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Animali in guerra
U n rivolo di sangue sgorga dal muso di una capra. È distesa su un fianco, sul terreno umido a tratti tappezzato di muschio e ricoperto da una pioggia di frammenti di legno, metallo e vetro. Un occhio aperto, lo sguardo nel vuoto, la pelliccia sporca e la pelle squarciata. Poco più lontano è visibile un altro esemplare, perso tra i detriti, anche lui privo di vita. Intorno a loro c’è neve e distruzione: finestre rotte, tetti divelti da cui spuntano murature decorate e totem colorati. Il Feldman Ecopark, uno zoo alla periferia di Charkiv, in Ucraina, il 2 marzo 2025 è stato colpito durante l’attacco russo di droni Shahed, armi kamikaze a lungo raggio. I due ungulati uccisi, tra cui una femmina gravida, erano stati precedentemente salvati da una zona di combattimento e portati nel parco, con la speranza che potessero sopravvivere. Gli animali sono spesso considerati vittime di serie B della guerra, che la società ci insegna a far passare in secondo piano rispetto al dramma umano, sebbene sopportino una violenza dirompente, spaventosa e per loro incomprensibile. I conflitti armati possono esasperare l’ambiguità che caratterizza il nostro rapporto con gli altri animali. Sono una lente impietosa sugli abissi della nostra morale. Il massacro di Londra e i gatti di Gaza Dai primi mesi del conflitto russo-ucraino, i media hanno diffuso immagini di profughi costretti ad abbandonare casa e affetti. Alcuni sono accompagnati dagli animali con cui, fino a quel momento, avevano condiviso la propria vita, allo stesso tempo simbolo e incarnazione di una dimensione familiare. Quelle mostrate nei telegiornali e sulle piattaforme social sono rappresentazioni accoglienti, che suscitano empatia e fanno quasi dimenticare il prezzo da sempre pagato dagli animali da compagnia in zone di guerra, che invece, spesso, sono considerati oggetti da sacrificare o legami da rompere per disumanizzare il nemico. > Gli animali sono spesso considerati vittime di serie B della guerra, che la > società ci insegna a far passare in secondo piano rispetto al dramma umano, > sebbene sopportino una violenza dirompente, spaventosa e per loro > incomprensibile. Era il 3 settembre 1939 quando la BBC annunciò che la Gran Bretagna aveva dichiarato guerra alla Germania. Siamo agli albori della Seconda guerra mondiale. Alla cittadinanza venne chiesto di prepararsi ai raid aerei e una precauzione su tutte probabilmente raggelò il sangue degli inglesi: il governo li sollecitò a portare i propri animali domestici nelle campagne e, nel caso non ci fossero stati vicini disponibili a occuparsi di loro, a sopprimerli con l’aiuto di un veterinario. Senza curarsi dell’opposizione di alcuni gruppi di protezione animale, circa 400.000 tra gatti, cani, uccelli e conigli vennero eliminati, come racconta la storica Hilda Kean nel suo libro The Great Cat and Dog Massacre (2017). Ci fu chi obbedì forse con pochi scrupoli, chi soppresse i propri compagni non umani per risparmiare loro la sofferenza dei bombardamenti, chi li graziò e, in qualche modo, ne riconobbe l’individualità e una forma di agentività, condividendo con loro il cibo, gli spazi, la paura e il dolore. Quest’ultimo caso ci porta a Gaza, ai giorni nostri. Le immagini che ci sono giunte mostrano gatti feriti e traumatizzati dallo scoppio delle bombe, dalla perdita di un rifugio, dalla fame e dalla sete, ma anche salvati da medici e veterinari, aiutati e accolti dai palestinesi o, ancora, con le loro famiglie umane mentre vivono insieme piccoli momenti di spensieratezza. Neha Vora, docente di antropologia nel Dipartimento di Studi internazionali dell’American University of Sharjah negli Emirati Arabi Uniti ha commentato così queste storie: > Quello che i gatti di Gaza ci insegnano è che il trauma della Palestina è un > trauma multispecie. Non ci insegnano che anche i palestinesi sono umani, > poiché questa è un’affermazione che continua a definire l’umano contro > qualcosa che non è, qualcosa che sarà sempre escluso, abietto e quindi > eliminabile. Credo che i palestinesi e i loro gatti siano così coinvolgenti > per molti di noi perché sfidano le visioni liberali dell’umanità e le > smascherano come modi coloniali di definire il mondo, la soggettività e le > fantasie di libertà. L’“Umanità” non ci condurrà mai a una giustizia e pace > universali. Umanità. È una parola che apparentemente si collega allo stesso universo semantico della compassione e della pietà, ma che in realtà si nutre di una visione gerarchica del mondo naturale, in cui l’animale è inferiore, e animale diventa o deve diventare chiunque incarni il nemico da combattere. Una prospettiva che, in parte e non a caso, ritroviamo nella struttura e nella gestione degli zoo, in cui le sbarre o altre barriere separano gli esseri umani dalle altre specie esposte e nei quali siamo sempre noi a poter decidere delle loro esistenze secondo le nostre necessità Un’ingannevole arca di Noè Nel volume World War Zoos. Humans and Other Animals in the Deadliest Conflict of the Modern Age (2025), lo storico John M. Kinder ricostruisce la vita degli zoo dal periodo della Grande depressione alla Seconda guerra mondiale, fino ai primi anni della guerra fredda. Kinder illustra come la visione gerarchica degli esseri viventi, e in particolare la disumanizzazione di determinati gruppi, fosse un aspetto centrale dell’ideologia nazista, evidente nel modo in cui venivano trattati sia gli esseri umani sia gli animali. > Le metafore legate agli animali sono servite e servono ancora oggi a > giustificare i delitti commessi e a comprendere e articolare azioni aberranti. Un esempio emblematico è quello del campo di concentramento di Buchenwald e del suo giardino zoologico. Il progetto, sostenuto sin dall’inizio da Karl-Otto Koch, a capo del campo dal 1937 al 1941, era pensato come luogo ricreativo ed edificante per le SS e le loro famiglie e come una fonte di umiliazione e tormento per i prigionieri. Lo zoo serviva, infatti, a ricordare loro la presunta inferiorità rispetto agli animali in gabbia: gli umani reclusi erano spogliati della dignità, resi sacrificabili per qualsiasi contingenza e costretti persino a finanziare la struttura con “contributi volontari”. Gli animali di Buchenwald ricevevano un’alimentazione migliore dei prigionieri, tanto che molti di loro cercavano di lavorare nello zoo per ottenere una razione extra. Kinder spiega: > Il legame retorico tra animali ed Ebrei, l’obiettivo principale della > Soluzione finale di Hitler, giocò un ruolo importante nel legittimare > l’Olocausto agli occhi dei suoi esecutori. Esisteva una lunga storia di > equiparazione degli Ebrei ad animali (maiali, cani) e a malattie, amplificata > dai propagandisti nazisti. Le metafore legate agli animali sono servite e servono ancora oggi a giustificare i delitti commessi e a comprendere e articolare azioni aberranti. Per descrivere l’uccisione da parte di privati cittadini di civili indifesi nell’assedio di Sarajevo, durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina degli anni Novanta, si usano termini come “attività venatoria”, “cacciatori”, “prede” e “safari”. Le notizie parlano di gruppi di cecchini/cacciatori che spendevano cifre nell’ordine di grandezza di decine di migliaia di euro per sparare a persone indifese, trasformate in target classificati in base a un tariffario, esattamente come accade nei safari di caccia in Africa. Se nel vecchio continente gli obiettivi più costosi sono specie iconiche e minacciate dall’estinzione, come leoni, elefanti e rinoceronti, nei Balcani sembra che bambine e bambini fossero in cima al listino. Non più vite, solo trofei da collezionare. Allo stesso modo, come evidenziato da Kinder nel suo libro, durante il secondo conflitto mondiale e anche in seguito, gli zoo offrirono alle persone metafore per aiutarle a comprendere le esperienze di prigionia, impotenza e degradazione. In quegli anni le gabbie divennero teatro di orrore, dolore e ideologia. I destini di gran parte degli esemplari rinchiusi negli zoo furono impietosi. Alcuni riuscirono a esser trasferiti in luoghi più protetti, mentre molte delle specie più pericolose, quelle carnivore o velenose, furono uccise per evitare che costituissero un’ulteriore minaccia in caso di fuga dopo un bombardamento. La stessa sorte toccò agli animali più costosi da mantenere, tra cui quelli marini. Molti altri rimasero intrappolati, senza la possibilità di mettersi in salvo: morirono di fame e di sete tra atroci sofferenze, subirono le esplosioni riportando ferite, orribili mutilazioni e danni psicologici irreparabili o divennero oggetto di saccheggio e di improvvisate battute di caccia. Accadde proprio questo nel 1939, durante l’invasione della Polonia da parte dell’esercito nazista. Il direttore dello zoo di Berlino, Lutz Heck, dopo aver messo da parte gli esemplari più pregiati dello zoo di Varsavia, permise ad alcune SS di usare gli animali ancora in gabbia come bersagli per la notte di Capodanno. > Un tempo i giardini zoologici erano perlopiù luoghi di intrattenimento, e una > dimostrazione del potere degli Stati sulle proprie colonie, da cui alcuni > esemplari provenivano. Oggi gli obiettivi dichiarati sono l’educazione, la > ricerca e la conservazione. Ancora oggi gli animali degli zoo sono costretti a spostarsi sotto i bombardamenti, le loro vite vengono distrutte dalle esplosioni, dalla fame e dalla sete, o diventano cibo per soldati. Nella prima parte del Ventesimo secolo, i giardini zoologici erano per lo più luoghi di intrattenimento e una dimostrazione del potere degli Stati sulle proprie colonie, da cui alcuni esemplari provenivano. Attualmente i tre principali obiettivi di queste istituzioni sono l’educazione, la ricerca e la conservazione. Quest’ultimo scopo prevede la tutela di specie a rischio di estinzione attraverso progetti in situ, in cui gli esemplari sono protetti nei loro habitat, e attività ex situ, che prevedono la detenzione di individui in cattività per il mantenimento di popolazioni di animali che potrebbero scomparire in natura. Gli zoo sono, quindi, una sorta di arca di Noè la cui efficacia, secondo Kinder, è dubbia, soprattutto in tempi di guerra: > Se gli zoo vogliono sopravvivere ai conflitti di questo secolo, devono > abbandonare la metafora dell’arca. Di fronte alla minaccia di catastrofiche > perturbazioni climatiche, il mondo non ha bisogno di una flotta di scialuppe > di salvataggio progettate per aiutare specie selezionate ad attraversare > quaranta giorni e quaranta notti metaforiche di tumulto. Piuttosto, abbiamo > bisogno di una strategia per sopravvivere a un clima alterato a tempo > indefinito. Come minimo, dobbiamo porci domande difficili sul fatto che i > vantaggi degli zoo superino i loro evidenti svantaggi, incluso il disagio > fisico e mentale sopportato dalle specie in cattività. La promessa di salvezza degli zoo sembra ancora più debole nelle zone di conflitto, dove ai danni apportati a queste strutture e ai loro occupanti si sommano ingenti disastri ambientali. I pericoli per la fauna selvatica e il reato di ecocidio Le lotte armate hanno spesso luogo in ecosistemi fragili e hotspot di biodiversità, producendo conseguenze devastanti su molte specie di animali selvatici. Nella Repubblica Democratica del Congo, anni di guerra hanno ridotto significativamente la popolazione di ippopotami: dai circa 30.000 esemplari, presenti nel 1974, si è passati a meno di 1000 verso la fine della guerra civile congolese, nel 2005. Gli esemplari sono poi aumentati fino a 2500 nel 2018, per poi essere nuovamente minacciati dai gruppi di ribelli, che hanno iniziato a cacciarli di frodo per venderne la carne e finanziare le loro attività. A oggi la popolazione di questi mammiferi si attesta intorno ai 1200 esemplari, sui quali incombono nuovi pericoli, come l’avvelenamento da antrace. In Mozambico la guerra civile, combattuta tra il 1977 e il 1992, ha portato all’uccisione di circa il 90% degli elefanti, le cui zanne in avorio erano vendute per sovvenzionare i combattenti. La caccia intensa avrebbe addirittura favorito la mutazione genetica associata alla mancata formazione delle zanne nelle femmine. In Iraq, nel 2016, l’ISIL (Islamic State in Iraq and the Levant) ha attaccato una raffineria di petrolio. Poco meno di venti pozzi esplosi hanno causato l’innalzamento di una nube tossica e una massiccia fuoriuscita di petrolio. Il risultato è stato la contaminazione di suolo e acque, un ostacolo concreto alla sopravvivenza della vicina cittadina di Qayarrah e un gravissimo danno per la fauna della regione. Le invasioni militari possono persino portare all’introduzione volontaria o accidentale di specie aliene, in grado di esercitare impatti negativi sugli ecosistemi delle aree conquistate e sui loro abitanti. Oggi sappiamo bene quanto queste azioni possano produrre danni irreparabili all’ambiente, con un effetto domino che potrebbe estendersi globalmente, eppure non abbiamo a disposizione strumenti abbastanza efficaci per arginarli. Lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, nell’articolo 8 (2)(b)(iv) sui crimini di guerra, prevede che sia considerato reato lanciare attacchi deliberati nella consapevolezza di produrre “danni diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale che siano manifestamente eccessivi rispetto all’insieme dei concreti e diretti vantaggi militari previsti”. Una norma eccessivamente generica, una lacuna giuridica che si sta cercando di colmare da decenni spingendo per il riconoscimento del reato di ecocidio. > Oggi sappiamo quanto le guerre possano produrre danni irreparabili > all’ambiente, con effetti di portata globale, eppure non abbiamo a > disposizione strumenti efficaci per arginarli. Il riconoscimento del reato di > ecocidio è un passo importante in questa direzione. Il termine è stato utilizzato per la prima volta dal biologo Arthur Galston, negli anni Settanta, per descrivere la deforestazione su larga scala causata dall’uso dell’Agent Orange da parte degli Stati Uniti d’America durante la guerra del Vietnam. Negli anni Duemila il concetto è stato riproposto dall’avvocata Polly Higgins e infine, nel 2021, è stata presentata una definizione legale alla Corte penale internazionale, per cui “‘ecocidio’ significa atti illegali o arbitrari commessi nella consapevolezza di una sostanziale probabilità di causare un danno grave e diffuso o duraturo all’ambiente con tali atti”. Sono crimini non riconosciuti che continuano a essere perpetrati senza la certezza di un processo e di un’eventuale condanna dei colpevoli: alcuni esempi recenti sono la distruzione della copertura arborea e dei terreni agricoli di Gaza, con fattorie e uliveti abbattuti, suolo, falde acquifere, mare e aria inquinati, e l’impatto sugli ecosistemi e la biodiversità del conflitto in Ucraina. Gli animali non umani sembrano quasi invisibili in questi scenari, sebbene la loro esistenza presente e futura venga cancellata attraverso le uccisioni e la distruzione degli habitat in cui prosperano. Violenze necessarie: al punto di dissoluzione del Diritto internazionale umanitario Non sono solo gli animali da compagnia, quelli degli zoo e la fauna selvatica a subire gli effetti degli scontri. Gli animali allevati vengono macellati, rubati, bombardati o lasciati morire di fame. Esistono specie utilizzate direttamente nei conflitti come mezzi di trasporto, tra i quali ci sono i cavalli, gli asini, i muli, gli elefanti e i cammelli, mammiferi addestrati a rilevare esplosivi, quali elefanti, cani e ratti, oppure cetacei preparati per cercare sottomarini e lasciati esplodere per distruggerli, tra cui i delfini. Come illustra l’articolo “Animals in War: At the Vanishing Point of International Humanitarian Law”, pubblicato nel 2022 nell’International Review of the Red Cross, malgrado la loro vulnerabilità nelle situazioni appena descritte, gli animali sono ancora ampiamente ignorati dal Diritto internazionale umanitario (DIU), che rimane prevalentemente antropocentrico. Essi non godono di uno status legale esplicito, non ne viene riconosciuta la senzienza, né sono concessi loro diritti, nonostante ci siano alcuni Paesi i cui ordinamenti giuridici hanno cominciato a considerare la soggettività e la capacità di provare dolore di questi esseri viventi. Anne Peters e Jérôme de Hemptinne, autori della pubblicazione, suggeriscono due strategie principali per affrontare la mancanza di una specifica protezione nel diritto internazionale umanitario. La prima consisterebbe nell’applicare in modo più efficace le norme già esistenti, ampliandone l’interpretazione per includere gli animali nelle categorie protette previste: potrebbero essere assimilati a combattenti o prigionieri di guerra, a civili, oppure a oggetti. Tale approccio prevederebbe la rilettura delle disposizioni relative alla difesa dell’ambiente, del patrimonio culturale e delle aree protette, riconoscendo che gli animali sono esseri viventi capaci di provare sofferenza e grave disagio (distress). La seconda strategia contempla l’adozione di un nuovo strumento internazionale volto a riconoscere specifici diritti agli animali, in particolare il divieto di utilizzarli come armi. Si tratta di una prospettiva di lungo periodo, ancora lontana, poiché richiederebbe a molti Stati di superare profonde barriere concettuali riguardanti la personalità giuridica degli animali non umani e di accettare eventuali limitazioni nella conduzione dei conflitti armati per proteggerli. Il tutto in un contesto in cui i precedenti tentativi di varare una convenzione internazionale sul benessere animale non hanno finora riscontrato grande successo. > Malgrado la loro estrema vulnerabilità nei teatri di guerra, gli animali sono > ancora ampiamente ignorati dal Diritto internazionale umanitario (DIU), che > rimane prevalentemente antropocentrico. Però, come il giurista inglese Hersch Lauterpacht ha scritto in passato, il DIU è “al punto di dissoluzione del diritto internazionale” e gli autori del paper sostengono che in questo sia simile al diritto animale, con i debiti cambiamenti, e che la loro intersezione, seppure foriera di estreme difficoltà, non dovrebbe fermarci dal voler perseguire un’“utopia realistica” per gli animali a livello mondiale. È possibile partire dall’attuale situazione internazionale per poi cercare di ampliare quelli che sono considerati i limiti della praticabilità politica. Il DIU e il diritto legato al benessere animale sono entrambi corpi normativi che non vietano la violenza, ma concedono lo spazio a una violenza ritenuta “necessaria”, di fatto legittimandola. Sebbene, come sottolinea l’articolo, questa somiglianza dovrebbe facilitare l’estensione del campo di applicazione del DIU agli animali non umani, certamente fa emergere quella ambiguità che, anche in condizioni di pace, esiste nei trattamenti che riserviamo loro. La percepiamo quando accettiamo le condizioni in cui versano negli allevamenti intensivi oppure  la cattività e la scelta di sopprimere alcuni esemplari negli zoo per calcolo economico, perché spazio e risorse delle strutture sono limitate, o per esigenze di conservazione, al fine di mantenere l’equilibrio tra maschi e femmine di una specie o prevenire il rischio di consanguineità. O ancora, quando acconsentiamo alla sperimentazione animale. > I conflitti armati rendono ancora più tangibile l’ambiguità che caratterizza > il nostro rapporto con gli altri animali, anche e soprattutto in tempo di > pace. Il confine tra amore, rispetto per la vita degli animali non umani, violenza e sopravvivenza può farsi eccezionalmente labile. Lo spiega Kinder, sempre attingendo dall’esperienza del campo di concentramento di Buchenwald, quando parla del poema satirico Eine Bären-Jagd im KZ Buchenwald (in italiano Una caccia all’orso nel campo di concentramento di Buchenwald), scritto e illustrato dal sopravvissuto al campo Kurt Dittmar nel 1946. L’opera ripercorre la breve vita di Betti, un’orsa allevata nello zoo del campo, dall’arrivo come cucciolo alla morte per mano di un comandante. L’orsa è inizialmente servita e riverita dai detenuti per ordine delle SS, si nutre di buon cibo, gode di spazio all’interno della sua gabbia ed è per questo oggetto di invidia da parte dei prigionieri. Con il trascorrere del tempo la milizia nazista aggiunge alla collezione dello zoo altri animali e Betti, stanca della nuova compagnia, abbatte il recinto elettrico e fugge nella foresta. I detenuti tentano invano di catturarla, finché il vicecomandante non la uccide e ne riporta indietro il corpo come un trofeo. L’illustrazione di Dittmar raffigura alcuni prigionieri sconvolti davanti alla carcassa dell’orsa, consapevoli di condividere il suo destino di preda braccata. Costretti ad arrostirne le carni per la festa delle guardie, non ne assaggiano neanche un boccone, ma continuano a sognare: la libertà, il cibo e la giustizia contro i loro aguzzini. Nonostante sia ispirato a eventi reali, il poema non è un resoconto storico, ma conserva in sé una realtà difficile da accettare. Scrive l’autore di World War Zoos: > Ciò che otteniamo invece è qualcosa di più interessante: una riflessione sul > potere e sui limiti dell’empatia. Nel racconto di Dittmar, i prigionieri umani > di Buchenwald riconoscono che la vita di Betti è sempre appesa a un filo, che > lei è preziosa fino al momento in cui le SS decidono diversamente. Pure lei è > una prigioniera, anche se ha pasti migliori e una gabbia più bella. Ma questo > non significa che non proveranno a rubarle il cibo o a rosicchiare le sue ossa > spolpate. Nella Buchenwald di Dittmar, i prigionieri possono sia piangere per > l’uccisione di Betti sia sbavare affamati sul suo cadavere sfrigolante. L'articolo Animali in guerra proviene da Il Tascabile.
