U na massa inarrestabile. Senza volto, senza voce. Avanza a scatti: afferra,
dilania, consuma. Non pensa, non decide, non sente. È ovunque. Si può solo
cercare di non esserne contagiati. Oggi, questo è il nostro mostro. Non è
elegante, né seducente: non ha una storia da raccontare. Lo zombie non è
l’affascinante, tragica e ambigua creatura simbolo del male che per secoli ha
incarnato desiderio, solitudine e tormento, vale a dire il vampiro. Al centro di
molte narrazioni horror contemporanee troviamo un corpo disattivato nella sua
soggettività, ma ancora funzionante: non è più luogo di conflitto interiore, ma
meccanismo che reagisce, si muove, infetta. È una presenza che agisce senza
coscienza, senza desiderio, senza direzione.
Tra zombie e vampiri, è il primo ad aver conquistato l’immaginario
contemporaneo: non per fascino, ma per necessità. Dove il vampiro rifletteva
l’io, lo zombie riflette il noi che si disgrega. Il primo era dramma dell’anima,
il secondo è sintomo della fine di una società. In nessun luogo questa
transizione è stata più radicale che nel cinema asiatico, dove il genere zombie
è esploso con una varietà di forme e significati, mentre il vampiro è rimasto
bloccato nel folklore o in variazioni d’autore marginali. La cultura
dell’estremo oriente ha trasformato il morto vivente in un linguaggio per
raccontare crisi collettive, vulnerabilità sistemiche, tensioni invisibili ma
onnipresenti.
> Tra zombie e vampiri, è il primo ad aver conquistato l’immaginario
> contemporaneo: dove il vampiro rifletteva l’io, lo zombie riflette il noi che
> si disgrega. Il primo era dramma dell’anima, il secondo è sintomo della fine
> di una società.
Non si tratta solo di una moda, ma di una mutazione profonda dell’immaginario.
Il vampiro apparteneva a un mondo ossessionato dalla soggettività e
dall’interiorità. Lo zombie è il prodotto – e simbolo – di un mondo in cui il
soggetto si frantuma dentro la collettività. Un mondo che ha smesso di chiedersi
chi siamo, e ha cominciato a temere di essere già diventati qualcosa d’altro.
Il corpo come specchio della crisi
Per capire il successo dello zombie e il declino del vampiro, bisogna partire
dal corpo e il corpo, oggi, è un campo di battaglia. Secondo Dennis Waskul
(professore di sociologia alla Minnesota State University di Mankato) che si
occupa di interazione simbolica, corporeità, sensorialità, sessualità e fenomeni
del soprannaturale) e Phillip Vannini (docente e ricercatore presso la Royal
Roads University di Victoria in Canada, che lavora tra sociologia, antropologia
ed etnografia visiva, occupandosi soprattutto di semiotica del corpo e
interazione simbolica), il corpo umano non può essere ridotto a una semplice
entità biologica: è un costrutto sociale e simbolico, modellato
dall’interazione, dalla cultura e dai processi di significazione che lo
attraversano.
Il corpo è un sito in cui si negoziano identità, si riflettono dinamiche di
potere e si esprime – anche attraverso il silenzio o la malattia – la condizione
del soggetto, scrivono i due studiosi in Body/Embodiment: Symbolic Interaction
and the Sociology of the Body (2006). Non possiamo quindi considerare il corpo
come un’entità biologica, ma occorre prenderlo in considerazione come punto
d’incontro tra significati, relazioni e aspettative sociali. Ogni corpo è, in
qualche misura, una biografia vivente: qualcosa che parla anche quando tace, che
significa anche quando sembra solo subire.
Il vampiro è un corpo riflesso: performa la propria identità in relazione allo
sguardo altrui, si costruisce attraverso il desiderio, il giudizio, l’alterità.
È, potremmo dire, un corpo-specchio: non riflette direttamente ciò che gli altri
pensano, ma si plasma su segnali e aspettative sociali. E, in questo senso, è
profondamente moderno: costruisce sé stesso nel conflitto tra ciò che è e ciò
che appare. È il corpo dell’individualismo tardo-romantico, dell’interiorità
tormentata. Seduce perché mette in scena la soggettività in crisi, il desiderio
che non può essere appagato senza colpa.
Lo zombie, al contrario, è corpo svuotato. Non ha più agency (cioè la capacità
di un soggetto di agire nel mondo in modo intenzionale e consapevole,
esercitando scelta e influenza sulla realtà), né riflesso. È un caso di vero
fallimento drammaturgico: un corpo che ha smesso di recitare, che non prende più
parte al gioco rituale della socialità. Non si limita a essere escluso: è
semplicemente caduto fuori. I corpi, normalmente, si costruiscono dentro codici
condivisi, attraverso convenzioni culturali e performance quotidiane. Lo zombie,
invece, è un’interruzione di quel codice: non rappresenta più nulla, non negozia
più nulla, non comunica. Lo zombie è ciò che resta quando tutto questo si
interrompe.
> Il vampiro è un corpo riflesso: performa la propria identità in relazione allo
> sguardo altrui, si costruisce attraverso il desiderio, il giudizio,
> l’alterità. È un corpo-specchio che si plasma su segnali e aspettative
> sociali.
Nel mondo contemporaneo, segnato dalla perdita di certezze, dal collasso delle
narrazioni collettive e dalla crisi dell’identità, il corpo zombificato diventa
una metafora potente. È il corpo che ha perso la capacità di costruire senso,
che si muove senza meta in uno spazio disordinato, dove i codici sociali sono
collassati. Come ha osservato Stefano Vernamonti nel suo articolo “Staccando la
coscienza da terra”, la contemporaneità immagina sempre più spesso una coscienza
astratta, disincarnata – separabile dal corpo, caricabile su server o algoritmi.
È l’orizzonte della mente digitalizzata, della soggettività algoritmica,
dell’identità smaterializzata.
In questo scenario, lo zombie sembra una figura fuori tempo, residuale. E invece
è proprio qui che diventa interessante. Lo zombie rappresenta l’opposto esatto
di quella visione disincarnata: un corpo che continua ad agire senza coscienza,
svuotato di soggettività ma ancora vincolato al mondo, un resto muto della
coscienza – non più pensante, ma ancora pulsante. È il simbolo di ciò che resta
quando la coscienza se n’è andata ma il corpo non può smettere di muoversi. Lo
zombie, con la sua passività attiva, la sua esistenza senza soggetto, riesce a
restituirci con spietata precisione la condizione contemporanea: quella di
un’umanità che agisce per inerzia, lavora senza scopo, comunica senza ascolto,
vive senza presenza.
Nel cinema asiatico questo corpo senza soggetto è diventato il simbolo perfetto
della crisi. Train to Busan (2016), diretto da Yeon Sang-ho, non è solo un film
di zombie: è una radiografia della Corea del Sud contemporanea. Il treno che
corre verso la catastrofe è metafora di una modernità che ha perso controllo,
umanità, direzione. I personaggi sono tipologie sociali: il manager egoista, la
madre incinta, il senzatetto. E il virus è l’evento che li costringe a mostrarsi
per ciò che sono, senza maschere, senza ruolo, senza protezioni. Come osserva
Seoulbeats, il film ha raccolto le paure post-trauma del disastro del traghetto
Sewol e le ha trasformate in narrazione collettiva. Il treno diventa allora una
capsula sociale, una metafora accelerata della nazione, un dispositivo narrativo
che comprime tensioni familiari, economiche e morali.
In The Sadness (2021), diretto da Rob Jabbaz e ambientato a Taipei, l’orrore si
radicalizza: il virus non uccide, ma libera gli istinti peggiori. Gli infetti
restano coscienti, ma si trasformano in sadici. Non è solo la società che
crolla, ma anche il codice morale. Il film è una parabola estrema sul potere
della repressione sociale e sull’ipocrisia dell’ordine pubblico. è un’opera che,
nella sua grottesca esagerazione, rivela l’instabilità dell’intero sistema
culturale asiatico contemporaneo. Il corpo infetto non è più solo mostruoso: è
sociale. È trauma puro, incarnazione dell’assenza di senso e specchio fedele di
una società in cui la promessa di coesione sociale si è dissolta nella
competizione feroce e nella solitudine di massa.
> Lo zombie rappresenta un corpo che continua ad agire senza coscienza, svuotato
> di soggettività ma ancora vincolato al mondo, un resto muto della coscienza –
> non più pensante, ma ancora pulsante.
Se lo zombie è diventato il corpo collettivo dell’esclusione, il vampiro, al
contrario, rimane una figura centrata sul sé, sul desiderio, sull’autonomia
(qualità che appaiono dissonanti in molte narrazioni asiatiche contemporanee).
In un immaginario dominato dalla pressione del conformismo sociale e
dall’instabilità delle strutture istituzionali, il vampiro non trova un
ecosistema culturale favorevole. Certo, esistono eccezioni significative.
