
Quando gli animali parlano la stessa lingua
Il Tascabile - Tuesday, July 1, 2025K anzi è morto poche settimane fa a Des Moines, in Iowa, all’età di 44 anni. Kanzi era appassionato di marshmallow, giocava a Minecraft e sapeva suonare la tastiera. Era spiritoso, intelligente e curioso, un padre affettuoso e un amico sincero e divertente. E fin qui nulla di straordinario, se non consideriamo un particolare fondamentale: Kanzi era un bonobo, ed è stato in grado di creare un ponte, una mediazione culturale tra la sua specie e la nostra. Kanzi era in grado di comprendere centinaia di vocaboli della lingua inglese, compresi quelli astratti come amore o morte, e di rispondere a domande su questi argomenti sempre in maniera adeguata. Per comunicare con gli umani utilizzava una tastiera con dei simboli collegati a un computer. Quei simboli vengono chiamati lessicogrammi e sono stati un’importante innovazione negli studi sulle capacità comunicative delle scimmie antropomorfe.
Gli aspetti che hanno reso straordinaria la vicenda di Kanzi non sono solo questi. Il bonobo ha convissuto per tutta la sua vita in cattività, ma non isolato dai suoi simili, anzi: tutti i centri di ricerca in cui ha vissuto, compreso l’Ape Initiative in Iowa dove ha concluso la sua esistenza, sono sempre stati popolati da tanti conspecifici, con cui ha sempre avuto ottimi rapporti e con i quali non ha mai avuto problemi relazionali.
In certi casi, il suo ruolo era quello di vero e proprio mediatore tra i due mondi. Ad esempio nel 2006, quando il reporter Paul Raffaele impersonò una haka, la tradizionale danza di guerra neozelandese, di fronte agli animali del centro, scatenando una grande agitazione tra le scimmie che lo popolavano. L’unico che sembrò capire che si trattava di una danza rituale più che di una dichiarazione di guerra fu proprio Kanzi, che riuscì a calmare i suoi conspecifici. L’eredità di Kanzi, nonostante alcune capacità di utilizzare questo sistema le avesse apprese anche la sorella Panbanisha (morta purtroppo nel 2012), è rimasta in mano ai più giovani membri della sua famiglia, in particolare i nipoti Teco e Nyota, che però non hanno dimostrato il suo straordinario talento nel comprendere e interpretare il linguaggio umano.
Alcuni animali, come le api e i delfini, aiutano gli esseri umani a ottenere cibo sapendo che ne trarranno vantaggio. Per farlo hanno codificato un linguaggio comprensibile a entrambe le specie.
Per quanto straordinaria possa apparire l’esperienza di Kanzi, esistono altri esempi di comunicazione tra animali umani e non-umani in cui è stato condiviso un linguaggio comune.
Collaborazioni tra specie
Da millenni la popolazione degli Yao, in Mozambico, si dedica alla ricerca e alla raccolta del miele delle api selvatiche. Per trovare il dolce bottino, però, i raccoglitori si affidano al talento di un insolito aiutante, un uccellino. L’indicatore golanera (Indicator indicator), infatti, è ben più bravo dell’uomo nel trovare i nidi degli insetti e nel condurre i suoi accompagnatori umani fino alla loro ubicazione. Spesso, infatti, gli alveari sono costruiti sui rami più alti degli alberi e trovarli non è così facile per chi non è in grado di volare. Gli esseri umani, per contro, sono molto più abili nel recupero del miele: staccano l’alveare dal ramo su cui è costruito e lo affumicano per far scappare le api.