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N el suo dialogo intitolato Fedro, attraverso il mito di Theuth e la figura di Socrate, Platone esprime la sua celebre critica della scrittura. Per il filosofo greco, la scrittura è un pharmakon, rimedio e veleno al tempo stesso. La scrittura appare immobile, incapace di adattarsi all’interlocutore come invece fa il dialogo vivo; priva di autonomia, perché non sa difendere da sé le proprie tesi; inadeguata ad accrescere la sapienza, poiché offre informazioni senza generare la memoria e la saggezza che nascono dall’interazione dialettica. È, infine, un “gioco bellissimo” ma assai distante dalla serietà del processo dialettico orale che conduce alla conoscenza. Ciononostante, pur non essendo “vera” filosofia, per Platone la scrittura è uno strumento a essa necessario, così com’è necessaria per la cosiddetta hypomnesis, ovvero la capacità richiamare alla mente un’informazione. Se per il filosofo greco la scrittura rappresentava un ausilio esterno alla memoria, oggi la psicologia cognitiva e le neuroscienze hanno ampliato quella intuizione con il concetto di cognitive offloading. Con questa espressione si indicano tutte le pratiche attraverso cui gli individui delegano a un supporto esterno parte dei propri processi cognitivi, come ad esempio la funzione di ricordare informazioni, trasformando strumenti e tecnologie in estensioni delle proprie capacità mnemoniche. Tra queste si annoverano gesti quotidiani come segnare una lista della spesa, annotare un compleanno su un calendario o ricorrere al proverbiale nodo al fazzoletto. > Per Platone la scrittura è pharmakon, rimedio e veleno al tempo stesso: pur > non essendo “vera” filosofia è uno strumento che le è necessario, così com’è > necessaria per la capacità di richiamare alla mente un’informazione. Negli ultimi dieci anni, allo studio dello “scarico” cognitivo hanno dato un forte impulso la comparsa e la diffusione della rete, e delle tecnologie digitali. I dispositivi connessi, infatti, moltiplicano all’infinito le possibilità di delega della funzione cognitiva del ricordo, ma le loro pervasività e facilità di utilizzo rischiano di sbilanciare l’equilibrio di benefici e costi di queste pratiche a favore dei secondi. I dispositivi connessi ‒ se ne erano già accorti i fondatori del cyberpunk, il cui lavoro è stato fondamentale per cristallizzare nella nostra cultura l’immaginario del digitale ‒ funzionano come una vera e propria protesi della nostra mente, che ne esternalizza una o più funzioni cognitive, tra cui, appunto, la memoria. In un paper intitolato The benefits and potential costs of cognitive offloading for retrospective information, Lauren L. Richmond e Ryan G. Taylor si dedicano a ricostruire una panoramica di alcuni degli studi e degli esperimenti più significativi nell’ambito del cognitive offloading. Alla base di questo corpus teorico e sperimentale c’è il fatto che, per compiere un ampio numero di azioni quotidiane, le persone si affidano a due tipi di memoria: quella retrospettiva, ovvero la capacità di ricordare informazioni dal passato, e quella propositiva, ossia la capacità di ricordare azioni da compiere nel futuro. Per portare a termine compiti che comportano l’uso di tutti e due i tipi di memoria, possiamo contare sulla nostra capacità di ricordare o delegare questa funzione a un supporto esterno. Questo spiega il motivo per cui la maggior parte delle persone intervistate nei contesti di ricerca esaminati da Richmond e Taylor dichiara di usare tecniche di cognitive offloading per compensare peggioramenti nelle proprie performance mnemotecniche. Io stesso, che mi sono vantato a lungo di avere una memoria di ferro, sono stato costretto, passati i quaranta e diventato genitore per due volte, a dover ricorrere a promemoria, note e appunti per riuscire a ricordare impegni e scadenze. > Con l’espressione cognitive offloading si indicano le pratiche attraverso cui > gli individui delegano a un supporto esterno la funzione di ricordare > informazioni, trasformando strumenti e tecnologie in estensioni delle proprie > capacità mnemoniche. Età e capacità mnemoniche sono infatti due fattori collegati alla necessità di eseguire azioni di scarico cognitivo. Superata l’adolescenza, a mano a mano che ci si inoltra nella vita adulta si è costretti a ricordare un numero di cose più elevato, compito per cui il cognitive offloading offre indubbi benefici. Uno dei più evidenti risiede nel fatto che, a differenza di altre mnemotecniche più specifiche, non ha bisogno di una formazione mirata. Per un adulto con una percezione del tempo funzionale, usare un’agenda fisica o virtuale è un gesto intuitivo e immediato, che non richiede ulteriore carico cognitivo. La facilità d’uso non è l’unico vantaggio. Alcuni degli studi passati in rassegna nello studio mostrano come l’offloading cognitivo generi benefici per entrambi i tipi di memoria. Ad esempio, esso permette non soltanto di ricordare informazioni archiviate in precedenza, ma riesce anche ad attivare il ricordo di informazioni non archiviate tramite meccanismi di associazione mentale: una persona che ha segnato sulla propria lista della spesa di acquistare un barattolo di alici ha più probabilità di ricordarsi di acquistare il burro rispetto a una persona che non lo ha fatto, anche se il burro non è presente nella lista. Per quanto banali, questi esempi mostrano quanto le pratiche di offloading cognitivo siano d’ausilio alla memoria. Tali benefici, tuttavia, non sono gratuiti ma comportano una serie di costi.  Alcuni studi hanno evidenziato più difficoltà a ricordare le informazioni “scaricate” quando, in modo improvviso e inaspettato, viene negato loro accesso alle informazioni archiviate. Se invece il soggetto è consapevole del fatto che l’accesso può esser negato, le performance mnemoniche si dimostrano più efficaci. Un altro costo è la possibilità di favorire la formazione di falsi ricordi. Altri test condotti in laboratorio mostrano come quando le persone sono forzate a pratiche di scarico cognitivo, risultano meno capaci di individuare elementi estranei, aggiunti all’archivio delle informazioni a loro insaputa. > Le pratiche di offloading cognitivo possono essere d’ausilio alla memoria. > Tali benefici, tuttavia, comportano una serie di costi, ad esempio una maggior > difficoltà a reperire informazioni quando viene improvvisamente a mancare > l’accesso all’archivio esterno. Perciò, così come la scrittura per Platone aveva natura “farmacologica”, e offriva al tempo stesso rimedio e veleno per la memoria, anche le pratiche di cognitive offloading comportano costi e benefici. Da questa prospettiva, la diffusione dell’intelligenza artificiale (IA) sta mettendo in luce come questo strumento, ubiquo e facilmente accessibile, stia favorendo nuove forme di scarico cognitivo, e incidendo sul modo in cui le persone si rapportano alle informazioni, nonché sullo sviluppo del loro pensiero critico. Disponibili ormai ovunque, alla stregua di un motore di ricerca, le IA aggiungono all’esperienza utente la capacità di processare e presentare le informazioni, senza doversi confrontare direttamente con le relative fonti. Quale impatto esercita questa dinamica sulla capacità di pensiero critico? È la domanda al centro di uno studio condotto dal ricercatore Michael Gerlich su 666 partecipanti di età e percorsi formativi differenti. Questo studio analizza la relazione tra uso di strumenti di intelligenza artificiale e capacità di pensiero critico, mettendo in luce il ruolo mediatore delle pratiche di offloading cognitivo. Per pensiero critico si intende la capacità di analizzare, valutare e sintetizzare le informazioni al fine di prendere decisioni ragionate, incluse le abilità di problem solving e di valutazione critica delle situazioni. Secondo Gerlich, le caratteristiche delle interfacce basate su IA ‒ dalla velocità di accesso ai dati alla presentazione semplificata delle risposte ‒ scoraggiano l’impegno nei processi cognitivi più complessi. > La diffusione dell’intelligenza artificiale sta mettendo in luce come questo > strumento stia favorendo nuove forme di “scarico” cognitivo, incidendo sul > modo in cui le persone si rapportano alle informazioni e sviluppano pensiero > critico. Studi condotti in ambiti come sanità e finanza mostrano infatti che se da un lato il supporto automatizzato migliora l’efficienza, dall’altro riduce la necessità, per questi professionisti, di esercitare analisi critica. Una dinamica analoga si osserva nella cosiddetta “memoria transattiva”, ossia la tendenza a ricordare il luogo in cui un’informazione è archiviata o il suo contenuto, fenomeno già noto come “effetto Google”. Le IA accentuano questo processo, sollevando ulteriori interrogativi sul possibile declino delle capacità di ritenzione perché, anche in questo caso, la loro capacità di sintetizzare le informazioni fa sì che l’utente non debba più impegnarsi in un confronto con le fonti, ma sviluppa invece la consapevolezza che potrà farle affiorare in qualsiasi momento, rivolgendole a un’interfaccia che mima una conversazione umana Effetti simili riguardano attenzione e concentrazione: da un lato gli strumenti digitali aiutano a filtrare il rumore informativo, dall’altro favoriscono la frammentazione e il calo della concentrazione. Emergono inoltre ambivalenze anche nel problem solving: l’IA può ampliare le possibilità di soluzione ma rischia di ridurre l’indipendenza cognitiva, amplificare bias nei dataset o opacizzare i processi decisionali, rendendoli difficilmente interpretabili dagli utenti. Una condizione, quest’ultima, oggetto di un ampio dibattito anche in ambito militare, dove lo sviluppo di sistemi automatizzati di comando e controllo pone dubbi di natura etica, politica e psicologica. I test effettuati confermano che l’uso intensivo di strumenti basati su IA favorisce pratiche di cognitive offloading che, pur alleggerendo il carico cognitivo e liberando risorse mentali, si associano a un declino della capacità di pensiero critico, in particolare nelle fasce più giovani. Questo declino viene misurato attraverso la metodologia HCTA (Halpern Critical Thinking Assessment), un test psicometrico che prende il nome dalla psicologa cognitiva Diane F. Halpert e misura le abilità di pensiero critico (come  valutazione della probabilità e dell’incertezza,  problem solving decisionale,  capacità di trarre conclusioni basate su prove), grazie a un set di domande aperte e a risposta multipla applicate a uno scenario di vita quotidiana. > L’uso intensivo di strumenti basati su IA favorisce pratiche di cognitive > offloading che, pur alleggerendo il carico cognitivo, si associano a un > declino della capacità di pensiero critico, in particolare nelle fasce più > giovani. Anche in questo caso, è piuttosto chiaro come l’applicazione della tecnologia ai processi cognitivi possa risultare deleteria, inducendo una sorta di pigrizia difficile da controbilanciare. Le pratiche di scarico cognitivo, infatti, producono i loro benefici quando attivano la mente delle persone che le utilizzano. È quello che succede, per esempio, nel metodo Zettelkasten, una delle tecniche di gestione della conoscenza più conosciute. Creato dal sociologo tedesco Niklas Luhmann negli anni Cinaquanta del Novecento, lo Zettelkasten è un metodo di annotazione pensato per facilitare la scrittura di testi non fiction e rafforzare la memoria delle proprie letture, che prevede di ridurre il tempo che passa tra la lettura di un testo e la sua elaborazione scritta, prendendo appunti e note durante la lettura dello stesso. Come spiega Sonke Ahrens in How to take smart notes, uno dei principali testi di divulgazione sul metodo Zettelkasten, la scrittura non è un gesto passivo. Eseguirlo attiva aree del nostro cervello che sono direttamente collegate al ricordo e alla memoria. Lo scarico cognitivo alla base del suo funzionamento produce perciò un beneficio proprio perché impegna chi lo esegue sia a confrontarsi direttamente con il testo che sta leggendo, sia a scrivere durante l’atto stesso della lettura. Adottare il metodo Zettelkasten significa perciò introdurre in quest’ultima attività una componente di frizione e di impegno, che sono la base della sua efficacia. > Automatizzando le pratiche di offloading cognitivo rischiamo di privarci del > tempo necessario affinché un’informazione si depositi nella nostra memoria > fino a diventare un pensiero originale. A differenza della maggior parte delle interfacce attraverso cui interagiamo con le tecnologie, in particolare con quelle digitali e di intelligenza artificiale, il metodo Zettelkasten è fatto per produrre attrito. È proprio tale attrito che stimola la nostra mente, la attiva e produce benefici sulle nostre capacità cognitive. Lo Zettelkasten è progettato per far pensare le persone e non il contrario, come recita il titolo di uno dei testi più famosi sull’usabilità web e l’interazione uomo-computer. Perché se ogni processo diventa liscio, privo di frizione, e la tecnologia che lo rende possibile si fa impalpabile fino a scomparire, quello che corriamo è proprio il rischio di non dover pensare. Quando chiediamo a un’intelligenza artificiale di sintetizzare un libro, invece di leggerlo e riassumerlo noi stessi, quello che stiamo facendo è schivare il corpo a corpo con il testo e la scrittura che un metodo come lo Zettelkasten prescrive come base per la sua efficacia. Automatizzare le pratiche di scarico cognitivo significa trasformare in costi i benefici che esse possono apportare alla nostra capacità di ricordare e pensare, proprio perché ad andare perduta è la durata, ovvero il tempo necessario affinché un’informazione si depositi nella nostra memoria fino a diventare un pensiero originale. Prendere atto di questa contraddizione significa spostare l’attenzione dalla dimensione neurologica a quella culturale e sociale. Perché è vero che invocare interfacce più “visibili” e capaci di generare attrito nell’esperienza utente, o elaborare strategie educative mirate, come suggerisce l’autore, sono atti utili e necessari a riconoscere e gestire l’impatto delle IA sulle nostre menti, ma senza porsi il problema dell’accesso al capitale culturale necessario per un uso consapevole e critico delle tecnologie, tali soluzioni rischiano di restare lettera morta. O, peggio, rischiano di acuire le differenze tra chi ha il capitale culturale ed economico per permettersi di limitare il proprio l’accesso alla tecnologia e chi, al contrario, finisce per subire in modo passivo le scelte delle grandi aziende tecnologiche, che proprio sulla pigrizia sembrano star costruendo l’immaginario dei loro strumenti di intelligenza artificiale. > Nel marketing di alcune aziende gli strumenti di IA non sembrano tanto protesi > capaci di potenziare creatività e pensiero critico, quanto scorciatoie per > aggirare i compiti più noiosi o ripetitivi che la vita professionale comporta. Per come vengono presentati nella comunicazione corporate, gli strumenti di intelligenza artificiale assomigliano meno a delle protesi capaci di potenziare la creatività o il pensiero critico e più a scorciatoie per aggirare i compiti più noiosi, ripetitivi o insulsi che la vita professionale comporta. Il video di presentazione degli strumenti di scrittura “smart” della sedicesima iterazione dell’iPhone è emblematico del tenore di questo discorso. Warren, l’impiegato protagonista dello spot, li usa proprio per dare un tono professionale al testo dell’email con cui scarica sul suo superiore un compito che dovrebbe eseguire lui. Quella che, all’apparenza, potrebbe sembrare una celebrazione dell’astuzia working class è in realtà una visione in cui l’automazione non ha liberato l’uomo dalle catene del lavoro, ma gli ha solo fornito degli strumenti per non essere costretto a pensare prima di agire. Ancora una volta, l’uso delle tecnologie si rivela non soltanto una questione politica, ma anche ‒ e soprattutto ‒ una questione sociale e di classe. Una questione che andrebbe rimessa al centro del dibattito sull’intelligenza artificiale, superando la dicotomia, tutto sommato sterile, tra apocalittici e integrati che ancora sembra dominarlo. 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Il malato immaginato
I l primo aprile 2006 il British Medical Journal (BMJ) pubblicava un articolo che annunciava la scoperta di una nuova malattia chiamata MoDeD (Motivational Deficiency Disorder), o disturbo da carenza motivazionale. Secondo l’articolo, redatto dal fittizio Dr. Leth Argos dell’Università di Newcastle, il disturbo si manifestava con una pigrizia estrema, arrivando nei casi più gravi a ridurre la motivazione a respirare. La cura proposta? Un farmaco immaginario chiamato Indolebant, che avrebbe trasformato un giovane incapace di alzarsi dal divano in un consulente finanziario attivo a Sydney. L’articolo, pur essendo chiaramente una parodia, fu preso sul serio da numerosi media, che lo diffusero come una scoperta scientifica reale. La situazione prese una piega tale che il BMJ fu costretto a svelare lo scherzo poche ore dopo la pubblicazione. Il caso del MoDeD divenne un esempio emblematico di come la definizione di malattia possa essere facilmente ampliata o manipolata, trasformando aspetti della vita quotidiana in condizioni cliniche da diagnosticare e trattare, e anticipava molte delle discussioni successive sulla costruzione mediatica e sociale della malattia. Possiamo spiegare il successo della notizia con la tendenza, consolidatasi negli ultimi decenni, a interpretare come problemi di salute ciò che prima consideravamo semplici varianti naturali della configurazione corporea. Questo processo è noto come medicalizzazione, ed è particolarmente evidente nell’ambito della medicina estetica. La patologizzazione della bruttezza Una piega palpebrale assente, un naso prominente, denti non perfettamente allineati, una pelle dalla texture irregolare. Nella medicina contemporanea molte caratteristiche fisiche hanno subito una trasformazione silenziosa ma radicale: da semplici variazioni non desiderabili, da accettare passivamente, sono diventate oggetto di attenzione medica. Siamo nel campo della medicina non solo perché si applicano competenze e strumenti propri di questa disciplina, ma anche perché spesso c’è una diagnosi di patologia. Se in alcuni casi la patologia è rappresentata da compromissioni funzionali, in altri casi essa coincide con il disagio psicologico e sociale che, anche in assenza di disfunzioni, può scaturire dal senso di inadeguatezza rispetto ai canoni estetici dominanti. In queste circostanze si interviene dunque sul corpo per guarire una “malattia dell’anima”. > Per medicalizzazione si intende la tendenza a trattare come problemi medici > alcuni aspetti della vita ‒ fisici, psicologici o sociali ‒ un tempo ritenuti > normali. Questa metamorfosi culturale, che il filosofo della medicina Yves Saint James Aquino identifica come patologizzazione della bruttezza, si nutre di un meccanismo duplice. Da un lato, la medicina si è appropriata di una sovrapposizione antica, quella tra bello, buono e sano. Un volto con pelle uniforme, privo di segni visibili di malattia o invecchiamento, tende a essere percepito simultaneamente come in salute, virtuoso, giovane e attraente; al contrario, caratteristiche che deviano dagli standard vengono lette come limitazioni funzionali o segnali di una salute precaria. Dall’altro, agiscono strategie attive per inquadrare la chirurgia estetica non come pratica migliorativa, ma come intervento terapeutico. In particolare, Aquino identifica tre possibili concettualizzazioni tramite cui la bruttezza viene patologizzata, che fanno riferimento a tre diverse concezioni della malattia. Malattia come danno, disfunzione e deviazione La prima si basa sul concetto di danno. Negli anni Trenta i chirurghi plastici giustificavano le correzioni dei tratti corporei che causavano disagio psicologico chiamando in causa il complesso di inferiorità; oggi la retorica si è spostata sul modello della disabilità, considerando la bruttezza come uno svantaggio invalidante che può limitare le opportunità socioeconomiche. In entrambi i casi emerge una concezione normativista della malattia, che fonda il concetto di salute sul vissuto personale e su valori socialmente condivisi. Questa visione si intreccia con i meccanismi sociali di riconoscimento e valorizzazione della bellezza: il benessere soggettivo e le traiettorie di vita vengono influenzate da bias cognitivi come l’effetto alone, che attribuisce qualità positive agli individui fisicamente attraenti. In virtù di questi pregiudizi, essere di bell’aspetto si traduce in un beauty premium (traducibile in italiano come “premio alla bellezza”) che apporta vantaggi economici, sociali e professionali tangibili, tra cui migliori risultati scolastici, lavori di status più elevato e maggiori probabilità di successo nelle relazioni. > Diversi studi mostrano come un bell’aspetto spesso si traduca in vantaggi > economici, sociali e professionali tangibili, tra cui migliori risultati > scolastici, lavori di status più elevato e maggiori probabilità di successo > nelle relazioni. La seconda accezione si basa sul concetto di disfunzione: la bruttezza ostacolerebbe l’attrazione di partner sessuali e l’integrazione sociale, entrambe necessarie alla riproduzione. Ci troviamo all’interno di un paradigma naturalista, che concepisce la malattia come una disfunzione oggettiva rispetto ai normali processi biologici di un organismo, indipendentemente da percezioni soggettive o valori culturali. La terza accezione si basa sul concetto di deviazione: la caratterizzazione patologica della bruttezza dipenderebbe da uno scostamento misurabile rispetto a una norma statistica o un canone numerico. Un esempio è il rapporto aureo, utilizzato in medicina estetica per valutare le proporzioni del viso. Quando una caratteristica si colloca oltre i limiti di questa norma, si parla di “deviazione” anche se non c’è un danno soggettivo percepito, né una disfunzione biologica identificabile. In realtà, osserva Aquino, il ricorso alla norma statistica è spesso uno strumento per naturalizzare standard culturali, mascherandoli da criteri biologici universali. La crescente patologizzazione della bruttezza mette in crisi la distinzione tradizionale tra chirurgia ricostruttiva e chirurgia cosmetica e ridefinisce i criteri di legittimità dell’intervento chirurgico: ciò che un tempo era giustificato solo dal ripristino di una funzione corporea mancante o danneggiata oggi può essere autorizzato anche dalla richiesta di colmare un presunto svantaggio biologico o sociale. Quello che sta accadendo con la medicina estetica è considerato da molti un esempio evidente di disease mongering, concetto spesso reso in italiano come “mercificazione della malattia”: si espande il dominio del patologico e quindi il raggio d’azione della medicina, spesso con l’obiettivo di allargare il mercato di farmaci e trattamenti. Più il concetto di malattia diventa fluido e ambiguo, infatti, più diventa facile creare a tavolino nuove patologie. Ciò induce nel pubblico una certa percezione di rischio e deficit, aumentando le possibilità del mercato di identificare target di pazienti-clienti a cui proporre prodotti sanitari come integratori, test diagnostici, programmi di benessere e trattamenti. > Siamo di fronte a un esempio evidente di disease mongering, o mercificazione > della malattia. Più il concetto di malattia diventa fluido e ambiguo, infatti, > più diventa facile creare a tavolino nuove patologie. La ridefinizione concettuale dei confini tra salute e malattia non è però esclusiva dell’ambito estetico. Si tratta di un processo che ha investito la medicina in maniera trasversale, rendendo la salute nel suo insieme qualcosa di incerto, malleabile e negoziabile. Questa evoluzione si è tradotta nella crescente espansione dei codici ICD (International Classification of Diseases), la Classificazione internazionale delle malattie dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) che oggi supera le 68.000 voci, contro le 13.000 degli anni Settanta. L’osteoporosi e altre zone grigie Un caso particolarmente dibattuto nella letteratura scientifica è quello relativo all’osteoporosi. Inizialmente considerata una condizione fisiologica legata all’invecchiamento, l’osteoporosi è stata riconosciuta come patologia con l’introduzione di criteri diagnostici basati su soglie di densità minerale ossea, fissate a partire dai valori medi di giovani donne sane. Ciò ha comportato la classificazione di milioni di donne in menopausa come malate o a rischio, dal momento che i loro valori si discostavano dalla “norma statistica”, nonostante il rischio concreto di frattura fosse molto basso nella maggior parte dei casi. Questa medicalizzazione della fragilità ossea, sostenuta anche dalla necessità di ridurre l’impatto economico-sociale delle fratture sul sistema sanitario, ha alimentato la commercializzazione di nuovi farmaci. Da qui l’ipotesi di un ruolo attivo delle industrie farmaceutiche nella promozione di campagne mediatiche per la prevenzione dell’osteoporosi, che insistono sul carattere diffuso e subdolo della malattia, spesso rinforzato da metafore come “la ladra di ossa”, che traduce la fisiologia dell’invecchiamento in una narrazione di pericolo e perdita. Queste campagne invitano all’acquisto di soluzioni farmacologiche anziché all’adozione di strategie preventive più semplici ed efficaci (come mantenere un’alimentazione equilibrata, fare esercizio fisico e non fumare), nonostante i benefici reali delle soluzioni proposte risultino limitati, se rapportati ai rischi e ai costi. La sindrome dell’intestino irritabile, la calvizie, la disfunzione erettile, la sindrome metabolica e l’ipercolesterolemia sono state oggetto di riflessioni critiche analoghe, per citare solo qualche esempio. > Nel caso dell’osteoporosi, la medicalizzazione della fragilità ossea ha aperto > la strada a campagne