Thirst (2009) di Park Chan-wook, per esempio, è un film straordinario. Il
protagonista, un prete cattolico trasformato in vampiro da una trasfusione
sperimentale, è l’incarnazione vivente del paradosso tra purezza e desiderio. La
pellicola fonde erotismo e senso di colpa, trascendenza e istinto. Ma il suo
vampiro è tutt’altro che collettivo: è un individuo scisso, tragicamente
solitario. Come nota una recensione su Booker Horror, Thirst opera come dramma
metafisico più che come horror di consumo. È un film che riflette sulle
dinamiche del desiderio e della fede, ma non riesce a diventare specchio della
società nel suo complesso. Non sorprende che non abbia generato imitatori.
Al contrario, le apparizioni del jiangshi (il “vampiro saltellante” della
tradizione cinese) appartengono a un registro più folklorico e comico. Questi
esseri, rigidi e quasi caricaturali, sono il prodotto di un’altra sensibilità:
evocano lo scompenso tra mondo dei vivi e dei morti, ma senza l’introspezione o
il simbolismo erotico del vampiro occidentale. Non sono mai protagonisti
tragici, ma antagonisti da neutralizzare.
Il vampiro asiatico, dunque, appare come un corpo simbolico senza presa sul
presente. Incarna un’idea di soggettività individuale, seduttiva e
autoreferenziale, inadeguata a rappresentare le dinamiche di una società in
crisi sistemica. Dove lo zombie offre un linguaggio collettivo, il vampiro è
ridotto al sussurro del singolo.
> Il vampiro asiatico appare come un corpo simbolico senza presa sul presente.
> Incarna un’idea di soggettività individuale, seduttiva e autoreferenziale,
> inadeguata a rappresentare le dinamiche di una società in crisi sistemica.
E, anche nell’immaginario occidentale, il vampiro ha smesso di incarnare la
trasgressione per eccellenza. Come osserva Giovanni Padua in “Un vero conte
transilvano morto”, ha perso la sua carica perturbante: non mette più in crisi
l’ordine, lo decora. Le sue apparizioni recenti sembrano oscillare tra due poli
ugualmente depotenziati: da un lato la domesticazione adolescenziale, dall’altro
la restaurazione folklorica. Anche il Nosferatu (2024) di Robert Eggers,
attesissimo remake uscito alla fine dello scorso anno, rinuncia a ogni forma di
rinnovamento incomodante, radicandolo nella filologia culturale più che
nell’inquietudine contemporanea. Il vampiro, così, smette di interrogare
l’ordine per trasformarsi in monumento. Lungi dall’essere simbolo di rottura,
diventa una figura rassicurante, storicizzata, utile più a evocare nostalgia che
a disturbare.
Lo zombie come semiotica dell’esclusione
Il corpo “zombificato” è il corpo fuori senso, fuori discorso. Non ha più
narrazione. È ciò che resta dopo la perdita della coerenza esistenziale, il
punto in cui il linguaggio si spezza, il segno non si decifra, il potere che
diventa biologico. È, in altre parole, la radicalizzazione del soggetto
precario. Nell’Asia contemporanea, dove le strutture sociali sono attraversate
da una tensione costante tra rapidità dello sviluppo e fragilità istituzionale,
lo zombie diventa specchio e denuncia. Il suo successo culturale è legato anche
alla sua flessibilità simbolica: può essere disoccupato o consumatore, migrante
o cittadino medio, studente o manager. In ogni caso, rappresenta un corpo che
non partecipa più, che non ha più diritto alla narrazione. Non è più soggetto di
senso, ma resto biologico. Lo zombie non è escluso: è eccedente, inutile,
residuo.
Come nota Graziano Graziani in “Gli zombi e noi”, lo zombie si distingue da
tutte le altre figure del pantheon horror proprio per questa sua natura
collettiva e degradante. È il mostro della moltitudine, non dell’individuo: non
ha l’eleganza del vampiro, né la coscienza tragica del mostro di Frankenstein.
Non appartiene a un ordine simbolico arcaico o mitico, ma è a pieno titolo un
prodotto della società di massa. In questa prospettiva, l’immaginario zombie si
sovrappone sempre più frequentemente alla paura contemporanea dell’“invasione”
migrante. Il corpo “zombificato” è l’incarnazione dell’altro che non
riconosciamo più come umano, che è stato espulso simbolicamente dall’orizzonte
dell’empatia. Se l’alterità non ha nulla in comune con il nostro ordine
simbolico – se non è nemmeno più “umana” – allora tutto diventa giustificabile:
la violenza, l’abbandono, la rimozione. È in questa zona grigia che si colloca
l’efficacia simbolica dello zombie oggi: non è semplicemente il morto vivente,
ma il vivente disumanizzato. Un corpo che non reclama più diritti, ma che non
può essere ignorato. Uno spettro politico.
In questa genealogia del corpo degradato e non riconosciuto, si inserisce anche
il ghoul, come ha evidenziato Gioacchino (Jack) Orlando in “Echi dalle rovine”.
Creatura folklorica marginale, il ghoul si nutre dei resti umani, abita luoghi
desolati, si aggira ai confini del racconto. È simile allo zombie, ma conserva
una coscienza e una lingua: è un mutante, non un morto che ritorna. Questo lo
rende una figura ancora più ambigua, una soglia mobile tra umano e mostruoso. Il
ghoul non rappresenta una degenerazione né un’evoluzione, ma una sopravvivenza
ostinata. Non avanza né regredisce, semplicemente persiste. E come lo zombie, ci
ricorda che l’umanità non è un dato naturale, ma una condizione continuamente
negoziata – e facilmente negata.
> Nell’Asia contemporanea, lo zombie diventa specchio e denuncia, anche grazie
> alla sua flessibilità simbolica: può essere disoccupato o consumatore,
> migrante o cittadino medio, studente o manager. In ogni caso, rappresenta un
> corpo che non partecipa più, che non ha più diritto alla narrazione.
Analizzare la figura dello zombie significa confrontarsi con le fratture del
presente. L’horror è da tempo oggetto di studi approfonditi, non più relegato al
rango di genere minore, ma riconosciuto come specchio delle tensioni sociali.
Mentre altri generi proiettano speranze o nostalgie, l’horror lavora sulle crepe
dell’attualità, rendendo visibile ciò che spesso preferiremmo ignorare. In
particolare, lo zombie asiatico si fa dispositivo critico: il contagio, la
folla, l’inefficienza delle istituzioni, il panico collettivo – tutto converge
per raccontare una società già in crisi, dove la catastrofe non è una rottura,
ma una continuità.
Una sintomatologia globale
L’Asia, nel suo precipitare nel futuro, ci mostra il laboratorio del mondo. Un
luogo in cui il passato si sgretola e il presente non fa in tempo a diventare
memoria. In quel vuoto che si apre tra crisi e connessione, lo zombie cammina.
Ma se guardiamo all’Occidente, il panorama non è poi così diverso. Anche qui il
vampiro (simbolo del tormento individuale, della trasgressione romantica,
dell’erotismo gotico) ha perso centralità. Al suo posto, negli ultimi vent’anni,
si è affermato lo zombie come mostro dominante della cultura visiva: più grezzo,
meno riflessivo, ma incredibilmente efficace nel rappresentare le inquietudini
collettive.
L’inizio degli anni Duemila ha segnato una vera rinascita del genere: 28 Days
Later (2002) di Danny Boyle ha rivoluzionato il linguaggio visivo dello
zombie-movie, introducendo una creatura accelerata, rabbiosa, plasmata
sull’ansia pandemica e la dissoluzione urbana. World War Z di Marc Forster
(2013) ha dato una dimensione globale al contagio. The Walking Dead (2010-2022)
ha costruito una mitologia seriale che ha ridefinito il modo in cui raccontiamo
l’apocalisse: non più un evento improvviso, ma una lenta, dolorosa erosione
della civiltà.
Oggi, quelle stesse narrazioni stanno vivendo una nuova stagione, basti pensare
a 28 Years Later (2025), l’universo di The Walking Dead che continua a
moltiplicarsi con spin-off come The Ones Who Live e Daryl Dixon, in arrivo con
nuove stagioni nel 2025. Anche The Last of Us, dopo aver concluso la seconda
stagione nel 2025, proseguirà con una terza annunciata per il 2027, rinnovando
il suo sguardo sul trauma e sul corpo infetto.
È un rilancio simbolico. Il genere zombie si adatta a un presente frammentato:
ogni declinazione propone nuovi punti di vista, nuovi corpi vulnerabili, nuove
mappe emotive. Non c’è più un eroe a cui affidare il senso: c’è una moltitudine
disorientata che cerca, a fatica, una forma di sopravvivenza.