E così, seguendo una tradizione che si perpetua ormai da tantissime generazioni, i cercatori si affidano alle indicazioni del volatile, che dalla collaborazione potrà ottenere il vantaggio di nutrirsi, grazie a dei potenti enzimi digestivi, della cera dell’alveare (di scarso interesse per gli umani) una volta che questo sarà abbandonato dalle sue abitanti. Questo rapporto di collaborazione non è però esclusivo: anche i tassi del miele sfruttano le indicazioni degli uccellini per recuperare il prezioso bottino. In biologia, questo tipo di interazione tra specie viene chiamato mutualismo: entrambe le parti in gioco ottengono un vantaggio dalla reciproca collaborazione, senza entrare in competizione diretta per le risorse.
Questa collaborazione tra uomini e uccelli per trovare il miele è comunque conosciuta da secoli. Tra l’altro, lo stesso sistema di raccolta del miele è stato osservato in altre popolazioni africane, in Kenya e Tanzania, mentre è risaputo che i delfini di varie parti del mondo sono in grado di aiutare i pescatori nella loro ricerca di pesce, ben consci che potranno trarre un vantaggio da questa collaborazione.
La novità assoluta riguardante questo comportamento è stata presentata in un articolo pubblicato su Science nel 2016: i cercatori di miele Yao e gli uccellini, nella riserva nazionale di Niassa in Mozambico, comunicano tra di loro utilizzando un linguaggio comune. Nello specifico, il richiamo emesso e interpretato allo stesso modo da uomini e volatili è un particolare tipo di fischio vagamente tremolante, indicato dai ricercatori come “brrr-hm”. Il segnale sembra, dati alla mano, una sorta di comando che gli uomini impartiscono agli uccellini, qualcosa del tipo: “sono qui, dimmi dove si trova l’alveare e al resto penso io”.
Le vocalizzazioni degli animali possono aiutarci a comprendere il loro comportamento e rappresentano un indicatore immediato degli stati affettivi degli individui.
Questi studi sono necessari per non perdere traccia di questo fenomeno, dato che sempre meno persone si dedicano alla ricerca “assistita” degli alveari. I segreti di questa antica pratica e della parlata comune di uomini e uccelli rischiano di andare perduti per sempre.
Comunicare le emozioni
Probabilmente, per chi tiene un animale domestico in casa, queste scoperte non sembreranno così rivoluzionarie: ogni mattina qualcuno fa un fischio al proprio cane e questo viene dal padrone, oppure comprende comunicazioni anche più complesse senza problemi. Nello specifico caso degli Yao e degli indicatori golanera, però, la novità consiste nel fatto che il richiamo emesso è lo stesso per uomini e uccelli e che, soprattutto, questi ultimi sono animali selvatici. La stessa lingua viene quindi parlata sia dagli esseri umani, sia da animali non umani e non addomesticati. Ci sono tantissimi esempi di comunicazione uomo-animale, che spaziano dai segnali non verbali fino alle vocalizzazioni vere e proprie, anche se con modi e forme molto diverse a seconda di chi parla e di chi ascolta.
Ma, più in generale, le vocalizzazioni degli animali possono aiutarci a comprendere al meglio il loro comportamento. Possono variare in base al contesto in cui vengono emesse e rappresentano un indicatore immediato degli stati affettivi degli individui. E, se l’espressione vocale delle emozioni si è mantenuta nel corso dell’evoluzione, allora dovrebbe essere possibile confrontare direttamente diverse specie utilizzando lo stesso insieme di indicatori acustici.
Esistono algoritmi capaci di associare significati emotivi ai versi emessi dagli animali. Un approccio nuovo che potrebbe aiutare nel monitoraggio del benessere animale.
In uno studio recente, un gruppo di ricercatori ha applicato un algoritmo di apprendimento automatico, chiamato XGBoost (eXtreme Gradient Boosting), per distinguere tra richiami di contatto associati a emozioni positive (piacevoli) e negative (spiacevoli), prodotti in vari contesti da sette specie di ungulati. Il modello utilizzato dagli scienziati si basa su una serie di variabili, tra cui la durata e l’energia dei suoni emessi, la frequenza fondamentale del suono e la sua modulazione. Il modello ha dimostrato una grande precisione: l’algoritmo è riuscito nel 90% circa dei casi a identificare il significato emotivo dei versi emessi dagli animali. Un sistema automatico basato su questo algoritmo potrebbe avere importanti applicazioni nel monitoraggio del benessere animale: si potrebbero migliorare con rapidità e precisione le pratiche di gestione e cura nelle strutture che ospitano animali. Ma uno studio del genere potrebbe applicarsi anche agli esseri umani, per capire le origini emozionali del linguaggio umano.