pubblicitarie che promuovono l’acquisto di soluzioni > farmacologiche anziché l’adozione di strategie preventive più semplici ed > efficaci. Alcuni teorici ritengono che al disease mongering abbiano contribuito i progressi nel campo della biochimica, in particolare la scoperta di indicatori biologici (geni, molecole, cellule, parametri come la pressione o la frequenza cardiaca) in grado di segnalare la predisposizione al rischio di sviluppare determinate patologie. In un recente contributo pubblicato su Frontiers in Sociology, il neurologo Naveen K. Reddy segnala come l’industria farmaceutica stia sempre più influenzando le definizioni di malattia, proponendo di diagnosticare condizioni come l’Alzheimer o il Parkinson in individui completamente asintomatici, solo sulla base della presenza di biomarcatori nel sangue. Questo fenomeno rischia di aumentare le sovradiagnosi, i trattamenti poco efficaci e le spese per sostenerli, alimentando lo squilibrio di potere tra bisogni reali dei pazienti e interessi commerciali. La riflessione di Reddy non riguarda solo le malattie neurologiche: in oncologia, con la tecnica delle biopsie liquide, che rilevano DNA tumorale circolante, si rischia di inglobare nelle definizioni di cancro stadi preclinici che potrebbero non progredire mai verso una malattia sintomatica. In psichiatria, test ematici per marker infiammatori legati alla depressione potrebbero patologizzare risposte emotive normali. Nel caso del diabete, biomarcatori avanzati per la resistenza insulinica potrebbero classificare individui senza sintomi come prediabetici, spingendoli verso l’uso di costosi farmaci. L’era della subsalute L’espansione del perimetro della medicina ha profondamente trasformato il rapporto degli individui con il proprio corpo e la propria salute. Sempre più spesso, la prevenzione non si limita a promuovere comportamenti sani o a monitorare situazioni ad alto rischio, ma diventa una strategia di ipersorveglianza costante e capillare su ogni aspetto dell’esperienza corporea. Questo orientamento trasforma quasi ogni cittadino in un “paziente potenziale” impegnato in screening, check-up, test genetici, autovalutazioni e consulti per scoprire e correggere il più piccolo scostamento dalla normalità. La promozione della salute, così, non si configura più solo come tutela dal rischio, ma come dovere di perseguire un ideale di benessere ottimale e durevole, da certificare e monitorare costantemente attraverso dispositivi, tecnologie, esami strumentali e consulenze mediche. Il risultato è che l’attenzione si sposta dalla cura della patologia alla gestione ansiosa di ogni segnale di inefficienza, vulnerabilità o affaticamento. > Sempre più spesso, la prevenzione diventa una strategia di ipersorveglianza su > ogni aspetto dell’esperienza corporea, trasformando ogni cittadino in un > “paziente potenziale” impegnato in check-up, test e consulti per scoprire e > correggere il più piccolo scostamento dalla normalità. È all’interno di questo scenario che ha preso corpo il costrutto di salute subottimale, concepito come un vero e proprio spazio liminale tra salute piena e malattia diagnosticabile. Essa si manifesta attraverso sintomi poco specifici ma persistenti, come affaticamento, sonnolenza, mal di testa, insonnia, difficoltà di concentrazione e cali di memoria. Il termine nasce in Cina per descrivere le percezioni di disagio psicofisico di una crescente fetta della popolazione, soprattutto giovani adulti urbanizzati, che pur non risultando malati secondo i criteri clinici, riportano un generale senso di salute incompleta o precaria, accompagnata da insoddisfazione e preoccupazione. Nel 2025 Lijiaozi Cheng, studiosa di sociologia della salute all’Università di Sheffield, ha esplorato l’utilizzo del concetto di subhealth tra i giovani cinesi, raccogliendo sensazioni che vanno dall’“essere in cammino verso la malattia” a una sorta di “sospensione biografica” all’interno delle routine della vita quotidiana. La subsalute risulta particolarmente appetibile dal punto di vista commerciale, poiché non si basa su parametri oggettivi e misurabili ma su un vissuto soggettivo che, in quanto tale, può esprimersi in forme e intensità differenti, tutte potenzialmente degne di prevenzione. La salute subottimale, infatti, è generalmente concepita come una fase reversibile, a patto di intervenire sullo stile di vita e sulla riduzione dei fattori di rischio. In tal senso, essa rappresenta una vera e propria “zona di transizione”, dove l’individuo si configura come un “paziente in attesa” o un protopaziente, chiamato a correre ai ripari e rivedere le proprie abitudini prima che possano evolvere in malattie conclamate. Se nelle patologie diagnosticabili tramite biomarcatori si è “malati senza sintomi” perché lo dice un test, nella subsalute si è “sintomatici senza malattia” perché lo afferma il vissuto individuale. Eppure entrambe partecipano allo stesso processo: la produzione di una zona grigia in cui medicalizzazione e incertezza diagnostica si intrecciano, lasciando spazio a una molteplicità di risposte sociali, cliniche e commerciali. Il potere del discorso Questo progressivo ampliamento dei confini diagnostici non sarebbe possibile senza l’intervento di strategie discorsive precise, che sfruttano l’ambiguità dei concetti di salute e malattia per costruire legittimità e consenso attorno a nuove categorie patologiche. La letteratura sociologica mostra che le narrazioni veicolate dai media, dalla comunicazione pubblicitaria e dai discorsi istituzionali sono in grado di conferire consistenza scientifica apparente a concetti privi di un sostegno empirico robusto. > Le malattie non vengono soltanto “scoperte” dalla scienza e poi comunicate al > pubblico, a volte vengono costruite, negoziate e legittimate attraverso > pratiche linguistiche, narrative e mediatiche che possono prescindere dalla > solidità delle evidenze. Uno studio del 2025 dei linguisti Dermot Heaney e Giorgia Riboni ha confrontato lo Sluggish cognitive tempo (SCT), una condizione documentata in letteratura ma non universalmente riconosciuta come disturbo autonomo e spesso descritta come variante dell’ADHD, con il MoDeD, il disturbo inventato dal fantomatico Dr. Leth Argos. L’analisi di Heaney e Riboni evidenzia un repertorio condiviso di modelli lessicali, fraseologici e retorici che ha reso il MoDeD credibile. Lo studio, basato su articoli e contenuti online, mostra come l’uso di termini tecnici, sigle, casi-studio concreti, dati numerici e citazioni di esperti dia l’impressione di autorevolezza e scientificità. Molti dei contenuti esaminati, ad esempio, riferiscono la stima secondo cui “uno su cinque” sarebbe affetto da MoDeD, fornendo così un dato quantitativo che rende la portata della malattia più fondata e tangibile. Le narrazioni seguono schemi ricorrenti: la condizione è presentata come diffusa ma poco riconosciuta (“molti non lo sanno”), come un progresso rispetto alla comprensione precedente (“per tutta la vita hai creduto di essere pigro; in realtà sei malato”), come un insieme di sintomi da prendere sul serio (“essere sottodiagnosticati è pericoloso”). Così, gli autori mostrano che la medicalizzazione non è un fenomeno puramente medico, ma un processo sociale e discorsivo. Le malattie non vengono solo “scoperte” dalla scienza e poi comunicate al pubblico: vengono costruite, negoziate e legittimate attraverso pratiche linguistiche, narrative, mediatiche e retoriche che possono prescindere dalla solidità delle evidenze. Se persino una malattia inventata può risultare verosimile, quali strumenti abbiamo per distinguere ciò che è fondato scientificamente da una patologia costruita ad arte per interessi di mercato? Forse non ci resta che abbracciare la consapevolezza che salute e malattia sono sempre, anche, categorie discorsive, sociali, politiche e commerciali. Riconoscere questa multidimensionalità significa smettere di cercare confini immutabili e oggettivi e interrogarsi invece su chi ha il potere di tracciare quei confini, e a vantaggio di chi. L'articolo Il malato immaginato proviene da Il Tascabile.
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I l primo aprile 2006 il British Medical Journal (BMJ) pubblicava un articolo che annunciava la scoperta di una nuova malattia chiamata MoDeD (Motivational Deficiency Disorder), o disturbo da carenza motivazionale. Secondo l’articolo, redatto dal fittizio Dr. Leth Argos dell’Università di Newcastle, il disturbo si manifestava con una pigrizia estrema, arrivando nei casi più gravi a ridurre la motivazione a respirare. La cura proposta? Un farmaco immaginario chiamato Indolebant, che avrebbe trasformato un giovane incapace di alzarsi dal divano in un consulente finanziario attivo a Sydney. L’articolo, pur essendo chiaramente una parodia, fu preso sul serio da numerosi media, che lo diffusero come una scoperta scientifica reale. La situazione prese una piega tale che il BMJ fu costretto a svelare lo scherzo poche ore dopo la pubblicazione. Il caso del MoDeD divenne un esempio emblematico di come la definizione di malattia possa essere facilmente ampliata o manipolata, trasformando aspetti della vita quotidiana in condizioni cliniche da diagnosticare e trattare, e anticipava molte delle discussioni successive sulla costruzione mediatica e sociale della malattia. Possiamo spiegare il successo della notizia con la tendenza, consolidatasi negli ultimi decenni, a interpretare come problemi di salute ciò che prima consideravamo semplici varianti naturali della configurazione corporea. Questo processo è noto come medicalizzazione, ed è particolarmente evidente nell’ambito della medicina estetica. La patologizzazione della bruttezza Una piega palpebrale assente, un naso prominente, denti non perfettamente allineati, una pelle dalla texture irregolare. Nella medicina contemporanea molte caratteristiche fisiche hanno subito una trasformazione silenziosa ma radicale: da semplici variazioni non desiderabili, da accettare passivamente, sono diventate oggetto di attenzione medica. Siamo nel campo della medicina non solo perché si applicano competenze e strumenti propri di questa disciplina, ma anche perché spesso c’è una diagnosi di patologia. Se in alcuni casi la patologia è rappresentata da compromissioni funzionali, in altri casi essa coincide con il disagio psicologico e sociale che, anche in assenza di disfunzioni, può scaturire dal senso di inadeguatezza rispetto ai canoni estetici dominanti. In queste circostanze si interviene dunque sul corpo per guarire una “malattia dell’anima”. > Per medicalizzazione si intende la tendenza a trattare come problemi medici > alcuni aspetti della vita ‒ fisici, psicologici o sociali ‒ un tempo ritenuti > normali. Questa metamorfosi culturale, che il filosofo della medicina Yves Saint James Aquino identifica come patologizzazione della bruttezza, si nutre di un meccanismo duplice. Da un lato, la medicina si è appropriata di una sovrapposizione antica, quella tra bello, buono e sano. Un volto con pelle uniforme, privo di segni visibili di malattia o invecchiamento, tende a essere percepito simultaneamente come in salute, virtuoso, giovane e attraente; al contrario, caratteristiche che deviano dagli standard vengono lette come limitazioni funzionali o segnali di una salute precaria. Dall’altro, agiscono strategie attive per inquadrare la chirurgia estetica non come pratica migliorativa, ma come intervento terapeutico. In particolare, Aquino identifica tre possibili concettualizzazioni tramite cui la bruttezza viene patologizzata, che fanno riferimento a tre diverse concezioni della malattia. Malattia come danno, disfunzione e deviazione La prima si basa sul concetto di danno. Negli anni Trenta i chirurghi plastici giustificavano le correzioni dei tratti corporei che causavano disagio psicologico chiamando in causa il complesso di inferiorità; oggi la retorica si è spostata sul modello della disabilità, considerando la bruttezza come uno svantaggio invalidante che può limitare le opportunità socioeconomiche. In entrambi i casi emerge una concezione normativista della malattia, che fonda il concetto di salute sul vissuto personale e su valori socialmente condivisi. Questa visione si intreccia con i meccanismi sociali di riconoscimento e valorizzazione della bellezza: il benessere soggettivo e le traiettorie di vita vengono influenzate da bias cognitivi come l’effetto alone, che attribuisce qualità positive agli individui fisicamente attraenti. In virtù di questi pregiudizi, essere di bell’aspetto si traduce in un beauty premium (traducibile in italiano come “premio alla bellezza”) che apporta vantaggi economici, sociali e professionali tangibili, tra cui migliori risultati scolastici, lavori di status più elevato e maggiori probabilità di successo nelle relazioni. > Diversi studi mostrano come un bell’aspetto spesso si traduca in vantaggi > economici, sociali e professionali tangibili, tra cui migliori risultati > scolastici, lavori di status più elevato e maggiori probabilità di successo > nelle relazioni. La seconda accezione si basa sul concetto di disfunzione: la bruttezza ostacolerebbe l’attrazione di partner sessuali e l’integrazione sociale, entrambe necessarie alla riproduzione. Ci troviamo all’interno di un paradigma naturalista, che concepisce la malattia come una disfunzione oggettiva rispetto ai normali processi biologici di un organismo, indipendentemente da percezioni soggettive o valori culturali. La terza accezione si basa sul concetto di deviazione: la caratterizzazione patologica della bruttezza dipenderebbe da uno scostamento misurabile rispetto a una norma statistica o un canone numerico. Un esempio è il rapporto aureo, utilizzato in medicina estetica per valutare le proporzioni del viso. Quando una caratteristica si colloca oltre i limiti di questa norma, si parla di “deviazione” anche se non c’è un danno soggettivo percepito, né una disfunzione biologica identificabile. In realtà, osserva Aquino, il ricorso alla norma statistica è spesso uno strumento per naturalizzare standard culturali, mascherandoli da criteri biologici universali. La crescente patologizzazione della bruttezza mette in crisi la distinzione tradizionale tra chirurgia ricostruttiva e chirurgia cosmetica e ridefinisce i criteri di legittimità dell’intervento chirurgico: ciò che un tempo era giustificato solo dal ripristino di una funzione corporea mancante o danneggiata oggi può essere autorizzato anche dalla richiesta di colmare un presunto svantaggio biologico o sociale. Quello che sta accadendo con la medicina estetica è considerato da molti un esempio evidente di disease mongering, concetto spesso reso in italiano come “mercificazione della malattia”: si espande il dominio del patologico e quindi il raggio d’azione della medicina, spesso con l’obiettivo di allargare il mercato di farmaci e trattamenti. Più il concetto di malattia diventa fluido e ambiguo, infatti, più diventa facile creare a tavolino nuove patologie. Ciò induce nel pubblico una certa percezione di rischio e deficit, aumentando le possibilità del mercato di identificare target di pazienti-clienti a cui proporre prodotti sanitari come integratori, test diagnostici, programmi di benessere e trattamenti. > Siamo di fronte a un esempio evidente di disease mongering, o mercificazione > della malattia. Più il concetto di malattia diventa fluido e ambiguo, infatti, > più diventa facile creare a tavolino nuove patologie. La ridefinizione concettuale dei confini tra salute e malattia non è però esclusiva dell’ambito estetico. Si tratta di un processo che ha investito la medicina in maniera trasversale, rendendo la salute nel suo insieme qualcosa di incerto, malleabile e negoziabile. Questa evoluzione si è tradotta nella crescente espansione dei codici ICD (International Classification of Diseases), la Classificazione internazionale delle malattie dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) che oggi supera le 68.000 voci, contro le 13.000 degli anni Settanta. L’osteoporosi e altre zone grigie Un caso particolarmente dibattuto nella letteratura scientifica è quello relativo all’osteoporosi. Inizialmente considerata una condizione fisiologica legata all’invecchiamento, l’osteoporosi è stata riconosciuta come patologia con l’introduzione di criteri diagnostici basati su soglie di densità minerale ossea, fissate a partire dai valori medi di giovani donne sane. Ciò ha comportato la classificazione di milioni di donne in menopausa come malate o a rischio, dal momento che i loro valori si discostavano dalla “norma statistica”, nonostante il rischio concreto di frattura fosse molto basso nella maggior parte dei casi. Questa medicalizzazione della fragilità ossea, sostenuta anche dalla necessità di ridurre l’impatto economico-sociale delle fratture sul sistema sanitario, ha alimentato la commercializzazione di nuovi farmaci. Da qui l’ipotesi di un ruolo attivo delle industrie farmaceutiche nella promozione di campagne mediatiche per la prevenzione dell’osteoporosi, che insistono sul carattere diffuso e subdolo della malattia, spesso rinforzato da metafore come “la ladra di ossa”, che traduce la fisiologia dell’invecchiamento in una narrazione di pericolo e perdita. Queste campagne invitano all’acquisto di soluzioni farmacologiche anziché all’adozione di strategie preventive più semplici ed efficaci (come mantenere un’alimentazione equilibrata, fare esercizio fisico e non fumare), nonostante i benefici reali delle soluzioni proposte risultino limitati, se rapportati ai rischi e ai costi. La sindrome dell’intestino irritabile, la calvizie, la disfunzione erettile, la sindrome metabolica e l’ipercolesterolemia sono state oggetto di riflessioni critiche analoghe, per citare solo qualche esempio. > Nel caso dell’osteoporosi, la medicalizzazione della fragilità ossea ha aperto > la strada a campagne pubblicitarie che promuovono l’acquisto di soluzioni > farmacologiche anziché l’adozione di strategie preventive più semplici ed > efficaci. Alcuni teorici ritengono che al disease mongering abbiano contribuito i progressi nel campo della biochimica, in particolare la scoperta di indicatori biologici (geni, molecole, cellule, parametri come la pressione o la frequenza cardiaca) in grado di segnalare la predisposizione al rischio di sviluppare determinate patologie. In un recente contributo pubblicato su Frontiers in Sociology, il neurologo Naveen K. Reddy segnala come l’industria farmaceutica stia sempre più influenzando le definizioni di malattia, proponendo di diagnosticare condizioni come l’Alzheimer o il Parkinson in individui completamente asintomatici, solo sulla base della presenza di biomarcatori nel sangue. Questo fenomeno rischia di aumentare le sovradiagnosi, i trattamenti poco efficaci e le spese per sostenerli, alimentando lo squilibrio di potere tra bisogni reali dei pazienti e interessi commerciali. La riflessione di Reddy non riguarda solo le malattie neurologiche: in oncologia, con la tecnica delle biopsie liquide, che rilevano DNA tumorale circolante, si rischia di inglobare nelle definizioni di cancro stadi preclinici che potrebbero non progredire mai verso una malattia sintomatica. In psichiatria, test ematici per marker infiammatori legati alla depressione potrebbero patologizzare risposte emotive normali. Nel caso del diabete, biomarcatori avanzati per la resistenza insulinica potrebbero classificare individui senza sintomi come prediabetici, spingendoli verso l’uso di costosi farmaci. L’era della subsalute L’espansione del perimetro della medicina ha profondamente trasformato il rapporto degli individui con il proprio corpo e la propria salute. Sempre più spesso, la prevenzione non si limita a promuovere comportamenti sani o a monitorare situazioni ad alto rischio, ma diventa una strategia di ipersorveglianza costante e capillare su ogni aspetto dell’esperienza corporea. Questo orientamento trasforma quasi ogni cittadino in un “paziente potenziale” impegnato in screening, check-up, test genetici, autovalutazioni e consulti per scoprire e correggere il più piccolo scostamento dalla normalità. La promozione della salute, così, non si configura più solo come tutela dal rischio, ma come dovere di perseguire un ideale di benessere ottimale e durevole, da certificare e monitorare costantemente attraverso dispositivi, tecnologie, esami strumentali e consulenze mediche. Il risultato è che l’attenzione si sposta dalla cura della patologia alla gestione ansiosa di ogni segnale di inefficienza, vulnerabilità o affaticamento. > Sempre più spesso, la prevenzione diventa una strategia di ipersorveglianza su > ogni aspetto dell’esperienza corporea, trasformando ogni cittadino in un > “paziente potenziale” impegnato in check-up, test e consulti per scoprire e > correggere il più piccolo scostamento dalla normalità. È all’interno di questo scenario che ha preso corpo il costrutto di salute subottimale, concepito come un vero e proprio spazio liminale tra salute piena e malattia diagnosticabile. Essa si manifesta attraverso sintomi poco specifici ma persistenti, come affaticamento, sonnolenza, mal di testa, insonnia, difficoltà di concentrazione e cali di memoria. Il termine nasce in Cina per descrivere le percezioni di disagio psicofisico di una crescente fetta della popolazione, soprattutto giovani adulti urbanizzati, che pur non risultando malati secondo i criteri clinici, riportano un generale senso di salute incompleta o precaria, accompagnata da insoddisfazione e preoccupazione. Nel 2025 Lijiaozi Cheng, studiosa di sociologia della salute all’Università di Sheffield, ha esplorato l’utilizzo del concetto di subhealth tra i giovani cinesi, raccogliendo sensazioni che vanno dall’“essere in cammino verso la malattia” a una sorta di “sospensione biografica” all’interno delle routine della vita quotidiana. La subsalute risulta particolarmente appetibile dal punto di vista commerciale, poiché non si basa su parametri oggettivi e misurabili ma su un vissuto soggettivo che, in quanto tale, può esprimersi in forme e intensità differenti, tutte potenzialmente degne di prevenzione. La salute subottimale, infatti, è generalmente concepita come una fase reversibile, a patto di intervenire sullo stile di vita e sulla riduzione dei fattori di rischio. In tal senso, essa rappresenta una vera e propria “zona di transizione”, dove l’individuo si configura come un “paziente in attesa” o un protopaziente, chiamato a correre ai ripari e rivedere le proprie abitudini prima che possano evolvere in malattie conclamate. Se nelle patologie diagnosticabili tramite biomarcatori si è “malati senza sintomi” perché lo dice un test, nella subsalute si è “sintomatici senza malattia” perché lo afferma il vissuto individuale. Eppure entrambe partecipano allo stesso processo: la produzione di una zona grigia in cui medicalizzazione e incertezza diagnostica si intrecciano, lasciando spazio a una molteplicità di risposte sociali, cliniche e commerciali. Il potere del discorso Questo progressivo ampliamento dei confini diagnostici non sarebbe possibile senza l’intervento di strategie discorsive precise, che sfruttano l’ambiguità dei concetti di salute e malattia per costruire legittimità e consenso attorno a nuove categorie patologiche. La letteratura sociologica mostra che le narrazioni veicolate dai media, dalla comunicazione pubblicitaria e dai discorsi istituzionali sono in grado di conferire consistenza scientifica apparente a concetti privi di un sostegno empirico robusto. > Le malattie non vengono soltanto “scoperte” dalla scienza e poi comunicate al > pubblico, a volte vengono costruite, negoziate e legittimate attraverso > pratiche linguistiche, narrative e mediatiche che possono prescindere dalla > solidità delle evidenze. Uno studio del 2025 dei linguisti Dermot Heaney e Giorgia Riboni ha confrontato lo Sluggish cognitive tempo (SCT), una condizione documentata in letteratura ma non universalmente riconosciuta come disturbo autonomo e spesso descritta come variante dell’ADHD, con il MoDeD, il disturbo inventato dal fantomatico Dr. Leth Argos. L’analisi di Heaney e Riboni evidenzia un repertorio condiviso di modelli lessicali, fraseologici e retorici che ha reso il MoDeD credibile. Lo studio, basato su articoli e contenuti online, mostra come l’uso di termini tecnici, sigle, casi-studio concreti, dati numerici e citazioni di esperti dia l’impressione di autorevolezza e scientificità. Molti dei contenuti esaminati, ad esempio, riferiscono la stima secondo cui “uno su cinque” sarebbe affetto da MoDeD, fornendo così un dato quantitativo che rende la portata della malattia più fondata e tangibile. Le narrazioni seguono schemi ricorrenti: la condizione è presentata come diffusa ma poco riconosciuta (“molti non lo sanno”), come un progresso rispetto alla comprensione precedente (“per tutta la vita hai creduto di essere pigro; in realtà sei malato”), come un insieme di sintomi da prendere sul serio (“essere sottodiagnosticati è pericoloso”). Così, gli autori mostrano che la medicalizzazione non è un fenomeno puramente medico, ma un processo sociale e discorsivo. Le malattie non vengono solo “scoperte” dalla scienza e poi comunicate al pubblico: vengono costruite, negoziate e legittimate attraverso pratiche linguistiche, narrative, mediatiche e retoriche che possono prescindere dalla solidità delle evidenze. Se persino una malattia inventata può risultare verosimile, quali strumenti abbiamo per distinguere ciò che è fondato scientificamente da una patologia costruita ad arte per interessi di mercato? Forse non ci resta che abbracciare la consapevolezza che salute e malattia sono sempre, anche, categorie discorsive, sociali, politiche e commerciali. Riconoscere questa multidimensionalità significa smettere di cercare confini immutabili e oggettivi e interrogarsi invece su chi ha il potere di tracciare quei confini, e a vantaggio di chi. L'articolo Il malato immaginato proviene da Il Tascabile.