> Non c’è più un eroe a cui affidare il senso: c’è una moltitudine disorientata
> che cerca, a fatica, una forma di sopravvivenza.
Lo zombie occidentale si confronta con l’ansia del collasso dell’ordine
liberale, della frammentazione delle istituzioni, della perdita del controllo
razionale sul mondo. In Europa e negli Stati Uniti, il morto vivente si aggira
tra rovine riconoscibili: scuole chiuse, città svuotate, famiglie implose. Non è
solo una minaccia: è l’eco di un sistema che non funziona più. Simboleggia la
paura che l’individuo non conti più nulla, che le strutture costruite per
garantire coesione siano diventate inservibili. In Asia, invece, lo zombie
prende forma dentro una modernità estrema: è il sintomo di un mondo
iper-organizzato che produce esclusione sistemica, solitudine, anonimato. Lì, il
morto che cammina non rappresenta la perdita di un’autonomia: incarna il
sospetto che quell’autonomia non sia mai stata concessa del tutto.
Eppure, nella moltiplicazione dei prodotti culturali lo zombie diventa un
archetipo globale. Le sue incarnazioni si ibridano, si aggiornano, si esportano.
Non è più solo un riflesso locale: è una mostruosità mondiale. Porta in sé ansie
postpandemiche, memorie coloniali, precarietà economica, instabilità climatica,
burnout emotivo. Ci racconta di come la società contemporanea, ovunque ci
troviamo, abbia smesso di interrogarsi sull’anima mentre tutto crolla.
L'articolo Sopravvivere al collasso proviene da Il Tascabile.
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È almeno dal 2007 che ogni volta che esce un film di Paul Thomas Anderson è un
evento. L’esordio del 1996, Sydney, poi l’acclamato e piccante Boogie Nights –
L’altra Hollywood (1997). Con Magnolia (1999) ci trovavamo già di fronte a un
regista che affrontava il tema dell’esistenza in maniera sfaccettata, ma capace
anche di parlare diretto con commedie romantiche come Ubriaco d’amore (2002).
Poi il successo e l’ingresso nel pantheon dei grandi registi con una pellicola,
Il petroliere (2007), che parla della ferocia umana e del potere avendo in mente
il capitalismo contemporaneo, ma nel cuore film come Quarto potere. È stato da
quel momento infatti che si è iniziato a parlare del “cinema di Paul Thomas
Anderson”; con il suo perfezionismo tecnico, capace di portare in auge classici
del minimalismo (Fratres di Arvo Pärt), rendendoli ineditamente cinematografici,
epurandoli dallo spiritualismo – quindi secolarizzandoli – per coglierne la
trama insitamente paranoica e schizofrenica.
The Master (2012) ha molti punti in comune con Il petroliere, perlomeno quelle
parti iniziali in cui Anderson fa ambientare molto lentamente lo spettatore,
mostrandogli una serie di eventi e fatti, cose che succedono nel tempo,
raccontate quasi distrattamente, fino a cambiare improvvisamente ritmo, per
costruire dialoghi serrati e sequenze memorabili. Vizio di forma (2014) invece
punta molto sulla psichedelia, sul confine tra realtà e illusione, sull’acidità
della Storia: insomma su Thomas Pynchon. Questa cosa la condivide un po’, anche
se in maniera molto più scanzonata, con Licorice Pizza (2018). Il filo nascosto
(2017) resta il suo film più anomalo e incatalogabile. Intanto non è ambientato
come diversi altri suoi film a San Fernando Valley (dove è realmente cresciuto),
ma in Europa, più precisamente nell’Inghilterra degli anni Cinquanta.
Sembrerebbe un Ubriaco d’amore borghese, ma è quanto di più diverso. È un film
che racconta il lato oscuro dell’amore (e in generale dei rapporti umani),
ovvero i suoi capovolgimenti repentini di potere, irrazionali. Un ricco e
famosissimo stilista (Daniel Day-Lewis) può essere sottomesso da una cameriera
qualunque (Vicky Krieps) che per quasi tutto il film viene umiliata e derisa.
> Paul Thomas Anderson è un grandissimo regista hollywoodiano, capace di
> mescolare grandi e profonde tematiche all’intrattenimento, che non ha
> sbagliato un colpo. Almeno fino a quest’ultimo Una battaglia dopo l’altra.
Non è la favola del ricco che sposa la povera. È un’altra cosa: chiunque può
sottomettere il prossimo solo detenendo i mezzi materiali per farlo. Non conta
la bellezza, l’intelligenza e, addirittura, nemmeno il denaro. Conta la capacità
di costruire il potere, in qualche modo, con qualche mezzo. Anderson lo racconta
attraverso una storia antididascalica che disorienta, e fa interrogare per
giorni, portandoci a fare i conti con la parte oscura di ognuno di noi. È il
Thomas Anderson più dark e scomodo. Come per certi versi lo è anche quello di
Licorice Pizza, film dichiaratamente inattuale, ambientato nel 1973, in cui
sembra suggerire di mettere da parte tutte le mode contemporanee e lasciarsi
guidare dalla vita. Ami qualcuno? Tartassa questa persona fino a provocare un
miracolo, fino a farla innamorare, anche se prima ti considerava uno sfigato.
Fregatene di chi dice che tra trenta, quarant’anni verrai etichettato come
“stalker”. Un film che è un piccolo atto politico.
Un breve commento sulla carriera di Paul Thomas Anderson? È un grandissimo
regista hollywoodiano. Capace di mescolare grandi e profonde tematiche
all’intrattenimento, non ha sbagliato un colpo. Almeno fino a quest’ultimo Una
battaglia dopo l’altra (2025).
Si tratta del suo decimo lungometraggio, ed è senza dubbio il suo progetto più
ambizioso e dispendioso. Un film epico a tinte politiche (il cui titolo proviene
nientemeno che da una frase di Angela Davis), tratto liberamente dal romanzo
Vineland, ancora una volta di Thomas Pynchon, che ha richiesto un investimento
produttivo fuori scala per gli standard del regista. Basti pensare che la Warner
Bros. ha finanziato l’opera con un budget di circa 130-140 milioni di dollari
(su Wikipedia si parla di 130-175 milioni di dollari). Senza dubbio il più alto
mai ricevuto da Anderson in carriera.
Per confronto, la maggior parte dei suoi film precedenti è costata una frazione
di tale cifra (ad esempio Il petroliere ebbe un budget che si aggirava attorno
ai 25 milioni). Questo enorme balzo di risorse è dovuto in parte alla presenza
di Leonardo DiCaprio come protagonista: la star hollywoodiana, alla sua prima
collaborazione con Anderson, avrebbe percepito un cachet di circa 20-25 milioni
di dollari, elemento che ha convinto Warner Bros. a dare semaforo verde al
progetto. Accanto a DiCaprio troviamo un cast di alto profilo che include
veterani come Sean Penn, Benicio Del Toro e Regina Hall, oltre alla
cantante/attrice Teyana Taylor e alla giovane esordiente Chase Infiniti nei
panni dell’importante ruolo della figlia del protagonista.
> Perché Paul Thomas Anderson, autore di film spesso intimi e “senza tempo”, ha
> deciso di cimentarsi con un grande affresco politico d’azione?
Anderson ha scelto di girare il film interamente su pellicola 35mm, utilizzando
in alcune sequenze il formato VistaVision, ovvero una variante rara del 35mm che
sfrutta il fotogramma in orizzontale (8 perforazioni invece delle 4 verticali
standard), capace di offrire maggiore definizione e una resa spettacolare su
grande schermo. Questo contribuisce all’aspetto visivo sontuoso e “analogico”
dell’opera, di caratura seventies, che infatti è la prima del regista ad essere
distribuita anche in sale IMAX per esaltarne la portata spettacolare. Ancora una
volta le musiche vengono affidate a Jonny Greenwood, chitarrista dei Radiohead,
che cura le colonne sonore dei film di Anderson dai tempi di Il petroliere,
assumendo nel tempo un ruolo sempre più centrale nel suo cinema. Si va sul
sicuro, perché anche qui conferma la sua audacia, con uno score disarmonico e
monumentale al tempo stesso, che non è legato assolutamente ai sentimenti dei
personaggi e al mood della narrazione, ma anzi, è spesso usato per creare derive
o contrazioni.
Le riprese si sono svolte nel 2024 tra la California (nella contea di Humboldt e
a Sacramento) e il Texas, non senza qualche curiosità: durante i ciak a
Sacramento si è dovuto ad esempio sgomberare un campo di senzatetto che si
trovava nell’area prescelta come set. Insomma, una prima battaglia, cui ne hanno
fatto seguito sicuramente anche delle altre… La domanda sorge infatti spontanea.
