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Animali in guerra
U n rivolo di sangue sgorga dal muso di una capra. È distesa su un fianco, sul terreno umido a tratti tappezzato di muschio e ricoperto da una pioggia di frammenti di legno, metallo e vetro. Un occhio aperto, lo sguardo nel vuoto, la pelliccia sporca e la pelle squarciata. Poco più lontano è visibile un altro esemplare, perso tra i detriti, anche lui privo di vita. Intorno a loro c’è neve e distruzione: finestre rotte, tetti divelti da cui spuntano murature decorate e totem colorati. Il Feldman Ecopark, uno zoo alla periferia di Charkiv, in Ucraina, il 2 marzo 2025 è stato colpito durante l’attacco russo di droni Shahed, armi kamikaze a lungo raggio. I due ungulati uccisi, tra cui una femmina gravida, erano stati precedentemente salvati da una zona di combattimento e portati nel parco, con la speranza che potessero sopravvivere. Gli animali sono spesso considerati vittime di serie B della guerra, che la società ci insegna a far passare in secondo piano rispetto al dramma umano, sebbene sopportino una violenza dirompente, spaventosa e per loro incomprensibile. I conflitti armati possono esasperare l’ambiguità che caratterizza il nostro rapporto con gli altri animali. Sono una lente impietosa sugli abissi della nostra morale. Il massacro di Londra e i gatti di Gaza Dai primi mesi del conflitto russo-ucraino, i media hanno diffuso immagini di profughi costretti ad abbandonare casa e affetti. Alcuni sono accompagnati dagli animali con cui, fino a quel momento, avevano condiviso la propria vita, allo stesso tempo simbolo e incarnazione di una dimensione familiare. Quelle mostrate nei telegiornali e sulle piattaforme social sono rappresentazioni accoglienti, che suscitano empatia e fanno quasi dimenticare il prezzo da sempre pagato dagli animali da compagnia in zone di guerra, che invece, spesso, sono considerati oggetti da sacrificare o legami da rompere per disumanizzare il nemico. > Gli animali sono spesso considerati vittime di serie B della guerra, che la > società ci insegna a far passare in secondo piano rispetto al dramma umano, > sebbene sopportino una violenza dirompente, spaventosa e per loro > incomprensibile. Era il 3 settembre 1939 quando la BBC annunciò che la Gran Bretagna aveva dichiarato guerra alla Germania. Siamo agli albori della Seconda guerra mondiale. Alla cittadinanza venne chiesto di prepararsi ai raid aerei e una precauzione su tutte probabilmente raggelò il sangue degli inglesi: il governo li sollecitò a portare i propri animali domestici nelle campagne e, nel caso non ci fossero stati vicini disponibili a occuparsi di loro, a sopprimerli con l’aiuto di un veterinario. Senza curarsi dell’opposizione di alcuni gruppi di protezione animale, circa 400.000 tra gatti, cani, uccelli e conigli vennero eliminati, come racconta la storica Hilda Kean nel suo libro The Great Cat and Dog Massacre (2017). Ci fu chi obbedì forse con pochi scrupoli, chi soppresse i propri compagni non umani per risparmiare loro la sofferenza dei bombardamenti, chi li graziò e, in qualche modo, ne riconobbe l’individualità e una forma di agentività, condividendo con loro il cibo, gli spazi, la paura e il dolore. Quest’ultimo caso ci porta a Gaza, ai giorni nostri. Le immagini che ci sono giunte mostrano gatti feriti e traumatizzati dallo scoppio delle bombe, dalla perdita di un rifugio, dalla fame e dalla sete, ma anche salvati da medici e veterinari, aiutati e accolti dai palestinesi o, ancora, con le loro famiglie umane mentre vivono insieme piccoli momenti di spensieratezza. Neha Vora, docente di antropologia nel Dipartimento di Studi internazionali dell’American University of Sharjah negli Emirati Arabi Uniti ha commentato così queste storie: > Quello che i gatti di Gaza ci insegnano è che il trauma della Palestina è un > trauma multispecie. Non ci insegnano che anche i palestinesi sono umani, > poiché questa è un’affermazione che continua a definire l’umano contro > qualcosa che non è, qualcosa che sarà sempre escluso, abietto e quindi > eliminabile. Credo che i palestinesi e i loro gatti siano così coinvolgenti > per molti di noi perché sfidano le visioni liberali dell’umanità e le > smascherano come modi coloniali di definire il mondo, la soggettività e le > fantasie di libertà. L’“Umanità” non ci condurrà mai a una giustizia e pace > universali. Umanità. È una parola che apparentemente si collega allo stesso universo semantico della compassione e della pietà, ma che in realtà si nutre di una visione gerarchica del mondo naturale, in cui l’animale è inferiore, e animale diventa o deve diventare chiunque incarni il nemico da combattere. Una prospettiva che, in parte e non a caso, ritroviamo nella struttura e nella gestione degli zoo, in cui le sbarre o altre barriere separano gli esseri umani dalle altre specie esposte e nei quali siamo sempre noi a poter decidere delle loro esistenze secondo le nostre necessità Un’ingannevole arca di Noè Nel volume World War Zoos. Humans and Other Animals in the Deadliest Conflict of the Modern Age (2025), lo storico John M. Kinder ricostruisce la vita degli zoo dal periodo della Grande depressione alla Seconda guerra mondiale, fino ai primi anni della guerra fredda. Kinder illustra come la visione gerarchica degli esseri viventi, e in particolare la disumanizzazione di determinati gruppi, fosse un aspetto centrale dell’ideologia nazista, evidente nel modo in cui venivano trattati sia gli esseri umani sia gli animali. > Le metafore legate agli animali sono servite e servono ancora oggi a > giustificare i delitti commessi e a comprendere e articolare azioni aberranti. Un esempio emblematico è quello del campo di concentramento di Buchenwald e del suo giardino zoologico. Il progetto, sostenuto sin dall’inizio da Karl-Otto Koch, a capo del campo dal 1937 al 1941, era pensato come luogo ricreativo ed edificante per le SS e le loro famiglie e come una fonte di umiliazione e tormento per i prigionieri. Lo zoo serviva, infatti, a ricordare loro la presunta inferiorità rispetto agli animali in gabbia: gli umani reclusi erano spogliati della dignità, resi sacrificabili per qualsiasi contingenza e costretti persino a finanziare la struttura con “contributi volontari”. Gli animali di Buchenwald ricevevano un’alimentazione migliore dei prigionieri, tanto che molti di loro cercavano di lavorare nello zoo per ottenere una razione extra. Kinder spiega: > Il legame retorico tra animali ed Ebrei, l’obiettivo principale della > Soluzione finale di Hitler, giocò un ruolo importante nel legittimare > l’Olocausto agli occhi dei suoi esecutori. Esisteva una lunga storia di > equiparazione degli Ebrei ad animali (maiali, cani) e a malattie, amplificata > dai propagandisti nazisti. Le metafore legate agli animali sono servite e servono ancora oggi a giustificare i delitti commessi e a comprendere e articolare azioni aberranti. Per descrivere l’uccisione da parte di privati cittadini di civili indifesi nell’assedio di Sarajevo, durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina degli anni Novanta, si usano termini come “attività venatoria”, “cacciatori”, “prede” e “safari”. Le notizie parlano di gruppi di cecchini/cacciatori che spendevano cifre nell’ordine di grandezza di decine di migliaia di euro per sparare a persone indifese, trasformate in target classificati in base a un tariffario, esattamente come accade nei safari di caccia in Africa. Se nel vecchio continente gli obiettivi più costosi sono specie iconiche e minacciate dall’estinzione, come leoni, elefanti e rinoceronti, nei Balcani sembra che bambine e bambini fossero in cima al listino. Non più vite, solo trofei da collezionare. Allo stesso modo, come evidenziato da Kinder nel suo libro, durante il secondo conflitto mondiale e anche in seguito, gli zoo offrirono alle persone metafore per aiutarle a comprendere le esperienze di prigionia, impotenza e degradazione. In quegli anni le gabbie divennero teatro di orrore, dolore e ideologia. I destini di gran parte degli esemplari rinchiusi negli zoo furono impietosi. Alcuni riuscirono a esser trasferiti in luoghi più protetti, mentre molte delle specie più pericolose, quelle carnivore o velenose, furono uccise per evitare che costituissero un’ulteriore minaccia in caso di fuga dopo un bombardamento. La stessa sorte toccò agli animali più costosi da mantenere, tra cui quelli marini. Molti altri rimasero intrappolati, senza la possibilità di mettersi in salvo: morirono di fame e di sete tra atroci sofferenze, subirono le esplosioni riportando ferite, orribili mutilazioni e danni psicologici irreparabili o divennero oggetto di saccheggio e di improvvisate battute di caccia. Accadde proprio questo nel 1939, durante l’invasione della Polonia da parte dell’esercito nazista. Il direttore dello zoo di Berlino, Lutz Heck, dopo aver messo da parte gli esemplari più pregiati dello zoo di Varsavia, permise ad alcune SS di usare gli animali ancora in gabbia come bersagli per la notte di Capodanno. > Un tempo i giardini zoologici erano perlopiù luoghi di intrattenimento, e una > dimostrazione del potere degli Stati sulle proprie colonie, da cui alcuni > esemplari provenivano. Oggi gli obiettivi dichiarati sono l’educazione, la > ricerca e la conservazione. Ancora oggi gli animali degli zoo sono costretti a spostarsi sotto i bombardamenti, le loro vite vengono distrutte dalle esplosioni, dalla fame e dalla sete, o diventano cibo per soldati. Nella prima parte del Ventesimo secolo, i giardini zoologici erano per lo più luoghi di intrattenimento e una dimostrazione del potere degli Stati sulle proprie colonie, da cui alcuni esemplari provenivano. Attualmente i tre principali obiettivi di queste istituzioni sono l’educazione, la ricerca e la conservazione. Quest’ultimo scopo prevede la tutela di specie a rischio di estinzione attraverso progetti in situ, in cui gli esemplari sono protetti nei loro habitat, e attività ex situ, che prevedono la detenzione di individui in cattività per il mantenimento di popolazioni di animali che potrebbero scomparire in natura. Gli zoo sono, quindi, una sorta di arca di Noè la cui efficacia, secondo Kinder, è dubbia, soprattutto in tempi di guerra: > Se gli zoo vogliono sopravvivere ai conflitti di questo secolo, devono > abbandonare la metafora dell’arca. Di fronte alla minaccia di catastrofiche > perturbazioni climatiche, il mondo non ha bisogno di una flotta di scialuppe > di salvataggio progettate per aiutare specie selezionate ad attraversare > quaranta giorni e quaranta notti metaforiche di tumulto. Piuttosto, abbiamo > bisogno di una strategia per sopravvivere a un clima alterato a tempo > indefinito. Come minimo, dobbiamo porci domande difficili sul fatto che i > vantaggi degli zoo superino i loro evidenti svantaggi, incluso il disagio > fisico e mentale sopportato dalle specie in cattività. La promessa di salvezza degli zoo sembra ancora più debole nelle zone di conflitto, dove ai danni apportati a queste strutture e ai loro occupanti si sommano ingenti disastri ambientali. I pericoli per la fauna selvatica e il reato di ecocidio Le lotte armate hanno spesso luogo in ecosistemi fragili e hotspot di biodiversità, producendo conseguenze devastanti su molte specie di animali selvatici. Nella Repubblica Democratica del Congo, anni di guerra hanno ridotto significativamente la popolazione di ippopotami: dai circa 30.000 esemplari, presenti nel 1974, si è passati a meno di 1000 verso la fine della guerra civile congolese, nel 2005. Gli esemplari sono poi aumentati fino a 2500 nel 2018, per poi essere nuovamente minacciati dai gruppi di ribelli, che hanno iniziato a cacciarli di frodo per venderne la carne e finanziare le loro attività. A oggi la popolazione di questi mammiferi si attesta intorno ai 1200 esemplari, sui quali incombono nuovi pericoli, come l’avvelenamento da antrace. In Mozambico la guerra civile, combattuta tra il 1977 e il 1992, ha portato all’uccisione di circa il 90% degli elefanti, le cui zanne in avorio erano vendute per sovvenzionare i combattenti. La caccia intensa avrebbe addirittura favorito la mutazione genetica associata alla mancata formazione delle zanne nelle femmine. In Iraq, nel 2016, l’ISIL (Islamic State in Iraq and the Levant) ha attaccato una raffineria di petrolio. Poco meno di venti pozzi esplosi hanno causato l’innalzamento di una nube tossica e una massiccia fuoriuscita di petrolio. Il risultato è stato la contaminazione di suolo e acque, un ostacolo concreto alla sopravvivenza della vicina cittadina di Qayarrah e un gravissimo danno per la fauna della regione. Le invasioni militari possono persino portare all’introduzione volontaria o accidentale di specie aliene, in grado di esercitare impatti negativi sugli ecosistemi delle aree conquistate e sui loro abitanti. Oggi sappiamo bene quanto queste azioni possano produrre danni irreparabili all’ambiente, con un effetto domino che potrebbe estendersi globalmente, eppure non abbiamo a disposizione strumenti abbastanza efficaci per arginarli. Lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, nell’articolo 8 (2)(b)(iv) sui crimini di guerra, prevede che sia considerato reato lanciare attacchi deliberati nella consapevolezza di produrre “danni diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale che siano manifestamente eccessivi rispetto all’insieme dei concreti e diretti vantaggi militari previsti”. Una norma eccessivamente generica, una lacuna giuridica che si sta cercando di colmare da decenni spingendo per il riconoscimento del reato di ecocidio. > Oggi sappiamo quanto le guerre possano produrre danni irreparabili > all’ambiente, con effetti di portata globale, eppure non abbiamo a > disposizione strumenti efficaci per arginarli. Il riconoscimento del reato di > ecocidio è un passo importante in questa direzione. Il termine è stato utilizzato per la prima volta dal biologo Arthur Galston, negli anni Settanta, per descrivere la deforestazione su larga scala causata dall’uso dell’Agent Orange da parte degli Stati Uniti d’America durante la guerra del Vietnam. Negli anni Duemila il concetto è stato riproposto dall’avvocata Polly Higgins e infine, nel 2021, è stata presentata una definizione legale alla Corte penale internazionale, per cui “‘ecocidio’ significa atti illegali o arbitrari commessi nella consapevolezza di una sostanziale probabilità di causare un danno grave e diffuso o duraturo all’ambiente con tali atti”. Sono crimini non riconosciuti che continuano a essere perpetrati senza la certezza di un processo e di un’eventuale condanna dei colpevoli: alcuni esempi recenti sono la distruzione della copertura arborea e dei terreni agricoli di Gaza, con fattorie e uliveti abbattuti, suolo, falde acquifere, mare e aria inquinati, e l’impatto sugli ecosistemi e la biodiversità del conflitto in Ucraina. Gli animali non umani sembrano quasi invisibili in questi scenari, sebbene la loro esistenza presente e futura venga cancellata attraverso le uccisioni e la distruzione degli habitat in cui prosperano. Violenze necessarie: al punto di dissoluzione del Diritto internazionale umanitario Non sono solo gli animali da compagnia, quelli degli zoo e la fauna selvatica a subire gli effetti degli scontri. Gli animali allevati vengono macellati, rubati, bombardati o lasciati morire di fame. Esistono specie utilizzate direttamente nei conflitti come mezzi di trasporto, tra i quali ci sono i cavalli, gli asini, i muli, gli elefanti e i cammelli, mammiferi addestrati a rilevare esplosivi, quali elefanti, cani e ratti, oppure cetacei preparati per cercare sottomarini e lasciati esplodere per distruggerli, tra cui i delfini. Come illustra l’articolo “Animals in War: At the Vanishing Point of International Humanitarian Law”, pubblicato nel 2022 nell’International Review of the Red Cross, malgrado la loro vulnerabilità nelle situazioni appena descritte, gli animali sono ancora ampiamente ignorati dal Diritto internazionale umanitario (DIU), che rimane prevalentemente antropocentrico. Essi non godono di uno status legale esplicito, non ne viene riconosciuta la senzienza, né sono concessi loro diritti, nonostante ci siano alcuni Paesi i cui ordinamenti giuridici hanno cominciato a considerare la soggettività e la capacità di provare dolore di questi esseri viventi. Anne Peters e Jérôme de Hemptinne, autori della pubblicazione, suggeriscono due strategie principali per affrontare la mancanza di una specifica protezione nel diritto internazionale umanitario. La prima consisterebbe nell’applicare in modo più efficace le norme già esistenti, ampliandone l’interpretazione per includere gli animali nelle categorie protette previste: potrebbero essere assimilati a combattenti o prigionieri di guerra, a civili, oppure a oggetti. Tale approccio prevederebbe la rilettura delle disposizioni relative alla difesa dell’ambiente, del patrimonio culturale e delle aree protette, riconoscendo che gli animali sono esseri viventi capaci di provare sofferenza e grave disagio (distress). La seconda strategia contempla l’adozione di un nuovo strumento internazionale volto a riconoscere specifici diritti agli animali, in particolare il divieto di utilizzarli come armi. Si tratta di una prospettiva di lungo periodo, ancora lontana, poiché richiederebbe a molti Stati di superare profonde barriere concettuali riguardanti la personalità giuridica degli animali non umani e di accettare eventuali limitazioni nella conduzione dei conflitti armati per proteggerli. Il tutto in un contesto in cui i precedenti tentativi di varare una convenzione internazionale sul benessere animale non hanno finora riscontrato grande successo. > Malgrado la loro estrema vulnerabilità nei teatri di guerra, gli animali sono > ancora ampiamente ignorati dal Diritto internazionale umanitario (DIU), che > rimane prevalentemente antropocentrico. Però, come il giurista inglese Hersch Lauterpacht ha scritto in passato, il DIU è “al punto di dissoluzione del diritto internazionale” e gli autori del paper sostengono che in questo sia simile al diritto animale, con i debiti cambiamenti, e che la loro intersezione, seppure foriera di estreme difficoltà, non dovrebbe fermarci dal voler perseguire un’“utopia realistica” per gli animali a livello mondiale. È possibile partire dall’attuale situazione internazionale per poi cercare di ampliare quelli che sono considerati i limiti della praticabilità politica. Il DIU e il diritto legato al benessere animale sono entrambi corpi normativi che non vietano la violenza, ma concedono lo spazio a una violenza ritenuta “necessaria”, di fatto legittimandola. Sebbene, come sottolinea l’articolo, questa somiglianza dovrebbe facilitare l’estensione del campo di applicazione del DIU agli animali non umani, certamente fa emergere quella ambiguità che, anche in condizioni di pace, esiste nei trattamenti che riserviamo loro. La percepiamo quando accettiamo le condizioni in cui versano negli allevamenti intensivi oppure  la cattività e la scelta di sopprimere alcuni esemplari negli zoo per calcolo economico, perché spazio e risorse delle strutture sono limitate, o per esigenze di conservazione, al fine di mantenere l’equilibrio tra maschi e femmine di una specie o prevenire il rischio di consanguineità. O ancora, quando acconsentiamo alla sperimentazione animale. > I conflitti armati rendono ancora più tangibile l’ambiguità che caratterizza > il nostro rapporto con gli altri animali, anche e soprattutto in tempo di > pace. Il confine tra amore, rispetto per la vita degli animali non umani, violenza e sopravvivenza può farsi eccezionalmente labile. Lo spiega Kinder, sempre attingendo dall’esperienza del campo di concentramento di Buchenwald, quando parla del poema satirico Eine Bären-Jagd im KZ Buchenwald (in italiano Una caccia all’orso nel campo di concentramento di Buchenwald), scritto e illustrato dal sopravvissuto al campo Kurt Dittmar nel 1946. L’opera ripercorre la breve vita di Betti, un’orsa allevata nello zoo del campo, dall’arrivo come cucciolo alla morte per mano di un comandante. L’orsa è inizialmente servita e riverita dai detenuti per ordine delle SS, si nutre di buon cibo, gode di spazio all’interno della sua gabbia ed è per questo oggetto di invidia da parte dei prigionieri. Con il trascorrere del tempo la milizia nazista aggiunge alla collezione dello zoo altri animali e Betti, stanca della nuova compagnia, abbatte il recinto elettrico e fugge nella foresta. I detenuti tentano invano di catturarla, finché il vicecomandante non la uccide e ne riporta indietro il corpo come un trofeo. L’illustrazione di Dittmar raffigura alcuni prigionieri sconvolti davanti alla carcassa dell’orsa, consapevoli di condividere il suo destino di preda braccata. Costretti ad arrostirne le carni per la festa delle guardie, non ne assaggiano neanche un boccone, ma continuano a sognare: la libertà, il cibo e la giustizia contro i loro aguzzini. Nonostante sia ispirato a eventi reali, il poema non è un resoconto storico, ma conserva in sé una realtà difficile da accettare. Scrive l’autore di World War Zoos: > Ciò che otteniamo invece è qualcosa di più interessante: una riflessione sul > potere e sui limiti dell’empatia. Nel racconto di Dittmar, i prigionieri umani > di Buchenwald riconoscono che la vita di Betti è sempre appesa a un filo, che > lei è preziosa fino al momento in cui le SS decidono diversamente. Pure lei è > una prigioniera, anche se ha pasti migliori e una gabbia più bella. Ma questo > non significa che non proveranno a rubarle il cibo o a rosicchiare le sue ossa > spolpate. Nella Buchenwald di Dittmar, i prigionieri possono sia piangere per > l’uccisione di Betti sia sbavare affamati sul suo cadavere sfrigolante. L'articolo Animali in guerra proviene da Il Tascabile.