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La vita prima della vita
D a secoli filosofi, teologi e scienziati si chiedono come abbia avuto origine la vita sulla Terra. La questione è tutt’altro che semplice, e oggi una moltitudine di laboratori in giro per il mondo dedica la propria ricerca a trovare una risposta capace di soddisfare ogni dubbio. Si trovano ad andare indietro nel tempo, sino a quando la Terra doveva ancora compiere il suo primo miliardo di anni, quando gli oceani ribollivano per l’attività vulcanica e l’aria era percossa da fulmini. È lì che idrogeno e anidride carbonica hanno alterato la storia del nostro pianeta, dando vita a molecole organiche. Ed è da queste basi chimiche ‒ attraverso fasi intermedie ‒ che riteniamo si svilupparono gli acidi nucleici. Un punto di svolta dev’essere stato la comparsa degli aminoacidi e la loro incorporazione nel codice genetico come lo conosciamo oggi, con le sequenze di DNA e RNA che custodiscono l’informazione e i ribosomi che la traducono in proteine, ossia catene di aminoacidi che rappresentano i mattoni fondamentali per la vita. Ma per affrontare la questione, bisogna innanzitutto stabilire cosa si intenda con “vita”, e in secondo luogo perché alcune delle molecole indispensabili siano apparse ben prima che esistessero le prime cellule. L’essere umano prova a replicare le condizioni per la nascita della vita almeno dal 1953, quando gli scienziati Harold Urey e Stanley Miller progettarono un apparato di vetro per simulare le condizioni della Terra primordiale. I due crearono un sistema chiuso; riscaldarono acqua con idrogeno, metano e ammonio, e simularono l’effetto dei fulmini con scariche elettriche. Lasciarono che il miscuglio gassoso si condensasse e cadesse di nuovo in acqua come pioggia. Nel giro di una settimana, il finto oceano che avevano creato era diventato marrone per le biomolecole e gli aminoacidi che si erano formati. Oggi, oltre settant’anni dopo l’esperimento, il risultato principale rimane valido: nelle condizioni simulate dai ricercatori, la materia abiotica – ovvero non vivente – può dare origine a molecole organiche. Tuttavia, sappiamo che probabilmente la composizione atmosferica della Terra primordiale era differente da quella considerata da Urey-Miller. Per esempio, i due non inclusero nell’esperimento lo zolfo, elemento che oggi sappiamo essere stato fondamentale al tempo della nascita delle prime forme di vita. L’esclusione dello zolfo rende impossibile la formazione della metionina, un aminoacido che invece, stando al lavoro di Sawsan Wehbi e colleghi, sarebbe una delle prime molecole a essere incorporate nel codice genetico. > L’essere umano prova a replicare le condizioni per la comparsa della vita > almeno dal 1953, quando gli scienziati Harold Urey e Stanley Miller > progettarono un apparato di vetro per simulare le condizioni della Terra > primordiale. Un’altra teoria ipotizza che la vita abbia avuto origine nelle sorgenti idrotermali di profondità marine, ferite sul fondale degli oceani da cui fuoriesce acqua calda e ricca di minerali. Qui, il ferro minerale reagisce con l’acqua per produrre idrogeno che, a sua volta, potrebbe reagire con l’anidride carbonica per produrre formiato, acetato e piruvato – molecole organiche fondamentali per il metabolismo di una cellula. Tuttavia, anche su questo rimangono aperti vari punti: secondo alcuni studiosi non è possibile che la vita primordiale potesse tollerare temperature tanto alte, e ricerche recenti esplorano anche le sorgenti termali terrestri come possibile culla della vita. In uno studio del 2024, pubblicato su Nature Communications, i ricercatori hanno sintetizzato solfuri di ferro in scala nanometrica, incluse forme pure e versioni arricchite con elementi come manganese, nichel, titanio e cobalto. Hanno esposto questi campioni all’idrogeno gassoso e all’anidride carbonica in condizioni che simulavano quelle delle sorgenti calde, con temperature comprese tra 80 e 120 gradi Celsius. Così facendo sono riusciti a produrre metanolo da solfuri di ferro con manganese. Sembra inoltre che anche luce e vapore acqueo ricoprano un ruolo cruciale: la luce UV nello spettro del visibile può facilitare le reazioni, abbassando l’energia di attivazione; la presenza di vapore acqueo, pur in alcuni casi ostacolante a basse temperature, può favorire la sintesi alle temperature più alte. Una volta formatesi le molecole organiche, ci troviamo di fronte a un dilemma spesso paragonato a quello dell’uovo e della gallina: è venuto prima il materiale genetico o le proteine? Per lungo tempo, si è guardato all’RNA come candidato favorevole, poiché oltre a essere una molecola codificante è in grado di catalizzare reazioni chimiche, come fanno le proteine. Tuttavia, bisogna capire se una struttura fragile come quella dell’RNA possa essere sorta nelle dure condizioni del brodo primordiale e, sinora, nessuno è riuscito a ottenerlo in condizioni ambientali che simulassero quelle del mondo prebiotico. Ma esiste un’altra possibilità, esplorata di recente, secondo cui sarebbero invece le proteine ad aver visto la luce per prime. Fra i promotori di questa teoria c’è Andrew Pohorille, direttore del Center for Computational Astrobiology and Fundamental Biology della NASA, scomparso nel 2024. Le proteine sono molecole più semplici da produrre rispetto agli acidi nucleici, il problema è che le catene amminoacidiche non sono in grado di replicarsi da sole. L’ipotesi di Pohorille prevede che esse siano diventate nel tempo un sistema di conservazione delle informazioni, non replicabile e meno complesso di quello odierno basato sugli acidi nucleici, e che la loro presenza abbia favorito la comparsa dell’RNA. Quest’ultimo avrebbe poi preso il sopravvento. Un indizio su questo fronte arriva da uno studio congiunto della Stony Brook University e del Lawrence Berkeley National Laboratory. È possibile che sulla Terra primordiale avvenisse la sintesi di corti polimeri, ovvero molecole formate da più unità, dette monomeri, a formare sequenze casuali. Non è chiaro, tuttavia, come possa essere avvenuto il salto a catene più lunghe con sequenze particolari in grado di autocatalizzarsi, ovvero di aumentare la propria concentrazione nell’ambiente. I ricercatori Elizaveta Guseva, Ronald Zuckermann e Ken Dill hanno investigato i processi fisici e chimici alla base di questo passaggio, basandosi su un modello di ripiegamento di polimeri che Dill aveva sviluppato in precedenza. Hanno scoperto che alcune piccole catene possono collassare a formare strutture compatte in acqua. La maggior parte delle molecole si ripiega in modo da esporre solo le parti idrofile, ma alcune si comportano diversamente: espongono parti idrofobe che attraggono le parti simili di altri polimeri. Di qui può avvenire la formazione di molecole più complesse, che si ripiegano e possono anche diventare catalizzatori. Per quanto rare, queste molecole tenderebbero a crescere nel brodo prebiotico e potrebbero avere un ruolo nella nascita della vita. > Le proteine potrebbero essere emerse come prime molecole organiche, fornendo > un sistema di conservazione delle informazioni, non replicabile e meno > complesso di quello basato sugli acidi nucleici, e la loro presenza potrebbe > aver favorito la comparsa dell’RNA. La questione, quindi, è duplice: dapprima è necessario comprendere che aspetto avesse il mondo primordiale e poi si può investigare quali delle molecole disponibili si rivelarono essenziali per lo sviluppo delle prime forme di vita. Uno studio del 2000 provò a stabilire in quale ordine siano apparsi i venti aminoacidi odierni. Ben nove dei dieci trovati con l’esperimento di Urey-Miller erano in cima alla lista; ciò fu considerato una riprova dell’importanza dell’esperimento, e del fatto che questo non si limitava a dimostrare che la sintesi abiotica degli aminoacidi fosse possibile. Edward N. Trifonov, autore dello studio, partiva dal presupposto che gli aminoacidi più diffusi prima dell’origine della vita fossero stati i primi a essere incorporati nel codice genetico. Ma, osservando le antiche sequenze, questo si rivela non essere del tutto vero. Uno studio recente, condotto presso l’Università dell’Arizona, ha messo in discussione l’idea che il codice genetico sia nato seguendo l’ordine di reclutamento degli aminoacidi comunemente accettato. Supponendo che le sequenze più antiche siano più ricche di quegli aminoacidi che sono stati incorporati per primi, e non per forza degli aminoacidi che erano presenti in maggior quantità 4 miliardi di anni fa, si trovano risposte diverse. Ci sono aminoacidi che non erano abbondanti, ma che le antiche forme di vita sono riuscite a utilizzare comunque, probabilmente perché hanno funzioni uniche e importanti. “Siamo partiti da un assunto: che l’antica Terra poteva produrre tanti aminoacidi, ma non tutti venivano necessariamente utilizzati dalle forme di vita primitive”, mi racconta Sawsan Wehbi, tra gli autori dello studio. “Non eravamo soddisfatti degli studi precedenti. Volevamo riaprire la domanda sull’ordine di reclutamento degli aminoacidi, che fino a oggi è stato considerato come un assioma”. > Secondo alcune stime, il nostro ultimo antenato comune universale (LUCA), > risalirebbe a 4,2 miliardi di anni fa, il che implicherebbe che la sua > comparsa abbia richiesto un tempo geologico sorprendentemente breve rispetto > all’origine della Terra. L’idea del gruppo di ricerca era viaggiare indietro nel tempo fino al momento in cui il codice genetico stava prendendo vita. Parliamo del periodo in cui è apparso LUCA (acronimo di Last Universal Common Ancestor), una cellula da cui si ipotizza siano derivate tutte le forme di vita odierne. Recentemente, si è stimato che LUCA sia vissuto 4,2 miliardi di anni fa e quindi che la sua comparsa abbia richiesto un tempo geologico sorprendentemente breve rispetto all’origine della Terra. Tracce di come doveva essere questo organismo primordiale vivono dentro ognuno di noi, dentro gli alberi, i funghi e i batteri. La cellula si è duplicata, poi le sue figlie si sono duplicate e loro figlie hanno fatto lo stesso, e nel tempo le mutazioni e la selezione naturale hanno guidato la differenziazione degli organismi. Studiare LUCA è complicato perché il nostro antenato non esisteva in un mondo vuoto. Aveva dei predecessori, la cui storia evolutiva non ci è ancora chiara, e appare come un caotico e incessante trasferimento di geni. Oltretutto, non è detto che LUCA fosse un solo organismo. Potrebbe anche essere stato una comunità di organismi che condividevano geni e caratteristiche utili alla sopravvivenza. In questa lettura, più che un singolo ente biologico, LUCA rappresenterebbe un periodo di tempo. Wehbi e colleghi hanno deciso di guardare non agli aminoacidi che esistevano nell’ambiente, ma solo a quelli che le prime sequenze biotiche scelsero di incorporare. Dunque, hanno considerato come evento spartiacque proprio la nascita del codice genetico, e hanno paragonato sequenze che risalgono a poco prima con sequenze che risalgono a poco dopo. Possiamo supporre che le catene più antiche che incontriamo siano ricche di quegli aminoacidi che il codice genetico scelse per primi, e povere di quelli che furono scelti per ultimi. E non è tutto: dentro un’antica sequenza di aminoacidi Sawsan Wehbi e i suoi colleghi hanno trovato segmenti che si sono duplicati varie volte e si sono conservati. Questo significa che esistono sequenze così antiche che appartengono a un tempo in cui le proteine venivano tradotte in altri modi. È un dato cruciale, perché presuppone l’esistenza di codici genetici più antichi degli acidi nucleici, e viene a cadere l’idea che il corrente sistema di trascrizione e traduzione dell’informazione genetica sia l’unica possibilità. Lo studio ha rivelato anche che la vita primordiale preferiva aminoacidi più piccoli, mentre gli aminoacidi che contengono atomi di metallo sono stati incorporati molto prima di quanto si pensasse in precedenza. “Sapere quali aminoacidi furono usati al principio della vita sulla Terra è importante perché ci permette di sapere che tipo di mondo biotico c’era. Ci sono tanti tipi diversi di aminoacidi che il pianeta può produrre, ma questo non significa che la vita li utilizzerà”, spiega Wehbi. “La cosa che mi ha stupito di più è stata scoprire che quello che studiamo ha implicazioni in tantissime aree della scienza. Questa ricerca è stata utilizzata in diversi ambiti di ricerca, non solo nella biologia, ma si è rivelata utile anche per come concepiamo la vita nello spazio, per le missioni della NASA, per la ricerca di molecole organiche lontano dal suolo terrestre. Abbiamo cambiato il paradigma”. > L’esistenza di proteine antecedenti all’RNA presuppone l’esistenza di codici > genetici più antichi degli acidi nucleici, e mette in discussione l’idea che > il corrente sistema di trascrizione e traduzione dell’informazione genetica > sia l’unica possibilità. Tutto questo è possibile perché gli studiosi oggi sono in grado di ripercorrere le tracce di LUCA e analizzare le sequenze del periodo in cui il codice genetico era in costruzione. Lo si fa attraverso un lavoro di ricerca nei database e di sequenziamento proteico per ricostruire la storia evolutiva delle sequenze – di fatto, si guarda alla radice dell’albero filogenetico di una sequenza e si cerca di capire a quando risale. Nel caso di questo studio, i ricercatori hanno scelto di focalizzarsi sui domini proteici, che sono generalmente più antichi delle proteine che compongono. LUCA probabilmente aveva altre forme di vita intorno a sé, ma non sono sopravvissute e non ci hanno lasciato indizi. Retrocedendo nel tempo, le domande si fanno più intricate e le risposte più nebulose. Chi è comparso per primo, l’RNA, il DNA o le proteine? E com’è arrivato il DNA a diventare il ricettario favorito dalle forme di vita? Ancora più indietro nel tempo, rimane da capire come arrivarono le prime molecole organiche a polimerizzare, a formare DNA, RNA e aminoacidi, e di lì come fecero le sequenze a duplicarsi o tradursi in proteine. Le macromolecole hanno bisogno di allungarsi e ripiegarsi per funzionare e l’ambiente precoce avrebbe impedito la formazione di stringhe così lunghe. Non a caso, la vita prese piede quando comparvero le membrane, che si richiusero intorno alle macromolecole e le protessero dall’ambiente esterno. E dunque come, e quando, comparvero le membrane? Come fu la prima duplicazione di una cellula? Avvenne in un unico luogo geologico, o in molti posti simultaneamente? “La cosa più bella”, commenta Sawsan Wehbi, “è che per ognuna di queste domande esiste almeno un laboratorio nel mondo dedicato interamente a studiarla”. L'articolo La vita prima della vita proviene da Il Tascabile.