Perché Paul Thomas Anderson, autore di film spesso intimi e “senza tempo”, ha
deciso di cimentarsi con un grande affresco politico d’azione? Intendiamoci, ci
sono momenti di cinema nel film, come ad esempio la scena dell’inseguimento tra
i sali e scendi delle strade in mezzo al deserto – ed è un Anderson inedito
questo, quasi da intrattenimento. C’è anche un DiCaprio in grandissima forma. Ma
perché Anderson ha deciso di fare un film esplicitamente politico?
Intanto Vineland, romanzo del 1990 in cui Pynchon, tornando al romanzo dopo
quasi due decenni, rifletteva con toni satirici e malinconici sulla fine delle
utopie rivoluzionarie degli anni Sessanta e sull’apatia dell’era Reagan, era un
testo che aveva in mente da decenni di portare sullo schermo, avendoci lavorato
per circa venti anni. Già nel 2014 il regista ammise che adattare fedelmente
Vineland sarebbe stato troppo complesso e che avrebbe preferito rubarne gli
elementi più stimolanti per farne qualcosa di proprio. Ed è in effetti ciò che
ha fatto, anche perché il film è scritto dal regista ed è invece, come appare
nei titoli, solamente “ispirato” dal libro di Pynchon: Anderson ha trasposto in
chiave contemporanea il conflitto centrale di Vineland, costruendo una storia
originale che ne rielabora temi e personaggi chiave, dal momento che per anni le
vicende di quel romanzo continuavano a tormentarlo creativamente. Un elemento in
particolare gli dava la motivazione per proseguire: il rapporto padre-figlia; un
tema che Anderson – padre di quattro figli nella vita reale – sentiva di poter
esplorare in modo personale: “Se sei un papà e giri un film su un papà che cerca
disperatamente di proteggere sua figlia, lo sentirai in modo profondo”, ha
dichiarato. Questa dimensione intima e familiare è dunque il filo emotivo e
principale che Anderson ha intrecciato attorno alla cornice politico-sociale del
racconto, nel tentativo di umanizzare una storia altrimenti incendiaria.
> Anderson ha trasposto in chiave contemporanea il conflitto centrale di
> Vineland, di Thomas Pynchon costruendo una storia originale che ne rielabora
> temi e personaggi chiave, dal momento che per anni le vicende di quel romanzo
> continuavano a tormentarlo creativamente.
Nonostante il regista non abbia mai palesemente militato in politica, i temi
affrontati in questo film segnano una svolta evidente: immigrazione, razzismo,
abusi del potere e conflitti sociali odierni vengono messi “sotto attacco” già
dalle primissime scene. Anche qui, come almeno in Il petroliere e in The Master,
la prima parte del film racconta episodicamente fatti e scene in maniera veloce,
scorrendo nel tempo, fino ad arrivare al primo snodo importante della
sceneggiatura. Nel mentre vengono mostrate situazioni estreme e volutamente
provocatorie: dal gruppo di guerriglieri anarchici modellati sui Weathermen
degli anni Sessanta, alle retate di immigrati clandestini detenuti, fino alla
caricatura di una setta segreta di fanatici suprematisti bianchi annidata
nell’establishment militare americano.
Anderson non ha mai fatto un film esplicitamente politico, sebbene alcuni suoi
film siano intrinsecamente politici. Eppure qui, non ha avuto timore di prendere
lo spettatore e gettarlo in mezzo al puro caos ideologico. In un’intervista ha
spiegato di non voler fare mera propaganda attuale: “Il più grande errore
sarebbe mettere la politica in primissimo piano”, ha detto, chiarendo che per
reggere un film di quasi tre ore servono personaggi e sentimenti solidi. Una
piccola lezione su come scrivere un film. Il suo obiettivo era intrecciare i
grandi temi con le vicende umane, in modo che lo spettatore si appassionasse
alle sorti dei protagonisti, al di là del messaggio ideologico. Non a caso, il
regista insiste che le dinamiche di Una battaglia dopo l’altra trascendono la
contingenza attuale: “Questa storia poteva essere raccontata 20 anni fa, nel
Medioevo, o persino nello spazio”, afferma Anderson, sottolineando come i
conflitti di fondo tra oppressori e oppressi siano ciclici. “Pensare che le cose
siano cambiate è un errore”, aggiunge, affermando che né il fascismo né la
cattiveria umana passano mai di moda.
> L’obiettivo di Anderson era intrecciare i grandi temi con le vicende umane, in
> modo che lo spettatore si appassionasse alle sorti dei protagonisti, al di là
> del messaggio ideologico.
Proprio questa visione circolare della storia lo ha probabilmente spinto a
realizzare il suo film più politico. Nella pellicola c’è un omaggio a Gillo
Pontecorvo (un frame dal classico del cinema politico italiano La battaglia di
Algeri, 1966). In parole povere: Anderson ha sentito che il momento era maturo
perché vicende di ribellione e repressione che lo affascinavano da anni
risuonassero con forza nel mondo di oggi (“dopo due decenni, non sono mai state
così rilevanti”).
Un aspetto peculiare di Una battaglia dopo l’altra è proprio la sua
ambientazione temporale sfuggente. Il film è dichiaratamente collocato ai giorni
nostri, con allusioni all’America post-Trump, eppure, l’estetica e i riferimenti
culturali richiamano spesso gli anni Sessanta/Settanta: lo stesso gruppo French
75 è modellato sui movimenti radicali di quell’epoca (come detto, gli Weathermen
americani), mentre il personaggio di Perfidia sembra uscito da un film
blaxploitation di inizio anni Settanta, come quelli impersonati da Pam Grier,
con il suo stile aggressivo e slogan incendiari. Anderson ha di proposito creato
un presente “sospeso” e anacronistico, in cui tecnicamente siamo nel Ventunesimo
secolo ma tutto – dai costumi, alle musiche rock psichedeliche, fino ai metodi
da guerriglia vintage – ricorda l’iconografia delle vecchie rivoluzioni. Il
presente appare “macchiato” dal passato, quasi fossimo di fronte a una realtà
parallela in cui il tempo non è progredito.
Da un lato, questa scelta rinforza uno dei messaggi chiave del film – ovvero che
gli ideali e i conflitti di ieri ritornano immutati oggi, in un eterno ciclo. Le
immagini di manifestazioni, repressioni violente e complotti ricordano
volutamente quelle che vediamo nei cinegiornali d’archivio tanto quanto nei
telegiornali attuali. D’altro canto, questa ibridazione temporale rischia di
confondere lo spettatore. La narrazione non chiarisce mai del tutto in che anno
preciso ci si trovi, e alcuni elementi risultano volutamente fuori dal tempo: ad
esempio, le giovani reclute del French 75 comunicano con codici e rituali quasi
da cultura hippie, oppure brandiscono armi analogiche come fossero in un vecchio
film di guerriglia, mentre i loro nemici complottano in salotti massonici rétro.
Questa scelta artistica può essere affascinante – dona al film un’aura da
allegoria universale – ma allo stesso tempo può apparire artificiosa. Una
battaglia dopo l’altra finisce per raffigurare un oggi immaginato tramite il
filtro dei ricordi storici. La battaglia generazionale messa in scena – con
giovani rivoluzionari confusi ma pieni di entusiasmo, contrapposti a vecchi
potenti corrotti e reazionari – sembra quasi figlia di un altro periodo, e non
sempre coglie le specificità del mondo contemporaneo. Sicuramente i giovani
rivoluzionari di oggi sono confusi, ma tanto per cominciare non mettono più le
bombe – nel bene e nel male.
> Una battaglia dopo l’altra finisce per raffigurare un oggi immaginato tramite
> il filtro dei ricordi storici. La battaglia generazionale messa in scena
> sembra quasi figlia di un altro periodo, e non sempre coglie le specificità
> del mondo contemporaneo.
Un elemento centrale del film è infatti proprio la rappresentazione della
gioventù ribelle. I ragazzi del French 75 vengono mostrati come idealisti
appassionati ma disorganizzati. Agiscono più per istinto e furia contro “il
sistema” che con un piano coerente: fanno esplodere bombe, derubano banche,
attaccano simboli del potere in modo quasi casuale. Tutte cose oggi impossibili
da fare, proprio perché non siamo più negli anni Settanta. Questa confusione
strategica, unita alla modalità fantasiosa ispirata al passato, è in parte
voluta: Anderson sembra suggerire che la rabbia giovanile odierna sia autentica
ma priva di una direzione unitaria, frammentata in gesti isolati. In una scena
chiave, Perfidia urla che “la violenza rivoluzionaria è l’unica via”, incitando
i compagni alla lotta armata, ma allo stesso tempo un personaggio osserva
amaramente che “le rivoluzioni iniziano contro dei demoni, e finisce che quei
demoni combattono loro stessi”. È un riconoscimento del rischio insito in questi
movimenti: l’implosione interna, la perdita di vista del nemico originale.
