
Alex Garland: DEVS EX MACHINA
Il Tascabile - Wednesday, October 15, 2025È (già) tempo di tracciare un bilancio per Alex Garland. In relativamente pochi anni di carriera ha costruito opere di densità e rilevanza imprescindibili, per presa sulla contemporaneità e coraggio di intraprendere riflessioni filosofiche in un’epoca ostile al pensiero (libero, ma non solo). Ogni suo film assomiglia a una profezia, e non di quelle rassicuranti: più vicina a Cassandra che a Nostradamus, più a un Palantír di Mordor che a una sfera di cristallo. Con quel sesto senso proprio di chi è stato toccato da un’intelligenza superiore Garland arriva semplicemente prima degli altri, in virtù di un meccanismo di autodifesa contro la mediocrità e di un sottile sentimento antiamericano, tipico di una britishness in via di estinzione. Seppur arrivando per tempo al problema, Garland non ne esce con delle risposte chiare e distinte. La sua esposizione del dubbio, la sua “verifica incerta”, testimonia con lucidità la difficoltà estrema di raccontare il presente, di discernere la verità, di capire da che parte stare. Il che non significa “fare di viltà il gran rifiuto”, bensì arrendersi alla insensata e fuggevole complessità di un mondo che è, innanzitutto, troppo veloce per essere afferrato e compreso.
Ad accomunare Ex Machina (2014), Annientamento (2018) o Civil War (2024) è l’ipercinesia che non lascia spazio all’elaborazione di un pensiero, che obbliga a una deriva istintuale, sovente quasi ferina. Uscito in sala con un tempismo mirabile, Civil War ha suscitato inevitabili discussioni, talora facete – perché proprio la California very Blue State e il Texas very Red State come alleati in chiave secessionista? – ma ha saputo tradurre in immagini di rara ferocia quella deriva autodistruttiva inestricabilmente legata a un Paese-bambino come gli Stati Uniti, armato fino ai denti e dilaniato da divisioni interne sempre più esacerbate. Un discorso di cui Warfare (2025, in sala dal 21 agosto in Italia) – codiretto con il reduce di guerra Ray Mendoza – è la naturale prosecuzione: il passaggio da un ipotetico scenario di conflitti futuri a uno effettivo del passato prossimo (la seconda guerra in Iraq) comporta un ulteriore spostamento della soggettiva. Warfare non è un pamphlet antimilitarista, così come Men (2022) non è un banale pamphlet contro la mascolinità tossica. L’ambivalenza del primo – l’immersione nel dettaglio bellico a livello di singolo uomo che altera il linguaggio, ricco di acronimi fino all’esoterismo – si riflette nell’ambiguità del secondo (sono gli uomini a essere “tutti uguali” o è la protagonista a vederli così?).
Civil War ha saputo tradurre in immagini di rara ferocia quella deriva autodistruttiva inestricabilmente legata a un Paese-bambino come gli Stati Uniti, armato fino ai denti e dilaniato da divisioni interne sempre più esacerbate.
Warfare non è un film sulla guerra o contro la guerra. È un film della guerra. In cui il conflitto è la soggettiva, ignorante e acritica, così immersa nel proprio presente eterodiretto da risultare cieca a ogni elemento esterno. Una forma di alienazione radicale, che può essere “preparata” assumendo dosi di immagini, attraverso il filtro della distorsione mediatica – il video di Eric Prydz a cui assistono i soldati e con cui si apre il film. Smettere di pensare e astenersi dal dover esercitare il libero arbitrio sembra essere l’unica via. Perché per Garland e Mendoza il videogioco-già-giocato-da-qualcuno è l’unica metafora possibile per una tecnica e una tattica di combattimento (il titolo è Warfare, infatti) che hanno rimosso il lato umano fino al puro nonsense. Per i Navy Seals asserragliati in un’abitazione irachena il passaggio dalla baldanza al panico è rapido, almeno quanto la transizione da esseri umani a oggetti. Dopo l’esplosione improvvisa e il ferimento grave di due soldati, avviene la reificazione. L’insensibilità alle casualties of war è il male necessario di un conflitto impossibile da osservare nella sua interezza e complessità. Nascondendosi negli acronimi di un gergo bellico imperscrutabile, i Navy Seals si rifugiano in un microcosmo alienante quanto serve.
Se Civil War e Warfare esplorano le fratture geopolitiche e il potere distruttivo delle narrazioni, è anche perché Garland vede il cinema come un campo di battaglia per le idee. Il suo rifiuto di schierarsi in maniera didascalica non è neutralità, ma consapevolezza che il linguaggio stesso è un’arma. In un panorama dominato da franchising e riscritture rassicuranti, la sua ostinazione a creare mondi autonomi, non negoziabili, lo rende un autore raro. E se la profezia è una maledizione per chi la formula, Garland sembra averla accettata come condizione del mestiere: guardare un passo oltre, pur sapendo che nessuno ascolterà in tempo.