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Dormire per dimenticare
N el racconto Funes el memorioso, pubblicato da Jorge Luis Borges nel 1942, un giovane contadino cade da cavallo e perde la capacità di dimenticare. Da quel momento, ogni dettaglio della realtà si imprime nella sua mente con una precisione assoluta e implacabile: ogni foglia, ogni crepa del muro, ogni riflesso di luce sul vetro. Funes ricorda tutto, ma non riesce più a pensare. Non può più astrarre, generalizzare, selezionare. Il mondo lo invade. E con esso, la sua memoria. “Ho più ricordi io da solo di quanti ne avranno avuti tutti gli uomini”, dice. Alla vita di Funes non è più concesso il sonno: “Dormire è distrarsi dal mondo”, aggiunge. “I miei sogni sono come la vostra veglia”. Oggi, a distanza di ottant’anni, la scienza ci ha dimostrato che Borges aveva colto qualcosa di sostanziale: ricordare tutto è una condanna. La memoria umana funziona come un archivio flessibile e dinamico, che organizza, modifica e talvolta – per fortuna ‒ sopprime. E in questa riscrittura continua, il sonno gioca un ruolo decisivo. Il cervello che lavora al buio Mentre dormiamo, il cervello compie un lavoro di editing straordinario. Da una parte, consolida i ricordi, fissandoli nella memoria a lungo termine; dall’altra, quando il sonno è sufficiente e non frammentato, ne modula l’intensità emotiva. Questi processi riguardano la memoria in generale e, in media, possono ridurre anche la frequenza dei ricordi intrusivi, ovvero immagini ricorrenti e frammenti di esperienze dolorose che riemergono senza preavviso quando la mente è sotto pressione, spesso legati a traumi o a situazioni di forte stress. > Mentre dormiamo, il cervello compie un lavoro di editing straordinario. Da una > parte consolida i ricordi, fissandoli nella memoria a lungo termine; > dall’altra, quando il sonno è sufficiente e non frammentato, ne modula > l’intensità emotiva. Già alla fine degli anni Novanta, alcuni neuroscienziati iniziarono a osservare che le diverse fasi del sonno non si equivalgono. Il sonno profondo, ricco di onde lente, rafforza soprattutto i ricordi dichiarativi: fatti, parole, concetti. La fase REM, più tarda e associata all’attività onirica, è implicata invece nell’apprendimento motorio e, soprattutto, nella regolazione delle emozioni. Nel 2008, uno studio dimostrò che il cervello tende a memorizzare con priorità i dettagli emotivamente rilevanti rispetto a quelli neutri. Come se il sonno operasse una selezione affettiva: trattiene ciò che conta davvero, lascia sbiadire il superfluo. Al contrario, quando non dormiamo ‒ o dormiamo male ‒ il sistema emotivo si squilibra. Importanti studi di neuroimaging hanno mostrato che dopo trentasei ore di veglia si amplifica la reattività dell’amigdala, la centralina cerebrale delle emozioni, e si riduce il collegamento con le aree frontali deputate al controllo. Il risultato: emozioni più intense, meno governabili. A conferma di questo meccanismo, uno studio del 2011 ha rilevato che dopo una notte di sonno fisiologico, la risposta emotiva dell’amigdala si attenua di fronte agli stessi stimoli che il giorno prima avevano generato turbamento. Come se la fase REM avesse addolcito il ricordo, riducendone la carica affettiva senza alterarne il contenuto. Matthew Walker, neuroscienziato e direttore del Center for Human sleep science a Berkeley, ha dedicato vent’anni a studiare questi meccanismi. Nel suo libro Perché dormiamo (2019), spiega come il sonno REM agisca come una sorta di terapia notturna: durante questa fase, il cervello è quasi privo di noradrenalina ‒ l’equivalente cerebrale dell’adrenalina, un neurotrasmettitore associato all’ansia ‒ e questo permette ai centri emotivi di rielaborare i ricordi carichi di emozione senza esserne sopraffatti. Il sonno, insomma, è un laboratorio attivo e selettivo, in cui le esperienze vengono rielaborate, scolpite nella memoria e smussate nel loro impatto emotivo. Una forma invisibile, ma potentissima, di protezione. Il sonno REM e il controllo sui ricordi intrusivi Nel gennaio del 2025, un gruppo interistituzionale di neuroscienziati, guidati dalle università di York e dell’East Anglia, ha pubblicato uno studio che mette in relazione in modo esplicito due ambiti di ricerca finora paralleli: il controllo volontario dei ricordi indesiderati e il ruolo del sonno, in particolare REM, nel ripristinare i meccanismi neurali che lo sostengono. > Il sonno è un laboratorio attivo e selettivo, in cui le esperienze vengono > rielaborate, scolpite nella memoria e smussate nel loro impatto emotivo. Una > forma invisibile, ma potentissima, di protezione. La nostra capacità di non pensare volontariamente a qualcosa, da svegli, viene testata in laboratorio con un protocollo chiamato Think/No-Think: ai partecipanti si chiede di imparare una serie di associazioni ‒ per esempio una parola collegata a un’immagine ‒ e poi di evitare deliberatamente di pensarci. Quando il controllo funziona, il ricordo resta sotto la soglia della coscienza. La fase REM facilita questa forma di inibizione. L’esperimento ha coinvolto un gruppo molto consistente di volontari, 85 in totale, divisi in due gruppi: una parte ha dormito normalmente, l’altra è rimasta sveglia tutta la notte. Chi aveva dormito, e specialmente chi aveva trascorso più tempo nella fase REM, riusciva meglio a impedire che certi ricordi riemergessero. L’attività della corteccia prefrontale, che regola i processi esecutivi, aumentava; quella dell’ippocampo, sede della memoria episodica, si riduceva. Al contrario, nei soggetti deprivati di sonno, questo circuito si indeboliva, e i ricordi da evitare tornavano più facilmente alla coscienza. È il primo studio a mostrare che tra qualità del sonno e controllo cognitivo esiste un nesso diretto, perché suggerisce che la capacità di “non pensare a qualcosa”, un’abilità centrale per il benessere mentale, non dipende solo dalla forza di volontà. Dipende anche da quanto e da come abbiamo dormito. Un’intuizione di lunga data, messa alla prova L’idea che durante il sonno la mente lavori attivamente sui contenuti emotivi non è una scoperta recente. Già per Sigmund Freud il sogno era uno spazio in cui l’apparato psichico lavora il materiale inconscio trasformandolo in immagini simboliche che possiamo permetterci di guardare da vicino: “Il sogno è la via regia che porta all’inconscio”, scrive in L’interpretazione dei sogni. Carl Gustav Jung ne ampliò la portata, definendo il sogno come funzione compensatoria, cioè un’attività della psiche che cerca di ristabilire un equilibrio rispetto agli atteggiamenti unilaterali della coscienza. A partire dagli anni Cinquanta, questa illuminazione cominciò a trovare riscontri nella fisiologia del sonno. Nel 1953, gli scienziati Eugene Aserinsky e Nathaniel Kleitman scoprirono l’esistenza di una fase notturna caratterizzata da rapid eye movements, rapidi movimenti oculari che si manifestano sotto le palpebre, tracciabili tramite elettrooculogramma. La definirono “REM sleep”: una condizione in cui il cervello mostra un’attività elettrica molto vivace, simile alla veglia, mentre il corpo ‒ con l’eccezione di sporadiche scariche muscolari involontarie ‒ si trova in uno stato di atonia quasi totale. Studiando la stessa fase in modo indipendente, il neuroscienziato francese Michel Jouvet la battezzò sommeil paradoxal (sonno paradosso), mettendo l’accento proprio su questa natura contraddittoria. Jouvet sarà tra i primi a ipotizzare che proprio in questa fase si concentrino le dinamiche più complesse della rielaborazione mentale. Negli anni successivi, William Dement, neurologo e pioniere della medicina del sonno, coniò il termine polisonnografia, per indicare lo strumento che ancora oggi consente di monitorare le fasi del sonno, contribuendo al suo successo in ambito diagnostico e di ricerca. > I nostri ricordi non sono mai oggettivi: si piegano alla memoria emotiva e > vengono riscritti ogni volta che li rievochiamo. Durante il giorno li > rielaboriamo razionalmente. Di notte quella razionalità si ritira. Tra gli anni Ottanta e Novanta, la clinica dei sogni trova un’articolazione terapeutica nel lavoro di Rosalind Cartwright. Nelle sue ricerche su depressione e trauma, la neuroscienziata, fondatrice, direttrice e ricercatrice presso lo Sleep disorders service and Research center, osservò che nel tempo i contenuti onirici si modificano con l’elaborazione emotiva. In questa prospettiva, il sogno svolge una funzione essenziale di regolazione: contribuisce a smorzare gli stati affettivi negativi mettendo in relazione le esperienze disturbanti recenti con ricordi pregressi, favorendo una fusione narrativa che integra anche i vissuti più dolorosi dentro una rappresentazione del sé più coerente e sostenibile. Sappiamo che i ricordi non sono mai oggettivi: si piegano alla memoria emotiva, cambiano con il tempo, si ricostruiscono ogni volta che li rievochiamo. Durante il giorno li rielaboriamo razionalmente, cercando di dare loro un ordine. Di notte quella razionalità si ritira. Nel sogno emergono liberamente paure, desideri, fantasie, colpe, tutto ciò che da svegli teniamo sotto controllo. Il sonno ci protegge proprio perché questa rielaborazione avviene al di fuori della nostra volontà, senza resistenze né censure. Sognare sapendo di sognare Ma cosa succederebbe se potessimo trasformare questa protezione automatica e passiva in un intervento consapevole? La domanda è al centro di un filone di ricerca che negli ultimi anni sta ridefinendo i confini tra veglia e sonno: quello dedicato allo studio del sogno lucido, uno stato ibrido in cui la coscienza vigile del sognatore incontra la plasticità della fase REM, aprendo la possibilità di intervenire attivamente sul contenuto onirico. > Nel sogno lucido il cervello sembra lavorare su due registri > contemporaneamente: da una parte mantiene la plasticità del sogno, in cui le > emozioni vengono naturalmente elaborate; dall’altra recupera capacità > cognitive tipiche della veglia. Con Waking Life, film d’animazione del 2001, Richard Linklater immerge il protagonista in un flusso onirico ininterrotto, un labirinto di dialoghi e visioni in cui i confini tra realtà percepita e immaginazione si dissolvono continuamente, lasciando attori e spettatori in una condizione di perpetua ambiguità. In una delle conversazioni più intense del film, quella con il poeta Timothy “Speed” Levitch, emerge un paradosso che suona quasi come un’istruzione per aspiranti sognatori lucidi. Levitch invita a fare qualcosa di controintuitivo: prima di addormentarsi, non lasciarsi andare: “Il che vuol dire: ricorda. Perché ricordare è un’attività decisamente più psicotica del dimenticare”. Mentre il sonno tradizionalmente invita a cedere il controllo, qui si suggerisce di fare l’opposto: mantenere la consapevolezza, ricordarsi di ricordare. Nel sogno ordinario, richiamare volontariamente un ricordo traumatico può essere rischioso, perché significa riportare in superficie contenuti che la mente vuole tenere a bada. Nel sogno lucido, però, la coscienza rimane vigile, e questo permette di usare il ricordo come leva terapeutica: è possibile elaborare il trauma mentre il cervello svolge naturalmente il suo lavoro di regolazione emotiva. Quest’area di confine è al centro di numerosi studi recenti. Nel 2019, una review ha analizzato i dati di neuroimaging disponibili, arrivando a una conclusione preliminare ma significativa: durante un sogno lucido si attivano aree associate a funzioni cognitive superiori come il controllo esecutivo, l’attenzione e la meta-coscienza, che nel sonno REM ordinario tendono a restare poco attive. È come se il cervello riuscisse a lavorare su due registri contemporaneamente: da una parte mantiene la plasticità del sogno, quell’ambiente in cui le emozioni vengono naturalmente elaborate; dall’altra recupera capacità cognitive tipiche della veglia. Il sogno interattivo Nel 2021, quattro team di ricerca indipendenti – in Francia, Germania, Paesi Bassi e Stati Uniti – hanno pubblicato su Current Biology uno studio che dimostra come sia possibile stabilire una comunicazione con i cosiddetti lucid dreamers nel momento del sonno. I partecipanti, durante episodi di sogno lucido in fase REM monitorata con polisonnografia, sono stati in grado di ricevere domande dall’esterno, come semplici problemi aritmetici o quesiti sì/no, e di rispondere in tempo reale attraverso sequenze prestabilite di movimenti oculari o contrazioni facciali. Il risultato, replicato in quattro laboratori con metodologie leggermente diverse, suggerisce che nel sogno lucido restano attive alcune funzioni cognitive complesse, come la memoria di lavoro e la capacità di comprendere istruzioni verbali, una condizione fino a poco tempo fa ritenuta esclusiva dello stato di veglia. I ricercatori hanno definito questo fenomeno “sogno interattivo”: una comunicazione bidirezionale con la mente addormentata che, pur con limiti tecnici e cognitivi, si dimostra replicabile, funzionale e indipendente dal metodo di induzione onirica. Se la coscienza e il controllo cognitivo possono sopravvivere al sonno, anche solo in forma parziale, si apre la possibilità di osservare dall’interno l’attività mentale notturna, di interrogarla nel suo stesso linguaggio e, forse, un giorno, di influenzarne il corso. > In alcuni esperimenti i sognatori lucidi sono stati in grado di ricevere > domande dall’esterno, come semplici problemi aritmetici o quesiti sì/no, e di > rispondere in tempo reale attraverso sequenze prestabilite di movimenti > oculari o contrazioni facciali. La fascinazione per il tema ha spinto questa frontiera ancora oltre, aprendo scenari che sconfinano nella fiction. Nel 2024 la startup californiana REMspace ha annunciato di aver ottenuto la prima comunicazione tra due persone in sogno lucido. Secondo quanto riportato dall’azienda, l’esperimento avrebbe coinvolto due sognatori lucidi in case separate, monitorati da remoto durante il sonno tramite sensori elettromiografici. Utilizzando un sistema di codifica semplificata, un partecipante avrebbe ricevuto una parola casuale e l’avrebbe “trasmessa” al secondo, che avrebbe poi confermato il messaggio al risveglio. Al momento, però, mancano pubblicazioni scientifiche sottoposte a revisione paritaria: le uniche fonti sono il sito e i comunicati dell’azienda, ripresi dalla stampa generalista. A complicare il quadro sono alcuni dettagli sul fondatore di REMspace, figura controversa nota anche per esperimenti personali estremi, tra cui un tentativo autogestito di impianto cerebrale nel 2023. Tra cura e controllo Tra le applicazioni cliniche del sogno lucido, la più esplorata riguarda il trattamento degli incubi ricorrenti e, in parte, dei sintomi legati al trauma. Una revisione sistematica del 2023 ha evidenziato risultati promettenti della lucid dreaming therapy (LDT), capace in alcuni casi di ridurre la frequenza e l’intensità degli incubi, sebbene i dati provengano ancora da studi pilota condotti su campioni ridotti. Una seconda review, apparsa su BMC Psychiatry, inserisce la LDT tra gli approcci psicosociali emergenti, ma ne segnala al contempo la variabilità metodologica e la necessità di standardizzazione. Nel biennio 2024-2025, uno studio preliminare ha adattato la terapia cognitivo-comportamentale per gli incubi ai pazienti con narcolessia, affiancandola a un metodo sperimentale volto a stimolare la consapevolezza onirica nei momenti chiave del sonno. I risultati iniziali segnalano una possibile riduzione della gravità degli incubi e un miglioramento del senso di controllo. In questo contesto, la narcolessia rappresenta un terreno di indagine particolarmente fertile: numerosi studi riportano una maggiore incidenza di sogni lucidi tra chi ne è affetto rispetto alla popolazione generale, suggerendo uno spazio di intervento ancora poco esplorato. Il dibattito sul potenziale terapeutico di queste tecniche resta tuttavia aperto: la lucidità onirica spontanea è rara, i metodi per indurla variano in efficacia e l’esperienza può talvolta essere disturbante o interferire con l’equilibrio fisiologico del sonno REM, specie se si tenta di forzare un controllo eccessivo all’interno dell’esperienza. > C’è chi sta studiando le possibili applicazioni cliniche del sogno lucido. Ma > questo impone una questione: fino a che punto è auspicabile intervenire > volontariamente nella sfera onirica, che per sua natura dovrebbe restare > libera, ambigua e rielaborativa? In questa direzione, alcuni esperti propongono un approccio più sobrio: piuttosto che puntare al pieno dominio del sogno, si possono integrare elementi di mindfulness, consapevolezza corporea e accettazione nei trattamenti per gli incubi. Strategie meno invasive, ma capaci ‒ almeno in via preliminare ‒ di migliorare la regolazione emotiva notturna, attenuare il peso dei ricordi traumatici e preservare l’integrità dei processi neurofisiologici del sonno. C’è poi un nodo più filosofico che riguarda il confine tra trattamento e illusione di controllo: fino a che punto è auspicabile intervenire volontariamente nella sfera onirica, che per sua natura dovrebbe restare libera, ambigua e rielaborativa? Esplorare il sogno lucido significa spingersi ai margini della coscienza, là dove si incrociano memoria, trauma e identità. L’utilità clinica di queste tecniche apre possibilità terapeutiche non trascurabili. Ma il sogno resta anche uno spazio indocile, dove la mente lavora secondo logiche che sfuggono al controllo volontario. Funes, nel racconto di Borges, aveva perso il sonno perché ricordava tutto. E il sonno ci protegge per la ragione opposta: perché permette ai ricordi di trasformarsi senza sorveglianza. Dormire, oltre a “distrarci dal mondo”, è quindi anche un momento per lasciarsi attraversare da ciò che non possiamo dirigere. Ed è forse nella resa, più che nel dominio, che il sogno si fa cura. L'articolo Dormire per dimenticare proviene da Il Tascabile.
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Che fine ha fatto la tassidermia
“L o sguardo è ciò che fa davvero la differenza.” Per Michela gli occhi sono una fissazione. Dopo averli alloggiati sottopelle, trascorre molto tempo a studiarne la posizione sul capo. Anche il colore deve essere quello esatto; sceglie con cura i bulbi di vetro, perché ogni iride ha le sue sfumature. Per lei è fondamentale saper cogliere ogni piccolo dettaglio nello sguardo degli animali su cui lavora, per restituire loro ‒ una volta montata la pelle ‒ quel guizzo di vita che su cui si gioca l’illusione. Michela Padovani ha 32 anni, è una microbiologa e, da qualche anno, anche tassidermista. Si occupa soprattutto di volatili. Li trova durante le sue escursioni, ma più spesso le vengono portati da amici e conoscenti. Tratta i corpicini con gentilezza: sveste con cura il corpo dalla pelle piumata (quella dei colombiformi è la più delicata, mi spiega) annotando il volume dei muscoli e la lunghezza degli arti. Per un risultato veritiero, serve un modello che ricalchi perfettamente il corpo dell’animale originale, un manufatto che possa indossare la nuova pelle.  “Ognuno rispetta la morte a suo modo. Per me si tratta di ridare una seconda vita; così, è come onorare la bellezza della Natura”.  Nel suo caso la tassidermia è stata il punto di arrivo di una passione sincera per il mondo naturale. Raccogliere qualche piuma o piccole ossa non le bastava più, e così ha deciso di dedicarsi a dare di nuovo un valore alla bellezza delle spoglie. La tassidermia vive di un equilibrio di forze opposte. È una pratica di confine che si regge in bilico tra la vita e la morte, il reale e l’irreale, ma soprattutto tra l’arte e la scienza. Da quasi tre secoli il suo scopo rimane sempre lo stesso, quello di fermare un corpo nel tempo, ricreando l’illusione della vita. Nel corso della sua storia ha attraversato periodi di stravaganza, di colonialismo e di riscoperta. Sempre accompagnata da quel vago senso di macabro che ancora oggi ci pone la domanda su quanto sia giusto (e forse necessario) manipolare i corpi animali per fermarne la forma nel tempo. > La tassidermia vive di un equilibrio di forze opposte. È una pratica di > confine che si regge in bilico tra la vita e la morte, il reale e l’irreale, > ma soprattutto tra l’arte e la scienza. Come alcuni degli esemplari su cui lavorano, anche i tassidermisti sono una specie in via di estinzione. Se un tempo le tecniche passavano dal maestro all’allievo, oggi quella trasmissione è quasi scomparsa e nei musei italiani il mestiere non esiste quasi più. Istituzioni che per tradizione comprendevano questa professione nel proprio organico, come il Museo di storia naturale di Milano, bandiscono nuovi concorsi alla ricerca di chi potrà sostituire chi andrà in pensione. Ma i pochi tassidermisti rimasti preferiscono lavorare per conto proprio. Eppure, lontano dall’essere rimasto chiuso in qualche armadio vittoriano, il lavoro di chi si prende cura degli animali rimane cruciale nei musei, tanto nelle sale espositive quanto nel retroscena degli archivi. Ma se in ambito museale i tassidermisti vanno scomparendo, al di fuori la pratica è ancora viva e suscita curiosità e nuove committenze. La pelle non è solo sostanza da conservare, ma continua a essere un vero e proprio medium creativo. Un materiale che si presta a interpretazioni estetiche, simboliche, affettive. È quello che oggi chiamiamo tassidermia artistica, e che spinge i suoi confini fino alla conservazione degli animali domestici, esplorando territori sempre in bilico tra bellezza e grottesco. Fermare il tempo L’idea umana di interrompere la decomposizione del corpo dopo la morte ha radici antiche. Gli Egizi imbalsamavano le spoglie dei defunti per garantire loro una nuova esistenza in un’altra dimensione e lo facevano trattando la pelle con oli e balsami. Proprio dalla parola balsamo deriva il termine imbalsamare con cui oggi ci riferiamo agli animali conservati nelle teche dei musei e che andrebbero chiamati più correttamente tassidermizzati. Tassidermia deriva dal greco antico e significa “sistemare, dare ordine alla pelle” (táxis ordine, dérma pelle). Perché il tassidermista non si cura di ciò che sta all’interno, ma solo di quei pochi millimetri di tessuto che rendono un animale nella forma riconoscibile ai nostri occhi. La scienza inizia a interessarsi alla preservazione dei corpi soltanto a partire dal Diciassettesimo secolo, quando la loro immersione in soluzioni alcoliche permetteva di trasportarli in Europa da ogni angolo del mondo. Per la prima volta l’essere umano riuscì a impedire in modo stabile la putrefazione del corpo e a far toccare con mano agli accademici europei creature che prima erano soltanto dipinte nei libri. La tecnica era più utile ai primi studi di fisiologia che al piacere degli occhi, necessaria alla conservazione dei tessuti ma incapace di restituire le fattezze originali degli esemplari conservati. I corpi si disidratavano, si rattrappivano e i colori svanivano. > Se in ambito museale i tassidermisti vanno scomparendo, fuori la pratica è > ancora viva e suscita curiosità e nuove committenze. La pelle non è solo > sostanza da conservare, ma continua a essere un vero e proprio medium > creativo. La tassidermia come la conosciamo oggi arriva soltanto più tardi. Un secolo dopo, Jean-Baptiste Bécœur inventa il sapone arsenicale, un unguento talmente tossico da impedire la distruzione delle pelli da parte degli insetti necrofagi. I corpi si liberano quindi dalla clausura di una seconda vita sotto spirito, riacquisendo le sembianze naturali. Sarà la pelle a essere conservata, e da semplice oggetto scientifico e reperto diventa un nuovo medium di espressione. L’età dell’oro si raggiunge nell’Ottocento. Le creature provenienti da ogni parte del mondo esplorato vengono tassidermizzate e riempiono i salotti d’Europa. Da quel momento i musei scientifici, che si erano fino ad allora dedicati a una raccolta sistematica degli oggetti naturali, diventano il palcoscenico sul quale si fa sfoggio della superiorità imperialista europea. Le sale espongono animali mai visti prima, esemplari che contribuirono al fascino per l’esotico tipico dell’epoca. I corpi di creature mai approdate nel continente, come il gorilla, diventano un’icona coloniale come prove della conquista europea e di una natura domata. Al servizio della scienza Molti di questi esemplari sono ancora oggi conservati nei musei di storia naturale. Insieme a quelli raccolti nei periodi successivi, costituiscono le collezioni museali odierne. “Come in passato, oggi lo scopo di una collezione è soprattutto quello scientifico” mi spiega Giorgio Chiozzi, che lavora come ornitologo al Museo di storia naturale di Milano. La raccolta e conservazione degli uccelli è indispensabile ai suoi studi e per questo lavora a stretto contatto con il tassidermista del museo, a oggi uno dei pochi rimasti ad averne uno. La preparazione tassidermica è prima di tutto un metodo di conservazione, uno tra i più efficaci considerando che ha fatto giungere fino a noi animali preparati quasi tre secoli fa. > Dopo la scoperta del DNA e grazie ai progressi biotecnologici, i corpi degli > animali ‒ di ieri come di oggi ‒ sono in grado di restituire informazioni che > vanno oltre la forma, diventando archivi di informazione genetica. Come una biblioteca, le collezioni museali possono essere consultate alla ricerca di informazioni nel passato di una data specie. Fino agli anni Settanta in Italia veniva praticata la raccolta attiva in natura, che aveva permesso fino a quel tempo di collezionare serie storiche ancora oggi conservate. Questo tipo di raccolte veniva assemblato secondo criteri precisi, come l’appartenenza a una certa regione geografica, e il grande numero di animali raccolti permetteva di produrre conoscenze significative, biologicamente rilevanti. Le conoscenze attuali sulla morfologia, l’anatomia interna e l’evoluzione sono basate su questo tipo di raccolte. Oggi ci permettono il confronto con gli esemplari del passato, facendoci immaginare la storia evolutiva di una specie, come è cambiata la forma o l’alimentazione nel tempo. Dopo la scoperta del DNA e grazie ai progressi biotecnologici, i corpi degli animali ‒ di ieri come di oggi ‒ sono in grado di restituire informazioni che vanno oltre la forma, diventando archivi di informazione genetica. Nelle loro cellule restano tracce genetiche che permettono di formulare nuove ipotesi evolutive, ma anche tracce di sostanze inquinanti come i metalli pesanti che possono essere misurate per confrontarle con il presente. Ogni campione diventa così una testimonianza di un tempo e di un luogo, capace di raccontare non solo la storia di una singola specie, ma anche le trasformazioni dell’ambiente in cui ha vissuto. Le serie storiche sono un vero archivio della biodiversità che non ha perso il suo valore scientifico e che continua il suo dialogo con le nuove raccolte. “Negli ultimi anni molti degli esemplari arrivano soprattutto da impatti stradali, le cosiddette roadkill; quindi, animali investiti dai veicoli e raccolti direttamente dai cittadini” mi racconta il dottor Chiozzi. È stimato che ogni anno in Europa vengano uccisi in incidenti stradali 30 milioni di mammiferi e quasi 200 milioni di uccelli. Anche se il valore scientifico di questi esemplari è inferiore rispetto alle raccolte attive fatte in passato, gli animali sono comunque una fonte di nuovi esemplari per i musei di storia naturale. A questi si uniscono poi gli animali che hanno vissuto in centri di recupero in parchi faunistici. Qualche anno fa il rinoceronte Toby ha concluso la sua esistenza al Parco Natura viva, in provincia di Verona, il giardino zoologico dove viveva, e il suo corpo è stato preparato per essere esposto al MUSE – Museo delle scienze di Trento. Il rinoceronte era il più anziano d’Europa e apparteneva all’unica sottospecie di rinoceronte bianco ancora presente in natura, quella meridionale. Spesso si tratta di esemplari le cui popolazioni naturali sono minacciate di estinzione, e i loro corpi diventano testimonianze viventi della loro stessa fragilità. In questo senso i musei si fanno custodi della memoria, accogliendo e mostrando specie ormai scomparse: è il caso, ad esempio, dell’alca impenne (un grande pinguino oggi estinto) o del quagga (un equino che ricorda un po’ una zebra e un po’ un cavallo). Entrambi sono visibili al Museo di storia naturale di Milano e ci offrono un monito su ciò che è già accaduto e su ciò che potrebbe ancora accadere. > Il tassidermista moderno sa maneggiare anche argilla, materie plastiche e > altri materiali. Non è più soltanto una questione di scienza e conservazione, > ma di forma, suggestione e scenografia. Oltre alla pura e semplice conservazione dei corpi, non è tramontato il fascino per le esposizioni di animali tassidermizzati ‒ cosiddetti naturalizzati ‒ che richiedono di raggiungere un realismo sempre più autentico. Al di là della pratica tradizionale di concia e preparazione delle pelli, oggi la professione si reinventa per restare al passo coi tempi, affacciandosi a nuove tecniche e materiali. “Fermo restando che il ruolo del tassidermista è principalmente quello di preparatore naturalista, alle sue competenze oggi si aggiungono la capacità manuale e l’abilità artistica di utilizzare materiali sintetici