliardo di maiali e alcune decine di miliardi di polli. Il problema etico che
si porrebbe nel confrontarci con questi animali – oggi esistenti unicamente in
funzione dei bisogni umani – sapendo che provano emozioni simili alle nostre,
sarebbe ancora più grave di quello che già affrontiamo e che ci sarà sempre meno
possibile evitare di affrontare.
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