Garland vede il cinema come un campo di battaglia per le idee. Il suo rifiuto di schierarsi in maniera didascalica non è neutralità, ma consapevolezza che il linguaggio stesso è un’arma.
Volendo individuare un protagonista incognito e ricorrente delle opere di Alex Garland, occorre concentrarsi sul libero arbitrio, esplicitamente citato nella serie TV del 2020 che il regista ci ha costruito attorno: DEVS, con ogni probabilità la migliore serie degli ultimi dieci anni (e naturalmente inedita in Italia). Uno spy-thriller sulla Silicon Valley costruito attorno a un’invenzione misteriosa, che si trasforma gradualmente in riflessione filosofica sul libero arbitrio e sulla predeterminazione del comportamento umano, come se fosse possibile calcolare in maniera deterministica azioni e reazioni. Il confine tra tecnologia, filosofia e magia è felicemente abbattuto, per la gioia di Arthur C. Clarke (“Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia”). Tecnicamente perfetta, densissima nei dialoghi e impreziosita da una delle migliori battute sulla capacità tutta americana di nascondere e edulcorare le peggiori verità, concentrandosi sul messaggio e sminuendo la sostanza, in una contrapposizione degna di Le Carré con l’onesta nudità del male di matrice russa.
La poetica di Garland, in fondo, è sempre un laboratorio di esperimenti concettuali ‒ in cui la trama è un vettore, non il fine ‒, e di interrogativi insoluti: cosa succede se un’Intelligenza artificiale diventa cosciente (Ex Machina)? Se la natura riformula le sue leggi (Annientamento)? Se il conflitto armato viene percepito come routine in cui annullarsi (Warfare)? Se un trauma personale deforma l’intero spettro delle relazioni (Men)?
In Annientamento, forse il manifesto della poetica garlandiana, l’inaffidabilità dell’immagine è totale, la sua paternità ignota. Forse ciò che vediamo è attribuibile a una spora che sembra riformulare la natura e ricalcolarla.
In quest’ultimo caso, quello di Men, Garland compie un passo rischioso: spoglia il racconto di sovrastrutture fantascientifiche e lo riduce a un incubo allegorico, in cui un solo attore (Rory Kinnear) incarna tutte le figure maschili, moltiplicando l’effetto perturbante. Forse il lavoro meno riuscito di Garland, o comunque il più problematico, ha suscitato critiche spesso fuorvianti, legate alla lettura più superficiale del film. Soffermarsi sulla parabola MeToo e su come la mascolinità tossica si annidi in ogni maschio significa dimenticare che osserviamo ogni dettaglio attraverso lo sguardo deformante e traumatizzato della protagonista, senza altri punti di vista. E quindi ancora una volta discernere soggettività e oggettività, predeterminazione e libertà di scelta diviene esercizio impossibile. Allo spettatore resta la possibilità di osservare attraverso un vetro colorato, opaco. Come per lo Harry Caul di La conversazione (1974), ottenere la certezza di una visione chiara e distinta è arduo e opinabile quanto ricavare l’audio di una conversazione privata priva di manipolazioni.
In Annientamento, forse il manifesto della poetica garlandiana, l’inaffidabilità dell’immagine è totale, la sua paternità ignota. Forse ciò che vediamo è attribuibile a una spora che sembra riformulare la natura e ricalcolarla, in direzione uguale e opposta a quanto elaborato dall’Intelligenza artificiale del lungometraggio di debutto, Ex Machina. Là era un costrutto artificiale a divenire “more human than human”, e quindi manipolatorio e bugiardo; in Annientamento è una forza aliena “ecologista” a cambiare le regole del gioco ed escludere il fattore umano dall’equazione. La resa a un ordine che sfugge a qualsiasi mappa razionale rimanda, più ancora che ai sinistri vaticini di H.P. Lovecraft, al suo maestro Arthur Machen, che celava nel folklore rurale delle terre britanniche misteri cosmici al di là dell’umana comprensione, tra ribellioni della natura (The Terror, 1917) e sfoghi di violenta sessualità pagana (The Great God Pan, 1894). Difficile escludere una influenza esplicita di Machen quando la protagonista di Men mette piede in una chiesa isolata, in cui spicca un altare istoriato di inquietanti bassorilievi. Gli strumenti del terrore misterico rimangono gli stessi: dal tempo dell’inizio Novecento di Machen al terzo millennio di Garland, più la specie umana si avvicina alla presunzione di onniscienza e più si allontana dalla conoscenza intima dell’ignoto, in un ciclo privo di fine apparente.
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