per realizzare realistici calchi di esemplari e modelli di animali” mi spiega Giorgio Chiozzi, parlando del futuro di questa pratica. Il tassidermista moderno sa maneggiare ‒ oltre alle pelli ‒ anche argilla, materie plastiche, siliconi e innumerevoli altri materiali. Non è più soltanto una questione di scienza e conservazione, ma di forma, suggestione e scenografia. Il primo a immaginare di mettere in scena la vita così come si presenta nel suo ambiente fu il Museo di storia naturale di New York, sotto la guida di Carl Akeley. Il diorama è un tipo di esposizione dove non basta la presenza del corpo animale a rendere la suggestione ma serve spingersi un po’ più in là, serve metterlo in azione. Ecco quindi che è possibile assistere a scene di caccia di un predatore che rincorre la sua preda, di scontro tra due maschi di cervo che incrociano le corna o di strategie alimentari come nel caso dei condor che si affollano su una carcassa. Ancora oggi il Museo di storia naturale di Milano si serve di questo stratagemma per raccontare le relazioni tra gli animali e l’ambiente in cui vivono, nonché quelle tra animali e altri animali. In altre parole, la loro ecologia. L’arte che non ha smesso di essere arte La tassidermia è ancora uno strumento didattico efficace perché l’esperienza di vicinanza con il corpo animale continua a offrire qualcosa in più rispetto allo schermo. Trovarsi dinnanzi alla fisicità di un corpo, come quello maestoso di un grosso alce, apre una relazione tra chi osserva e chi viene osservato, un’interazione nella quale l’osservatore assume ruolo attivo, capace di confrontarsi. Dal punto di vista dell’antropologia delle immagini, l’efficacia di questi complessi visivi si fonda sul fatto che il corpo animale conservato ‒ in quanto medium ‒ rimane inseparabile dall’immagine che veicola. Non esiste più rappresentazione. Il corpo originale, trasformato in immagine, si presenta agli occhi dello spettatore nella sua autentica tridimensionalità. Verso la fine del Settecento il Leverian Museum di Londra mise in opera una singerie mai vista prima. Fino ad allora le singerie erano dipinti o illustrazioni che mettevano in scena scimmie in atteggiamenti umani allo scopo di ironizzare e parodiare i comportamenti dell’essere umano. Quella volta a indossare i panni di un postino o di una dama (con tanto di abiti cuciti su misura) erano vere e proprie scimmie tassidermizzate. Per la prima volta nella sua storia, l’essere umano provava un nuovo senso di smarrimento di fronte a ciò che sembra vivo, ma non lo è. Per quasi tutta la sua storia la tassidermia ha operato sempre al fianco della scienza, ma non ha mai smesso di essere anche arte. Il corpo animale conservato si è evoluto come mezzo visivo capace di esprimere messaggi complessi, leggibili come quadri o sculture. Il tassidermista ha sviluppato insieme alle conoscenze di anatomia ed ecologia quelle legate ai materiali e alla manipolazione del medium della pelle, con l’intenzione di raggiungere un realismo sempre più preciso. Il corpo animale non è più soltanto rappresentazione e dimostrazione, ma diventa narrazione, all’interno di scenografie che superano il concetto di divulgazione scientifica. > La tassidermia etica impone che nessun animale debba essere appositamente > ucciso. L’animale diventa così simbolo di memoria e testimonianza, non un > trofeo. Se la tassidermia è sempre stata arte, oggi il termine “tassidermia artistica” svolge la funzione di separarla dall’idea comune di tassidermia al servizio dei musei. La maggior parte degli artisti che utilizzano il corpo animale come mezzo espressivo praticano quella che viene definita ethical taxidermy, che si propone di rinnovare l’idea di tassidermia tradizionale. Al centro pone il principio che nessun animale debba venire ucciso per essere utilizzato, e per questo utilizza esemplari già deceduti e di provenienza nota. Nata dall’esigenza di coniugare interesse artistico e rispetto per la vita animale, intende ridurre l’impatto etico e ambientale di una pratica storicamente legata alla caccia e alla collezione. Nella tassidermia etica, l’animale diventa simbolo di memoria e testimonianza, non un trofeo. Gli artisti assumono una posizione consapevole nei confronti del ciclo vitale, del rapporto essere umano-natura e della possibilità di trasformare un corpo già privo di vita in veicolo di riflessione culturale, estetica o educativa. Un nuovo conforto Accanto a nuovi desideri artistici, negli ultimi anni la tassidermia ha iniziato a servire un bisogno più privato: quello di conservare il corpo di chi ha condiviso con noi tutta la vita. La tassidermia domestica ‒ o come piace ad Alberto “tassidermia famigliare” ‒ è una nuova pratica che entra in punta di piedi tra le applicazioni tradizionali di quest’arte. Alberto Michelon è l’unico in Italia a esercitare in maniera professionale (e secondo coscienza) questo tipo di artefatti. Si è formato come naturalista e poi come tassidermista. Da quando ha aperto il suo studio lavora per musei e privati, ma nel tempo ha sviluppato, come dice lui, una “repulsione” verso quegli animali uccisi e preparati come trofei di caccia. L’esperienza accumulata ha fatto nascere in lui il desiderio di commissioni più stimolanti e significative, e ha deciso di rivolgersi ad altre forme di preparazione, aprendo la strada a nuove richieste. “Un cacciatore che ti commissiona un lavoro non ha nessun legame con quell’animale. Chi mi chiede di preparare un cane, o un gatto, ha passato con lui gioie e dolori”. Alberto crede che oltre alla conoscenza del mondo animale e a una tecnica impeccabile, per un tassidermista del suo tipo serva sviluppare anche una grande sensibilità. Le persone che si rivolgono a lui per rimanere ancora con il proprio animale domestico portano con sé una storia e un dolore che necessitano di essere accolti. “Spesso chi chiede il mio aiuto è disperato. Passo molto tempo con loro, si piange, ci si racconta.” La tassidermia domestica è anche una sfida che richiede molto lavoro. Cani, gatti, tartarughe e altri animali da compagnia sono esemplari unici e le loro caratteristiche vanno studiate con attenzione prima di iniziare una nuova opera. Alberto esamina le forme, i volumi, nonché le espressioni che rendono ogni animale proprio quell’animale. “Alla fine, la somiglianza è quasi perfetta.” > La tassidermia domestica fornisce un nuovo modo di vivere il lutto, ponendosi > tra chi rimane e la sua perdita, impedendo una separazione definitiva e > concedendo l’illusione di una presenza eterna. L’Italia è uno dei Paesi europei con il più alto numero di animali domestici pro capite. I cosiddetti pet entrano a far parte a tutti gli effetti del nucleo famigliare e in quanto membri ne assumono il valore affettivo. In questo caso la tassidermia fornisce un nuovo modo di vivere il lutto ponendosi tra chi rimane e la sua perdita, impedendo una separazione definitiva e concedendo l’illusione di una presenza eterna. “Il corpo viene cremato, ma all’esterno rimane come lo ricordavamo. Possiamo accarezzarlo, interagire con lui e questo è in qualche modo consolatorio. In un certo senso si tratta di un modo per ingannare la morte”. Ci siamo dimenticati della bellezza Prima ancora di essere scienziato, il tassidermista è sempre stato un artista. In quanto tale egli intende lanciare un messaggio, ma al posto di scolpire il marmo o dipingere una tela lo comunica facendo parlare gli animali stessi. Come in Perversus, opera dello stesso Michelon, dove gli animali sono stati vestiti di lacci e cinghie e ci parlano di quanto siano diventati oggetti destinatari di amore a misura d’uomo. Oppure in Time for Revolution, nella quale Michelon ha messo tra le loro zampe cartelli e striscioni, formando un insolito corteo di protesta per l’ambiente. > La tassidermia non è soltanto tecnica di conservazione né reliquia di un > passato coloniale, ma può farsi spazio di riflessione sul nostro rapporto con > gli animali, sul modo in cui li ricordiamo, li guardiamo, li trasformiamo in > presenza anche dopo la morte. “Bisogna tornare ad apprezzare le cose belle”, mi dice Michela Padovani, con la convinzione di chi conosce la diffidenza che la tassidermia ancora suscita. Forse il fastidio nasce dalla consapevolezza che quei corpi siano stati svuotati, privati della loro sostanza per essere rimontati su un supporto inerte. O, come suggerisce lei, dal legame persistente con l’immaginario della caccia. In entrambi i casi, ciò che manca è un racconto diverso. La tassidermia non è soltanto tecnica di conservazione né reliquia di un passato coloniale, ma può farsi spazio di riflessione sul nostro rapporto con gli animali, sul modo in cui li ricordiamo, li guardiamo, li trasformiamo in presenza anche dopo la morte. Per continuare ad avere senso oggi, questa pratica deve essere attraversata da nuove storie: non più quelle del possesso e della conquista, ma quelle della cura, della memoria, della bellezza. L'articolo Che fine ha fatto la tassidermia proviene da Il Tascabile.
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La versione del cavallo
T oc. È il suono dello zoccolo di Hans: il cavallo capace di contare, riconoscere le carte da gioco e persino leggere nel pensiero. Ha appena poggiato la zampa su un cartellino con il numero “quattro” disegnato in superficie, il risultato corretto di una sottrazione. Siamo nei primi anni del Novecento e una commissione di scienziati è riunita a casa di Wilhelm von Osten, insegnante di matematica in pensione di Berlino, per verificare che le prodigiose abilità di Hans, il suo cavallo, non siano una frode. E tali non sembrano: sa risolvere calcoli, riconoscere forme geometriche e indovinare a quale numero sta pensando un umano di fronte a lui. Eppure il biologo e psicologo Oskar Pfungst non è convinto e ripropone all’animale i test, questa volta con alcune modifiche: gli sperimentatori non dovranno conoscere le risposte ai quesiti posti o non dovranno essere visibili al cavallo. Hans non risponde più e Pfungst, in questo modo, scopre che l’equino non sarà un bravo matematico, ma è un eccellente osservatore: riesce a leggere i piccoli segnali del volto e del resto del corpo di von Osten e dei membri della commissione che in qualche modo indicano che sta toccando o sta per toccare il numero corretto. Nasce così l’effetto Clever Hans, che indica il rischio da parte degli esseri umani di dare al soggetto testato un suggerimento involontario sul comportamento desiderato. > Nel corso della storia i cavalli sono stati cibo, mezzi di trasporto, forza > agricola, armi da guerra, campioni sportivi, status symbol, compagni e > mediatori terapeutici. Solo negli ultimi anni abbiamo iniziato a studiare i > loro reali bisogni, il modo in cui percepiscono il mondo e perfino alcuni > aspetti della loro vita interiore. Nel teatro delle civiltà umane, i cavalli sono stati costretti a recitare innumerevoli ruoli. Se per il vecchio maestro in pensione doveva essere lo sbalorditivo esemplare a cui aveva insegnato a comportarsi come un umano, in generale, nella storia delle nostre società, questi animali sono stati cibo, mezzi di locomozione, strumenti agricoli, armi da guerra, campioni sportivi, status symbol, compagni di vita e mediatori terapeutici. Uno di loro stava persino per essere nominato console dall’imperatore Caligola, almeno così scriveva Svetonio. Solo negli ultimi anni la ricerca sul comportamento animale sta iniziando a restituirci un’immagine più autentica dei cavalli, svelando i loro reali bisogni, il modo in cui percepiscono il mondo e perfino alcuni aspetti della loro vita interiore, al di là delle nostre proiezioni e stereotipi. Umani e cavalli: due destini che si uniscono La storia degli Equidae, la famiglia a cui appartengono i cavalli, inizia circa 55 milioni di anni fa, in America. Nell’Eocene apparve il primo antenato del cavallo, l’Hyracotherium, i cui resti fossili ritrovati in America Settentrionale ed Europa rivelavano le sembianze di un mammifero molto diverso dal fiero destriero a cui noi tutti siamo abituati: aveva dimensioni simili a quelle di un cane di taglia medio-piccola, cranio tozzo e zampe sottili. Persino i paleontologi fecero fatica a ricollegarlo ai cavalli prima del ritrovamento dei resti di altri antenati, ultimo il Pliohippus, da cui si è evoluto il genere Equus circa 4-4,5 milioni di anni fa, durante il Pliocene. Nel corso di poche decine di milioni di anni l’evoluzione apportò numerosi cambiamenti, tra cui l’aumento di dimensioni, la riduzione del numero di dita, la modifica della morfologia dei denti affinché fossero adatti al pascolo, l’allungamento del muso e l’incremento del volume e della complessità del cervello. > Il controllo della riproduzione dei cavalli moderni è emerso intorno al 2200 > a.C. nelle steppe pontico-caspiche, attraverso l’accoppiamento tra > consanguinei stretti per selezionare le caratteristiche più utili. Fu alla fine del Pleistocene che il destino dei cavalli cambiò drasticamente. Se in America Settentrionale scomparvero intorno a 10.000 anni fa, nel Vecchio mondo vissero abbastanza a lungo da incontrare l’essere umano ed essere domesticati. Le pareti dipinte delle grotte di Lascaux, Altamira e Pech-Merle testimoniano l’attrazione che il cavallo aveva iniziato a esercitare sui nostri progenitori nel Paleolitico, con le loro rappresentazioni accurate, forse propiziatorie o dettate dal senso di libertà che la loro corsa probabilmente evocava. I primi tentativi di domesticazione, però, avvennero molto tempo dopo: le prime tracce risalgono soltanto a circa 5.500 anni fa e appartengono ad alcuni antichi insediamenti semisedentari localizzati nell’attuale Kazakistan settentrionale. Nei pressi del sito archeologico di Botaï sono stati rinvenuti resti ossei, appartenenti a centinaia di cavalli, che mostrano l’uso di briglie, di recinzioni, e altri ritrovamenti che costituiscono indizi sulla loro mungitura per ricavarne latte da bere, pratica diffusa ancora oggi in Mongolia. Per molto tempo si è creduto che i nostri cavalli fossero i diretti discendenti di quelli di Botaï, ma recenti analisi genetiche hanno smentito questa ipotesi. Gli equidi del Kazakistan non vennero selezionati e utilizzati per il trasporto su larga scala. Questo sarebbe accaduto solo verso la fine del terzo millennio a.C. Uno studio pubblicato su Nature nel 2024 ha rivelato che il controllo della riproduzione della linea dei cavalli moderni è emerso intorno al 2200 a.C. nelle steppe pontico-caspiche, attraverso l’accoppiamento tra consanguinei stretti per selezionare le caratteristiche più utili. Il controllo riproduttivo ha coinciso con una rapida espansione dei nuovi cavalli in tutta l’Eurasia, che ha portato alla sostituzione di quasi tutte le linee locali. Iniziava così la storia umana della mobilità su vasta scala. Le date ottenute dalle analisi genetiche e dall’esame dei reperti archeologici sono di particolare importanza anche perché contraddicono una delle narrazioni più diffuse sullo sviluppo delle culture umane, secondo cui grandi mandrie di cavalli avrebbero accompagnato la massiccia migrazione dei popoli delle steppe che diffusero le lingue indoeuropee attraverso l’Europa intorno al 3000 a.C. A quell’epoca non avevamo ancora domato il DNA dei cavalli selvatici. La domesticazione del cavallo rivoluzionò il modo di viaggiare e per migliaia di anni fu questa specie a segnare i confini del trasporto via terra, finché il treno, nel Diciannovesimo secolo, aprì una nuova era. Solo con l’avvento dell’automobile, nel secolo successivo, i cavalli persero definitivamente il loro ruolo centrale nei trasporti. Il retaggio di questo passato, però, è ancora ben visibile: molte strade ricalcano antichi percorsi tracciati per i cavalli e la potenza dei motori continua a misurarsi proprio in “cavalli”. Lasciarono un’impronta profonda anche nelle guerre e vennero usati fino al primo conflitto mondiale, in cui furono indispensabili poiché trainavano rifornimenti, munizioni, artiglieria e feriti. Un animale, tanti ruoli Il poderoso e imponente percheron, originario del Nord della Francia, plasmato per le battaglie, per i trasporti e i lavori agricoli; il pony delle Highlands, nativo delle isole scozzesi, compatto e piccolo e allevato per l’equitazione di campagna e di maneggio; l’elegante e selvaggio mustang, discendente dei cavalli che gli spagnoli portarono nel Nuovo mondo, in seguito rinselvatichiti. Queste sono solo alcune delle centinaia di razze che l’essere umano ha modellato con la selezione artificiale per adattarle alle proprie necessità, inizialmente incrociando individui con le caratteristiche desiderate, fino ad arrivare all’utilizzo di tecniche di editing genetico come CRISPR (Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats). I cavalli sono i nostri campioni in discipline sportive, tra cui il polo e l’equitazione, continuano a svolgere i loro compiti tradizionali nei Paesi in via di sviluppo, dove forniscono trasporto e forza lavoro per l’aratura, sono protagonisti di celebrazioni folkloristiche e tradizionali in tutto il mondo, con rituali che frequentemente sfidano la concezione di benessere animale e persino il buonsenso. Ne sono un esempio la conduzione di mezzi a trazione in piena estate a Roma (le cosiddette botticelle), e Las Luminarias, celebrazione durante la quale si festeggia Sant’Antonio, protettore degli animali, facendo attraversare agli equidi le fiamme dei falò accesi nei vicoli di San Bartolomé de Pinares, in Spagna. I cavalli sono anche considerati cibo: secondo i dati della FAO (Food and Agriculture Organization) sugli allevamenti mondiali, nel 2023 si contavano circa 57 milioni di cavalli e 4,71 milioni macellati. > Sono centinaia le razze che l’essere umano ha modellato con la selezione > artificiale per adattarle alle proprie necessità, inizialmente incrociando > individui con le caratteristiche desiderate, fino ad arrivare all’utilizzo di > tecniche di editing genetico. Equus ferus caballus è sempre stato anche un compagno per noi umani. Già nel mondo antico, e ancora di più nel Medioevo e nel mondo islamico, era considerato dai cavalieri un amico, con un suo nome e una sua personalità. È indimenticabile l’incontro tra Alessandro Magno e il cavallo Bucefalo, descritto da Plutarco nella Vita di Alessandro: il figlio di Filippo II di Macedonia comprende le paure dell’animale e riesce in questo modo a cavalcarlo. Il loro rapporto è stretto e intenso, rafforzato da viaggi e battaglie e suggellato dalla morte dell’animale sull’Idaspe, in India, dove il condottiero fonderà una città in onore del destriero. Secoli di vicinanza non trascorrono senza lasciare traccia e i cavalli hanno imparato a starci accanto, a capirci così bene da poter addirittura essere un supporto negli interventi assistiti con gli animali, progetti che si basano sull’interazione con loro per mantenere o migliorare il nostro benessere fisico, psicologico e sociale. Essere cavalli Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento incominciarono a essere diffusi spettacoli in cui cavalli e nuotatori si tuffavano da strutture alte circa venti metri: il cavallo saliva su rampe strette, solo il vuoto intorno a lui; poi, in cima, un fantino gli saltava in groppa ed entrambi scivolavano su una piattaforma inclinata, fino a cadere per diversi metri, a testa in giù, in una piscina. Non sorprende che esperienze di questo tipo lasciassero spesso segni profondi, sia fisici sia emotivi, tanto sugli esseri umani quanto sui cavalli. L’esistenza di queste performance è proseguita fin quasi ai giorni nostri ‒ negli anni Duemila un esemplare ha continuato a tuffarsi in un parco divertimenti vicino a New York ‒ e in rete è ancora possibile guardare i video di queste imprese. Tra i commenti c’è chi suggerisce che questi animali si divertano nel tuffarsi: “Se lo fanno, è perché gli piace”. Un argomento sterile, come afferma Léa Lansade in Nel mondo del cavallo – Pensieri, emozioni, comportamenti di un meraviglioso animale (2025). > Contrariamente a quanto generalmente si pensa, i cavalli sono animali sociali > e vivono in gruppi familiari composti da 3-5 femmine, uno stallone e i puledri > con esso generati. Famiglie che si spostano, mangiano, dormono, galoppano e > giocano insieme. Lansade, introdotta all’equitazione da giovanissima, è oggi un’etologa specializzata nel campo delle emozioni e delle capacità cognitive degli animali. Nel libro, la ricercatrice supera gli spazi angusti di credenze e folklore, salta le staccionate delle conoscenze non dimostrate sui cavalli e presenta un animale sconosciuto a una buona parte del pubblico, anche di quello esperto, raccontando i risultati di anni di ricerche etologiche. I cavalli sono animali sociali e vivono in gruppi familiari composti da 3-5 femmine (le giumente), uno stallone e i puledri con esso generati. Tra le giumente si instaurano amicizie che durano a lungo, anche un’intera esistenza, e quando formano una nuova famiglia, esse cercano di rimanere vicine a quella di origine, isolandosi solo nella stagione riproduttiva. I puledri, molto uniti alle madri fino alla maturità sessuale, che arriva intorno ai 2-3 anni, imparano le regole del gruppo tramite il gioco, di cui si occupa soprattutto lo stallone. Le famiglie si spostano, mangiano, dormono, galoppano e giocano insieme. Quando un membro scompare, il resto del gruppo lo chiama e lo cerca: i cavalli sono in grado di riconoscersi e sanno instaurare relazioni solide tra loro. Non sono territoriali e diversi gruppi possono convivere in uno stesso spazio, in cui trovano tutto ciò di cui necessitano, come acqua, cibo e un riparo naturale, quando possibile. Il fatto che il cavallo sia un erbivoro influisce profondamente sulla distribuzione delle attività a cui si dedica nelle 24 ore. Poiché le piante forniscono poca energia rispetto al fabbisogno di un animale che può pesare centinaia di chilogrammi, il cavallo occupa in media 15-16 ore al giorno a nutrirsi. Durante il pascolo non rimane fermo, ma si muove lentamente con la testa a terra, scegliendo le piante più adatte. Il benessere del cavallo è anche questo: essere libero di trascorrere una giornata a camminare mentre mangia. I sensi dei cavalli nascondono regni a noi sconosciuti. Il loro campo visivo, diversamente dal nostro, è panoramico: possono arrivare a vedere quasi dietro la propria schiena, grazie alla posizione laterale degli occhi, uno per ogni parte della testa. Si ritiene che l’evoluzione abbia favorito questa particolare disposizione per avvistare i predatori da qualsiasi direzione, una caratteristica che rappresenta un enorme vantaggio per un animale che vive in branco. L’olfatto molto sviluppato permette loro di esplorare l’ambiente che li circonda e svolge un ruolo importante nell’interazione sociale e nella gestione di stati di allerta. Ad esempio, subito dopo la nascita, la madre riconosce il proprio puledro grazie al suo odore; quando due cavalli si incontrano, si annusano per identificarsi; gli stalloni, invece, usano l’olfatto anche per marcare il territorio, esaminando gli escrementi di altri maschi per capire chi è passato prima di loro, quale fosse il suo status, e depositandoci sopra i propri. > Mentre questi animali per necessità hanno imparato a leggere i nostri > comportamenti, ad attribuirci una reputazione, a riconoscere i nostri volti e > persino le nostre emozioni, noi non siamo altrettanto preparati sul loro mondo > interiore e sulla loro intelligenza. Il senso che forse più sorprende è il tatto: ci sono cavalli che riescono a percepire in alcune zone del proprio corpo una pressione paragonabile a quella dell’estremità di un capello umano, che noi non siamo in grado di sentire sulla punta delle nostre dita. Con il loro udito sanno captare gli ultrasuoni e riescono a cogliere l’intera gamma di frequenze che emettiamo quando parliamo, mentre il loro gusto li porta a nutrirsi di un ampio assortimento di erbe, piante, frutti, foglie e rami, quando vivono in natura. Emozioni equine La storia di Hans e i racconti sui cavalli tuffatori dimostrano che, mentre questi animali per necessità hanno imparato a leggere i nostri comportamenti, ad attribuirci una reputazione, a riconoscere i nostri volti e persino le nostre emozioni, noi non siamo così preparati sul loro mondo interiore, sulla loro intelligenza e sul loro stato psicologico. Ce lo spiega ancora una volta Léa Lansade: riconosciamo bene i segnali di paura, che può diventare patologica se trascurata, ma sappiamo poco su frustrazione, rabbia e tristezza. Di certo i cavalli provano piacere, ad esempio quando spazzolati nei punti giusti, e cercano di farcelo capire con le loro posture, il comportamento e le espressioni facciali. Anche la gioia fa parte delle loro emozioni, seppur difficile da delineare con certezza. E poi c’è il dolore, fondamentale da riconoscere per garantire il benessere di questi animali: sono stati sviluppati protocolli per la sua identificazione, in base alle espressioni facciali, da due gruppi di ricerca, uno italiano e l’altro svedese. I cavalli possono dare l’impressione di comprenderci e questo induce a chiedersi se siano davvero in grado di cogliere gli stati mentali propri e altrui e, in base a questi, capire e prevedere un comportamento, cioè se possiedano una forma di teoria della mente. Alcuni studi rivelano indizi sulla capacità dei cavalli di conoscere che cosa sappia e che cosa non sappia un umano. Nei test gli sperimentatori che avrebbero dovuto dar loro il cibo, in alcune occasioni non lo facevano. Questo avveniva manifestando la chiara intenzione di non fornire cibo oppure mostrando di esserne impossibilitati a causa della presenza di una barriera o di una certa goffaggine da parte dell’operatore. I cavalli rinunciavano più facilmente quando c’era una evidente volontà di non offrire loro cibo, mentre erano più propensi a insistere davanti alla goffaggine dello sperimentatore. Ciò suggerirebbe che essi possano tener conto non solo delle azioni, ma anche delle intenzioni umane, che in qualche modo sarebbero capaci di leggere. Un risultato simile a quanto osservato nei primati. > I cavalli possono dare l’impressione di comprenderci e questo induce a > chiedersi se siano davvero in grado di cogliere gli stati mentali propri e > altrui, cioè se possiedano una forma di teoria della mente. Oltre a comprendere gli altri, i cavalli stupiscono anche per la loro memoria a lungo termine: in molte storie e rappresentazioni, come quelle che appartengono all’immaginario dei racconti western, l’animale ritrova da solo la strada di casa, a conferma della capacità di memorizzare percorsi e luoghi. È un’abilità che supporta questi animali nella loro vita, durante la quale, come afferma Lansade, “Per trovare il cibo, vivere in gruppo, riprodursi o evitare il pericolo, il cavallo ha bisogno di ricordare i suoi simili, i luoghi che ha visitato e le situazioni che ha incontrato, ma anche di associare gli eventi e reagire in modo adeguato”. Ripensare la nostra relazione con il cavallo Le scoperte scientifiche sull’etologia dei cavalli dovrebbero porci davanti a interrogativi urgenti sul modo in cui ci rapportiamo con loro. Non possiamo più continuare a credere che certi metodi di allenamento, alcune attività e persino i luoghi in cui li lasciamo vivere siano ancora adatti. I cavalli hanno trascorso le loro esistenze quasi esclusivamente in gruppo e all’aperto fino alla fine del Medioevo, momento in cui si iniziò a detenerli in stalle chiuse, con uno spazio minimo per ciascun esemplare. Era un sistema nato per proteggerli dal freddo, ma che oggi, nonostante possiamo garantire loro riparo e cura in modalità differenti, continuiamo ad adoperare. L’autrice di Nel mondo del cavallo racconta come lei stessa sia stata vittima dell’abitudine e della mancanza di conoscenza: > Imitando le persone che mi circondavano, pensai che per il mio cavallo > sportivo sarebbe stato meglio vivere in un box, possibilmente su un letto di > trucioli, come avevo visto fare nelle grandi scuderie. Ero convinta che questa > vita gli si addicesse e fosse perfetta per lui. Mi divertiva quando faceva > risuonare continuamente i denti sul metallo della porta del box, come se > stesse suonando un’armonica. In realtà, soffriva di stereotipia, ma all’epoca > non me ne rendevo conto. Il mio cavallo visse così per alcuni anni, finché, > con l’aiuto di alcuni studi, mi resi conto di quanto fosse deleteria per lui > la vita da rinchiuso e di quanto potesse influire sulla sua salute fisica e > psicologica. Il cavallo tornò nella precedente sistemazione, un grande prato con ampi box comunicanti, in cui poteva andare a piacimento. Equus ferus caballus è stato al nostro fianco, nelle vittorie e nelle sconfitte. È stato sfruttato per necessità, ludibrio, intrattenimento. Ne abbiamo fatto un’icona, uno status symbol, il protagonista di tradizioni identitarie, ha incarnato il riflesso della nostra grandezza e la sua sensibilità lo ha eretto a supporto emotivo, sempre nel nostro interesse. Per lungo tempo non abbiamo considerato la sua essenza, i suoi bisogni, le sue emozioni. Ora il lavoro di ricercatrici e ricercatori ci sta suggerendo un futuro diverso, un nuovo sentiero da percorrere sradicando l’ignoranza. L'articolo La versione del cavallo proviene da Il Tascabile.