La ricerca delle emozioni umane
L’ultimo abbraccio (2020) del primatologo olandese Frans de Waal è un saggio dedicato all’esplorazione delle emozioni degli animali non umani. L’autore, recentemente scomparso, è stato per decenni uno dei punti di riferimento nel mondo dell’etologia moderna e nello studio dell’esplorazione cognitiva degli animali più simili a noi, le scimmie antropomorfe. Il titolo prende spunto da un episodio commovente, l’abbraccio tra un’anziana scimpanzé di nome Mama e il biologo olandese Jan van Hooff. I due erano legati da una profonda amicizia, e quando van Hooff venne a trovare Mama, ormai vicina alla morte, questa mostrò un grande sorriso al suo vecchio amico, a cui seguì un affettuoso abbraccio. Un segnale chiaro, forte, forse incontrovertibile delle emozioni che l’anziana scimmia stava provando in quegli attimi. L’obiettivo del libro è facilmente intuibile: de Waal, forte di una lunghissima esperienza a stretto contatto con questi primati, cerca di far capire al lettore come tanti animali non umani siano in grado di provare le nostre stesse emozioni.
Ma de Waal, tra le pagine de L’ultimo abbraccio mostra come l’argomento sia complesso e non liquidabile in poche righe: per l’etologo olandese non esiste una netta separazione tra l’uomo e gli altri animali nel loro provare ed esprimere emozioni. Al contrario, l’autore sostiene che esista una graduale evoluzione in questi comportamenti e nell’esistenza degli stati d’animo associati. Nondimeno, non bisogna neppure dare per scontato che gli animali provino emozioni: bisogna osservare, studiare, approfondire, isolare i comportamenti per comprenderli appieno.
L’empatia e l’altruismo, sentimenti che per molti potrebbero apparire esclusivi dell’essere umano, sembrano invece interessare molte altre specie.
Per questi motivi, l’esplorazione di de Waal non si ferma agli scimpanzé, animali in fondo molto vicini a noi in termini di distanza evolutiva e a cui attribuire emozioni simili alle nostre potrebbe risultare fin troppo facile, ma elenca una lunga serie di esperimenti e osservazioni, sia in natura sia in cattività, che sembrano rivelare una sensibilità complessa anche in animali molto diversi. L’empatia e l’altruismo, sentimenti che per molti potrebbero apparire come esclusivi dell’essere umano, sembrano invece interessare molte altre specie. Ad esempio alcuni topi che, vedendo loro conspecifici intrappolati dentro strette gabbie di plexiglass, sembrano percepire il loro disagio e non esitano a liberarli, pur non ottenendo nulla in cambio. O anche cetacei come delfini e orche, che proteggono e aiutano a restare a galla loro conspecifici in difficoltà, evitando loro l’annegamento. Altre emozioni meno studiate, come ad esempio il disgusto, sembrano ripresentarsi in molte specie di animali.