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La versione del cavallo
T oc. È il suono dello zoccolo di Hans: il cavallo capace di contare, riconoscere le carte da gioco e persino leggere nel pensiero. Ha appena poggiato la zampa su un cartellino con il numero “quattro” disegnato in superficie, il risultato corretto di una sottrazione. Siamo nei primi anni del Novecento e una commissione di scienziati è riunita a casa di Wilhelm von Osten, insegnante di matematica in pensione di Berlino, per verificare che le prodigiose abilità di Hans, il suo cavallo, non siano una frode. E tali non sembrano: sa risolvere calcoli, riconoscere forme geometriche e indovinare a quale numero sta pensando un umano di fronte a lui. Eppure il biologo e psicologo Oskar Pfungst non è convinto e ripropone all’animale i test, questa volta con alcune modifiche: gli sperimentatori non dovranno conoscere le risposte ai quesiti posti o non dovranno essere visibili al cavallo. Hans non risponde più e Pfungst, in questo modo, scopre che l’equino non sarà un bravo matematico, ma è un eccellente osservatore: riesce a leggere i piccoli segnali del volto e del resto del corpo di von Osten e dei membri della commissione che in qualche modo indicano che sta toccando o sta per toccare il numero corretto. Nasce così l’effetto Clever Hans, che indica il rischio da parte degli esseri umani di dare al soggetto testato un suggerimento involontario sul comportamento desiderato. > Nel corso della storia i cavalli sono stati cibo, mezzi di trasporto, forza > agricola, armi da guerra, campioni sportivi, status symbol, compagni e > mediatori terapeutici. Solo negli ultimi anni abbiamo iniziato a studiare i > loro reali bisogni, il modo in cui percepiscono il mondo e perfino alcuni > aspetti della loro vita interiore. Nel teatro delle civiltà umane, i cavalli sono stati costretti a recitare innumerevoli ruoli. Se per il vecchio maestro in pensione doveva essere lo sbalorditivo esemplare a cui aveva insegnato a comportarsi come un umano, in generale, nella storia delle nostre società, questi animali sono stati cibo, mezzi di locomozione, strumenti agricoli, armi da guerra, campioni sportivi, status symbol, compagni di vita e mediatori terapeutici. Uno di loro stava persino per essere nominato console dall’imperatore Caligola, almeno così scriveva Svetonio. Solo negli ultimi anni la ricerca sul comportamento animale sta iniziando a restituirci un’immagine più autentica dei cavalli, svelando i loro reali bisogni, il modo in cui percepiscono il mondo e perfino alcuni aspetti della loro vita interiore, al di là delle nostre proiezioni e stereotipi. Umani e cavalli: due destini che si uniscono La storia degli Equidae, la famiglia a cui appartengono i cavalli, inizia circa 55 milioni di anni fa, in America. Nell’Eocene apparve il primo antenato del cavallo, l’Hyracotherium, i cui resti fossili ritrovati in America Settentrionale ed Europa rivelavano le sembianze di un mammifero molto diverso dal fiero destriero a cui noi tutti siamo abituati: aveva dimensioni simili a quelle di un cane di taglia medio-piccola, cranio tozzo e zampe sottili. Persino i paleontologi fecero fatica a ricollegarlo ai cavalli prima del ritrovamento dei resti di altri antenati, ultimo il Pliohippus, da cui si è evoluto il genere Equus circa 4-4,5 milioni di anni fa, durante il Pliocene. Nel corso di poche decine di milioni di anni l’evoluzione apportò numerosi cambiamenti, tra cui l’aumento di dimensioni, la riduzione del numero di dita, la modifica della morfologia dei denti affinché fossero adatti al pascolo, l’allungamento del muso e l’incremento del volume e della complessità del cervello. > Il controllo della riproduzione dei cavalli moderni è emerso intorno al 2200 > a.C. nelle steppe pontico-caspiche, attraverso l’accoppiamento tra > consanguinei stretti per selezionare le caratteristiche più utili. Fu alla fine del Pleistocene che il destino dei cavalli cambiò drasticamente. Se in America Settentrionale scomparvero intorno a 10.000 anni fa, nel Vecchio mondo vissero abbastanza a lungo da incontrare l’essere umano ed essere domesticati. Le pareti dipinte delle grotte di Lascaux, Altamira e Pech-Merle testimoniano l’attrazione che il cavallo aveva iniziato a esercitare sui nostri progenitori nel Paleolitico, con le loro rappresentazioni accurate, forse propiziatorie o dettate dal senso di libertà che la loro corsa probabilmente evocava. I primi tentativi di domesticazione, però, avvennero molto tempo dopo: le prime tracce risalgono soltanto a circa 5.500 anni fa e appartengono ad alcuni antichi insediamenti semisedentari localizzati nell’attuale Kazakistan settentrionale. Nei pressi del sito archeologico di Botaï sono stati rinvenuti resti ossei, appartenenti a centinaia di cavalli, che mostrano l’uso di briglie, di recinzioni, e altri ritrovamenti che costituiscono indizi sulla loro mungitura per ricavarne latte da bere, pratica diffusa ancora oggi in Mongolia. Per molto tempo si è creduto che i nostri cavalli fossero i diretti discendenti di quelli di Botaï, ma recenti analisi genetiche hanno smentito questa ipotesi. Gli equidi del Kazakistan non vennero selezionati e utilizzati per il trasporto su larga scala. Questo sarebbe accaduto solo verso la fine del terzo millennio a.C. Uno studio pubblicato su Nature nel 2024 ha rivelato che il controllo della riproduzione della linea dei cavalli moderni è emerso intorno al 2200 a.C. nelle steppe pontico-caspiche, attraverso l’accoppiamento tra consanguinei stretti per selezionare le caratteristiche più utili. Il controllo riproduttivo ha coinciso con una rapida espansione dei nuovi cavalli in tutta l’Eurasia, che ha portato alla sostituzione di quasi tutte le linee locali. Iniziava così la storia umana della mobilità su vasta scala. Le date ottenute dalle analisi genetiche e dall’esame dei reperti archeologici sono di particolare importanza anche perché contraddicono una delle narrazioni più diffuse sullo sviluppo delle culture umane, secondo cui grandi mandrie di cavalli avrebbero accompagnato la massiccia migrazione dei popoli delle steppe che diffusero le lingue indoeuropee attraverso l’Europa intorno al 3000 a.C. A quell’epoca non avevamo ancora domato il DNA dei cavalli selvatici. La domesticazione del cavallo rivoluzionò il modo di viaggiare e per migliaia di anni fu questa specie a segnare i confini del trasporto via terra, finché il treno, nel Diciannovesimo secolo, aprì una nuova era. Solo con l’avvento dell’automobile, nel secolo successivo, i cavalli persero definitivamente il loro ruolo centrale nei trasporti. Il retaggio di questo passato, però, è ancora ben visibile: molte strade ricalcano antichi percorsi tracciati per i cavalli e la potenza dei motori continua a misurarsi proprio in “cavalli”. Lasciarono un’impronta profonda anche nelle guerre e vennero usati fino al primo conflitto mondiale, in cui furono indispensabili poiché trainavano rifornimenti, munizioni, artiglieria e feriti. Un animale, tanti ruoli Il poderoso e imponente percheron, originario del Nord della Francia, plasmato per le battaglie, per i trasporti e i lavori agricoli; il pony delle Highlands, nativo delle isole scozzesi, compatto e piccolo e allevato per l’equitazione di campagna e di maneggio; l’elegante e selvaggio mustang, discendente dei cavalli che gli spagnoli portarono nel Nuovo mondo, in seguito rinselvatichiti. Queste sono solo alcune delle centinaia di razze che l’essere umano ha modellato con la selezione artificiale per adattarle alle proprie necessità, inizialmente incrociando individui con le caratteristiche desiderate, fino ad arrivare all’utilizzo di tecniche di editing genetico come CRISPR (Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats). I cavalli sono i nostri campioni in discipline sportive, tra cui il polo e l’equitazione, continuano a svolgere i loro compiti tradizionali nei Paesi in via di sviluppo, dove forniscono trasporto e forza lavoro per l’aratura, sono protagonisti di celebrazioni folkloristiche e tradizionali in tutto il mondo, con rituali che frequentemente sfidano la concezione di benessere animale e persino il buonsenso. Ne sono un esempio la conduzione di mezzi a trazione in piena estate a Roma (le cosiddette botticelle), e Las Luminarias, celebrazione durante la quale si festeggia Sant’Antonio, protettore degli animali, facendo attraversare agli equidi le fiamme dei falò accesi nei vicoli di San Bartolomé de Pinares, in Spagna. I cavalli sono anche considerati cibo: secondo i dati della FAO (Food and Agriculture Organization) sugli allevamenti mondiali, nel 2023 si contavano circa 57 milioni di cavalli e 4,71 milioni macellati. > Sono centinaia le razze che l’essere umano ha modellato con la selezione > artificiale per adattarle alle proprie necessità, inizialmente incrociando > individui con le caratteristiche desiderate, fino ad arrivare all’utilizzo di > tecniche di editing genetico. Equus ferus caballus è sempre stato anche un compagno per noi umani. Già nel mondo antico, e ancora di più nel Medioevo e nel mondo islamico, era considerato dai cavalieri un amico, con un suo nome e una sua personalità. È indimenticabile l’incontro tra Alessandro Magno e il cavallo Bucefalo, descritto da Plutarco nella Vita di Alessandro: il figlio di Filippo II di Macedonia comprende le paure dell’animale e riesce in questo modo a cavalcarlo. Il loro rapporto è stretto e intenso, rafforzato da viaggi e battaglie e suggellato dalla morte dell’animale sull’Idaspe, in India, dove il condottiero fonderà una città in onore del destriero. Secoli di vicinanza non trascorrono senza lasciare traccia e i cavalli hanno imparato a starci accanto, a capirci così bene da poter addirittura essere un supporto negli interventi assistiti con gli animali, progetti che si basano sull’interazione con loro per mantenere o migliorare il nostro benessere fisico, psicologico e sociale. Essere cavalli Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento incominciarono a essere diffusi spettacoli in cui cavalli e nuotatori si tuffavano da strutture alte circa venti metri: il cavallo saliva su rampe strette, solo il vuoto intorno a lui; poi, in cima, un fantino gli saltava in groppa ed entrambi scivolavano su una piattaforma inclinata, fino a cadere per diversi metri, a testa in giù, in una piscina. Non sorprende che esperienze di questo tipo lasciassero spesso segni profondi, sia fisici sia emotivi, tanto sugli esseri umani quanto sui cavalli. L’esistenza di queste performance è proseguita fin quasi ai giorni nostri ‒ negli anni Duemila un esemplare ha continuato a tuffarsi in un parco divertimenti vicino a New York ‒ e in rete è ancora possibile guardare i video di queste imprese. Tra i commenti c’è chi suggerisce che questi animali si divertano nel tuffarsi: “Se lo fanno, è perché gli piace”. Un argomento sterile, come afferma Léa Lansade in Nel mondo del cavallo – Pensieri, emozioni, comportamenti di un meraviglioso animale (2025). > Contrariamente a quanto generalmente si pensa, i cavalli sono animali sociali > e vivono in gruppi familiari composti da 3-5 femmine, uno stallone e i puledri > con esso generati. Famiglie che si spostano, mangiano, dormono, galoppano e > giocano insieme. Lansade, introdotta all’equitazione da giovanissima, è oggi un’etologa specializzata nel campo delle emozioni e delle capacità cognitive degli animali. Nel libro, la ricercatrice supera gli spazi angusti di credenze e folklore, salta le staccionate delle conoscenze non dimostrate sui cavalli e presenta un animale sconosciuto a una buona parte del pubblico, anche di quello esperto, raccontando i risultati di anni di ricerche etologiche. I cavalli sono animali sociali e vivono in gruppi familiari composti da 3-5 femmine (le giumente), uno stallone e i puledri con esso generati. Tra le giumente si instaurano amicizie che durano a lungo, anche un’intera esistenza, e quando formano una nuova famiglia, esse cercano di rimanere vicine a quella di origine, isolandosi solo nella stagione riproduttiva. I puledri, molto uniti alle madri fino alla maturità sessuale, che arriva intorno ai 2-3 anni, imparano le regole del gruppo tramite il gioco, di cui si occupa soprattutto lo stallone. Le famiglie si spostano, mangiano, dormono, galoppano e giocano insieme. Quando un membro scompare, il resto del gruppo lo chiama e lo cerca: i cavalli sono in grado di riconoscersi e sanno instaurare relazioni solide tra loro. Non sono territoriali e diversi gruppi possono convivere in uno stesso spazio, in cui trovano tutto ciò di cui necessitano, come acqua, cibo e un riparo naturale, quando possibile. Il fatto che il cavallo sia un erbivoro influisce profondamente sulla distribuzione delle attività a cui si dedica nelle 24 ore. Poiché le piante forniscono poca energia rispetto al fabbisogno di un animale che può pesare centinaia di chilogrammi, il cavallo occupa in media 15-16 ore al giorno a nutrirsi. Durante il pascolo non rimane fermo, ma si muove lentamente con la testa a terra, scegliendo le piante più adatte. Il benessere del cavallo è anche questo: essere libero di trascorrere una giornata a camminare mentre mangia. I sensi dei cavalli nascondono regni a noi sconosciuti. Il loro campo visivo, diversamente dal nostro, è panoramico: possono arrivare a vedere quasi dietro la propria schiena, grazie alla posizione laterale degli occhi, uno per ogni parte della testa. Si ritiene che l’evoluzione abbia favorito questa particolare disposizione per avvistare i predatori da qualsiasi direzione, una caratteristica che rappresenta un enorme vantaggio per un animale che vive in branco. L’olfatto molto sviluppato permette loro di esplorare l’ambiente che li circonda e svolge un ruolo importante nell’interazione sociale e nella gestione di stati di allerta. Ad esempio, subito dopo la nascita, la madre riconosce il proprio puledro grazie al suo odore; quando due cavalli si incontrano, si annusano per identificarsi; gli stalloni, invece, usano l’olfatto anche per marcare il territorio, esaminando gli escrementi di altri maschi per capire chi è passato prima di loro, quale fosse il suo status, e depositandoci sopra i propri. > Mentre questi animali per necessità hanno imparato a leggere i nostri > comportamenti, ad attribuirci una reputazione, a riconoscere i nostri volti e > persino le nostre emozioni, noi non siamo altrettanto preparati sul loro mondo > interiore e sulla loro intelligenza. Il senso che forse più sorprende è il tatto: ci sono cavalli che riescono a percepire in alcune zone del proprio corpo una pressione paragonabile a quella dell’estremità di un capello umano, che noi non siamo in grado di sentire sulla punta delle nostre dita. Con il loro udito sanno captare gli ultrasuoni e riescono a cogliere l’intera gamma di frequenze che emettiamo quando parliamo, mentre il loro gusto li porta a nutrirsi di un ampio assortimento di erbe, piante, frutti, foglie e rami, quando vivono in natura. Emozioni equine La storia di Hans e i racconti sui cavalli tuffatori dimostrano che, mentre questi animali per necessità hanno imparato a leggere i nostri comportamenti, ad attribuirci una reputazione, a riconoscere i nostri volti e persino le nostre emozioni, noi non siamo così preparati sul loro mondo interiore, sulla loro intelligenza e sul loro stato psicologico. Ce lo spiega ancora una volta Léa Lansade: riconosciamo bene i segnali di paura, che può diventare patologica se trascurata, ma sappiamo poco su frustrazione, rabbia e tristezza. Di certo i cavalli provano piacere, ad esempio quando spazzolati nei punti giusti, e cercano di farcelo capire con le loro posture, il comportamento e le espressioni facciali. Anche la gioia fa parte delle loro emozioni, seppur difficile da delineare con certezza. E poi c’è il dolore, fondamentale da riconoscere per garantire il benessere di questi animali: sono stati sviluppati protocolli per la sua identificazione, in base alle espressioni facciali, da due gruppi di ricerca, uno italiano e l’altro svedese. I cavalli possono dare l’impressione di comprenderci e questo induce a chiedersi se siano davvero in grado di cogliere gli stati mentali propri e altrui e, in base a questi, capire e prevedere un comportamento, cioè se possiedano una forma di teoria della mente. Alcuni studi rivelano indizi sulla capacità dei cavalli di conoscere che cosa sappia e che cosa non sappia un umano. Nei test gli sperimentatori che avrebbero dovuto dar loro il cibo, in alcune occasioni non lo facevano. Questo avveniva manifestando