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Cosa hanno da insegnarci le piante
N ella prefazione al libro di Monica Gagliano, Così parlò la pianta (2022), testo di riferimento per gli studi sulle modalità attraverso cui le piante sentono e comunicano tra di loro, Suzanne Simard, professoressa di forest ecology presso la University of British Columbia (Vancouver, Canada), annota uno spunto illuminante su cui è opportuno soffermarsi. Simard mette in relazione le recenti scoperte scientifiche sulla sensibilità e sull’intelligenza vegetale ‒ rese note da Gagliano, Stefano Mancuso, Daniel Chamovitz, Eduardo Kohn, Anthony Trewavas, ma anche Paco Calvo ed Emanuele Coccia ‒ con la saggezza degli aborigeni del Nord America, depositari dei segreti della vita delle piante e delle foreste. Prima di qualsiasi brevetto scientifico occidentale, è stato il sapere delle comunità indigene a rivelare la dimensione relazionale della vita vegetale, il profondo legame tra uomo e piante, individuando nella vita e nel comportamento delle piante quegli aspetti che oggi riscopriamo attraverso gli occhi della scienza, della filosofia e della biologia vegetale, e soprattutto mostrando la necessità di preservare l’interdipendenza tra ambiente naturale ed esseri viventi. Autrice di un importante contributo dell’ecologismo mondiale e oggi direttrice del The Mother Tree Project, Simard lavora al tentativo di ristabilire la connessione rigenerativa tra l’uomo e le foreste, cioè con la natura, in un periodo in cui i cambiamenti climatici segnano un profondo mutamento dell’ambiente naturale. Partendo dal concetto di collaborazione delle piante, Simard suggerisce di compiere una vera e propria reimmersione nel mondo vegetale e nelle sue interrelazioni. L’intelligenza e la saggezza della foresta che Simard svela nel suo libro è data dalla relazionalità e dallo scambio di informazioni che la vita sotterranea indica, e che l’autrice ha brillantemente individuato nelle reti micorriziche, sistemi fungini sotterranei che collegano gli alberi e consentono lo scambio di informazioni e sostanze nutritive. Sulla base di queste comunicazioni vegetali, la tesi centrale di Simard intende mostrare che queste reti invisibili rivelano come la cooperazione, e non la competizione, costituisca il cuore dell’evoluzione e della vita naturale. > Prima di qualsiasi brevetto scientifico occidentale, è stato il sapere delle > comunità indigene a rivelare la dimensione relazionale della vita vegetale, il > profondo legame tra uomo e piante. La tesi di Simard, tuttavia, affonda le sue radici in un sapere che supera la tradizione scientifica occidentale a cui fa riferimento. Si tratta, infatti, della saggezza indigena dei nativi americani, che aveva già individuato nella collaborazione tra corpi il sistema della natura. Se questo aspetto sfugge, in qualche modo, alla storia della cultura europea, e se questi spunti sono assenti nei curricula accademici e scolastici dei nostri Paesi, sono invece le tradizioni non europee a rivelarne l’importanza. Questo nesso è stato esplorato da Robin Wall Kimmerer nel suo: La meravigliosa trama del tutto (2022). E su questo aspetto meno diffuso tra i lettori vorrei focalizzare l’attenzione. Direttrice del Center for native peoples and the environment, Wall Kimmerer nel suo libro rivela un magnifico intreccio tra il sapere scientifico, l’insegnamento accademico che ha ricevuto come studiosa di botanica da un lato, e la saggezza indigena dei nativi americani che ha ereditato e acquisito nell’incontro con i membri della sua famiglia, mostrando come queste due vie non siano alternative ma possano coesistere e completarsi. La prima ci permette di conoscere le piante e la natura, in una precisa divisione tra classi e generi, e nello studio oggettivo di come funziona la vita delle piante. Ma agli occhi dell’autrice questo sapere riduce le piante a oggetti separati, distinti dalla vita umana, veri e propri oggetti pronti all’uso. Il rischio concreto è di ridurre coerentemente questo approccio allo sfruttamento della vita vegetale. In modo diverso, la saggezza indigena svela l’importanza della relazione degli esseri umani con la natura e le piante al fine di conoscerne la bellezza, una relazione che non si limita a un metodo di conoscenza, ma pervade tutte le nostre modalità di comprensione ‒ nel comprendere, infatti, la nostra conoscenza diventa relazione. La radice ecologica risiede nella capacità di individuare e valorizzare questa relazione, ma vi è qualcosa di più, proprio perché questa relazionalità può collegarsi alla scienza della natura. Come sottolineato da Gregory Cajete, nel libro Look to the Mountain: An Ecology of Indigenous Education (1994), questa prospettiva di conoscenza integrale deve coinvolgere le quattro modalità della nostra esistenza, il cervello, il corpo, le emozioni e lo spirito, e se l’aspetto scientifico privilegia due di queste vie va integrato a una sapienza che metta in risalto la relazione con la natura. In questo orizzonte, Wall Kimmerer colloca la riflessione sulla vita delle piante, alla luce della relazione profonda che la natura instaura tra i diversi corpi. Nella visione indigena, il mondo naturale non è una scala di esseri, nella tirannia del più forte secondo la logica individualista della separazione, ma è una democrazia di specie, quasi come se fosse una circolarità naturale. Al di là della logica dell’economia di mercato, regolata dallo sfruttamento e dalla separazione dei beni, il modello che si sviluppa a partire dalla relazione con il mondo vegetale si fonda sulla cura, sullo scambio e l’incontro, in un abbraccio che segue la logica del dono e della reciprocità: coltivare la natura o raccogliere un frutto non è, quindi, una mera appropriazione, anche se quel frutto poi verrà mangiato dal suo raccoglitore, e non lo è nella misura in cui si stabilisce una rete relazionale profonda e uno scambio mutuale, sostiene Wall Kimmerer. > Nella visione indigena, il mondo naturale non è una scala di esseri, nella > tirannia del più forte secondo la logica individualista della separazione, ma > è una democrazia di specie, quasi come se fosse una circolarità naturale. Se la scienza occidentale ha piuttosto distinto e isolato l’altro, l’autrice mostra un ulteriore intreccio con l’insegnamento delle piante, che svela come funziona l’interrelazione vitale tra i diversi corpi. La coordinazione che, per esempio, si nota tra la fruttificazione e la raccolta di frutti compiuta da alcune specie animali, denota secondo l’autrice una sincronicità che va oltre la mera relazione ambientale, e sembra piuttosto confermare l’attività comune e la capacità di dialogo tra i diversi corpi naturali. Un insegnamento che si acquisisce dalla natura, e che quindi abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, ma che è stato codificato in modo efficace della sapienza tradizionale indigena. Tra gli esempi, vi è quello di un’erborista Navajo che sostiene vi siano legami duraturi tra determinate piante, così rivelando una sorta di simbiosi e di scambio comunicativo in una relazione sostenibile con l’ecosistema. Da ultimo, questo insegnamento trova conferma negli studi sulla simbiosi con i funghi – sono infatti i lavori di Simard ad aver mostrato l’importanza delle reti micorriziche nel costruire una catena di interrelazioni e reciprocità mediante cui le piante comunicano tra di loro e stabiliscono una connessione vitale fondamentale per l’intero ecosistema. Che cosa altro ci dice questo aspetto? Secondo Wall Kimmerer, la vita delle piante indica la possibilità di ripensare la natura non come oggetto da sfruttare, ma come relazione. C’è di più: l’autrice definisce questa relazione come un dono, la cui caratteristica centrale è lo scambio reciproco e l’attenzione e la cura dell’altro (di chi coltiva la pianta, ma anche della pianta stessa verso chi la abita). In tal senso, questa relazione apre implicitamente l’orizzonte a un sistema economico e sociopolitico fondato sullo scambio e sulla cooperazione, e quindi contrapposto a certe, numerose derive dell’economia di mercato e della globalizzazione, come ad esempio le pratiche di sfruttamento delle risorse naturali, che sono alla base della crisi ecologica attuale. In alternativa a queste relazioni negative tra uomo e ambiente, sviluppatesi nella cultura occidentale, Wall Kimmerer riporta una serie di storie della tradizione orale indigena americana, al fine di mostrare le possibilità di una relazione positiva con l’ambiente, che non è utile solo a preservare la natura ma serve, in qualche modo, anche agli esseri umani: la ricerca della felicità, per esempio, trova la propria realizzazione in una relazione sostenibile con l’ecosistema naturale, in una reciprocità ultima che l’autrice ha sperimentato raccogliendo fagioli. A tutt’altra latitudine, un percorso analogo si ritrova nella cultura indiana ed emerge nel lavoro di Sumana Roy, Come sono diventata un albero. Una canzone d’amore (2022). Anche in questo caso, non si tratta di una semplice relazione affettuosa con le piante, ed è ben più che l’abbandono della propria condizione umana e ben più che un rapporto ristretto all’uso delle piante come abbellimento casalingo. Le piante non si rivelano semplicemente come altro rispetto agli esseri umani, ma mostrano un’alternativa che non è privazione. Come in altri casi, Roy combina la frustrazione per la caoticità della vita umana con l’incontro con l’alternativa delle piante, il cui silenzio è il suono della resistenza e dell’economicità, cioè di una ribellione, di un’attività, non di una mera passività. Il mondo vegetale, infatti, non è un mero ricettore, non un mero oggetto, ma un attore nel mondo. > Se è vero che le analogie tra piante e animali, e la metamorfosi del corpo > umano in pianta hanno popolato la cultura occidentale fin dalle origini, > Sumana Roy segue una linea più profonda e radicale, in cui la pianta non è un > essere umano dimezzato, ma rivela una superiorità vitale importante. Come nel caso di Wall Kimmerer, Roy combina l’esperienza personale alla propria tradizione culturale, unendo filosofia, storia letteraria e botanica. Partendo dalla filosofia di Deleuze e Guattari, Roy si immerge nella prospettiva di diventare una pianta, traslando le proprie esperienze e adattandole al mondo vegetale. Così, l’autrice non vede solamente la vita delle piante attraverso le lenti umane, ma mostra il tentativo di trasformare il proprio sguardo e le proprie relazioni accordandole al sistema vegetale. Fuor di metafora, l’autrice intende cambiare tutti gli aspetti della sua vita, adeguandosi a quello che è lo stile delle piante, di cui ricostruisce le caratteristiche nel corso del libro e, in tal senso, intende diventare pianta. Questo percorso si sviluppa dall’elaborazione di un modo nuovo di guardare la natura vivente: se è vero che le analogie tra piante e animali, l’immedesimazione e la metamorfosi del corpo umano in pianta hanno popolato la cultura occidentale fin dalle origini ‒ si pensi all’opera di Orazio o ad Apuleio, alla pena dell’inferno dantesco, o alla dendolatria, la venerazione degli alberi che emerge nella pervasività della metafora arborea, ma anche all’albero della vita (l’albero Tuba del Corano, il Yggdrasil della tradizione normanna, l’albero Mahabodhi, e l’albero della vita di Klimt, per nominare alcuni casi) ‒ Roy segue una linea più profonda e radicale, in cui la pianta non è un essere umano dimezzato, ma rivela una superiorità vitale importante. Diversamente da ogni tentativo di antropomorfizzare la natura, Roy percorre un percorso di ascesa alla condizione vegetale, riconoscendo alle piante le capacità fondamentali di resistenza, parsimonia e armonia con l’ambiente naturale. Per esempio, si suggerisce di abbandonare la temporalità degli orologi per seguire il tempo ciclico e lento dell’albero – definito tree time – immedesimandosi in una dimensione alternativa in cui ripensare i ritmi della vita e rimodellandola secondo un sistema diverso. In questo senso, il libro non mostra solamente una modalità di acquisire serenità muovendosi all’interno di un bosco o su una collina, lontano dal caos cittadino, ma una possibilità di rigenerazione profonda. Roy, infatti, non intende distruggere sé stessa né perdersi nella foresta, ma vuole ridare a sé quella parte vegetale che ha perduto ‒ e che in un qualche modo tutti noi abbiamo perduto ‒ cioè liberare la vita della foresta secondo l’insegnamento della tradizione indiana. Non si intende perdersi nella foresta in un ritorno alle origini, che pure appartiene a una certa tradizione occidentale, ma è un vero e proprio rigenerarsi. Allo stesso tempo, non è solo amore per le piante, per l’albero di fronte a casa o per il fiore sulla tavola, è lo sforzo di andare alla sorgente (o, opportunamente, alla radice) della vita stessa. > Sumana Roy non ricerca una via per trasformare le piante in esseri umani, ma > una via per vegetalizzare l’uomo, un percorso al cui culmine c’è lo > svuotamento di ogni violenza dell’umano e la possibilità di realizzare una > società diversa. Nel corso del libro, i numerosi riferimenti letterari rivelano la ricchezza della sapienza indiana in questo ambito, dai lavori di Rabindranath Tagore, le cui poesie celebrano la relazione tra uomini e piante, così come il percorso a ritroso verso la natura o verso la foresta, al lavoro del botanico Jagaish Chandra Bose, che ha studiato i movimenti automatici e la crescita delle piante, rischiarando le ombre sulla vita segreta delle piante. In Tagore, infatti, la conversione dell’essere umano in pianta rivela una fluidità tra specie, mentre Bose esalta la spontaneità della vita vegetale. La stessa fluidità e spontaneità emerge dalla riflessione di Roy sulle funzioni umane trasposte nella vita vegetale, dall’esperienza sessuale al matrimonio con un albero, attraverso l’immagine del matrimonio nel regno delle piante di Kahlil Gibran o nel poema di A.K. Ramanujan. La complessità del comportamento delle piante rende plausibile l’esistenza di un linguaggio vegetale che non sia antropomorfizzato, e al tempo stesso rivela la possibilità di acquisire le dinamiche vegetali per ordinare certi estremi della vita umana. In tal senso, Roy non ricerca una via per trasformare le piante in esseri umani, ma una via per vegetalizzare l’uomo, un percorso al cui culmine c’è lo svuotamento di ogni violenza dell’umano e la possibilità di realizzare una società diversa, fondata sull’assunto per cui la vita delle piante favorisce e supporta la vita di tutti, fuori da ogni conflitto, in una mutualità e collettività che deve necessariamente farci riconsiderare l’ordine della natura. Questo è l’insegnamento che Roy intende portare a compimento, nel percorso di “trasformazione” in albero. A tutti gli effetti, è la via di Buddha, la cui vita spirituale è inestricabilmente legata alla venerazione dell’albero. Sulla scia di questa lunga e ricca tradizione, il libro è un tentativo di vivere la vita degli alberi: adeguando i propri desideri ai bisogni naturali, vivendo il tempo delle piante, rigettando velocità, eccessi, caos e confusione, indicando una via per cambiare sé stessi e la propria società. In conclusione, le opere di Wall Kimmerer e di Roy, pur nate in contesti culturali distanti, convergono nel riconoscere un valore paradigmatico alla vita delle piante per dare voce e contenuto a un nuovo umanesimo. Non si tratta di un ritorno nostalgico alla natura, alla Rousseau, per intenderci, ma di una rigenerazione, che parte dalla vita vegetale e dalla conoscenza scientifica del comportamento delle piante. Infatti, le scoperte preziose della scienza occidentale, che oggi rivela l’importanza e la complessità della vita e del comportamento vegetale, rischiano di essere confinate agli interessi degli studiosi e possono apparire distanti dalla vita quotidiana. Integrare queste scoperte con la saggezza delle tradizioni non europee ne rivela l’importanza e mostra un modo diverso di vivere la relazione con la natura. Seguendo la reciprocità e mutualità delle piante, non si tratta di perdere la nostra umanità, ma al contrario di portarla a compimento, aprendo a quegli aspetti che caratterizzano la vita vegetale e che permettono di realizzare una società più giusta e sostenibile, adatta alle sfide del futuro. L'articolo Cosa hanno da insegnarci le piante proviene da Il Tascabile.