Un altro dei punti deboli del film è proprio l’assenza di un nemico
esplicitamente riconosciuto. O, al contrario, forse semplicemente troppo
riconoscibile. Anderson dice di non voler mettere la politica in primo piano,
facendo di tutto per camuffare il nemico, addirittura provando a confonderci con
la dimensione temporale, eppure ciò che emerge dalla pellicola sembra essere
molto schiettamente un film contro l’era Trump, come tanti altri. Tra l’altro,
Una battaglia dopo l’altra è stato vittima di un selvaggio review bombing da
parte del movimento MAGA (Make America Great Again), la destra trumpiana, che,
evidentemente si è sentita chiamata in causa, e ha iniziato a dare una stelletta
sui vari siti di recensioni cinematografiche, nonostante gli altri voti
altissimi.
> Un altro dei punti deboli del film è proprio l’assenza di un nemico
> esplicitamente riconosciuto. O, al contrario, forse semplicemente troppo
> riconoscibile.
DiCaprio, parlando del film, ha spiegato che Anderson ha voluto mostrare
“l’estremismo da entrambi i lati” dello spettro ideologico per riflettere su
“dove siamo nella società oggi”. Il risultato di questa scelta è che non c’è un
antagonista monolitico e chiaro contro cui tifare: i “cattivi” sono ovviamente
identificabili (il colonnello e i suoi accoliti razzisti), ma anche i “buoni”
rivoluzionari hanno le loro colpe ed eccessi. Potrebbe apparire così sulla
carta, se non fosse che i cattivi sono rappresentati come vecchi bavosi,
razzisti, misogini, omofobi col culto del corpo che però sotto sotto sono anche
attratti dal proprio stesso sesso, e per questo sono repressi, mentre i buoni
sono impersonati da donne “cazzutissime” che aggirano il potere senza il minimo
problema o sforzo. Magari fosse tutto così semplice!
Il personaggio interpretato da Sean Penn è talmente parodistico da risultare
imbarazzante. Non dovrebbe ricordare nessuno di realmente esistito, eppure
quando a un certo punto del film appare sfigurato nel volto somiglia in maniera
impressionante all’ufficiale nazista Otto Skorzeny: colui che fu a capo
dell’Operazione Quercia, ovvero quell’intervento che su ordine di Hitler,
permise la liberazione di Mussolini, tenuto prigioniero a Campo Imperatore, sul
Gran Sasso, dopo essere stato arrestato nel luglio del 1943. Inoltre, dopo le
apparizioni di Sean Penn al festival di Cannes con i soldati dell’esercito
ucraino al suo fianco, coinvolgerlo in progetti rappresenta per certi versi
anche questo un piccolo gesto politico.
Per concludere, se l’intento era quello di fomentare nello spettatore un senso
di urgenza e indignazione verso i mali del presente, questa narrazione rischia
di lasciarlo spiazzato, chiedendogli di parteggiare per una causa che appare
quantomeno confusa – se si cerca, come suggerisce il regista, di andare oltre
alla battutissima critica trumpiana di questi tempi. In altre parole, Paul
Thomas Anderson ha sempre saputo trasformare l’epoca rappresentata in un
dispositivo universale; qui invece è l’oggi a risultare opaco, filtrato da un
immaginario che appartiene ad altri decenni.
L'articolo Una battaglia apolitica dopo l’altra proviene da Il Tascabile.
È (già) tempo di tracciare un bilancio per Alex Garland. In relativamente pochi
anni di carriera ha costruito opere di densità e rilevanza imprescindibili, per
presa sulla contemporaneità e coraggio di intraprendere riflessioni filosofiche
in un’epoca ostile al pensiero (libero, ma non solo). Ogni suo film assomiglia a
una profezia, e non di quelle rassicuranti: più vicina a Cassandra che a
Nostradamus, più a un Palantír di Mordor che a una sfera di cristallo. Con quel
sesto senso proprio di chi è stato toccato da un’intelligenza superiore Garland
arriva semplicemente prima degli altri, in virtù di un meccanismo di autodifesa
contro la mediocrità e di un sottile sentimento antiamericano, tipico di una
britishness in via di estinzione. Seppur arrivando per tempo al problema,
Garland non ne esce con delle risposte chiare e distinte. La sua esposizione del
dubbio, la sua “verifica incerta”, testimonia con lucidità la difficoltà estrema
di raccontare il presente, di discernere la verità, di capire da che parte
stare. Il che non significa “fare di viltà il gran rifiuto”, bensì arrendersi
alla insensata e fuggevole complessità di un mondo che è, innanzitutto, troppo
veloce per essere afferrato e compreso.
Ad accomunare Ex Machina (2014), Annientamento (2018) o Civil War (2024) è
l’ipercinesia che non lascia spazio all’elaborazione di un pensiero, che obbliga
a una deriva istintuale, sovente quasi ferina. Uscito in sala con un tempismo
mirabile, Civil War ha suscitato inevitabili discussioni, talora facete – perché
proprio la California very Blue State e il Texas very Red State come alleati in
chiave secessionista? – ma ha saputo tradurre in immagini di rara ferocia quella
deriva autodistruttiva inestricabilmente legata a un Paese-bambino come gli
Stati Uniti, armato fino ai denti e dilaniato da divisioni interne sempre più
esacerbate. Un discorso di cui Warfare (2025, in sala dal 21 agosto in Italia) –
codiretto con il reduce di guerra Ray Mendoza – è la naturale prosecuzione: il
passaggio da un ipotetico scenario di conflitti futuri a uno effettivo del
passato prossimo (la seconda guerra in Iraq) comporta un ulteriore spostamento
della soggettiva. Warfare non è un pamphlet antimilitarista, così come Men
(2022) non è un banale pamphlet contro la mascolinità tossica. L’ambivalenza del
primo – l’immersione nel dettaglio bellico a livello di singolo uomo che altera
il linguaggio, ricco di acronimi fino all’esoterismo – si riflette
nell’ambiguità del secondo (sono gli uomini a essere “tutti uguali” o è la
protagonista a vederli così?).
> Civil War ha saputo tradurre in immagini di rara ferocia quella deriva
> autodistruttiva inestricabilmente legata a un Paese-bambino come gli Stati
> Uniti, armato fino ai denti e dilaniato da divisioni interne sempre più
> esacerbate.
Warfare non è un film sulla guerra o contro la guerra. È un film della guerra.
In cui il conflitto è la soggettiva, ignorante e acritica, così immersa nel
proprio presente eterodiretto da risultare cieca a ogni elemento esterno. Una
forma di alienazione radicale, che può essere “preparata” assumendo dosi di
immagini, attraverso il filtro della distorsione mediatica – il video di Eric
Prydz a cui assistono i soldati e con cui si apre il film. Smettere di pensare e
astenersi dal dover esercitare il libero arbitrio sembra essere l’unica via.
Perché per Garland e Mendoza il videogioco-già-giocato-da-qualcuno è l’unica
metafora possibile per una tecnica e una tattica di combattimento (il titolo è
Warfare, infatti) che hanno rimosso il lato umano fino al puro nonsense. Per i
Navy Seals asserragliati in un’abitazione irachena il passaggio dalla baldanza
al panico è rapido, almeno quanto la transizione da esseri umani a oggetti. Dopo
l’esplosione improvvisa e il ferimento grave di due soldati, avviene la
reificazione. L’insensibilità alle casualties of war è il male necessario di un
conflitto impossibile da osservare nella sua interezza e complessità.
Nascondendosi negli acronimi di un gergo bellico imperscrutabile, i Navy Seals
si rifugiano in un microcosmo alienante quanto serve.
Se Civil War e Warfare esplorano le fratture geopolitiche e il potere
distruttivo delle narrazioni, è anche perché Garland vede il cinema come un
campo di battaglia per le idee. Il suo rifiuto di schierarsi in maniera
didascalica non è neutralità, ma consapevolezza che il linguaggio stesso è
un’arma. In un panorama dominato da franchising e riscritture rassicuranti, la
sua ostinazione a creare mondi autonomi, non negoziabili, lo rende un autore
raro. E se la profezia è una maledizione per chi la formula, Garland sembra
averla accettata come condizione del mestiere: guardare un passo oltre, pur
sapendo che nessuno ascolterà in tempo.
> Garland vede il cinema come un campo di battaglia per le idee. Il suo rifiuto
> di schierarsi in maniera didascalica non è neutralità, ma consapevolezza che
> il linguaggio stesso è un’arma.
Volendo individuare un protagonista incognito e ricorrente delle opere di Alex
Garland, occorre concentrarsi sul libero arbitrio, esplicitamente citato nella
serie TV del 2020 che il regista ci ha costruito attorno: DEVS, con ogni
probabilità la migliore serie degli ultimi dieci anni (e naturalmente inedita in
Italia). Uno spy-thriller sulla Silicon Valley costruito attorno a un’invenzione
misteriosa, che si trasforma gradualmente in riflessione filosofica sul libero
arbitrio e sulla predeterminazione del comportamento umano, come se fosse
possibile calcolare in maniera deterministica azioni e reazioni. Il confine tra
tecnologia, filosofia e magia è felicemente abbattuto, per la gioia di Arthur C.