la chiara intenzione di non fornire cibo oppure mostrando di esserne impossibilitati a causa della presenza di una barriera o di una certa goffaggine da parte dell’operatore. I cavalli rinunciavano più facilmente quando c’era una evidente volontà di non offrire loro cibo, mentre erano più propensi a insistere davanti alla goffaggine dello sperimentatore. Ciò suggerirebbe che essi possano tener conto non solo delle azioni, ma anche delle intenzioni umane, che in qualche modo sarebbero capaci di leggere. Un risultato simile a quanto osservato nei primati. > I cavalli possono dare l’impressione di comprenderci e questo induce a > chiedersi se siano davvero in grado di cogliere gli stati mentali propri e > altrui, cioè se possiedano una forma di teoria della mente. Oltre a comprendere gli altri, i cavalli stupiscono anche per la loro memoria a lungo termine: in molte storie e rappresentazioni, come quelle che appartengono all’immaginario dei racconti western, l’animale ritrova da solo la strada di casa, a conferma della capacità di memorizzare percorsi e luoghi. È un’abilità che supporta questi animali nella loro vita, durante la quale, come afferma Lansade, “Per trovare il cibo, vivere in gruppo, riprodursi o evitare il pericolo, il cavallo ha bisogno di ricordare i suoi simili, i luoghi che ha visitato e le situazioni che ha incontrato, ma anche di associare gli eventi e reagire in modo adeguato”. Ripensare la nostra relazione con il cavallo Le scoperte scientifiche sull’etologia dei cavalli dovrebbero porci davanti a interrogativi urgenti sul modo in cui ci rapportiamo con loro. Non possiamo più continuare a credere che certi metodi di allenamento, alcune attività e persino i luoghi in cui li lasciamo vivere siano ancora adatti. I cavalli hanno trascorso le loro esistenze quasi esclusivamente in gruppo e all’aperto fino alla fine del Medioevo, momento in cui si iniziò a detenerli in stalle chiuse, con uno spazio minimo per ciascun esemplare. Era un sistema nato per proteggerli dal freddo, ma che oggi, nonostante possiamo garantire loro riparo e cura in modalità differenti, continuiamo ad adoperare. L’autrice di Nel mondo del cavallo racconta come lei stessa sia stata vittima dell’abitudine e della mancanza di conoscenza: > Imitando le persone che mi circondavano, pensai che per il mio cavallo > sportivo sarebbe stato meglio vivere in un box, possibilmente su un letto di > trucioli, come avevo visto fare nelle grandi scuderie. Ero convinta che questa > vita gli si addicesse e fosse perfetta per lui. Mi divertiva quando faceva > risuonare continuamente i denti sul metallo della porta del box, come se > stesse suonando un’armonica. In realtà, soffriva di stereotipia, ma all’epoca > non me ne rendevo conto. Il mio cavallo visse così per alcuni anni, finché, > con l’aiuto di alcuni studi, mi resi conto di quanto fosse deleteria per lui > la vita da rinchiuso e di quanto potesse influire sulla sua salute fisica e > psicologica. Il cavallo tornò nella precedente sistemazione, un grande prato con ampi box comunicanti, in cui poteva andare a piacimento. Equus ferus caballus è stato al nostro fianco, nelle vittorie e nelle sconfitte. È stato sfruttato per necessità, ludibrio, intrattenimento. Ne abbiamo fatto un’icona, uno status symbol, il protagonista di tradizioni identitarie, ha incarnato il riflesso della nostra grandezza e la sua sensibilità lo ha eretto a supporto emotivo, sempre nel nostro interesse. Per lungo tempo non abbiamo considerato la sua essenza, i suoi bisogni, le sue emozioni. Ora il lavoro di ricercatrici e ricercatori ci sta suggerendo un futuro diverso, un nuovo sentiero da percorrere sradicando l’ignoranza. L'articolo La versione del cavallo proviene da Il Tascabile.
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L o scorso marzo uno studio apparso su Science ha confermato che i bonobo sono in grado di organizzare le loro vocalizzazioni seguendo strutture complesse, più simili a quelle della sintassi umana di quanto non immaginassimo. Viene definita composizionalità quella capacità di combinare elementi linguistici in strutture più ampie e che ne possono alterare il significato di volta in volta. Tra le diciannove combinazioni rilevate, alcune assumono la forma di frasi, frammenti di discorso: “yelp-grunt”, ovvero “facciamo quello che sto facendo”; “peep-whistle”: “cerchiamo la pace”. I ricercatori hanno usato lo strumento della semantica distribuzionale per analizzare non solo quali suoni vengono emessi dai bonobo, ma anche in quali contesti appaiono e con quali altri suoni sono combinati per esprimere di volta in volta intenzionalità diverse. A partire dal loro dizionario, “high-hoot + low-hoot” combinano i richiami che significano “prestami attenzione” e “sono eccitato” per dire invece: “prestami attenzione perché sono in difficoltà”. I bonobo si intendono, rispondono, piegano gli elementi della comunicazione al gesto quotidiano, alle proprie vicissitudini, e alla costruzione del loro vivere sociale. Da dove nasce questa voce? Sono la grammatica e la lingua parlata a crearla? > Classificare il linguaggio altrui vuol dire dominarlo, inglobarlo. Consiste > nel misurare le capacità cognitive e comunicative degli animali non-umani > sulla base di un parametro esplicitamente antropocentrico e logocentrico. In Technobiophilia. Nature and cyberspace (2013), Sue Thomas si chiedeva “Quando sui nostri schermi guardiamo creature lontane affaccendarsi nella loro vita quotidiana, sogniamo una connessione? Speriamo nel momento in cui il falco o l’elefante o la gazzella o l’orso incontreranno i nostri occhi rispondendo finalmente al nostro sguardo remoto?”. Il sogno di vedere gli animali rivolgerci la parola, occupa da sempre un posto speciale nella nostra solitudine esistenziale. Soundboard per l’addestramento di cani che imparano a premere il pulsante giusto per dirci “biscottino” o “ti voglio bene”; Intelligenze artificiali (IA) che decifrano versi e segnali animali; chatbot costruiti con tecnologia LLM (Large Language Model ) e COT (Chain of Thought): continuiamo a costruire oggetti parlanti forse per avere qualcosa con cui parlare, strategie di elusione contro l’angoscioso silenzio cosmico e vite sempre più isolate. Oppure, è per via della perdita di contatto con le nostre originali comunità ecologiche: una sorta di nostalgia per il nostro tempo animale, il tempo in cui noi eravamo con loro. C’è poi un senso di vertigine all’idea di decifrare appieno il pensiero di creature a noi aliene. Classificare il linguaggio altrui vuol dire dominarlo, inglobarlo. Consiste nel misurare le capacità cognitive e comunicative degli animali non-umani sulla base di un parametro esplicitamente antropocentrico e logocentrico: la loro capacità o incapacità di articolare discorsi, la loro attitudine o inettitudine a comprendere e riprodurre suoni e regole dei linguaggi umani. Il presupposto per il quale il mondo animale debba venire incontro alle nostre categorie di linguaggio, è una proiezione coloniale, anche quando si traveste da empatia. Nei miti, nei racconti, nei disegni, negli stabulari, vogliamo che gli animali dicano, dicano a noi, e dicano come noi, affidando loro ruoli funzionali al nostro immaginario. Nelle fiabe tradizionali, ad esempio, leoni e volpi insegnano il coraggio e l’astuzia, l’agnello incarna la purezza sacrificale, l’asino la stupidità laboriosa e caparbia. Ma anche nei bestiari medievali e nelle narrazioni moderne l’animale è spesso uno strumento, veicolo di insegnamenti morali e apologhi edificanti. Vite e menti non-umane sono state soggette alle stesse proiezioni e supposizioni (edipiche, manichee, ecc.) che applichiamo ai personaggi delle storie umane. Con l’avvento del positivismo e l’illusione dell’osservazione oggettiva, l’animale, sbattuto nei laboratori, invece, tace. Non è più un emissario di senso, ma un dato da misurare. In questa transizione si consumava una nuova perdita epistemologica: dalla voce al segnale, dal discorso all’impulso. La soggettività animale viene tradotta, semplificata, neutralizzata. Il ritorno del soggetto vocale L’etologia cognitiva – disciplina che studia le menti animali attraverso l’osservazione del comportamento in ambienti naturali e sociali – è stata in grado negli ultimi anni di riportare al centro l’intenzionalità e la complessità comunicativa degli animali. In parallelo, la filosofia della percezione, che indaga come gli esseri viventi costruiscono senso a partire dal corpo e dalla relazione con l’ambiente, e l’ecosemiotica, che esplora i sistemi di segni negli ecosistemi come forme di coesistenza e scambio, invitano a ripensare la voce: non più semplice veicolo di informazione, ma gesto situato, espressione incarnata di una relazione. > Vite e menti non-umane sono state soggette alle stesse proiezioni che > applichiamo ai personaggi delle storie umane. Con l’avvento del positivismo e > l’illusione dell’osservazione oggettiva, l’animale, sbattuto nei laboratori, > invece, tace. Non è più un emissario di senso, ma un dato da misurare. Anche tra gli animali meno considerati dalla nostra immaginazione sonora, emergono forme sorprendenti di vocalizzazione. La comunicazione degli animali che conducono esistenze solitarie è stata spesso sorvolata, perché considerata a uno stato primitivo dell’evoluzione, e dunque senza bisogno di particolari approfondimenti. E invece i puma, i lemuri, hanno scambi significativi e reti sociali complesse pur passando molto tempo da soli; i procioni, animali fortemente individualisti, sono in grado di insegnare ai compagni meno svegli la risoluzione di problemi; alcune tartarughe d’acqua dolce, specie di rettile silenziosa e solitaria per eccellenza, emettono suoni in specifici contesti sociali come ad esempio le vocalizzazioni che precedono l’emersione, o la comunicazione delle femmine con i piccoli appena nati per accompagnarli verso l’acqua. Anche in assenza di strutture vocali sofisticate e in contesti sociali ridotti, la voce animale trova forme inedite per emergere come fenomeno diffuso, adattativo, contestuale. Gli animali usano la loro voce per tessere trame sociali, soprattutto nei momenti liminali: nascita, migrazione, nidificazione. È in questi passaggi di soglia che la voce affiora. Da questa prospettiva il caso dei bonobo può essere analizzato in modo differente. Come osservato da David Robson, il linguaggio umano stesso è permeato di ideofoni – parole che evocano sensazioni fisiche vivide o emozioni attraverso il suono, e che trasmettono un senso immediato di corpo e intensità. Questo fenomeno, che sfida la teoria saussuriana dell’arbitrarietà del segno, mostra quanto la concettualizzazione delle parole sia legata in modo profondo all’esperienza sensoriale e corporea. Se trasliamo questo paradigma nella comunicazione animale, possiamo interpretare molte vocalizzazioni – come quelle dei bonobo appunto – non solo come segnali, ma come veri e propri atti incarnati. Sequenze vocali associate a stati emotivi e che costruiscono relazioni situate. Non solo una grammatica vicina al senso umano, ma una forma di articolazione sensoriale del mondo condiviso. > Gli animali usano la loro voce per tessere trame sociali, soprattutto nei > momenti liminali: nascita, migrazione, nidificazione. È in questi passaggi di > soglia che la voce affiora. Un esempio analogo lo offre il celebre corvo allevato in cattività da Konrad Lorenz. L’animale aveva inventato una vocalizzazione inedita per richiamare il suo custode. Non un verso della specie, ma un suono creato ad hoc, rivolto a un interlocutore preciso. Un atto d’appello, non un riflesso. È in questi episodi che la voce si manifesta come gesto performativo: una negoziazione situata e irripetibile. Irripetibile non fisiologicamente, ma irripetibile dal punto di vista relazionale. Situato cioè in una relazione specifica, che nasce da un’interazione storicamente determinata tra quel corvo e quell’umano. Un gesto che non ha l’ambizione di essere replicato altrove, ma che ha senso nel momento in cui accade. È irripetibile come lo sono i gesti di cura, i soprannomi inventati e intonati nei rapporti affettivi, o certi silenzi condivisi tra due soggetti. Senza voce Cosa accade quando la voce dell’animale non può essere ascoltata? I pesci, per molto tempo, sono stati considerati esseri silenziosi. Eppure, studi di bioacustica marina hanno rivelato una ricchissima varietà di vocalizzazioni: molte specie comunicano attraverso suoni emessi con la vescica natatoria, battiti di mascelle o sfregamenti ossei. Il pesce tamburo, ad esempio, produce suoni durante la riproduzione che rientrano tra i più forti registrati sott’acqua. Queste voci, che per secoli abbiamo ritenuto inesistenti, oggi rischiano di sparire senza essere mai state davvero udite. Non solo la pesca selvaggia, che rappresenta la causa principale dell’estinzione di queste creature, ma il traffico navale, le esplorazioni sismiche, le trivellazioni: tutte attività che generano un rumore costante e invasivo, che copre e disintegra i segnali acustici naturali. Questo riguarda i cetacei ovviamente, le cui comunicazioni basate su sonar naturali vengono neutralizzate dal rumore antropico. Gli ecosistemi acustici marini vengono riscritti dall’economia estrattiva e dalla logica del trasporto, con effetti che si estendono ben oltre il danno ambientale: colpiscono la possibilità stessa del legame, della presenza, della continuità generazionale. L’inquinamento acustico oceanico è l’equivalente sonoro della deforestazione: distrugge spazi di comunicazione, impedisce alle creature di incontrarsi, cacciare, accoppiarsi. > Studi di bioacustica hanno rivelato una ricchissima varietà di vocalizzazioni > negli animali marini: queste voci, che per secoli abbiamo ritenuto > inesistenti, oggi rischiano di sparire senza essere mai state davvero udite. Alcune specie, come il notropide a coda nera, hanno sviluppato un meccanismo di compensazione noto come effetto Lombard: alzano il volume delle loro vocalizzazioni, per contrastare il rumore ambientale. L’effetto Lombard è una risposta involontaria e automatica, presente in molte specie animali, che permette di farsi sentire meglio in ambienti rumorosi. Ma non tutte le specie possono adattarsi immediatamente. E molte tacciono. Il nostro orecchio culturale è selettivo, e spesso sordo alle voci basse, alle voci lente, alle voci senza parole. L’interferenza antropogenica sovrascrive, copre, cancella. La perdita della voce è una forma di sparizione ontologica, la voce non udita è un soggetto che non conta. Deborah Bird Rose, antropologa e teorica dell’ecologia multispecie, parlava della “responsabilità di ascoltare le voci che scompaiono”. Per Rose, la scomparsa di una voce non è solo perdita ecologica, ma una ferita relazionale che interroga la nostra stessa capacità di rispondere al mondo. La materia che parla Ricominciare ad ascoltare la voce animale significa rivedere anche la nostra idea di voce. Non tutto ciò che è voce si manifesta attraverso l’aria, e non tutto ciò che si manifesta attraverso l’aria è già riconosciuto come voce. La voce sintetica di un’Intelligenza artificiale, come quella usata in I’m Not the Only One (2019) di Martine Syms – artista afroamericana che indaga la relazione tra tecnologia, identità e linguaggio – mostra cosa accade quando la voce perde il corpo, quando diventa replicabile, standard. Syms lavora sullo smarrimento della voce come esperienza incarnata e posizionata, mostrando come i sistemi algoritmici tendono a normalizzare il linguaggio, a renderlo uniforme, neutro, scollegato da ogni contesto corporeo. Storicamente, i soggetti razzializzati sono stati esclusi dal diritto di parola pubblica, o vi sono stati ammessi solo a condizione di adeguarsi a un registro linguistico dominante. La voce disincarnata dell’IA, in questo senso, è il paradosso finale: una voce a cui non corrisponde più alcun corpo, nessuna storia, nessuna vulnerabilità. Una voce che parla per tutti e per nessuno. > La comunicazione tra esseri senzienti non si limita alla mera trasmissione di > informazioni, ma coinvolge la capacità di attribuire significato ed esperire > emozioni, rendendo ogni interazione un evento relazionale potenzialmente > trasformativo, non solo a livello di apprendimento. Il linguaggio prodotto dalle IA basate su algoritmi transformer ‒ reti neurali che apprendono dal modo in cui i dati linguistici vengono utilizzati tenendo traccia delle relazioni all’interno delle sequenze che li contengono ‒ è il risultato di una struttura logica