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Il treno verde meno sostenibile al mondo
L e monumentali rovine del sito maya di Calakmul sono completamente immerse nella giungla, che le ha nascoste e protette fino a pochi decenni fa. Salendo in cima all’Estructura II, il più alto edificio maya conosciuto, lo sguardo spazia sopra il mare verde delle chiome degli alberi. Calakmul è stata un tempo la capitale del regno di Kaan, il regno della testa di serpente. Città inespugnabile, dominava un territorio sconfinato che arrivava fino all’attuale Guatemala, dove era situata Tikal, la città-Stato che contendeva a Calakmul il predominio sull’area. Il destino, beffardo, ha voluto che proprio a Calakmul, la capitale del regno della testa di serpente, sorgesse una delle 34 stazioni del Tren Maya, il “grande serpente metallico” che attraverserà la penisola dello Yucatán. 1554 chilometri, 34 stazioni, 42 treni, collegamento con 7 aeroporti e 26 aree archeologiche, per un costo stimato che sfiora i 30 miliardi di dollari. Questi sono i numeri essenziali che raccontano il progetto nato dalla fantasia dell’ormai ex presidente, Andrés Manuel López Obrador, all’indomani della sua elezione, nel 2018. Ripetutamente dipinto dal presidente come un grande progetto di speranza e sviluppo, una volta completato, il Tren Maya rappresenterà l’imperitura testimonianza del passaggio di López Obrador nella storia del Paese centroamericano. Ma non si tratta solo di aspirare all’immortalità. Un megaprogetto è soprattutto un formidabile generatore di consenso politico, a livello centrale e locale. Il paradigma che emerge dalla vicenda del Tren Maya è universale. Che si tratti di una linea ferroviaria o di un ponte, che avvenga in Messico o in Italia. Quando le grandi opere nate “in alto”, nelle stanze del potere centrale, vengono calate “in basso”, su territori spesso impreparati o inadeguati, in nome del progresso e dello sviluppo, i costi ambientali, sociali e culturali rischiano di diventare enormi. Il Tren Maya inizia il suo viaggio con una promessa: trasportare i turisti attraverso la Regione Maya e, così facendo, offrire opportunità economiche e benessere ad alcune delle comunità più povere del Paese, che non hanno case in muratura né un sistema fognario, guadagnano meno del salario minimo e spesso non proseguono gli studi oltre le scuole elementari. > Il Tren Maya è molto di più di una linea ferroviaria: è un vero progetto di > riordinamento territoriale e di trasformazione strutturale della regione, che > porta con sé resort, lotti residenziali, centri commerciali e impianti di > produzione energetica. È il presidente stesso a esporsi in prima persona promettendo che il treno porterà posti di lavoro e sviluppo per pagare il “debito morale” dello Stato messicano nei confronti del suo Sud-Est, storicamente trascurato. “Il Tren Maya è un atto di giustizia”, ha detto López Obrador, originario del vicino Stato di Tabasco, nel corso di un incontro con le comunità locali. Un progetto di trasformazione strutturale In realtà il Tren Maya è molto di più di una linea ferroviaria: è un vero progetto di riordinamento territoriale e di trasformazione strutturale della regione. La ferrovia porta con sé resort, lotti residenziali, centri commerciali, impianti di produzione energetica. In corrispondenza delle 20 stazioni principali è prevista la costruzione dei cosiddetti “poli di sviluppo”, destinati a ospitare ognuno 50.000 persone, con allevamenti di maiali e polli per soddisfare le necessità dei turisti. Ma c’è di più. Il progetto del Tren Maya prevede il collegamento diretto con un altro megaprogetto fortemente voluto da López Obrador e in gran parte già realizzato: il Corredor interoceánico, una ferrovia che mette in collegamento il Pacifico e l’Atlantico nel punto più stretto del Messico, offrendo un’alternativa terrestre più economica e più veloce al Canale di Panama. Nell’intenzione del presidente anche questo progetto, con i suoi parchi industriali, raffinerie e porti, contribuirà allo sviluppo della regione e darà una spinta a tutta l’economia messicana. Il tracciato del Tren Maya si snoda attraverso tutti e cinque gli Stati che costituiscono la penisola dello Yucatán: Chiapas, Tabasco, Campeche, Yucatán e Quintana Roo. Il percorso del treno, più volte modificato, a partire da quello originario lungo 900 chilometri, ha il suo cuore nell’anello ferroviario che, toccando i maggiori siti archeologici, le città coloniali e le località balneari della costa caraibica, parte e torna a Cancún, la capitale turistica della penisola. Cancún è una città artificiale, letteralmente costruita a tavolino dal governo messicano per favorire la nascita di un polo turistico alternativo ad Acapulco. Quando il 23 gennaio 1970 fu avviato il progetto di sviluppo, l’area contava solo tre residenti, i custodi della locale piantagione di cocco. Oggi, dopo 50 anni, Cancún ha quasi 900.000 abitanti e ogni anno viene visitata da oltre 20 milioni di turisti. Un vero eldorado, soprattutto per i tour operator stranieri, le catene alberghiere internazionali e i gestori messicani di discoteche e parchi dei divertimenti. Ad attirare i turisti nello Yucatán non sono solo la sabbia bianca e l’acqua turchese delle spiagge caraibiche, ma anche gli spettacolari siti archeologici della civiltà Maya e l’immenso patrimonio di biodiversità delle sue sconfinate foreste e della seconda più grande barriera corallina al mondo. Gran parte degli abitanti della penisola dello Yucatán sono di origine indigena, per lo più discendenti dai Maya. Le popolazioni indigene, con la loro cultura e il loro modo di rapportarsi all’ambiente, sostengono e preservano la biodiversità dello Yucatán ma spesso non traggono benefici dallo sviluppo turistico. Al massimo, hanno accesso ai lavori più umili, come quelli da personale delle pulizie negli hotel. È così che si comprende perché, nonostante lo sfruttamento turistico, lo Yucatán rimane un’area depressa nel quadro nazionale. In quattro dei cinque Stati che lo compongono, le famiglie, in particolare quelle indigene, hanno un reddito medio di gran lunga inferiore a quello nazionale, oltre 7 milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà e più di 2 milioni in condizioni di indigenza. > Un gruppo di accademici ha firmato un appello per chiedere al governo di > fermare i piani di costruzione: il treno è considerato una minaccia ambientale > “su scala planetaria” con effetti potenzialmente devastanti. La costruzione del Tren Maya è avvenuta con tempi da record e ad opera di imprese quasi esclusivamente messicane: un vanto per la nazione. I primi 500 chilometri del tratto Campeche-Cancún sono stati inaugurati il 15 dicembre 2023, poco più di mille giorni dopo l’inizio dei lavori. Il completamento effettivo della linea, inizialmente previsto per la fine del 2024, dovrebbe avvenire entro la fine del 2025. Un’opera ad alto impatto ambientale Appena dopo la presentazione del progetto, sono cominciate le critiche. Nel 2018 l’organizzazione ambientalista tedesca Salviamo la foresta ha lanciato una petizione per sensibilizzare l’opinione pubblica sugli impatti ambientali che avrebbe avuto il Tren Maya, ottenendo una buona risonanza sia in Messico sia a livello internazionale con quasi 300.000 firme raccolte. Nel 2020 attraverso la voce del subcomandante Moises si sono duramente espressi anche gli zapatisti, definendo il Tren Maya “l’ennesima grande opera con la quale il Governo voleva distruggere il territorio”. Da quel momento le voci contrarie si sono moltiplicate. Tra queste quelle degli archeologi, preoccupati che la ricchezza, in gran parte ancora inesplorata, di resti di antiche civiltà presente lungo il tracciato venga irrimediabilmente distrutta o resa inaccessibile. Ma la maggior parte delle critiche si è concentrata sugli impatti ambientali dell’opera. A luglio del 2020, un gruppo di 85 accademici, molti dei quali messicani, ha firmato un appello per chiedere al governo di fermare i piani di costruzione, individuando nel treno una minaccia ambientale “su scala planetaria” e avvertendo degli effetti potenzialmente devastanti sulla falda acquifera, già sottoposta a una forte pressione a causa dell’urbanizzazione. Va considerato che geologicamente lo Yucatán è un’immensa distesa calcarea, praticamente priva di acqua in superficie, ma caratterizzata dal più grande sistema di fiumi sotterranei al mondo. Una vasta rete interconnessa che forma la Grande falda acquifera Maya, fonte di acqua potabile per circa cinque milioni di messicani. Gli speleologi locali hanno ripetutamente denunciato gli effetti del passaggio della linea ferroviaria sopra il sistema di gallerie carsiche e i danni ai cenotes, formazioni geologiche uniche al mondo, costituite da piscine di acqua cristallina scoperte dal crollo della volta rocciosa sovrastante, considerate dai Maya luoghi sacri di accesso al mondo degli inferi. A dare un’idea concreta di quello che sta avvenendo sono gli speleologi di Cenotes urbanos, un gruppo locale impegnato nel mappare il maggior numero di queste formazioni calcaree, nel tentativo di impedirne la distruzione: “Le grotte non sono solo dei tubi, vuoti, brutti e bui. Sono ecosistemi pieni di vita che lavorano in squadra con gli ecosistemi della giungla. La rotta ferroviaria attraversa almeno un centinaio di cenotes. Qui il terreno calcareo si sbriciola, perciò i binari non poggiano direttamente a terra ma vengono sopraelevati a 17 metri d’altezza, su centinaia di pali del diametro di oltre un metro conficcati a 25 metri di profondità; è come costruire su gusci d’uovo. Gli scavi distruggono alghe e batteri essenziali per la sopravvivenza dell’ecosistema e inquinano l’acqua. A volte, per procedere più in fretta, le ruspe tappano i cenotes con la terra. È un danno incalcolabile, irreversibile”. > Secondo il Tribunale internazionale per i diritti della natura, il Tren Maya > rappresenta una violazione dei diritti della Natura e dei diritti bioculturali > del popolo maya, il che costituirebbe un crimine di ecocidio ed etnocidio. Un’altra fonte di preoccupazione è l’impronta che il passaggio del Tren Maya e le opere complementari lasceranno sulla foresta e la fauna che la abita. All’atto della presentazione del progetto il presidente López Obrador si era lasciato un po’ andare all’entusiasmo assicurando nei comizi che non sarebbe stato abbattuto un solo albero. Nella realtà, l’apertura di un corridoio, che a volte raggiunge i 60 metri di larghezza, all’interno della foresta pluviale, ha richiesto l’abbattimento di molti alberi, difficilmente compensabili con le piantumazioni e le risemine previste dal progetto. Le stime più accreditate parlano di una superficie deforestata compresa tra 6.000 e 10.000 ettari. Tutto sommato, però, questa cifra impallidisce al confronto con i 100.000 ettari di foresta persi solo nel 2023 nella regione, a causa di pratiche agricole non sostenibili, dell’espansione degli allevamenti e dell’urbanizzazione della costa. Più della deforestazione è la frammentazione degli habitat naturali il vero rischio per la seconda più grande foresta pluviale dell’America Latina. Specie animali che si muovono su grandi estensioni di territorio, in particolare grandi carnivori come il giaguaro, o specie a rischio di estinzione, come il tapiro di Baird, potrebbero subire forti limitazioni alle possibilità di movimento per effetto di barriere artificiali come la ferrovia. Per mitigare questi impatti, il governo ha previsto la costruzione di attraversamenti per la fauna selvatica, ma purtroppo la maggior parte di essi è costituita da sottopassi, anziché da cavalcavia aperti, più costosi ma molto più funzionali. I costi e le minacce sociali Anche il Tribunale internazionale per i diritti della natura si è occupato del Tren Maya. Il tribunale, formato da cittadini e istituito nel 2014 per rappresentare i “diritti soggettivi della natura”, ha deciso di occuparsi del caso dopo che l’Assemblea del territorio Maya dello Yucatán ha richiesto il suo intervento il 5 giugno 2022. A marzo del 2023, i cinque giudici del tribunale hanno raccolto le testimonianze di 23 diverse comunità indigene. La sentenza emessa non lascia posto a fraintendimenti: “Il Tren Maya – si legge nel testo ‒ rappresenta in modo inconfutabile una violazione dei diritti della Natura e dei diritti bioculturali del Popolo Maya, il che costituisce un crimine di ecocidio ed etnocidio”. Al Tren Maya non sono mancate anche le critiche di chi lamenta che i costi sociali per la realizzazione del progetto saranno principalmente a carico delle comunità locali, mentre i benefici economici andranno per lo più ai grandi operatori internazionali del settore turistico. L’ONG messicana Prodesc, inoltre, ha denunciato ripetuti episodi di esproprio illegale degli ejidos, le terre comunitarie istituite dopo la Rivoluzione messicana, nonostante le affermazioni iniziali del governo che il progetto avrebbe interessato solo territori di proprietà federale. “Il cosiddetto Tren Maya non è un treno e non è maya, perché non è pensato per la popolazione ma per gli interessi del governo e delle imprese che sfruttano le risorse locali” ripetono gli esponenti del Congresso nazionale indigeno, organismo che riunisce le comunità indigene del Messico. > Tra espropri, gentrificazione e impatti ecologici, i costi sociali per la > realizzazione del progetto saranno principalmente a carico delle comunità > locali, mentre i benefici economici andranno per lo più ai grandi operatori > internazionali del settore turistico. E intanto, nelle zone di passaggio del treno, si è già innescato un processo di gentrificazione (vale a dire di trasformazione di un’area abitativa popolare in una più esclusiva), che ha fatto lievitare i prezzi dei beni essenziali e delle case. Anche il processo di consultazione delle popolazioni locali è stato ritenuto, da più parti, insufficiente e poco trasparente. Il presidente López Obrador e i suoi emissari sono stati apertamente accusati di manipolare le comunità indigene facendo leva sulla loro condizione di povertà e utilizzando metodi scorretti per ottenere il loro assenso al progetto. Alle accuse di mancato coinvolgimento delle popolazioni indigene nella decisione il presidente ha risposto con l’esito del referendum indetto per approvare il Tren Maya, stravinto con il 90% dei consensi. Un referendum, però, votato da meno dell’1% degli aventi diritto e dichiarato non conforme agli standard internazionali dagli osservatori dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani. López Obrador ha sistematicamente ignorato o denigrato, attraverso i media governativi, tutte le critiche al progetto, riuscendo nell’intento di depotenziarle. Gli ambientalisti sono stati ripetutamente tacciati di essere “radical chic, corrotti e pagati dagli Stati Uniti”, e il mondo accademico scientifico di essere formato da “intellettuali borghesi che non conoscono la realtà”. > Molti albergatori, tassisti, guide turistiche sembrano consapevoli del prezzo > che il territorio pagherà con l’arrivo del Tren Maya, ma tra loro prevale > l’opinione che si tratti di un sacrificio necessario sull’altare dello > sviluppo economico. Le cause intentate dagli ambientalisti e dai gruppi indigeni e le sentenze dei tribunali messicani hanno inizialmente bloccato i lavori e introdotto modifiche al percorso originale. La minaccia di ulteriori rallentamenti ha indotto López Obrador nel 2021 a conferire, per decreto, lo status di “progetto di sicurezza nazionale” al Tren Maya e ad affidarne la realizzazione all’esercito, un’istituzione con una lunga storia di violazioni dei diritti umani. Con questo sistema sono state scavalcate tutte le autorizzazioni e le valutazioni di impatto ambientale e sociale, molte delle quali ancora in corso. All’esercito è passata anche la gestione diretta di diversi cantieri e la supervisione del funzionamento del Tren Maya, testimoniata in modo evidente dalla massiccia presenza di uomini in mimetica con armi di grosso calibro in tutte le stazioni e nei maggiori cantieri. Il viejito Ma cosa pensano i messicani del Tren Maya? Molti reporter europei hanno cercato di cogliere il pensiero dei locali parlando con loro mentre percorrevano, come semplici passeggeri, le prime tratte aperte. Tutti più o meno hanno raccontato una realtà simile. Salendo a bordo è evidente lo stato di eccitazione dei messicani che per la prima volta prendono il treno. Un selfie dietro l’altro e video a raffica dal finestrino anche quando fuori non c’è nulla da vedere. Alla richiesta di un parere sugli impatti ambientali del progetto, la maggior parte delle opinioni si assomigliano: “Non è un problema, ma quale deforestazione?, non sono impatti così gravi come dicono, qualche impatto è inevitabile se vogliamo lo sviluppo”. Nessuno sembra essere particolarmente interessato agli aspetti economici e sociali o ai diritti degli indigeni. D’altronde, basta entrare in una delle 34 stazioni per capire lo sforzo che il governo sta facendo affinché i messicani si approprino del treno e lo sentano come parte dell’identità nazionale. “Todas y todos somos Tren Maya”, recita il messaggio che compare ovunque, sui video, sui social, sulle riviste, sui gadget per i viaggiatori. Tra le popolazioni locali, i consensi maggiori al progetto arrivano dalle classi basse e medie, attratte dalla prospettiva di nuovi posti di lavoro. Qualcuno, perfettamente allineato col governo, parla addirittura di interessi economici che manipolano la gente per contrastare il treno. Molti albergatori, tassisti, guide turistiche sembrano consapevoli del prezzo che il territorio pagherà con l’arrivo del Tren Maya, ma tra loro prevale l’opinione che si tratti di un sacrificio necessario sull’altare dello sviluppo economico. Eletto con il consenso più alto della storia messicana recente, López Obrador è un politico di sinistra incline al tradizionale populismo messicano, che ha sempre coltivato un’immagine da “uomo del popolo”. Il subcomandante Marcos, all’epoca della sua prima elezione, lo definì “l’uovo del serpente”, per indicare la sua indole liberista sotto il guscio progressista. Sospinto dal consenso popolare, il presidente si è permesso di usare il pugno di ferro con i detrattori del progetto a cui, nel 2019 durante un comizio nello Stato del Campeche, ha inviato un messaggio esplicito: “Con la pioggia, i tuoni o i lampi, che lo vogliate o meno, il Tren Maya lo faremo”. Il rapporto tra il presidente le classi popolari è stato efficacemente descritto dal reporter cubano Dario Alemán: “I poveri, indubbiamente, vedono in lui un paladino contro l’oligarchia. Potremmo azzardare che gli vogliano addirittura bene, lo chiamano affettuosamente viejito (“nonnetto”) […]. Difficile biasimarli. Mai nessun altro politico ha portato avanti un programma sociale come quello di López Obrador, che ha aumentato le pensioni minime degli anziani, ha garantito sussidi bimestrali agli handicappati. E sebbene non si stia parlando di cifre astronomiche, nelle zone più arretrate del Messico fanno la differenza”. La nuova presidente E la neopresidente Claudia Sheinbaum? Cosa pensa del Tren Maya la donna, prima nella storia messicana, che il 1° ottobre del 2024 ha preso il posto di López Obrador? Considerata da tutti gli osservatori una “delfina” del vecchio presidente, Sheinbaum ha iniziato il mandato in piena continuità con il suo predecessore, continuando a inaugurare nuove tratte del Tren Maya senza perdere l’occasione di ribadire le prodigiose ricadute economiche e di sviluppo che l’opera porterà con sé. La neopresidente, scienziata del clima, ha anche continuato a sminuire le preoccupazioni ambientali legate al treno e ha contrattaccato chiedendosi dove fossero gli stessi ambientalisti che oggi contrastano il Tren Maya quando, nei decenni passati, lo sviluppo turistico ha trasformato la Riviera Maya causando enormi impatti ambientali. > Quella del Tren Maya è una vicenda esemplare dell’affermazione di un modello > “estrattivista” di trasformazione del territorio, in cui gli interessi > commerciali e finanziari sono predominanti rispetto a quelli collettivi. Ora però il suo governo sembra aver cambiato posizione. All’inizio di aprile di quest’anno, durante un incontro con i media, Alicia Bárcena, capo del ministero dell’Ambiente e delle Risorse naturali, ha riconosciuto pubblicamente i danni causati dal Tren Maya agli ecosistemi della regione del Quintana Roo e comunicato che il suo ministero sta effettuando sopralluoghi nell’area colpita con l’obiettivo di sviluppare misure di compensazione per i danni alle infrastrutture ed eventuali cambi di destinazione d’uso del territorio, per rispondere alle esigenze e alle preoccupazioni delle comunità locali. Bárcena ha preannunciato l’avvio di un piano di ripristino ambientale che dovrebbe riguardare l’intero tracciato del treno e i cui costi, a detta del sottosegretario alla Biodiversità e al Ripristino ambientale del governo, Marina Robles García, dovranno essere assunti da “chi ha eseguito i lavori”. Tra le azioni più importanti del piano annunciate da Bárcena si prevede l’eliminazione delle recinzioni metalliche che ostacolano il libero transito della fauna, la protezione di caverne e cenotes e il divieto di costruire strade secondarie nella giungla per le attività turistiche: “Possono essere le comunità stesse ad aiutarci a ripristinare l’ecosistema forestale, invece di appaltare ai consorzi che sono coinvolti nel Treno Maya, aziende che vengono, piantano un albero e il giorno dopo muore”. Una vicenda esemplare In attesa che questa nuova sensibilità del governo messicano nei confronti dell’ambiente e delle comunità locali diventi realtà, il sogno del populista López Obrador prosegue spedito. Il prossimo obiettivo è l’estensione del tracciato del treno per raggiungere la città maya di Tikal, in Guatemala, e il 15 agosto scorso i leader di Messico, Guatemala e Belize si sono incontrati a Calakmul proprio per discutere dell’ampliamento della linea ferroviaria. Nell’occasione hanno anche annunciato la creazione di un’area protetta sovranazionale per proteggere l’intera foresta pluviale Maya. Con gli impatti del megaprogetto in Messico davanti agli occhi e il greenwashing in agguato, la cautela è d’obbligo. Quella del Tren Maya è una vicenda esemplare, che assomiglia a tante altre che in America Latina e nel resto del mondo raccontano l’affermazione di un modello “estrattivista” di trasformazione del territorio, in cui gli interessi commerciali e finanziari, quasi sempre di pochi, sono predominanti rispetto ai diritti collettivi di natura ambientale, sociale e culturale. Un modello che ha i suoi esempi anche in Europa, dallo sfruttamento minerario dei territori Sami in Lapponia al ponte sullo stretto di Messina, e che afferma una visione produttivistica in cui il patrimonio culturale e naturale è usato come merce, come prodotto e in cui la sostenibilità dei megaprogetti viene valutata in termini quasi esclusivamente economici. Un modello di sviluppo che nega o nasconde qualsiasi discussione sulle conseguenze, in cui le grandi opere sono imposte senza un reale consenso, senza una coprogettazione con le comunità locali, generando forti divisioni al loro interno e una spirale di criminalizzazione e repressione di chi vi si oppone. Un modello che irrompe nei territori promettendo condizioni di vita migliori e finisce per alterarne profondamente gli equilibri, producendo enormi impatti sociali e ambientali che spesso si manifestano pienamente nel medio e lungo termine, quando ormai è impossibile porvi rimedio. L'articolo Il treno verde meno sostenibile al mondo proviene da Il Tascabile.
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