Clarke (“Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla
magia”). Tecnicamente perfetta, densissima nei dialoghi e impreziosita da una
delle migliori battute sulla capacità tutta americana di nascondere e edulcorare
le peggiori verità, concentrandosi sul messaggio e sminuendo la sostanza, in una
contrapposizione degna di Le Carré con l’onesta nudità del male di matrice
russa.
La poetica di Garland, in fondo, è sempre un laboratorio di esperimenti
concettuali ‒ in cui la trama è un vettore, non il fine ‒, e di interrogativi
insoluti: cosa succede se un’Intelligenza artificiale diventa cosciente (Ex
Machina)? Se la natura riformula le sue leggi (Annientamento)? Se il conflitto
armato viene percepito come routine in cui annullarsi (Warfare)? Se un trauma
personale deforma l’intero spettro delle relazioni (Men)?
> In Annientamento, forse il manifesto della poetica garlandiana,
> l’inaffidabilità dell’immagine è totale, la sua paternità ignota. Forse ciò
> che vediamo è attribuibile a una spora che sembra riformulare la natura e
> ricalcolarla.
In quest’ultimo caso, quello di Men, Garland compie un passo rischioso: spoglia
il racconto di sovrastrutture fantascientifiche e lo riduce a un incubo
allegorico, in cui un solo attore (Rory Kinnear) incarna tutte le figure
maschili, moltiplicando l’effetto perturbante. Forse il lavoro meno riuscito di
Garland, o comunque il più problematico, ha suscitato critiche spesso
fuorvianti, legate alla lettura più superficiale del film. Soffermarsi sulla
parabola MeToo e su come la mascolinità tossica si annidi in ogni maschio
significa dimenticare che osserviamo ogni dettaglio attraverso lo sguardo
deformante e traumatizzato della protagonista, senza altri punti di vista. E
quindi ancora una volta discernere soggettività e oggettività, predeterminazione
e libertà di scelta diviene esercizio impossibile. Allo spettatore resta la
possibilità di osservare attraverso un vetro colorato, opaco. Come per lo Harry
Caul di La conversazione (1974), ottenere la certezza di una visione chiara e
distinta è arduo e opinabile quanto ricavare l’audio di una conversazione
privata priva di manipolazioni.
In Annientamento, forse il manifesto della poetica garlandiana, l’inaffidabilità
dell’immagine è totale, la sua paternità ignota. Forse ciò che vediamo è
attribuibile a una spora che sembra riformulare la natura e ricalcolarla, in
direzione uguale e opposta a quanto elaborato dall’Intelligenza artificiale del
lungometraggio di debutto, Ex Machina. Là era un costrutto artificiale a
divenire “more human than human”, e quindi manipolatorio e bugiardo; in
Annientamento è una forza aliena “ecologista” a cambiare le regole del gioco ed
escludere il fattore umano dall’equazione. La resa a un ordine che sfugge a
qualsiasi mappa razionale rimanda, più ancora che ai sinistri vaticini di H.P.
Lovecraft, al suo maestro Arthur Machen, che celava nel folklore rurale delle
terre britanniche misteri cosmici al di là dell’umana comprensione, tra
ribellioni della natura (The Terror, 1917) e sfoghi di violenta sessualità
pagana (The Great God Pan, 1894). Difficile escludere una influenza esplicita di
Machen quando la protagonista di Men mette piede in una chiesa isolata, in cui
spicca un altare istoriato di inquietanti bassorilievi. Gli strumenti del
terrore misterico rimangono gli stessi: dal tempo dell’inizio Novecento di
Machen al terzo millennio di Garland, più la specie umana si avvicina alla
presunzione di onniscienza e più si allontana dalla conoscenza intima
dell’ignoto, in un ciclo privo di fine apparente.
L'articolo Alex Garland: DEVS EX MACHINA proviene da Il Tascabile.
M illenovecentonovantadue. “Lo stile di vita americano non è negoziabile”
afferma perentorio George W.H. Bush al Summit della Terra, dando così inizio
anticipato al ventunesimo secolo. Mike Judge ha trent’anni e ha appena venduto
Frog Baseball, il suo primo cortometraggio animato, a MTV. Quell’american way of
life sbandierata da Bush lo ossessionerà per tutta la sua carriera di animatore,
sceneggiatore e regista, fino a diventare il centro gravitazionale di tutto il
suo universo comico, in equilibrio precario tra sarcasmo e barbarie. Nei due
minuti e cinquantotto secondi di Frog Baseball esordiscono i suoi personaggi più
celebri, Beavis e Butt-Head, due giovani metallari perdigiorno che seviziano
degli animali in modi molto creativi alternando le violenze ai riff, cantati a
cappella, di Iron Man dei Black Sabbath e Smoke on the water dei Deep Purple.
Con l’arrivo del corto su MTV, Mike Judge entra di fatto nel rooster della
mitologica Liquid Television, un carosello di short animati a cui devono la
propria fama diversi altri capolavori dell’animazione come Æon Flux o Brad
Dharma, Psychedelic Detective.
Nato a Guayaquil in Ecuador, nel 1962, da madre bibliotecaria e padre
archeologo, a tre anni Mike si trasferisce con la famiglia in una fattoria ad
Albuquerque, nel New Mexico. Finito il liceo si sposta a San Diego dove ottiene
una laurea in fisica alla University California San Diego nel 1985. L’anno
successivo inizia a lavorare a Santa Monica, nella ruggente Silicon Valley, in
un’azienda che produce schede video per computer, tre mesi dopo si licenzia. Per
diversi anni suona come bassista in oscure blues band texane mentre segue un
corso di specializzazione superiore in matematica all’università del Texas. È in
questo periodo che comincia a cimentarsi con l’animazione. Crea il suo primo
corto: Office Space, in cui appare come protagonista Milton, un impiegato
frustrato che, tra un’angheria e l’altra del capo, balbetta tra sé di voler dar
fuoco all’azienda; ai tempi doveva probabilmente apparire come una versione punk
e apocalittica di Dilbert, la celebre striscia feriale di Scott Adams. Riesce a
presentare il corto in un festival di animazione a Dallas e Comedy Central lo
acquista. Nel giro di qualche anno Office Space, rinominato Milton come il suo
protagonista, diventerà un siparietto fisso nel Saturday Night Live.
Nel frattempo Judge lavora per espandere le avventure dei due protagonisti
apparsi in Frog Baseball, dando vita all’omonima serie, Beavis and Butt-Head,
che dal 1993 va in onda su MTV, divenendo la risposta hardcore punk del network
al recente successo dei Simpson di Matt Groening. Nel giro di qualche puntata si
conferma una delle serie animate per adulti di maggior successo negli Stati
Uniti, archetipo, insieme all’opera di Groening di una nuova forma di animazione
per adulti, che verrà sviluppata da South Park (1997) e dai Griffin (1999).
> La serie di animazione Beavis and Butt-Head di Mike Judge, che dal 1993 va in
> onda su MTV, diviene la risposta hardcore punk del network al recente successo
> dei Simpson di Matt Groening.
Nel 1996 Judge si confronta con il cinema, scrive e dirige il film d’animazione
Beavis and Butt-Head do America in cui partecipano anche star umane come Bruce
Willis e Demi Moore. Sessantatré milioni di dollari al box office. L’anno
successivo ritorna in TV con una nuova serie, King of the Hill, scritta insieme
a Greg Daniels (The Simpson, The Office, Park and Recreation), che continuerà ad
andare in onda su FOX per una decina di anni.
Mentre il successo gli sorride, Judge decide di abbandonare per la prima volta
l’animazione e confrontarsi con un film live action, il remake di un’opera di
animazione realizzato con attori reali. Scrive così la sceneggiatura per un
lungometraggio ispirato alla sua serie di corti ambientati in ufficio.
Riproposto con il suo nome originale, Office Space esce nei cinema nel 1999 ed è
un fiasco, rientra appena delle spese di produzione (dieci milioni contro i
dodici guadagnati). Il film è l’occasione per riproporre molte delle gag della
serie animata originale calandole in una inedita cornice politica, quasi
sindacale.