derivata dal mondo, non di un pensiero o di una intenzionalità cosciente. Ciò mette in luce quanto l’imitazione dell’algebra del linguaggio umano sia un compito, in fondo, relativamente facile da svolgere, il cui risultato dipende solo da un numero sufficientemente alto di calcoli. Gemma Corradi Fiumara, nel suo libro The Other Side of Language: A Philosophy of Listening (1995) sottolinea come nella filosofia occidentale, l’ascolto sia stato trascurato a favore della produzione discorsiva, e ciò contribuisce a spiegare, almeno in parte, la nostra tendenza a proiettare comprensione o intenzionalità laddove riconosciamo forme discorsive familiari. ChatGpt, Gemini, Perplexity, Claude, o IA simili, possono leggere un volume enciclopedico in pochi secondi e produrre decine di linee di testo coerente, ma è questa una condizione sufficiente per pensare alle IA come soggetti parlanti? Come possono, nel loro stato attuale, possedere anche solo un briciolo del mondo emotivo ed esperienziale, ad esempio, di un corvide? La comunicazione tra esseri senzienti non si limita alla mera trasmissione di informazioni, ma coinvolge la capacità di attribuire significato ed esperire emozioni, rendendo ogni interazione un evento relazionale potenzialmente trasformativo, su più livelli, non solo su quello dell’apprendimento. Ci sono pipistrelli che usano nomi propri, balene che modulano canti per esprimere legami sentimentali, elefanti che ritornano dai cari sepolti nei loro cimiteri, uccelli che cantano per gioia in assenza di ricompensa: forme di comunicazione che rispondono a esigenze relazionali, affettive, forse perfino estetiche. La lingua, intesa come sistema simbolico articolato, non è l’unico mezzo attraverso cui si manifesta il pensiero. L’ipotesi di Sapir-Whorf, o teoria della relatività linguistica, suggerisce che la lingua che parliamo influenza la nostra percezione del mondo, ma non determina completamente l’origine del nostro pensare. Pertanto, mentre la lingua può modellare il pensiero, non è una condizione necessaria per la sua esistenza. La comunicazione tra esseri senzienti può avvenire attraverso una varietà di modalità, incluse vocalizzazioni, gesti, espressioni facciali, posture, attivazioni muscolari o di altri organi, attraverso le quali si esprimono desideri e stati interni. La comunicazione tra madre e neonato, ad esempio, è ricca di segnali non verbali che trasmettono affetto, sicurezza e bisogni. Allo stesso modo, la comunicazione tra esseri umani e animali domestici spesso coinvolge una comprensione reciproca che trascende le parole. I cani leggono i nostri segnali corporei quando stiamo per avere un attacco di panico, sono in grado di interpretare le espressioni facciali e il tono della voce umana per comprendere le emozioni e rispondere di conseguenza. > Ci sono pipistrelli che usano nomi propri, balene che modulano canti per > esprimere legami sentimentali, elefanti che ritornano dai cari sepolti nei > loro cimiteri, uccelli che cantano per gioia in assenza di ricompensa: forme > di comunicazione che rispondono a esigenze relazionali, affettive, forse > perfino estetiche. Nel racconto autobiografico della ricercatrice e filosofa Eva Meijer, in Linguaggi animali (2021), emerge come il linguaggio si costruisca nella relazione, con il pony Joy, con i pappagalli e gli altri animali. È una costruzione situata e interspecifica, basata su abitudini condivise, feedback corporei, apprendimenti reciproci. Meijer non cerca un codice, ma una coabitazione linguistica: “non è solo un problema di ascolto”, scrive, “dobbiamo fare anche del nostro meglio per individuare nuove modalità di interazione con gli animali”. Molti animali comunicano efficacemente attraverso sistemi propri, senza fare affidamento su un linguaggio antropicamente inteso. Queste forme di comunicazione sono adattate alle esigenze specifiche delle specie, con una efficacia che spesso supera il linguaggio umano in termini di immediatezza e connessione con l’altro, più adatta a esprimere emozioni o situazioni complesse, ricorrendo a segnali olfattivi, visivi o acustici per trasmettere informazioni vitali in tempo reale, senza la necessità di una struttura linguistica complessa. La ricchezza comunicativa che Meijer descrive è sorprendente: cani della prateria che usano un richiamo d’allarme capace di descrivere taglia, colore e oggetti di un umano intruso, uistití che “parlano a turno” e insegnano ai cuccioli a farlo, elefanti che usano infrasuoni specifici per nominare l’essere umano come minaccia. Le vocalizzazioni animali si adattano al paesaggio: i suoni delle balene si espandono per chilometri grazie all’acqua, gli elefanti usano infrasuoni che superano ostacoli terrestri, i pipistrelli mappano l’ambiente con l’ecolocalizzazione. Qui la voce è spazio attivato, è paesaggio. Per accostarci e “capire” davvero i linguaggi animali, dobbiamo comprendere come questi disarticolano le nostre categorie: tempo, spazio, intenzione, segno, significato. Il linguaggio diventa allora un luogo di apprendimento eterogeneo. “Nel momento in cui impariamo a comunicare con un’altra specie, non stiamo solo imparando una lingua nuova, ma anche un modo nuovo di abitare il mondo” scrive Meijer. La voce animale non è un enigma da risolvere, ma una soglia tra il dire e il sentire, tra il corpo e il paesaggio, tra l’intenzionalità e il contesto. Il linguaggio è una costruzione sociale e interattiva, piuttosto che una mera espressione di processi mentali combinatori. > Molti animali comunicano efficacemente attraverso sistemi propri: queste forme > di comunicazione sono adattate alle esigenze specifiche delle specie, con una > efficacia che spesso supera il linguaggio umano in termini di immediatezza e > connessione con l’altro. Al contrario delle repliche delle IA, la voce animale non è essenzialmente replicabile. Non è mai neutra. È rischio, esposizione, presenza situata. È sempre legata a un corpo che sente e che può essere ferito. Il richiamo del corvo a Lorenz, o quello tra Meijer e i suoi animali, sono gesti nati da una relazione contestuale che li rende necessari, e in quanto tali, non traducibili in codice o istruzione. La voce animale è irriducibile non perché enigmatica, ma perché materiale in senso profondamente ecologico. Perché è corpo che chiede relazione, presenza che esige implicazione. Se il corpo cosciente è già significante, la sua vibrazione – che sia udibile o meno – è già essa stessa un discorso. I corpi, quindi, partecipano attivamente alla costruzione del discorso attraverso le loro pratiche materiali. Pensiamo a quelle voci che si esprimono senza fonazione: la migrazione sincrona degli stormi, i rituali di accoppiamento basati su posture e vibrazioni, i segnali elettrochimici dei pesci in acque torbide, o alle strategie silenziose dei polpi. Sono corpi che generano significato senza passare dal canale fonico o dalla sintassi. Sono, a tutti gli effetti, soggettività parlanti. Accettare questa prospettiva significa spostarsi da un’antropologia del linguaggio a un’ecologia del discorso. Dove non si chiede più: “che cosa dice?” Ma piuttosto: “è la voce che ha dato al corpo il suo modo di stare al mondo? Oppure è il corpo stesso che parla? È la necessità di risposta al mondo ad aver spinto il corpo a creare la voce?”. La voce come memoria incorporata In Al di là delle parole (2018), Carl Safina descrive una delle notti passate nel Parco Amboseli. L’impressionante risuonare del ruggito notturno dei leoni attraversa il parco e scatena nell’etologo una sorta di recesso, che lo trasporta dal sonno profondo a un luogo più primitivo, uno stato di veglia e attenzione primordiale. “Trovandomi vivo, chissà come, su un pianeta dove le rocce, la polvere e le acque riuscivano a dar voce a dichiarazioni così enfatiche, nel cuore della notte, ne assaporai la sublime esaltazione e il terrore puro. Per raccontarlo ho bisogno di parole, ma l’esperienza imponeva il silenzio”. Trascinato in uno stato di coscienza sognante, mentre le voci si spargevano mormorando dal fianco della montagna all’argine del fiume, “i suoni trovarono un’immediata corrispondenza nella mia mente”. Il filosofo Ted Toadvine, nel saggio The Time of Animal Voices (2014), riprendendo Merleau-Ponty,  suggerisce che la voce non è solo un atto del presente, ma un corpo che parla con tutto il suo passato. Ogni voce – umana o non-umana – è una memoria incarnata, un sedimento temporale che attraversa chi la emette. Parlare, in questo caso, non è produrre significato, ma equivale a far risuonare una storia inscritta nella carne. Ogni vocalizzazione è una sopravvivenza, un’eco biologica che ci raggiunge da un tempo che non ricordiamo ma che ci riguarda. Ascoltare la voce animale è una forma di ritorno, non nostalgico, ma somatico: è il passato del vivente che ci tocca dal dentro del corpo. La potenza della voce animale sta ne “l’adesso che è antico e non lo è”, qualcosa che è al contempo originale e appena nato, ha a che fare con il passato, il presente e il futuro, qualcosa che “è stato e deve ancora avvenire, che insomma non può essere umanamente misurato”, scrive Federica Timeto in Bestiario Haraway. Per un femminismo multispecie (2020). > Ogni voce – umana o non-umana – è una memoria incarnata, un sedimento > temporale che attraversa chi la emette. Parlare, in questo caso, non è > produrre significato, ma equivale a far risuonare una storia inscritta nella > carne. La memoria non è un archivio mentale, una periferica di immagini virtuali o astratte, ma un campo di forze che si muove nel corpo, e ogni richiamo animale, anche il più debole o distorto, è il suo modo di farsi spazio nel presente, di fare emergere quella stratificazione. Il corpo animale non è mai solo biologico, ma anche storico: l’elefante non esiste solo come individuo biologico, ma anche come simbolo di potere coloniale, come corpo addomesticato nei circhi. In alcune aree fortemente segnate dal bracconaggio, si è osservato ad esempio un aumento delle femmine nate senza zanne. Così come il cane non è lo stesso animale in un villaggio andino, in un laboratorio di neurobiologia, o in un profilo Instagram. Il corpo che vediamo, interpretiamo, uccidiamo o salviamo è sempre un corpo attraversato dalla storia, e così inevitabilmente sarà la sua voce. Il tempo dell’animale come tempo dell’ascolto Se ogni corpo è già discorso e ogni voce è memoria, ascoltare l’animale significa entrare in una temporalità altra. Non quella lineare, produttiva, finalistica che struttura l’esperienza umana moderna, ma una temporalità ecologica fatta di gestazione, di attesa, di passaggi stagionali. Un tempo che non misura ma accompagna. Toadvine lo descrive come il tempo dell’animalità: ciclico, ripetitivo, radicato nella carne e nei ritmi della vita. Il tempo della gestazione, del sonno, del respiro, dell’attesa silenziosa. Il tempo dell’animale è il tempo del mondo: non nel senso del dominio planetario, ma come orizzonte condiviso da chi lo abita. > Ascoltare l’animale significa entrare in una temporalità altra. Non quella > lineare, produttiva, finalistica che struttura l’esperienza umana moderna, ma > una temporalità ecologica fatta di gestazione, di attesa, di passaggi > stagionali. Rachel Carson lo faceva notare nel 1962, con Primavera silenziosa; questa distanza temporale si fa tragicamente visibile in ciò che chiamiamo road kills: gli animali investiti dalle auto lungo le strade. In quel corpo straziato c’è tutta la frizione tra due ordini del movimento: uno che si limita ad attraversare il mondo, l’altro, invece, che lo abita. L’automobile porta con sé una temporalità antropocentrica, fatta di velocità, urgenza, ignoranza del circostante. L’animale segue un tempo altro: attraversa perché è stagione, perché è notte, perché ha fame. Il suo tempo non coincide con il nostro. E il nostro non lo prevede. Per ascoltare l’animale bisogna rallentare fino a sintonizzarsi con quel ritmo. Quando diciamo che alcune specie parlano “poco” o “raramente”, stiamo dichiarando la nostra incapacità di abitare i loro tempi. Forse emettono un suono ogni vent’anni, forse quel suono è tutto il loro discorso. Il fatto che non lo sentiamo pone noi fuori dal tempo del mondo. Ascoltare l’animale, riconoscerlo, sentirne la voce vuol dire tenere conto di questa eterotemporalità. Diventare il tempo dell’altro Eva Meijer critica l’assunto aristotelico secondo cui solo l’umano sarebbe ‘animale politico’, perché dotato di logos, e propone di considerare il linguaggio animale non come un deficit, ma come espressione di partecipazione attiva alle comunità ecologiche e alle relazioni interspecifiche. Meijer presenta un resoconto di api che deliberano, cervi che votano con il corpo, bufali che attendono i segnali di leadership corporea prima di spostarsi. L’animale parla politicamente quando trasforma lo spazio, quando partecipa alla relazione. Il rifiuto di attribuire agli animali tratti “umani” come linguaggio o soggettività, o di riconoscere l’efficacia di quei sistemi comunicativi proprio in quanto non-umani, evidenzia la nostra ideologia specista e dell’antropo-diniego. Riconoscere la voce animale come espressione incarnata e relazionale implica una critica radicale al nostro approccio epistemologico. Se ogni silenzio imposto alle voci non-umane è una forma di cancellazione epistemica, allora l’ascolto, inteso in senso ampio, diventa un atto di resistenza. In questo contesto, le pratiche bioacustiche che registrano e conservano le vocalizzazioni animali assumono un significato politico: diventano controarchivi che resistono alla cancellazione delle voci non umane. Proteggere un paesaggio sonoro nel tentativo di garantire che queste voci possano continuare a esistere e disturbare. La domanda ultima non è più “che cosa dice l’animale?”, ma: “che cosa ci obbliga a diventare il suo dire?” Toadvine definisce la voce animale come un evento chiasmatico: in termini merleau-pontyani, il chiasmo è l’intreccio sensibile tra corpo e mondo, tra chi tocca e chi è toccato. Applicato alla voce animale, questo implica che ascoltare significa essere modificati, un ritorno tra corpi che si toccano e si trasformano a vicenda. Un po’ come nel concetto di intra-azione coniato da Karen Barad, in cui il contesto è coprodotto dall’interazione, nella voce animale, per Toadvine, soggetto e mondo si riscrivono a vicenda. > Se ogni silenzio imposto alle voci non-umane è una forma di cancellazione > epistemica, allora l’ascolto, inteso in senso ampio, diventa un atto di > resistenza. La domanda ultima non è più “che cosa dice l’animale?”, ma: “che > cosa ci obbliga a diventare il suo dire?”. Nell’archivio planetario dei video online, circola l’interazione tra una IA, che parla attraverso uno smartphone, e Molly, un pappagallo. L’IA riconosce quasi immediatamente di stare parlando con qualcuno di diverso da un umano. L’IA si vanta di potersi esprimere in oltre cento lingue diverse, ma si dice anche divertita da questa prima interazione telefonica con un pennuto. Il pappagallo, dal canto suo, risponde coerentemente se sollecitato a ripetere il proprio nome, la parola ‘cracker’ e nell’uso del ‘bye bye’ quando la telefonata volge al termine. Non si conoscono i dettagli del video, non sappiamo se e in che termini l’IA stia leggendo uno script o sia stata preparata a quel tipo di interazione, così come non sappiamo nulla in merito all’addestramento del volatile. La scenetta che viene fuori però mi ha fatto pensare in qualche modo a Blade Runner. Nel film di Ridley Scott come nel romanzo di Philip K. Dick, il mondo è abitato da umani e macchine. Gli animali sono estinti, li abbiamo sostituiti con delle mascotte robotiche. Gli unici soggetti rimasti a rivolgerci la parola e a comunicare con noi sono i replicanti, androidi e robot. Nel video tra l’IA e Molly, invece, intravediamo un futuro alternativo: gli umani si sono estinti, animali e macchine rimangono pacificamente a conversare insieme, senza di noi. Incontrare un soggetto che non è il peluche simbolico del nostro immaginario, vuol dire accettare la sua opacità, il suo modo di essere corpo. Ci permette di pensare la voce animale non come oggetto naturale da studiare in vitro ma come fenomeno relazionale che emerge tra corpi, ambienti, e sistemi di ascolto. Accettare un dominio dove “io” e “tu” non sono pronomi ma esperienza, l’uno dell’altro. Forse questo non servirà a salvare il pianeta, ma ci restituiremo, almeno, il diritto di abitarlo insieme fino alla fine. L'articolo Vedere voci (e corpi) animali proviene da Il Tascabile.