Comprendere le iniquità
Anche il senso di giustizia e ingiustizia sembra appartenere a specie non umane, e de Waal non dimentica di citare un esperimento, condotto insieme alla sua collega Sarah Brosnan, che gli ha donato notorietà presso il grande pubblico tramite una conferenza TED di alcuni anni fa: a un gruppo di cebi dai cornetti (Sapajus apella), piccole scimmie del Nuovo mondo, venne insegnato come compiere semplici azioni in cambio di premi, come ad esempio restituire una pietra all’istruttore in cambio di un po’ di cibo, solitamente una fetta di cetriolo. I compiti assegnati venivano realizzati con solerzia e le scimmie sembravano pienamente soddisfatte. Quando però a due cebi, messi fianco a fianco in gabbie trasparenti in cui potevano vedere il loro vicino, venivano date ricompense diverse, allora le cose improvvisamente cambiavano. Se infatti, per aver realizzato lo stesso compito, a una scimmia veniva dato un cetriolo, mentre all’altra un ben più apprezzato acino d’uva, la prima si arrabbiava, protestava, persino lanciava all’addestratore la fetta di cetriolo, per denunciare il trattamento iniquo.
Se molti animali gioiscono, piangono, dimostrano empatia e tante altre emozioni un tempo associate solo alla specie umana, in che modo tutto questo potrebbe influire nei nostri rapporti con loro?
Le sorprese, però, non sembrano fermarsi qui, perché de Waal racconta di come in esperimenti simili si sia osservato un comportamento ancora più inaspettato: alcune scimmie che ricevevano il premio migliore, infatti, lo rifiutavano per solidarietà nei confronti dei colleghi svantaggiati. Con ogni probabilità, rientrava in gioco l’emozione su cui lo scienziato olandese ha concentrato un’importante fetta delle sue ricerche: l’empatia. Ma gli studi sulle emozioni animali si sono sviluppati e diffusi per merito di tanti altri scienziati, che in certi casi hanno dato risultati ancora più sorprendenti. È il caso del documentario del 1999 Why Dogs Smile and Chimpanzees Cry (“Perché i cani sorridono e gli scimpanzé piangono”), in cui il neuroscienziato statunitense Jaak Panksepp, esperto negli studi sulle emozioni negli animali, commenta una ricerca sulla gioia nei topi: fare il solletico a topi addomesticati induceva la produzione di vocalizzazioni ultrasoniche ad alta frequenza (50 Hz), che potevano essere correlate a ciò che noi consideriamo una risata. Sembra inoltre che i topi, una volta abituati al gioco, cerchino spontaneamente le mani umane per godere del loro solletico.
L’eredità di Kanzi
E qui si delinea chiaro il dilemma: se, come sembrano dimostrare questi esperimenti, tantissimi animali gioiscono, piangono, si commuovono, dimostrano empatia e tante altre emozioni un tempo associate solo alla specie umana, in che modo tutto questo potrebbe influire nei nostri rapporti con loro? In che modo potremmo utilizzare le scoperte sul loro linguaggio per migliorare le loro condizioni di vita? Non sono domande da prendere con leggerezza. Il mondo in cui viviamo è stato plasmato in gran parte dal nostro rapporto con gli altri animali. La crisi della biodiversità in corso è legata all’enorme successo dell’essere umano sul pianeta, e comprendere meglio la socialità degli animali sarebbe sicuramente il primo passo per trovare modo di proteggerli.
L’eredità che ci può lasciare Kanzi è una accresciuta presa di coscienza del mondo delle emozioni non umane, una prospettiva che ci aiuta a includere tantissime specie – alcune del tutto inaspettate – nel grande serraglio di esseri viventi che ridono, piangono, si oppongono all’ingiustizia e ridono quando gli si fa il solletico. Ma la nostra attenzione non dovrebbe concentrarsi solo sugli animali selvatici: oggi, la biomassa totale degli animali d’allevamento è ben superiore a quella della specie stessa che li alleva: la terra è popolata da oltre un miliardo e mezzo di bovini di allevamento, un miliardo di maiali e alcune decine di miliardi di polli. Il problema etico che si porrebbe nel confrontarci con questi animali – oggi esistenti unicamente in funzione dei bisogni umani – sapendo che provano emozioni simili alle nostre, sarebbe ancora più grave di quello che già affrontiamo e che ci sarà sempre meno possibile evitare di affrontare.
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