Peter Gibbons, il protagonista e collega di Milton, è anche lui un impiegato
frustrato della Initech, una software house texana. Insofferente al suo monotono
lavoro d’ufficio e costantemente sopraffatto dai rimproveri passivo-aggressivi
dei suoi otto capi, Peter viene convinto dalla sua ragazza a intraprendere delle
sedute di psicoterapia. Seduto sulla poltrona confessa allo psichiatra che da
quando ha iniziato a lavorare “ogni singolo giorno della mia vita è stato
peggiore di quello precedente; questo significa che ogni singolo giorno che ci
incontriamo qui, quello è il giorno peggiore della mia vita”. Il dottore,
impressionato dalla sua tristezza, gli propone un percorso di ipnosi, ma durante
una delle sedute, mentre cade in trance con la proposizione di “ignorare tutte
le sue preoccupazioni riguardo il suo lavoro, fino a quando non schioccherò
nuovamente le dita”, lo psichiatra muore per un attacco cardiaco. Peter, ancora
incosciente, torna a casa e si risveglia il mattino successivo in uno stato di
inedito benessere. Niente è cambiato tranne che, nonostante non si sia
presentato a lavoro, gli infiniti messaggi del capo nella segreteria telefonica
non lo turbano più.
Comincia così a ignorare completamente le preoccupazioni per il lavoro e la sua
vita si riempie nuovamente di senso: chiude la sua vecchia relazione in costante
crisi e chiede di uscire alla ragazza che ammirava da tempo. Ottiene addirittura
una promozione al lavoro quando impressiona una coppia di headhunter, chiamati a
efficientare l’azienda, confessando di “lavorare appena quindici minuti ogni
giorno e il resto del tempo fissare la sua scrivania” e che proprio alla
struttura dell’azienda si deve la sua totale assenza di motivazione sul lavoro:
“Ho otto capi. Questo significa che quando faccio un errore ci sono otto diverse
persone che vengono a farmelo notare. Questa è la mia sola motivazione: evitare
di essere scocciato”. Gibbons è insomma un impiegato in quiet quitting che,
attraverso una forma artificiale di rimozione della responsabilizzazione
introiettata sul lavoro, ritrova la libertà di affermare sé stesso in un mondo
nel quale non era che un ingranaggio anonimo.
È questo il primo distillato del cinema di Mike Judge che tornerà in ognuno dei
suoi film: prendere l’impalcatura della rom-com per sviluppare al suo interno un
tema politico. Nonostante i risultati altalenanti, l’intuizione è efficace e
permette al film di sviluppare una profonda riflessione sui i lati più
disumanizzanti dello sfruttamento lavorativo.
La svolta decisiva nel film avviene quando Gibbons e due suoi colleghi che
stanno per essere licenziati, decidono di truffare l’azienda con un virus
informatico che devia microtransazioni sul loro conto bancario, “come succede in
Superman 3, un film davvero sottovalutato”. Dopo varie peripezie e sul punto di
venire scoperti, Peter decide di restituire il denaro con un assegno e lascia
nell’ufficio del capo una lettera in cui confessa la truffa. Proprio quel
giorno, dopo l’ennesima angheria, Milton decide finalmente di dare fuoco
all’azienda, che brucerà insieme alle prove del misfatto.
> In Office Space è presente un aspetto del cinema di Mike Judge che tornerà in
> ognuno dei suoi film: prendere l’impalcatura della rom-com per sviluppare al
> suo interno un tema politico.
Sono i classici temi dell’alienazione e della reificazione, ampiamente esposti
da Karl Marx nelle sue teorizzazioni sulla struttura del lavoro nella società
capitalista quelli su cui si concentra la trama del film. L’alienazione è lo
stato in cui si trova l’uomo quando non riconosce più nel lavoro (nella sua
organizzazione, nei suoi strumenti, nei suoi prodotti) una parte di sé, una sua
creazione, ma gli appare come qualcosa che sfuggendo alla sua volontà si pone
contro di lui, un ostacolo alla spontanea ricerca di felicità e realizzazione. È
un conflitto che ricorda quello tra il dottor Frankenstein e la sua creatura, se
soltanto il primo soffrisse di un’amnesia che non gli permettesse più di
riconoscerla come un frutto del suo ingegno. La reificazione, in breve, è la
naturalizzazione di questo stato: l’uomo crede di riconoscere nello stato
transitorio imposto dalle logiche dello sfruttamento una legge di natura.
Continuando la lettura marxista, il film incappa proprio in quella che era la
maggiore forma di ribellione operaia con cui il giovane Marx si era duramente
confrontato: il luddismo. In una delle scene finali del film infatti vediamo
Peter abbandonare l’ufficio per l’ultima volta, insieme ai suoi due complici,
Michael e Samir, e portare con sé una delle fotocopiatrici. La macchina sarà la
protagonista di una lunga scena di “pestaggio luddista” con tanto di
slow-motion, mazze da baseball e gangsta rap in sottofondo.
Mentre in Office Space i temi dell’alienazione e della reificazione restano
confinati al mondo dell’ufficio, di cui esiste ancora un fuori, un mondo esterno
fatto di amicizie, bevute e barbecue in cui si può evadere, nella sua opera
successiva Mike Judge porterà queste minacce alle estreme conseguenze fino a
coinvolgere l’intera società e infiltrarsi profondamente nelle facoltà cognitive
dell’umanità intera.
Nel 2006, con il suo terzo film, Idiocracy, Judge si confronta per la prima
volta con la fantascienza. Il film si apre con un’epica voce fuoricampo che,
mentre assistiamo all’avvicinarsi sullo schermo del globo terrestre fluttuante
nello spazio, ci introduce alla premessa distopica:
> L’evoluzione umana era giunta a una svolta. La selezione naturale, il processo
> per cui il più forte, più intelligente, più veloce, si riproduce in maniera
> maggiore rispetto agli altri, il processo che un tempo aveva favorito gli
> aspetti più nobili dell’uomo adesso favoriva caratteristiche diverse. La
> maggior parte della fantascienza dell’epoca aveva predetto un futuro più
> civilizzato e più intelligente, ma più il tempo passava, più le cose
> sembravano andare nella direzione opposta: un istupidimento generale. Com’era
> potuto succedere? L’evoluzione non premia necessariamente l’intelligenza.
> Senza predatori naturali ad assottigliare il branco iniziò a premiare coloro
> che si riproducevano di più e lasciò che gli intelligenti diventassero una
> specie in via d’estinzione.
Non è, evidentemente, la più raffinata delle ipotesi di biologia speculativa, ma
c’è anche di peggio: il problema, in cui incappa Mike Judge al minuto uno del
film, implicito nella sua stessa premessa (darwinismo sociale), e ben più
problematico, è l’eugenetica.
Incomincia così la memorabile sequenza (un case study, ci suggerisce la scritta
in sovraimpressione) in cui vediamo due coppie confrontarsi con la propria
intenzione di procreare in un frenetico montaggio alternato: per Trevor e Carol,
dall’alto quoziente intellettivo, “avere figli è un’importante decisione”,
“aspettiamo il momento giusto” (all’unisono, guardandosi negli occhi) “non
vogliamo farlo senza riflettere”; Trish invece entra in cucina mentre Clevon sta
bevendo una birra e gli urla: “oh merda sono di nuovo incinta”; apprendiamo
dall’albero genealogico in sovraimpressione che questo è il loro quinto figlio.
Le scene continuano a susseguirsi in un’escalation grottesca che avanza di
quinquennio in quinquennio: Trevor e Carol constatano sereni che “non possiamo
permetterci un figlio adesso, non con l’attuale congiuntura finanziaria”; nel
frattempo Clevon ha avuto due figli anche con la vicina di casa Britney e uno da
Mckenzie che lo sta inseguendo con un bastone; Trevor e Carol, finalmente decisi
al grande passo, non riescono a ottenere una gravidanza e battibeccano sul
possibile ricorso all’inseminazione artificiale; intanto Clevon Jr., quarterback
della squadra locale e primogenito di Clevon, nonostante si sia impalato con i
genitali su un cancello in seguito a un incidente con una moto d’acqua, grazie
ai progressi scientifici nel campo delle cellule staminali è riuscito comunque
ad avere diversi figli con le cheerleaders del suo liceo; purtroppo Trevor è
morto per un infarto mentre si masturbava per ottenere lo sperma per
l’inseminazione artificiale, Carol incrociando le dita dice di aver congelato i
suoi ultimi ovuli, “per quando arriverà l’uomo giusto”; l’albero genealogico di
Clevon nel frattempo si espande fino a straripare dallo schermo; “andò avanti
così per generazioni” annuncia, piena di pathos, la voce fuori campo.
> In Idiocracy i due partecipanti a un esperimento segreto di ibernazione si
> ritrovano nel 2505 in un mondo dove regna la più totale stupidità. Ma quello
> in cui vediamo risvegliarsi i due protagonisti non è poi così dissimile dal
> nostro 2025.