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Il lato oscuro della conservazione
F ulmini di pelo grigio corrono nelle aree verdi del Nord Italia e non disdegnano un premio in cibo, preso direttamente da mani umane, mentre vengono immortalati per l’immancabile video o fotografia per i social media. Sono gli scoiattoli grigi (Sciurus carolinensis): a un occhio poco attento ambasciatori della natura in zone urbanizzate, nella realtà una minaccia per i nostri ecosistemi arrivata dagli Stati Uniti. Dal 1948, anno in cui alcuni esemplari giunsero in Piemonte, questa specie ha dato filo da torcere allo scoiattolo comune (Sciurus vulgaris), a cui ruba le scorte di cibo per l’inverno e che può contagiare con il poxvirus, di cui è portatore sano. La popolazione degli scoiattoli grigi nei decenni è cresciuta fino a diventare una minaccia reale per la sopravvivenza dei cugini europei. Nel 1997 l’Istituto nazionale per la fauna selvatica ‒ l’attuale ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) ‒ avviò un progetto sperimentale per l’eradicazione della specie aliena invasiva, ma l’iniziativa fu ostacolata da alcuni cittadini e associazioni e venne sospesa in seguito a un’azione giudiziaria. Questa storia, che si concluse con l’assoluzione degli scienziati coinvolti nel progetto e nella prosecuzione del programma di eradicazione, è emblematica di uno degli aspetti più critici della conservazione della natura: la scelta tra la vita di una specie invece che un’altra, la salvezza di alcuni e la morte per altri. Tutto per il bene della biodiversità. Quell’attrito tra etica ambientale ed etica animale Per biodiversità si intende ogni tipo di variabilità tra gli organismi viventi; include la diversità entro specie, tra specie e tra ecosistemi, ma può essere più semplicemente descritta come la ricchezza della vita sulla Terra: le miriadi di esseri viventi che la abitano, il loro patrimonio genetico, i complessi ecosistemi che essi costituiscono. È la rete pulsante costituita dalle specie e dalle loro relazioni e interazioni, in grado di fornire cibo, acqua potabile, aria pulita e tutto ciò che definiamo servizi ecosistemici. Nel momento in cui una specie viene meno o una relazione s’incrina, il meccanismo può incepparsi e le conseguenze possono essere molto gravi e propagarsi su più livelli, da quello sanitario a quello economico, passando per la sicurezza alimentare. > Inserirsi negli ingranaggi oliati da centinaia di migliaia di anni di > evoluzione comporta dei costi, uno di questi è dover scegliere di sacrificare > una specie per risparmiarne un’altra. Proteggere la biodiversità è cruciale per la nostra sopravvivenza e per quella del pianeta per come lo conosciamo, ma i dati a nostra disposizione non dipingono un quadro roseo. Nel 2019, il rapporto dell’IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services) ha evidenziato che oltre un milione di piante e animali rischieranno l’estinzione nei prossimi decenni a causa dell’attività umana. La sesta estinzione di massa a cui stiamo assistendo scatena in noi indignazione, paura, l’urgenza di attivarsi per fermare una catastrofe di cui ci sentiamo (e siamo) i colpevoli. Inserirsi negli ingranaggi oliati da centinaia di migliaia di anni di evoluzione comporta, però, dei costi e uno di questi è proprio dover scegliere di sacrificare una specie per risparmiarne un’altra, di fare soffrire degli individui, degli esseri senzienti, per salvaguardare degli ecosistemi che noi stessi abbiamo messo in pericolo. È l’attrito tra etica ambientale ed etica animale di cui parla Simone Pollo, docente di filosofia morale dell’Università di Roma La Sapienza ed esperto di etica del vivente, nel suo libro Umani e animali: questioni di etica (2016). La stessa forza muscolare con cui abbiamo esercitato il nostro dominio su qualsiasi risorsa naturale, ora la impieghiamo per la tutela della fauna selvatica. La lezione di Charles Darwin che ci ricollocava al nostro posto, animali tra gli animali, non è stata assimilata e ci rapportiamo al resto della biosfera con il solito ben radicato antropocentrismo. Pollo scrive: > L’anti-antropocentrismo che emerge dalla trasformazione darwiniana implica, > piuttosto, una revisione del punto di vista dal quale le nostre risposte > morali sono espresse e un ridimensionamento delle loro stesse richieste. Nel > caso specifico qui in esame la pretesa di intervenire nelle vite degli animali > selvatici in modo così intrusivo appare come una mossa problematica, nella > misura in cui incarna una “dissonanza” con la reale collocazione degli esseri > umani sulla Terra. La comprensione di questa posizione appare più > efficacemente soddisfatta da un diverso atteggiamento nei confronti degli > animali selvatici. A questi ultimi dovremmo garantire il rispetto verso la loro libertà, l’indipendenza e la possibilità di prosperare. Le politiche di conservazione della natura, però, sono il risultato di un equilibrio tra istanze antropocentriche, che desiderano salvaguardare la biodiversità per i servizi che assicura, e antiantropocentriche, che riconoscono un valore assoluto, intrinseco, a ciò che ci circonda. Sono il risultato di calcoli in cui la vita di individui animali, che di quella diversità sono artefici e attori, è solo una delle infinite variabili di cui tenere conto. Specie da salvare a qualsiasi costo Il conflitto tra individui e specie emerge spesso nella salvaguardia della natura. In alcuni casi è particolarmente evidente, come nella conservazione ex situ. È una strategia adottata per tutelare specie rare e gravemente minacciate, il cui stato in natura è talmente critico da non garantirne la sopravvivenza nei loro habitat (in situ), oppure perché gli ecosistemi in cui vivono sono ormai così degradati da rendere incerto il loro futuro. Quindi, esemplari delle specie in pericolo sono tenuti e fatti riprodurre in cattività: sono una scialuppa di salvataggio, una scorta di animali da reintrodurre nel caso in cui le popolazioni in situ non riuscissero a sopravvivere. > Le politiche di conservazione della natura sono il risultato di un equilibrio > tra istanze antropocentriche, che desiderano salvaguardare la biodiversità per > i servizi che assicura, e antiantropocentriche, che riconoscono un valore > assoluto, intrinseco, a ciò che ci circonda. La reintroduzione di individui che non hanno mai vissuto nel proprio habitat richiede ingenti sforzi e risorse e il successo non è mai garantito. Improbabile, però, non significa impossibile. Un esempio è quello del condor della California (Gymnogyps californianus). Nel 1967 il condor della California fu classificato come specie in pericolo di estinzione: il calo drastico della popolazione osservato nel Ventesimo secolo era dovuto al bracconaggio, all’avvelenamento da piombo e al danneggiamento dell’habitat di questo animale. Non si esclude che anch’esso fosse una delle vittime del DDT sul suolo americano. Nel 1983, il US Fish and Wildlife Service ‒ l’agenzia governativa degli Stati Uniti che si occupa della gestione e conservazione della fauna selvatica, della pesca e degli habitat naturali ‒ avviò un programma di riproduzione in cattività, in collaborazione con lo zoo di Los Angeles e il San Diego Wild Animal Park a cui si unirono altre istituzioni. Nel frattempo, in natura, le popolazioni di condor continuarono a diminuire fino a quando, nel 1985, rimasero solo nove esemplari selvatici alla mercé delle stesse cause che, nel corso del tempo, avevano minacciato questa specie. Le autorità decisero di catturare i condor rimasti e introdurre anche loro nel programma di riproduzione in cattività. Era il 1987 e per quattro anni nessun condor della California volò nei cieli statunitensi. Era un progetto ambizioso: la riproduzione era solo una parte di un percorso che richiedeva anche una riabilitazione comportamentale degli esemplari nati in cattività. Una specie non è definita unicamente dai propri geni, ma anche da cultura e da sistemi sociali, quando presenti. Qualcuno avrebbe dovuto insegnare ai condor a evitare i pericoli, umani compresi, a cercare cibo in un ambiente per loro sconosciuto e a riacquisire tutti quei comportamenti che si imparano dalla vita in natura, seguendo l’esempio dei propri genitori e conspecifici. Gli sforzi di scienziate e scienziati non furono vani: secondo i dati della IUCN (International Union for the Conservation of Nature), la popolazione è aumentata fino ad arrivare a 223 uccelli nell’agosto 2003, di cui 138 in cattività e 85 reintrodotti in California e nel nord dell’Arizona. La riproduzione in natura è ripresa nel 2002 e ora avviene in tutte le sottopopolazioni selvatiche della California, dell’area tra Arizona e Utah e della Baja California, in Messico. Attualmente la popolazione selvatica conta 93 individui maturi ed è in aumento. Quello dei condor della California non è l’unico esempio di reintroduzione riuscita. Un altro caso è quello del gorilla di pianura occidentale (Gorilla gorilla gorilla) in Congo e Gabon, avviata nel 1996 dalla Fondazione Aspinall. > Nonostante gli zoo abbiano abbandonato in buona parte le finalità > collezionistiche per cedere il posto a obiettivi di conservazione, ricerca ed > educazione, dobbiamo essere consapevoli che sacrifichiamo degli esseri > senzienti, molti dei quali non conosceranno mai la libertà. Dietro queste storie di successo, ci sono milioni di animali in cattività per cui non esiste un lieto fine, neanche in termini di generazioni future. Nonostante strutture come gli zoo abbiano abbandonato in buona parte le finalità collezionistiche e l’atmosfera da wunderkammer dei secoli passati per cedere il posto a obiettivi di conservazione, ricerca ed educazione, dobbiamo essere consapevoli che sacrifichiamo degli esseri senzienti, molti dei quali non conosceranno mai la libertà. Giocare a fare Gesù Negli ultimi anni si sono affermate strategie persino più radicali per salvare specie a rischio di estinzione. Lo scorso aprile è rimbalzata tra le testate nazionali e internazionali e sui social media la notizia della de-estinzione dell’enocione (Aenocyon dirus), specie scomparsa circa 10.000 anni fa, a opera del gruppo di ricerca dell’azienda statunitense Colossal Biosciences. La presunta “resurrezione” è stata decisamente ridimensionata nei giorni successivi e analizzata per capirne i reali risvolti conservazionistici, economici, etologici ed etici. Se la nascita di quei cuccioli di metalupo ‒ per l’esattezza lupi grigi il cui genoma è stato sottoposto a venti modifiche per fare assumere loro alcune delle caratteristiche dell’antico animale ‒ è da considerarsi tristemente poco più di una trovata pubblicitaria, la Colossal Biosciences è in realtà coinvolta nell’impresa disperata di salvare il rinoceronte bianco settentrionale (Ceratotherium simum cottoni). Questa sottospecie del rinoceronte bianco è stata vittima del bracconaggio e delle guerre civili che tormentano la Repubblica Democratica del Congo e il Sud del Sudan. Secondo le informazioni riportate dall’IUCN, non sono stati avvistati rinoceronti vivi dal 2006 e si ritiene siano probabilmente estinti nella Repubblica Democratica del Congo. L’ultima speranza di non perdere per sempre questo tassello di biodiversità è rappresentata da due femmine, Najin e Fatu, madre e figlia, trasferite nel 2009 dallo zoo di Dvůr Králové in Repubblica Ceca, in cui erano nate, alla riserva di Ol Pejeta, in Kenya. A loro si unirono Sudan, un maschio che era il padre di Najin e il nonno di Fatu, e Suni, il fratellastro di Fatu e Najin (quindi gli esemplari erano tra loro consanguinei) per incoraggiarne la riproduzione in un ambiente quanto più simile a quello d’origine di questi mammiferi. Il trasferimento non portò i risultati sperati: dal 2009 al 2013 ci furono diversi tentativi falliti di accoppiamento con Sudan, Suni e alcuni rinoceronti bianchi meridionali. Suni morì nel 2013 e Sudan nel 2018. Venuto meno il supporto degli esemplari maschi, il consorzio di cui fa parte anche Colossal Biosciences, sta procedendo con ulteriori prove mediante fecondazione in vitro ‒ usando lo sperma congelato dei due rinoceronti defunti ‒ e maternità surrogata. Sono interventi invasivi e non esenti da rischi per la salute anche negli animali non umani. Non possiamo sapere come andrà a finire, se la sofferenza causata a Najin e Fatu dagli spostamenti e dalle procedure mediche a cui sono state sottoposte servirà a non far scomparire la specie a cui appartengono. Stiamo giocando a “fare Dio”? Forse sarebbe meglio dire “giocare a fare Gesù”, con un riferimento esplicito alla resurrezione, come si racconta accadde a Lazzaro. Almeno così suggeriscono Bjørn Myskja e Mickey Gjerris, autori dello studio “Playing Jesus to Save Species: A Virtue Ethics Approach to Biotech De-Extinction Projects”, pubblicato su Journal of Agricultural and Environmental Ethics nell’aprile 2025. I due studiosi, attraverso l’esame del valore delle specie, delle responsabilità morali e del ruolo umano nelle estinzioni, si rivolgono all’etica della virtù per un nuovo approccio nei confronti della conservazione o del ripristino delle specie. L’etica della virtù si concentra sulle virtù e sul carattere morale delle persone, a differenza della deontologia, che si basa su regole e doveri, e del consequenzialismo, che valuta le azioni in base alle loro conseguenze. In particolare, riguardo al conflitto tra specie e individui, gli studiosi dichiarano nel testo: > Sebbene la de-estinzione possa ripristinare una specie, non può essere > realizzata senza il coinvolgimento di singoli animali, il cui benessere deve > essere considerato nelle decisioni etiche. A seconda delle procedure > impiegate, preoccupazioni come il benessere fisico e psicologico, la > conoscenza delle esigenze tipiche degli animali e la sensibilità alle > preferenze individuali devono guidare le nostre azioni. Virtù come la > compassione e la cura sono centrali in queste decisioni. Nel mondo in cui viviamo, l’essere umano ha creato situazioni che non possono essere risolte con soluzioni perfette e per le quali siamo costretti ad adottare scelte di compromesso. Davanti a questa prospettiva, la stima del rapporto costi/benefici, che scaturisce dal confronto tra il benessere di individui e la salvezza di una specie, dovrebbe soppesare molteplici fattori tra cui i dati scientifici, ma anche, ad esempio, le percezioni culturali. Queste dovrebbero essere le premesse per una riflessione continua e lucida sul nostro stile di vita, che ha portato a diminuire le opportunità di prosperare per gli esemplari di alcune specie. Myskja e Gjerris dichiarano nell’articolo: “In tali riflessioni, le risposte generali ci portano solo in parte verso una soluzione, che deve sempre essere particolare e contestualizzata”. Di conservazione si può anche morire Ipotesi di soluzioni particolari e contestualizzate sono quelle riportate in un’altra pubblicazione, comparsa su Science il 15 maggio scorso, intitolata “Deliberate extinction by genome modification: An ethical challenge. What circumstances might justify deliberate, full extinction of a species?” Per mantenere in piedi la rete di esseri viventi e relazioni che compongono un ecosistema, in alcuni casi è necessario eliminare delle specie: anche questa è una strategia di conservazione. Il gruppo di autrici e autori composto da scienziati appartenenti a differenti ambiti, tra cui bioeticisti, biologi della conservazione, ecologi ed esperti di scienze sociali, ha esaminato la possibilità di adoperare l’ingegneria genetica per estinguere localmente o globalmente tre particolari specie: la mosca del Nuovo Mondo (Cochliomyia hominivorax), la zanzara Anopheles gambiae, vettore della malaria, e le specie di roditori invasive come il topo domestico (Mus musculus) e i ratti (Rattus rattus e Rattus norvegicus). > Per mantenere in piedi la rete di esseri viventi e relazioni che compongono un > ecosistema, in alcuni casi è necessario eliminare delle specie: anche questa è > una strategia di conservazione. Secondo l’analisi svolta, l’estinzione completa e deliberata potrebbe essere accettabile solo in casi estremamente rari, dopo la valutazione di fattori come le sofferenze causate ad animali umani o non umani dalla specie in esame, il suo impatto ecologico, l’efficacia delle strategie genomiche rispetto ai metodi tradizionali, il rischio di conseguenze indesiderate come l’estinzione involontaria della specie, la pericolosità della specie per la salute pubblica (compresa la sicurezza alimentare), il valore intrinseco della specie e i benefici ambientali che eventualmente esercita. Emerge anche l’importanza del coinvolgimento delle comunità locali e delle parti interessate nel processo decisionale, per assicurarsi che il problema sia esaminato da diverse prospettive, con un’adeguata rappresentanza di coloro che ne sono maggiormente colpiti. Dallo studio risulterebbe che solo la mosca del Nuovo Mondo, un parassita letale per l’essere umano e gli animali selvatici e d’allevamento, sarebbe eleggibile per l’eradicazione totale, mentre per Anopheles gambiae si dovrebbero dirottare le attenzioni direttamente sul plasmodio della malaria, e per topi e ratti ‒ da sempre vettori di malattie e causa di gravi danni alle scorte alimentari, alla fauna selvatica e agli ecosistemi ‒ sarebbe preferibile l’eliminazione solo a livello locale, concentrandosi su tecniche che agiscano in un intervallo di tempo limitato o si possano applicare su specifiche sottopopolazioni. Di modifiche genetiche (e strategie di conservazione), dunque, si può anche morire. Le basi di questa discussione potrebbero essere una guida per gli interventi che riguardano altre specie, proprio come lo scoiattolo grigio in Italia. Sempre grazie ai dati raccolti dall’IPBES, sappiamo che le specie aliene invasive hanno contribuito al 60% delle estinzioni di cui siamo venuti a conoscenza: si stima che poco più di 200 tra queste abbiano causato oltre 1.200 estinzioni locali di specie autoctone per predazione, competizione per le risorse, trasmissione di malattie o distruzione dei loro habitat. Ne conseguono anche danni per Homo sapiens, come scrive Piero Genovesi, responsabile ISPRA della conservazione della fauna e del monitoraggio della biodiversità, e tra i massimi esperti mondiali di specie aliene, nel suo libro Specie aliene. Quali sono, perché temerle e come possiamo fermarle (2024). Genovesi spiega che il passo dalla questione ecologica a quella sociale è molto breve. Le invasioni biologiche, infatti, possono avere conseguenze gravi anche per le persone, colpendo in particolare le comunità più vulnerabili e arrivando a minacciare anche la salute. Purtroppo, questa molteplicità di effetti negativi non è un’eccezione, ma una caratteristica frequente di molte invasioni biologiche, che spesso esercitano impatti su diversi ambiti, dalle attività economiche alle infrastrutture, fino a influenzare le economie locali e nazionali. > Le specie aliene invasive hanno contribuito al 60% delle estinzioni locali di > specie autoctone per predazione, competizione per le risorse, trasmissione di > malattie o distruzione dei loro habitat. Il caso dello scoiattolo grigio ha fatto emergere in Italia il conflitto tra specie e individui. Per una parte dell’opinione pubblica è stato difficile accettare che venissero eliminati quegli animali con cui avevano un contatto diretto, un sentimento amplificato dal loro aspetto simpatico, dalla loro socievolezza e dalla mancanza di consapevolezza dei danni che stavano arrecando. Le nuove tecnologie genomiche, che riducono al minimo la sofferenza degli animali durante le operazioni di eradicazione, insieme a un dialogo aperto che consideri sia la scienza sia l’etica, potrebbero rappresentare il futuro della tutela della biodiversità. Tuttavia, decisioni di questo tipo saranno sempre accompagnate da un profondo dilemma morale. Il residuo morale Inquinamento, distruzione di habitat, sfruttamento dei suoli, emissioni di gas serra, bracconaggio, disboscamento, cementificazione, commercio illegale di animali: queste sono solo alcune delle attività su cui avremmo dovuto e dovremmo agire per evitare un’imponente perdita di biodiversità e ridurre il rischio di estinzione di molte specie. Ci sono poi strategie più invasive, che evidenziano come Homo sapiens continui a esercitare il suo impatto sul pianeta e su tutti i suoi abitanti, anche se per salvare, curare, ripristinare. Non solo il dominio, anche la custodia può trasformarsi in una forma di controllo che imponiamo agli altri esseri viventi. È vero: abbiamo a disposizione conoscenze e strumenti per farlo nel migliore modo possibile, cercando di assicurare maggiore benessere per gli esemplari oggetto dei programmi di conservazione e di eradicazione. Resta il fatto che sosteniamo di voler far prosperare le specie, ma soprassediamo sul valore degli individui. A questo proposito, la giornalista Emma Marris, nel suo libro Anime Selvagge. La rigogliosa libertà del mondo non umano (2022) ci invita a fare i conti con il residuo morale, definito come l’insieme delle esigenze morali che rimangono insoddisfatte in situazioni che presentano un dilemma, come quelle descritte. Salvare lo scoiattolo comune europeo significa condannare a morte lo scoiattolo grigio, i tentativi per evitare l’estinzione del rinoceronte bianco settentrionale comportano rischi e forme di stress negli esemplari coinvolti nel progetto di salvaguardia della specie. Le scelte che adottiamo ci costringono a pagare dei costi etici inevitabili. “Non esiste un unico lieto fine per la vita sulla Terra, così come non esiste una formula semplice per agire eticamente in un mondo umanizzato”, scrive Marris: “Dobbiamo fare il meglio che possiamo con molteplici valori incommensurabili, e poi convivere con le scelte che abbiamo fatto, le specie non salvate, il dolore che abbiamo causato”. L'articolo Il lato oscuro della conservazione proviene da Il Tascabile.
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I gufi dei ghiacci orientali di Jonathan C. Slaght
U n Golem pennuto, un Muppet maligno, un arcigno bidone della spazzatura. Con questi epiteti Jonathan C. Slaght, biologo della fauna selvatica e scrittore, cerca di descrivere il gufo pescatore di Blakiston tra le pagine del libro I gufi dei ghiacci orientali (2024), pubblicato in italiano da Iperborea nella traduzione di Luca Fusari. Occorre, però, non farsi ingannare dal tono sprezzante di queste brevi descrizioni perché, già dalle prime righe, si comprende l’attrazione dell’autore per questo rapace elusivo e si percorrono i suoi passi nei gelidi e inospitali paesaggi del Territorio del Litorale, nell’Estremo Oriente russo, nel tentativo di conoscere e proteggere questo animale così raro. Il primo a descrivere il gufo pescatore, dopo un incontro in Giappone, fu il naturalista ed esploratore inglese Thomas Blakiston (1832-1891), da cui la specie (Ketupa blakistoni) prende il nome. Vladimir Arsen’ev (1872-1930), esploratore e scrittore, fu invece tra i primi russi ad addentrarsi nel paesaggio del Litorale, illustrandone flora, fauna e abitanti. Lo statunitense Jonathan C. Slaght visita quelle terre lontane poco più che adolescente e vi fa ritorno prima come studente universitario e, in seguito, nei Peace Corps: tre anni in cui si avvicina agli ornitologi russi e al loro lavoro. > «Del gufo pescatore avevo sentito parlare pressoché subito dopo aver scoperto > il Litorale. Per me era come un pensiero bellissimo che non riuscivo ad > articolare. Scatenava lo stesso desiderio ammaliante di un luogo che hai > sempre voluto esplorare, ma di cui a conti fatti non sai molto». Durante un’escursione, circa un secolo dopo le esplorazioni di Blakiston e Arsen’ev, l’autore riesce a fotografare un esemplare del rapace, per la prima volta così a sud. Le foto finiscono nelle mani del biologo Sergej Surmač, ornitologo di Vladivostok e unica persona in tutta la regione a occuparsi del gufo pescatore. Da quell’incontro alla progettazione di un dottorato di ricerca sul gufo il passo è breve. L’obiettivo è realizzare un piano di conservazione per questa specie in un’area naturale quasi incontaminata, quella della Russia dell’estremo orientale dei primi anni 2000, minacciata da attività come il disboscamento, la costruzione di strade e il bracconaggio. > Seguire tra le pagine i primi passi di Jonathan C. Slaght e della sua squadra > dà l’impressione di essere a caccia di un fantasma: quella del gufo pescatore > è una presenza che, da principio, possiamo avvertire solo attraverso segni e > indizi. La pianificazione di Slaght, messa a punto proprio con l’aiuto di Surmač, mentore e collega che lo accompagnerà lungo diverse tappe della ricerca, è serrata e piuttosto ambiziosa considerando l’oggetto di studio, ossia un predatore estremamente sfuggente con ben due metri di apertura alare. Il programma è complesso: prima è necessario identificare la popolazione di gufi pescatori, quindi bisogna ricostruire areali e comportamenti attraverso la raccolta ed elaborazione di dati ottenuti dall’osservazione e da radiotrasmittenti e GPS applicati sul dorso di alcuni esemplari che, ovviamente, dovranno essere temporaneamente catturati senza esporli al minimo rischio. «Dopo soli tre mesi il mio progetto quinquennale mi sembrava già un viaggio affascinante, che lambiva i confini della civiltà umana alla scoperta di un gufo difficile da decifrare». Seguire tra le pagine i primi passi di Jonathan C. Slaght e della squadra che supporta il suo lavoro dà l’impressione di essere a caccia di un fantasma: quella del gufo pescatore è una presenza che, da principio, si può avvertire solo attraverso segni e indizi, come la caratteristica forma a K delle impronte delle zampe sulla neve, la presenza di nidi, borre ‒  il rigurgito di cibo non digerito dall’animale ‒ e ascoltando in silenzio il duetto canoro delle coppie di uccelli in lontananza. Con il trascorrere delle settimane, dei mesi e degli anni, questa entità quasi ectoplasmica acquisisce un corpo. I primi avvistamenti sono delle epifanie: > Quando fummo a poche centinaia di metri dall’affluente, al crepuscolo, > qualcosa di massiccio saltò giù da un albero. Nonostante la penombra la sua > sagoma si stagliava sulla superficie ghiacciata del fiume vicino alle rupi, > davanti alla foce dell’affluente. Avevo già visto altri gufi nell’ombra e ne > riconobbi subito uno, ma questo era più grande. Era un gufo pescatore. Mi > accorsi che stavo trattenendo il fiato per la sorpresa. Si percepisce il freddo che punge la pelle e attanaglia la mente, la stanchezza di ore di cammino durante osservazioni senza risultati e l’inquietudine alimentata dalle poche ore di sonno. Procediamo nel racconto proprio come il biologo è andato avanti nella sua ricerca del gufo pescatore che, dopo tanti tentativi, finalmente appare nella sua corporeità: è lì sulle rive di un corso d’acqua, mentre ghermisce salmoni, alto poco meno di un metro, il becco adunco, gli occhi d’oro, le penne marroni che si confondono con i rami degli alberi in cui trova riparo e i ciuffi auricolari dritti sul capo. Un diavolo volante nelle foreste ripariali. > Ogni difficoltà superata dall’autore inserisce un ulteriore tassello nel > quadro generale dell’ecosistema del gufo, ne mappa le relazioni con > l’ambiente, gli altri animali e gli umani con cui condivide gli spazi, > rapporti essenziali da comprendere per una conservazione efficace. La conquista della conoscenza è lenta e disseminata di infiniti ostacoli, ma ogni difficoltà superata dall’autore e dal suo gruppo inserisce un ulteriore tassello nel quadro generale dell’ecosistema del gufo, ne mappa le relazioni con l’ambiente, gli altri animali e gli umani con cui condivide gli spazi, rapporti essenziali da comprendere per una conservazione efficace. Questa è una lezione già nota, almeno in parte, per averla letta nelle opere di Vladimir Arsen´ev di cui lo stesso Slaght scrive in un articolo pubblicato su Scientific American: “Gli scritti di Arsen’ev non sono il catalogo di trionfi di un avventuriero narcisista che ci si potrebbe aspettare dalle memorie di una spedizione; sono invece appassionate odi alla natura selvaggia e alle genti dell’Estremo Oriente russo”. Il libro segue perfettamente questa traccia, con la prosa di un diario di campo che però, nell’ultimo capitolo, perde forza narrativa per diventare più simile a una relazione scientifica Nelle pagine precedenti, al contrario, la narrazione è coinvolgente e immersiva al punto che il lettore rimane spiazzato dagli effetti del susseguirsi delle stagioni, come ad esempio il tepore della primavera che diventa mortale quando scioglie i ghiacci che ricoprono i corsi d’acqua, trappole per mezzi di trasporto, uomini e caprioli indifesi. Si rimane guardinghi temendo il possibile incontro con un orso o con una tigre dell’Amur (quella che viene spesso chiamata erroneamente tigre siberiana) e nel percorrere questo viaggio insieme all’autore, ci si sofferma a riflettere sulla biodiversità ornitologica e ittica di un Paese così remoto. Anche la fauna umana è multiforme e, tra bevute di vodka, turni di osservazione e pause nelle banja ‒ le saune russe ‒ si incontrano personaggi scostanti e generosi come Viktor Čepelev,  individui dall’evidente fragilità come Anatolij, con il suo passato oscuro e la psiche cagionevole, o Andrej Katkov, ex poliziotto, esperto paracadutista, supporto nella cattura dei gufi e applicazione dei GPS satellitari, con il suo bisogno spasmodico di parlare. > I gufi dei ghiacci orientali è allo stesso tempo un reportage, un saggio sulla > conservazione, un racconto d’avventura e un romanzo di formazione. Tra i capitoli del volume si ritrovano riferimenti alla storia e alle abitudini delle popolazioni native Udege, popolo indigeno del sud-est della Siberia, informazioni che si riveleranno utili per capire, ad esempio, come catturare gli esemplari di gufo per inanellarli e dotarli di trasmittenti. Infatti, gli Udege erano soliti cacciare i gufi pescatori in inverno, quando la temperatura scende sotto i trenta gradi sottozero e servono altre fonti di cibo. Il metodo adoperato da queste genti, per fare degli uccelli un pasto, si rivela un suggerimento per progredire nello studio: > Sergej propose di fare come gli udege, ovvero utilizzare un ceppo. Gli > abitanti di Agzu ci avevano spiegato che gli udege cacciavano i gufi pescatori > tagliando un ceppo d’albero e posizionandolo nell’acqua bassa con sopra una > tagliola. I gufi, individuando nel ceppo un attraente punto di osservazione, > vi si posavano, con conseguenze letali. A noi, naturalmente, non interessava > mangiare i gufi ma soltanto trovarli […]. I gufi dei ghiacci orientali è un reportage, un saggio sulla conservazione, un racconto d’avventura e un romanzo di formazione, in cui l’entusiasmo di Slaght giovane dottorando, a seguito delle vicende raccontate, lascia il posto alla consapevolezza del conservatore della Wildlife Conservation Society, che continua a vigilare sul gufo pescatore di Blakiston. Alla fine di questa avventura, si è testimoni del contatto diretto e profondo con un animale e il suo habitat, un incontro che può cambiare completamente l’esistenza di un uomo e accenderne la vocazione. L'articolo I gufi dei ghiacci orientali di Jonathan C. Slaght proviene da Il Tascabile.
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Quando gli animali parlano la stessa lingua
K anzi è morto poche settimane fa a Des Moines, in Iowa, all’età di 44 anni. Kanzi era appassionato di marshmallow, giocava a Minecraft e sapeva suonare la tastiera. Era spiritoso, intelligente e curioso, un padre affettuoso e un amico sincero e divertente. E fin qui nulla di straordinario, se non consideriamo un particolare fondamentale: Kanzi era un bonobo, ed è stato in grado di creare un ponte, una mediazione culturale tra la sua specie e la nostra. Kanzi era in grado di comprendere centinaia di vocaboli della lingua inglese, compresi quelli astratti come amore o morte, e di rispondere a domande su questi argomenti sempre in maniera adeguata. Per comunicare con gli umani utilizzava una tastiera con dei simboli collegati a un computer. Quei simboli vengono chiamati lessicogrammi e sono stati un’importante innovazione negli studi sulle capacità comunicative delle scimmie antropomorfe. Gli aspetti che hanno reso straordinaria la vicenda di Kanzi non sono solo questi. Il bonobo ha convissuto per tutta la sua vita in cattività, ma non isolato dai suoi simili, anzi: tutti i centri di ricerca in cui ha vissuto, compreso l’Ape Initiative in Iowa dove ha concluso la sua esistenza, sono sempre stati popolati da tanti conspecifici, con cui ha sempre avuto ottimi rapporti e con i quali non ha mai avuto problemi relazionali. In certi casi, il suo ruolo era quello di vero e proprio mediatore tra i due mondi. Ad esempio nel 2006, quando il reporter Paul Raffaele impersonò una haka, la tradizionale danza di guerra neozelandese, di fronte agli animali del centro, scatenando una grande agitazione tra le scimmie che lo popolavano. L’unico che sembrò capire che si trattava di una danza rituale più che di una dichiarazione di guerra fu proprio Kanzi, che riuscì a calmare i suoi conspecifici. L’eredità di Kanzi, nonostante alcune capacità di utilizzare questo sistema le avesse apprese anche la sorella Panbanisha (morta purtroppo nel 2012), è rimasta in mano ai più giovani membri della sua famiglia, in particolare i nipoti Teco e Nyota, che però non hanno dimostrato il suo straordinario talento nel comprendere e interpretare il linguaggio umano. > Alcuni animali, come le api e i delfini, aiutano gli esseri umani a ottenere > cibo sapendo che ne trarranno vantaggio. Per farlo hanno codificato un > linguaggio comprensibile a entrambe le specie. Per quanto straordinaria possa apparire l’esperienza di Kanzi, esistono altri esempi di comunicazione tra animali umani e non-umani in cui è stato condiviso un linguaggio comune. Collaborazioni tra specie Da millenni la popolazione degli Yao, in Mozambico, si dedica alla ricerca e alla raccolta del miele delle api selvatiche. Per trovare il dolce bottino, però, i raccoglitori si affidano al talento di un insolito aiutante, un uccellino. L’indicatore golanera (Indicator indicator), infatti, è ben più bravo dell’uomo nel trovare i nidi degli insetti e nel condurre i suoi accompagnatori umani fino alla loro ubicazione. Spesso, infatti, gli alveari sono costruiti sui rami più alti degli alberi e trovarli non è così facile per chi non è in grado di volare. Gli esseri umani, per contro, sono molto più abili nel recupero del miele: staccano l’alveare dal ramo su cui è costruito e lo affumicano per far scappare le api. E così, seguendo una tradizione che si perpetua ormai da tantissime generazioni, i cercatori si affidano alle indicazioni del volatile, che dalla collaborazione potrà ottenere il vantaggio di nutrirsi, grazie a dei potenti enzimi digestivi, della cera dell’alveare (di scarso interesse per gli umani) una volta che questo sarà abbandonato dalle sue abitanti. Questo rapporto di collaborazione non è però esclusivo: anche i tassi del miele sfruttano le indicazioni degli uccellini per recuperare il prezioso bottino. In biologia, questo tipo di interazione tra specie viene chiamato mutualismo: entrambe le parti in gioco ottengono un vantaggio dalla reciproca collaborazione, senza entrare in competizione diretta per le risorse. Questa collaborazione tra uomini e uccelli per trovare il miele è comunque conosciuta da secoli. Tra l’altro, lo stesso sistema di raccolta del miele è stato osservato in altre popolazioni africane, in Kenya e Tanzania, mentre è risaputo che i delfini di varie parti del mondo sono in grado di aiutare i pescatori nella loro ricerca di pesce, ben consci che potranno trarre un vantaggio da questa collaborazione. La novità assoluta riguardante questo comportamento è stata presentata in un articolo pubblicato su Science nel 2016: i cercatori di miele Yao e gli uccellini, nella riserva nazionale di Niassa in Mozambico, comunicano tra di loro utilizzando un linguaggio comune. Nello specifico, il richiamo emesso e interpretato allo stesso modo da uomini e volatili è un particolare tipo di fischio vagamente tremolante, indicato dai ricercatori come “brrr-hm”. Il segnale sembra, dati alla mano, una sorta di comando che gli uomini impartiscono agli uccellini, qualcosa del tipo: “sono qui, dimmi dove si trova l’alveare e al resto penso io”. > Le vocalizzazioni degli animali possono aiutarci a comprendere il loro > comportamento e rappresentano un indicatore immediato degli stati affettivi > degli individui. Questi studi sono necessari per non perdere traccia di questo fenomeno, dato che sempre meno persone si dedicano alla ricerca “assistita” degli alveari. I segreti di questa antica pratica e della parlata comune di uomini e uccelli rischiano di andare perduti per sempre. Comunicare le emozioni Probabilmente, per chi tiene un animale domestico in casa, queste scoperte non sembreranno così rivoluzionarie: ogni mattina qualcuno fa un fischio al proprio cane e questo viene dal padrone, oppure comprende comunicazioni anche più complesse senza problemi. Nello specifico caso degli Yao e degli indicatori golanera, però, la novità consiste nel fatto che il richiamo emesso è lo stesso per uomini e uccelli e che, soprattutto, questi ultimi sono animali selvatici. La stessa lingua viene quindi parlata sia dagli esseri umani, sia da animali non umani e non addomesticati. Ci sono tantissimi esempi di comunicazione uomo-animale, che spaziano dai segnali non verbali fino alle vocalizzazioni vere e proprie, anche se con modi e forme molto diverse a seconda di chi parla e di chi ascolta. Ma, più in generale, le vocalizzazioni degli animali possono aiutarci a comprendere al meglio il loro comportamento. Possono variare in base al contesto in cui vengono emesse e rappresentano un indicatore immediato degli stati affettivi degli individui. E, se l’espressione vocale delle emozioni si è mantenuta nel corso dell’evoluzione, allora dovrebbe essere possibile confrontare direttamente diverse specie utilizzando lo stesso insieme di indicatori acustici. > Esistono algoritmi capaci di associare significati emotivi ai versi emessi > dagli animali. Un approccio nuovo che potrebbe aiutare nel monitoraggio del > benessere animale. In uno studio recente, un gruppo di ricercatori ha applicato un algoritmo di apprendimento automatico, chiamato XGBoost (eXtreme Gradient Boosting), per distinguere tra richiami di contatto associati a emozioni positive (piacevoli) e negative (spiacevoli), prodotti in vari contesti da sette specie di ungulati. Il modello utilizzato dagli scienziati si basa su una serie di variabili, tra cui la durata e l’energia dei suoni emessi, la frequenza fondamentale del suono e la sua modulazione. Il modello ha dimostrato una grande precisione: l’algoritmo è riuscito nel 90% circa dei casi a identificare il significato emotivo dei versi emessi dagli animali. Un sistema automatico basato su questo algoritmo potrebbe avere importanti applicazioni nel monitoraggio del benessere animale: si potrebbero migliorare con rapidità e precisione le pratiche di gestione e cura nelle strutture che ospitano animali. Ma uno studio del genere potrebbe applicarsi anche agli esseri umani, per capire le origini emozionali del linguaggio umano. La ricerca delle emozioni umane L’ultimo abbraccio (2020) del primatologo olandese Frans de Waal è un saggio dedicato all’esplorazione delle emozioni degli animali non umani. L’autore, recentemente scomparso, è stato per decenni uno dei punti di riferimento nel mondo dell’etologia moderna e nello studio dell’esplorazione cognitiva degli animali più simili a noi, le scimmie antropomorfe. Il titolo prende spunto da un episodio commovente, l’abbraccio tra un’anziana scimpanzé di nome Mama e il biologo olandese Jan van Hooff. I due erano legati da una profonda amicizia, e quando van Hooff venne a trovare Mama, ormai vicina alla morte, questa mostrò un grande sorriso al suo vecchio amico, a cui seguì un affettuoso abbraccio. Un segnale chiaro, forte, forse incontrovertibile delle emozioni che l’anziana scimmia stava provando in quegli attimi. L’obiettivo del libro è facilmente intuibile: de Waal, forte di una lunghissima esperienza a stretto contatto con questi primati, cerca di far capire al lettore come tanti animali non umani siano in grado di provare le nostre stesse emozioni. Ma de Waal, tra le pagine de L’ultimo abbraccio mostra come l’argomento sia complesso e non liquidabile in poche righe: per l’etologo olandese non esiste una netta separazione tra l’uomo e gli altri animali nel loro provare ed esprimere emozioni. Al contrario, l’autore sostiene che esista una graduale evoluzione in questi comportamenti e nell’esistenza degli stati d’animo associati. Nondimeno, non bisogna neppure dare per scontato che gli animali provino emozioni: bisogna osservare, studiare, approfondire, isolare i comportamenti per comprenderli appieno. > L’empatia e l’altruismo, sentimenti che per molti potrebbero apparire > esclusivi dell’essere umano, sembrano invece interessare molte altre specie. Per questi motivi, l’esplorazione di de Waal non si ferma agli scimpanzé, animali in fondo molto vicini a noi in termini di distanza evolutiva e a cui attribuire emozioni simili alle nostre potrebbe risultare fin troppo facile, ma elenca una lunga serie di esperimenti e osservazioni, sia in natura sia in cattività, che sembrano rivelare una sensibilità complessa anche in animali molto diversi. L’empatia e l’altruismo, sentimenti che per molti potrebbero apparire come esclusivi dell’essere umano, sembrano invece interessare molte altre specie. Ad esempio alcuni topi che, vedendo loro conspecifici intrappolati dentro strette gabbie di plexiglass, sembrano percepire il loro disagio e non esitano a liberarli, pur non ottenendo nulla in cambio. O anche cetacei come delfini e orche, che proteggono e aiutano a restare a galla loro conspecifici in difficoltà, evitando loro l’annegamento. Altre emozioni meno studiate, come ad esempio il disgusto, sembrano ripresentarsi in molte specie di animali. Comprendere le iniquità Anche il senso di giustizia e ingiustizia sembra appartenere a specie non umane, e de Waal non dimentica di citare un esperimento, condotto insieme alla sua collega Sarah Brosnan, che gli ha donato notorietà presso il grande pubblico tramite una conferenza TED di alcuni anni fa: a un gruppo di cebi dai cornetti (Sapajus apella), piccole scimmie del Nuovo mondo, venne insegnato come compiere semplici azioni in cambio di premi, come ad esempio restituire una pietra all’istruttore in cambio di un po’ di cibo, solitamente una fetta di cetriolo. I compiti assegnati venivano realizzati con solerzia e le scimmie sembravano pienamente soddisfatte. Quando però a due cebi, messi fianco a fianco in gabbie trasparenti in cui potevano vedere il loro vicino, venivano date ricompense diverse, allora le cose improvvisamente cambiavano. Se infatti, per aver realizzato lo stesso compito, a una scimmia veniva dato un cetriolo, mentre all’altra un ben più apprezzato acino d’uva, la prima si arrabbiava, protestava, persino lanciava all’addestratore la fetta di cetriolo, per denunciare il trattamento iniquo. > Se molti animali gioiscono, piangono, dimostrano empatia e tante altre > emozioni un tempo associate solo alla specie umana, in che modo tutto questo > potrebbe influire nei nostri rapporti con loro? Le sorprese, però, non sembrano fermarsi qui, perché de Waal racconta di come in esperimenti simili si sia osservato un comportamento ancora più inaspettato: alcune scimmie che ricevevano il premio migliore, infatti, lo rifiutavano per solidarietà nei confronti dei colleghi svantaggiati. Con ogni probabilità, rientrava in gioco l’emozione su cui lo scienziato olandese ha concentrato un’importante fetta delle sue ricerche: l’empatia. Ma gli studi sulle emozioni animali si sono sviluppati e diffusi per merito di tanti altri scienziati, che in certi casi hanno dato risultati ancora più sorprendenti. È il caso del documentario del 1999 Why Dogs Smile and Chimpanzees Cry (“Perché i cani sorridono e gli scimpanzé piangono”), in cui il neuroscienziato statunitense Jaak Panksepp, esperto negli studi sulle emozioni negli animali, commenta una ricerca sulla gioia nei topi: fare il solletico a topi addomesticati induceva la produzione di vocalizzazioni ultrasoniche ad alta frequenza (50 Hz), che potevano essere correlate a ciò che noi consideriamo una risata. Sembra inoltre che i topi, una volta abituati al gioco, cerchino spontaneamente le mani umane per godere del loro solletico. L’eredità di Kanzi E qui si delinea chiaro il dilemma: se, come sembrano dimostrare questi esperimenti, tantissimi animali gioiscono, piangono, si commuovono, dimostrano empatia e tante altre emozioni un tempo associate solo alla specie umana, in che modo tutto questo potrebbe influire nei nostri rapporti con loro? In che modo potremmo utilizzare le scoperte sul loro linguaggio per migliorare le loro condizioni di vita? Non sono domande da prendere con leggerezza. Il mondo in cui viviamo è stato plasmato in gran parte dal nostro rapporto con gli altri animali. La crisi della biodiversità in corso è legata all’enorme successo dell’essere umano sul pianeta, e comprendere meglio la socialità degli animali sarebbe sicuramente il primo passo per trovare modo di proteggerli. L’eredità che ci può lasciare Kanzi è una accresciuta presa di coscienza del mondo delle emozioni non umane, una prospettiva che ci aiuta a includere tantissime specie – alcune del tutto inaspettate – nel grande serraglio di esseri viventi che ridono, piangono, si oppongono all’ingiustizia e ridono quando gli si fa il solletico. Ma la nostra attenzione non dovrebbe concentrarsi solo sugli animali selvatici: oggi, la biomassa totale degli animali d’allevamento è ben superiore a quella della specie stessa che li alleva: la terra è popolata da oltre un miliardo e mezzo di bovini di allevamento, un miliardo di maiali e alcune decine di miliardi di polli. Il problema etico che si porrebbe nel confrontarci con questi animali – oggi esistenti unicamente in funzione dei bisogni umani – sapendo che provano emozioni simili alle nostre, sarebbe ancora più grave di quello che già affrontiamo e che ci sarà sempre meno possibile evitare di affrontare. 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Ogni intelligenza è relativa
È il 2010, siamo nello Smithsonian National Zoological Park di Washington (D.C.). Gli studiosi del comportamento animale Preston Foerder e Diana Reiss, insieme al loro gruppo di ricerca, stanno esaminando la capacità degli elefanti di risolvere problemi. Sono stati messi alla prova tre elefanti asiatici, due femmine adulte e un giovane maschio: il compito che gli è stato assegnato consiste nell’ottenere della frutta posta fuori dalla loro portata, dall’altro lato delle sbarre del recinto interno, utilizzando dei bastoni. Non dovrebbe essere un test così difficile per questi pachidermi: hanno cervelli complessi e di grandi dimensioni, vivono in società intessendo relazioni con gli altri membri, sanno usare strumenti e vantano molte altre abilità. Invece, i tre esemplari hanno adoperato i bastoni per grattarsi, colpire luoghi o oggetti e per forzare le porte, ma non hanno mai tentato di raggiungere il cibo. È possibile che non siano abbastanza intelligenti da capire come manovrare un bastone per avvicinare e mangiare un frutto? Per rispondere a questa domanda è necessario porsene un’altra: cos’è l’intelligenza e in quali modi è possibile esplorarla negli animali umani e non? Definire l’intelligenza Quando il terreno è stato sondato in ambito psicologico, la definizione è cambiata col tempo per sostenere una visione multifattoriale. In altre parole, l’intelligenza non poteva essere ridotta a un’abilità unica e monolitica, c’era bisogno di restituirne la complessità. Questo ha portato nel corso del Novecento a fare emergere diverse teorie sull’intelligenza. Charles Spearman, ad esempio, propose un modello bifattoriale, in cui è individuabile un fattore generale, che riflette un’abilità comune a tutte le capacità cognitive e interviene in ogni prestazione intellettiva, e fattori specifici, legati a particolari compiti cognitivi, come quelli motori, verbali, numerici o spaziali. Successivamente, Louis L. Thurstone individuò sette abilità mentali primarie, tra cui ritroviamo ragionamento, velocità percettiva e abilità verbale. Negli anni Ottanta, Robert Sternberg introdusse la teoria triarchica dell’intelligenza (analitica, creativa e pratica), mentre Howard Gardner formulò la teoria delle intelligenze multiple, secondo cui esisterebbero diverse forme di intelligenza – dalla linguistica alla musicale, dalla interpersonale alla naturalistica – presenti in ciascuno di noi in misura variabile. > Quando parliamo di intelligenza, parliamo di tutte le specifiche modalità di > soluzione di problemi specifici che gli organismi biologici incontrano nelle > loro nicchie. Se per gli umani trovare una definizione univoca e onnicomprensiva di intelligenza è arduo, l’impresa diventa ancora più ostica quando si estende la ricerca agli animali non umani. Un articolo pubblicato nei primi mesi del 2025 su Journal of Comparative Neurology ha rivelato che esistono oltre 70 definizioni di intelligenza. “Credo che tra gli studiosi che hanno una formazione biologica, e per biologica intendo evoluzionistica, sia possibile trovare una certa uniformità di vedute”, mi spiega il neuroscienziato e scrittore Giorgio Vallortigara, intervistato per Il Tascabile: “Cosa succede in natura? Un organismo viene posto di fronte a un problema di qualche tipo, rilevante per la sua fitness, per la sua sopravvivenza e riproduzione differenziale, e i meccanismi ciechi e automatici della selezione naturale fanno sì che si sviluppino certi processi computazionali che rispondono a quesiti quali “Come faccio a ritornare alla tana una volta che mi sono allontanato? Come faccio a riconoscere chi è un amico e chi è un nemico? Come faccio a decidere qual è il migliore potenziale partner sessuale?”. Questi sono i problemi che incontra nella sua nicchia un organismo, quale esso sia. Di conseguenza, quando parliamo di intelligenza, parliamo di tutte le specifiche modalità di soluzione di problemi specifici che gli organismi biologici incontrano nelle loro nicchie”. Sotto la spinta della selezione naturale è difficile sviluppare un solo meccanismo che serva ad affrontare qualsiasi tipo di problema, poiché gli animali devono andare incontro a situazioni complesse, spesso molto peculiari e vincolate. Uno scoiattolo che deve raggiungere la propria tana, ad esempio, avrà bisogno di un meccanismo di memoria spaziale con determinate caratteristiche: questa capacità, sviluppata in risposta a un particolare problema, potrà essere declinata in altre situazioni in cui è utile; l’orientamento spaziale, evoluto milioni di anni fa, potrà essere adoperato per ragioni differenti. Del resto, noi ricordiamo dov’è il panettiere più vicino al luogo di lavoro, la posizione della casa dei nostri genitori e riusciamo a ritrovare la borsa in cui abbiamo lasciato le chiavi dell’automobile. Usiamo la stessa capacità per raggiungere scopi differenti. > Potremmo concepire l’intelligenza come la capacità di risolvere problemi, > sempre considerando che questi ultimi sono diversi a seconda della specie e > che tutte queste intelligenze si sono evolute insieme alle strutture > anatomiche che le ospitano. Quindi esistono numerose forme di intelligenza, anche molto diverse, a seconda dell’organismo che si osserva. “Ci sono delle eccezioni in quel tipo di abilità generali che ci si può aspettare in qualsiasi nicchia ecologica e che riguardano essenzialmente la previsione dei nessi causali nell’ambiente, cioè ‘Che cosa causa che cosa?’”, continua Vallortigara: “È l’apprendimento associativo, nella forma del condizionamento classico o operante, e per quello che sappiamo lo ritroviamo un po’ in tutti gli animali, anche con sistemi nervosi molto lontani dai nostri, dai vermi fino ad Einstein”. Sebbene l’utilizzo di definizioni generali possa essere limitante in un ambito così proteiforme, potremmo concepire l’intelligenza come la capacità di risolvere problemi, sempre considerando che questi ultimi sono diversi a seconda della specie e che tutte queste intelligenze si sono evolute insieme alle strutture anatomiche che le ospitano. Il cervello non è un computer È da tempo che per spiegare il funzionamento del cervello quest’ultimo viene paragonato a un computer. La metafora informatica è il fulcro di Computer e cervello, libro del 1958 scritto da John von Neumann, matematico e fisico, tra i padri dell’informatica, ma si possono ritrovare le radici di questa visione già nelle macchine cartesiane. Il cervello, però, è frutto dell’evoluzione, non è un dispositivo digitale, e il parallelismo con un mondo di chip e linguaggio binario oggi sta rivelando tutte le sue problematicità. Assimilando il cervello a un computer si è cercato di spiegare il suo funzionamento, descrivendolo come un processo semplice e lineare, una lunga fila di tessere di domino che cadono in sequenza, quando nella realtà siamo davanti a reti neurali complesse e interconnesse, collegate al mondo esterno e con esso in continuo dialogo per produrre azioni. Eppure, la metafora informatica può essere ancora utile in alcuni casi. Sono Lars Chittka, ecologo ed etologo, e Jeremy Niven, neurobiologo evoluzionista, a coglierla nuovamente in una review pubblicata nel 2009 su Current Biology, intitolata Are bigger brains better?. > Paragonare il cervello a un computer significa spiegarne il funzionamento come > un processo lineare, quando abbiamo a che fare con reti neurali complesse e > interconnesse, collegate al mondo esterno e con esso in continuo dialogo. I due autori ricordano che il computer Z3 degli anni Quaranta, delle dimensioni all’incirca di una vecchia Cinquecento e del peso di una tonnellata, poteva eseguire solo operazioni aritmetiche di base, una potenza di calcolo facilmente superata da una qualsiasi calcolatrice tascabile di trent’anni fa e dallo smartphone più economico di oggi. È la tecnologia al suo interno che conta, non la dimensione. Lo stesso principio è applicabile ai cervelli. Le dimensioni non contano Per molto tempo la comunità scientifica ha cercato di correlare le dimensioni del cervello con le capacità cognitive: si è passati dal misurare la grandezza assoluta dell’organo al calcolare l’indice di encefalizzazione, che mette in relazione il peso del cervello con il peso del corpo dell’animale. Il valore che si ottiene per gli esseri umani è il più alto nel regno animale. Probabilmente era la dimostrazione che attendevamo per ricevere ufficialmente il riconoscimento di animale più intelligente, ma abbiamo cantato vittoria troppo presto. Quando la scienza ha provato a verificare se la velocità di apprendimento, una misura ragionevole dell’intelligenza di un animale, corrispondesse a un alto indice di encefalizzazione, i nostri facili entusiasmi sono subito stati raffreddati: le performance delle api superavano quelle di pesci, uccelli e mammiferi, inclusi gli esseri umani. Sono proprio gli insetti a mettere in qualche modo in crisi la relazione tra intelligenza e dimensioni del cervello, mostrando che strutture sociali e capacità cognitive non banali sono possibili anche con cervelli molto piccoli. Ad esempio, i bombi sanno imparare compiti complessi osservando i propri conspecifici e le vespe cartonaie sanno riconoscere le proprie compagne di nido dai loro volti. > Gli insetti hanno contribuito a mettere in crisi la relazione tra intelligenza > e dimensioni del cervello, mostrando come strutture sociali e capacità > cognitive articolate siano possibili anche con cervelli molto piccoli. Ma se anche cervelli piccoli sono in grado di supportare grandi prestazioni, a cosa serve tutto quel volume in più che ritroviamo in Homo sapiens e in altre specie? Secondo la review di Lars Chittka e Jeremy Niven, i cervelli più grandi sono, almeno in parte, una conseguenza della presenza di neuroni più grandi, necessari negli animali di grandi dimensioni a causa di vincoli biofisici di base. Hanno anche più circuiti neurali, che si ripetono, e questo rende i sensi più precisi, migliora il dettaglio della percezione, permette di elaborare più informazioni allo stesso tempo e aumenta la capacità di memoria. Una questione di cablaggio e struttura Diventa, quindi, quasi una questione di cablaggio, in cui abbiamo bisogno di più cavi, più grandi, per macchine di dimensioni maggiori e con un maggior numero di funzioni che producano anche risultati di qualità più elevata. Un esempio è quello dell’acuità visiva, che è legata alla presenza di un considerevole numero di neuroni: i recettori percettivi, come coni e bastoncelli, sono solo una minima parte di un sistema di visione che richiede molte risorse in fase di processamento degli stimoli ricevuti e un gran numero di neuroni nella retina e in tutte le tappe successive per elaborare il segnale. “C’è da tener conto che l’intelligenza non è solo dentro le scatole craniche o l’esoscheletro, ma è qualcosa che ha a che fare con il modo in cui l’animale interagisce con il suo ambiente”, chiarisce Vallortigara: “Per esempio gli insetti, che hanno delle limitazioni importanti dal punto di vista del numero di neuroni presenti, data la loro grandezza, risolvono in buona misura i loro problemi di tipo visuo-motorio muovendosi continuamente nell’ambiente: è quello che fa una mosca, per capirci”. Ed effettivamente, se pensiamo alla mosca, non la vediamo quasi mai ferma. Anche quando si posa, dopo pochissimo si rimette in volo. “Quando si guarda una scena complessa, animali come noi ‒ o i primati, in generale ‒ possono cogliere le sue caratteristiche at a glance, cioè con un’occhiata. I bombi non riescono a farlo nel nostro stesso modo, ma raggiungono lo stesso risultato se possono muoversi, se possono volare e fare una scansione della scena. Cos’è meglio o cos’è peggio? Non c’è meglio o peggio: la storia evolutiva di una specie ha fatto sì che, dati i vincoli con cui è stata costruita e quelli posti dal mondo fisico, evolva in un certo modo oppure in un altro. Tutto lì”. Le dimensioni del cervello di una specie animale possono essere collegate alla durata della sua vita. Animali più longevi dovranno avere un buon numero di neuroni ridondanti perché devono mantenere il funzionamento base del cervello durante il corso dell’intera esistenza, prevedendo che alcuni di questi neuroni andranno naturalmente persi nel corso degli anni e che ne serviranno degli altri che li sostituiscano per le stesse funzioni. Serviranno anche grandi magazzini di memoria, per gestire la complessità della vita di relazione in una società. Ritorniamo così al riconoscimento dei volti: “Di per sé la discriminazione di un volto non è una cosa complicata e può essere raggiunta con un numero di neuroni modesto. Quello che è difficile è tenere a mente un numero elevato di volti individuali, cosa che noi facciamo, perché è il modo con cui noi interagiamo con gli altri. Alcuni calcoli mostrano — e sono sicuramente sottostime — che un adulto riconosce immediatamente, riportandoli alla memoria, qualcosa come cinquemila volti individuali. Non tutte le specie hanno bisogno di riconoscere così tante facce, quindi non avranno neanche un grande numero di neuroni nell’area cerebrale equivalente”. > Animali più longevi devono mantenere il funzionamento base del cervello > durante il corso dell’intera esistenza, inoltre necessitano grandi magazzini > di memoria, per gestire la complessità della vita di relazione in una società. Sempre parlando di hardware, non possiamo trascurare la struttura del cervello. Alcuni studi pubblicati recentemente su Science mostrano come uccelli e mammiferi ‒ due classi di vertebrati dalle abilità straordinarie, come usare strumenti o adottare elaborati comportamenti sociali ‒ non abbiano ereditato i circuiti neurali connessi alle loro capacità cognitive da un antenato comune, ma li abbiano invece sviluppati in modo indipendente, evolvendosi in direzioni non così divergenti, visto che presentano circuiti similari. Sembrerebbe, quindi, che intelligenze simili possano dipendere da organizzazioni simili del sistema nervoso. Per confermarlo ci sarà ancora molto da studiare: se i vertebrati hanno un’architettura comune e mostrano così tanti adattamenti diversi, gli invertebrati, a un certo punto della loro storia, hanno imboccato strade completamente differenti, non mancando di evolvere in animali dalla straordinaria intelligenza come i polpi, maestri della fuga e del mimetismo, ottimi problem solvers e utilizzatori di strumenti, come gusci di noci di cocco che trasportano e utilizzano come nascondiglio. I polpi hanno un sistema nervoso piuttosto diverso da quello di uccelli e mammiferi: “altre menti” come racconta il filosofo Peter Godfrey-Smith nel libro dal titolo omonimo, con centinaia di milioni di neuroni localizzati soprattutto lungo i loro otto arti e su tutto il resto del corpo. Non abbiamo ancora ben compreso se tra vertebrati e invertebrati ci siano aspetti comuni che possano essere considerati la dotazione base per un’intelligenza complessa. Ricercatrici e ricercatori ci stanno lavorando ed è plausibile che continueranno a farlo ancora per lungo tempo. A ciascuno il suo Umwelt Come scrivevo all’inizio, ogni essere vivente ha sviluppato la capacità di risolvere quei problemi che il suo habitat gli ha posto nel corso della sua storia e ha evoluto strutture cerebrali che gli permettessero di farlo. Ciascuno di noi, però, interagisce con il mondo attraverso le lenti della propria percezione. Noi esseri umani abbiamo vista, tatto, olfatto, gusto e udito per cogliere gli stimoli dell’ambiente che ci circonda solo all’interno di determinati intervalli. Riusciamo a percepire le lunghezze d’onda della luce solo se comprese tra i 400 e 700 nanometri circa, il che vuol dire che non vediamo né infrarossi né ultravioletti. Esistono, invece, animali come uccelli, api, rettili e alcuni pesci ossei che riescono a percepire la radiazione ultravioletta, quella tra i 100 e i 400 nanometri, mentre i crotali, temibili serpenti, possono percepire le radiazioni infrarosse, così come le zanzare. > Comprendere la differenza che può intercorrere tra mondi percettivi nelle > diverse specie apre a riflessioni sulle modalità in cui queste bolle abbiano > plasmato le capacità cognitive degli animali. Immaginate una zecca. Non ha occhi, si arrampica su uno stelo d’erba in attesa di sentire l’odore dell’acido butirrico sprigionato dalla pelle dei mammiferi, bersaglio ultimo per assicurarsi il pasto di sangue che le permetterà di essere pronta per la deposizione delle uova, prima della morte. La zecca sente lo stretto necessario per sopravvivere nel suo ambiente e centrare il proprio obiettivo. Il calore corporeo, il contatto con i peli e la fragranza dell’acido butirrico sono i tre soli elementi che costituiscono il suo Umwelt, tradotto dal tedesco “ambiente”. Agli inizi del Novecento questa parola era impiegata in ambito sociologico, in riferimento a contesti storico-culturali umani, ma assunse un nuovo significato grazie allo zoologo estone Jakob von Uexküll, tra il 1907 e il 1909. Uexküll non si riferiva solamente all’ambiente in cui vive un animale, ma alla porzione di quell’ambiente che un animale può percepire e sperimentare. Comprendere la differenza che può intercorrere tra mondi percettivi nelle diverse specie apre a riflessioni sulle modalità in cui queste bolle abbiano plasmato le capacità cognitive degli animali e, soprattutto, sulle difficoltà di testare tali abilità tenendo conto di ciascun Umwelt. Se si dovesse esaminare la capacità di un gruppo di bambine e bambini di distinguere un triangolo da un quadrato disegnati con vernici che emettono solo radiazione ultravioletta, lunghezze d’onda non visibili agli umani, il risultato del test ci direbbe che non riescono a discriminare le forme geometriche, quando invece non possono semplicemente vederle. “Prendiamo il mondo visivo, per noi più semplice da capire, che consiste in primo luogo di oggetti di un qualche tipo, cioè di unità che si segregano rispetto a uno sfondo”, continua Vallortigara: “Questo vale anche per tutti gli animali che hanno sistemi visivi molto diversi dal nostro? Dire che un animale vede l’ultravioletto e l’altro l’infrarosso è interessante, ma fino a un certo punto. Lo è ancora di più capire se i processi fini della mente, dopo il filtraggio periferico, sono simili o diversi”. Analizzare questi meccanismi sembra a prima vista complicato, in realtà esistono già esperimenti che ci vengono in aiuto in questi casi, come verificare se altri animali percepiscono nella nostra stessa maniera le illusioni ottiche, le quali riflettono il funzionamento del nostro sistema percettivo. Nei pulcini, ad esempio, è possibile riscontrare il completamento amodale, il fenomeno per cui i contorni non visibili di un oggetto parzialmente occluso, coperto, vengono ugualmente percepiti. Dopo alcuni tentativi di dimostrare questo aspetto della percezione con risultati altalenanti, Giorgio Vallortigara e Lucia Regolin hanno progettato un esperimento che riproducesse le condizioni in cui i pulcini in natura avrebbero potuto manifestare il completamento amodale, ossia quando la mamma si allontana e risulta parzialmente coperta da un arbusto o dai fili d’erba. In queste circostanze è impensabile che il pulcino non la riconosca più perché ne vede solo una parte. Si è quindi trattato di tradurre il problema in una condizione che fosse etologicamente sensata. > Nei pulcini è possibile riscontrare il completamento amodale, il fenomeno per > cui i contorni non visibili di un oggetto parzialmente occluso, coperto, > vengono ugualmente percepiti. Nel suo saggio del 1974 Cosa si prova a essere un pipistrello?, ripubblicato quest’anno da Raffaello Cortina Editore, il filosofo Thomas Nagel concludeva che noi esseri umani non avremmo mai potuto metterci nei panni di un chirottero e adottarne l’esperienza soggettiva. D’altro canto, Frans de Waal nel suo libro Siamo così intelligenti da capire l’intelligenza degli animali? (2016) ha replicato che effettivamente non comprenderemo mai come un pipistrello si senta tale, considerate le grandi differenze tra il nostro e il suo Umwelt. Però, con il progresso delle conoscenze e delle tecnologie a nostra disposizione, potremo compiere qualche passo per avvicinarci a immaginare quello di altre specie. Il futuro degli studi sull’intelligenza animale Alla fine di questo lungo e articolato discorso, torniamo insieme dagli elefanti dello Smithsonian National Zoological Park di Washington. Davvero non sapevano trovare una soluzione per raggiungere il cibo adoperando un bastone? Ricercatrici e ricercatori decisero di cambiare le carte in tavola e il giovane Kandula mostrò loro che la sua specie avrebbe potuto risolvere anche quel tipo di problema. È bastato fornirgli una scatola quadrata che potesse reggerlo: il pachiderma l’ha spinta fino a posizionarla sotto la frutta ‒ collocata questa volta in alto ‒, vi ha posto le zampe anteriori sopra e così ha potuto raggiungere il cibo con la proboscide, direttamente, senza bisogno di procedere per prove ed errori per impararlo. Sebbene la proboscide sia utilizzata anche per spostare oggetti, i bastoni che gli scienziati avevano proposto nei test precedenti ostacolavano le altre funzioni di quest’organo, importanti per il compito proposto, ossia toccare e annusare il cibo. Questo ci fa comprendere come le sfide per studiare le intelligenze animali siano molteplici e come, in parte, le stiamo superando abbattendo il muro del nostro antropocentrismo. Prendendo in prestito le parole di Frans de Waal, in questo modo scopriremo tantissimi altri “pozzi magici”, l’insieme delle peculiarità conferite dall’evoluzione alle menti di ciascuna specie animale, alcuni dei quali ancora oltre la nostra immaginazione. Ciò che sicuramente abbiamo imparato è che non ha senso parlare di animali più intelligenti di altri. Ce lo ripete Vallortigara: “Tutti gli animali non intelligenti sono stati spazzati via e sono i rami secchi della storia naturale”. L'articolo Ogni intelligenza è relativa proviene da Il Tascabile.
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