Esposto il presupposto teorico dell’intreccio narrativo, il film si sviluppa
come una scanzonata commedia fantascientifica in cui seguiamo le avventure di
Joe Bauers, bibliotecario dell’esercito, e Rita, una prostituta, scelti per i
loro parametri cognitivi “perfettamente nella media”, per partecipare a un
esperimento segreto di ibernazione della durata di un anno. Qualcosa ovviamente
va storto e i due si ritrovano nel 2505 in un mondo dove regna la più totale
stupidità. Ma quello in cui vediamo risvegliarsi i due protagonisti non è poi
così dissimile dal nostro 2025 (di cui è pure una sorta di anagramma numerico).
Prendiamo il primo incontro di Joe, che piomba per sbaglio nella casa di Frito
Pendejo, quello che più avanti nel film diventerà il suo avvocato. Lo trova
seduto, su una poltrona con gabinetto integrato, mentre guarda un grande schermo
contornato di pubblicità su cui va in onda Ow! My balls!, una serie
interminabile di video in cui il protagonista incappa in vari incidenti che
hanno a che fare con i suoi genitali. Una situazione familiare che non può non
ricordarci quella di una seduta mattutina al bagno mentre ci frastorniamo con
centinaia di clip su TikTok.
Joe e Frito, durante tutta la parte centrale del film, ci accompagnano in varie
peripezie, permettendoci di scoprire come funziona la società del futuro: mentre
le insegne delle attività commerciali hanno adottato nomi sempre più volgari
(bambini festeggiano il compleanno dalla famosa catena di fastfood Buttfuckers),
i vari indumenti che le persone indossano non sono che patchwork pubblicitari di
una moltitudine di brand e Joe, nonostante parli il suo inglese medio, ha grandi
difficoltà a comunicare con chiunque: ogni volta scatena una reazione violenta
in chi lo ascolta perché, come ci avverte la solita voce fuori campo, la sua
lingua rispetto a quella corrente suona davvero “pompous and faggy”. Ancora:
negli ospedali si accumulano le slot machine, il film di maggior successo
dell’anno si chiama Ass ed “è esattamente quello, per novanta minuti” (un culo
su uno schermo). Joe finirà persino per incontrare il presidente degli Stati
Uniti Dwayne Elizondo Mountain Dew Herbert Camacho, un ex wrestler che ha
trasformato la Casa bianca in una corrida di macchiette untuose da talent show.
Una classe politica non dissimile da quella che è possibile ammirare oggi nel
secondo governo Trump.
Ogni azione (ricordiamolo: siamo nel futuro) è tecnologicamente determinata,
dalle diagnosi negli ospedali, alla videosorveglianza onnipervasiva, dalla
gestione carceraria fino alla identità stessa dell’individuo, esposta
costantemente al controllo delle forze dell’ordine tramite un codice a barre
tatuato sul polso. Tutto così assurdo eppure stranamente familiare, come nella
migliore fantascienza. Con una forzatura ermeneutica possiamo provare a
ipotizzare, con il senno di poi, che un così plateale declino cognitivo, invece
che da una selezione genetica, potrebbe essere stato causato proprio dall’uso di
quelle tecnologie compiacenti che, in Idiocracy, vediamo radicate profondamente
nella vita quotidiana della società.
Tanto nella fantascienza di Judge, quanto nel nostro presente, viviamo in una
società ipertecnologica che, deresponsabilizzando l’individuo in ogni sua
mansione pratica e lo porta a un inaridimento cognitivo dovuto all’oblio del
processo stesso, demandato ormai da tempo, soltanto alla macchina. È la
situazione che André Gorz, filosofo francese, in L’immateriale (2003),
interrogandosi se l’umanità sia ancora soggetto o oggetto della propria
evoluzione tecnologica, rintraccia nelle nuove forme di capitalismo cognitivo:
> gli apparati megatecnologici, ritenuti dominare la natura e sottometterla al
> potere degli uomini, assoggettano gli uomini agli strumenti di quel potere. Il
> soggetto sono loro: questa megamacchina tecnoscientifica che ha abolito la
> natura per dominarla e che costringe l’umanità a mettersi al servizio di
> questo dominio. Lo sviluppo delle conoscenze tecnoscientifiche cristallizzate
> nel macchinario del capitale, non ha generato una società dell’intelligenza ma
> una società dell’ignoranza. La grande maggioranza conosce sempre più cose, ma
> ne sa e ne comprende sempre meno.
In Idiocracy le piante vengono annaffiate da anni con una bevanda energetica
chiamata Brawndo – The thirst mutilator. Lo scopriamo quasi alla fine del film,
quando realizziamo che tutto il mondo è preda di una carestia di cui non si
conoscono le cause. Nel frattempo Joe aveva aperto un lavandino e visto uscire
la bevanda verde fluorescente invece dell’acqua, una tra le tante stranezze.
Tutto il mondo in realtà ha sostituito da tempo e ovunque l’acqua col Brawndo;
quando Joe chiede dell’acqua gli viene risposto ridendo “quale? quella del
cesso?”; quando chiede il perché di questa sostituzione gli viene risposto
“perché Brawndo ha gli elettroliti!”, ma nessuno, Joe compreso, sa cosa siano
questi elettroliti.
> Tanto nella fantascienza di Judge, quanto nel nostro presente, viviamo in una
> società ipertecnologica che, deresponsabilizzando l’individuo in ogni sua
> mansione pratica e lo porta a un inaridimento cognitivo dovuto all’oblio del
> processo stesso, demandato ormai da tempo, soltanto alla macchina.
Torna, come in Office Space, il tema dell’alienazione e della reificazione, ma
in Idiocracy la sua pervasività è completa, l’ottusità tecnocratica della
software house ha infiltrato l’intera società e come l’ufficio era destinato a
bruciare alla fine del film precedente, qui il mondo, reso sterile dall’eccesso
di sali minerali contenuti nella Brawndo sembra destinato a inaridirsi e
collassare.
L’apocalisse appare imminente perché anche il bene primario alla base della vita
terrestre, l’acqua, ha subito un processo di completa risignificazione
mercantile, è mancante di una qualche proprietà fondamentale (i decantati
elettroliti) e, in quanto gratuita e disponibile, non può avere valore, o se lo
ha deve essere regolamentata. È proprio questo il modo in cui Gorz illustra il
rapporto fagocitante tra capitalismo e natura: “l’abolizione della natura ha
come motore non il progetto demiurgico della scienza, ma il progetto del
capitale di sostituire alle ricchezze prime, che la natura offre gratuitamente e
che sono accessibili a tutti, delle ricchezze artificiali e mercantili:
trasformare il mondo in merci di cui il capitale monopolizza la produzione,
ponendosi in tal modo come padrone dell’umanità”.
Quando Joe viene infine riconosciuto come l’uomo più intelligente del mondo e
assoldato dal presidente Camacho come ministro degli Interni per risolvere il
problema della siccità, propone banalmente di sostituire della semplice acqua
alla bevanda energetica usata nell’irrigazione dei campi ormai infertili. Prima
che, tra lo sgomento di tutti, la soluzione si riveli efficace, il presidente
viene contattato dal CEO della Brawndo Corporation in preda al panico, le azioni
stanno crollando e il computer ha eseguito autonomamente i licenziamenti
necessari a riassestare la società, metà della popolazione del Paese si ritrova
disoccupata e inferocita invade la Casa bianca: vogliono la testa di Joe. La
messa in scena del film è decisamente più sobria rispetto all’attacco a Capitol
Hill del 2021.
Lo scambio reciproco di soggetto e oggetto che Gorz vede nel rapporto odierno
tra esseri umani e tecnologia digitale non determina soltanto un inedito
slittamento di potere ma anche un capovolgimento delle influenze ideologiche
attive in questo campo di forze. Quella che Marcuse definiva la razionalità
tecnologica, l’ideologia della classe dominante di cui è imbevuto ogni prodotto
tecnologico da questa progettato, in una società in cui la tecnologia è ormai
soggetto autonomo dell’esistente, da strumento del potere diventa essa stessa
creatrice di una propria ideologia autonoma che l’uomo subisce passivamente.
L’umanità aspira infine a quell’assenza di pensiero (istupidimento), a
quell’automatismo freddo (deresponsabilizzazione) che è una caratteristica
intrinseca della macchina.
Non stiamo già decantando tutti da anni le virtù sorprendenti dell’Intelligenza
artificiale? Sentendoci in pericolo, dipendenti, aspirando infine alla sua
velocità e abilità tecnica? Quanto abbiamo dovuto sminuire la vita umana in sé
per paragonarci a efficienti dispositivi digitali e quanto della visione attuale
dell’uomo come semplice macchina pensante è implicita in questo schema di
pensiero? Continua Gorz: “l’uomo è ‘obsoleto’, bisogna dotarlo di protesi
chimiche per ‘tranquillizzare’ il suo sistema nervoso stressato dalle
aggressioni che subisce e di protesi elettroniche per aumentare le capacità del
suo cervello”.
Come si esce da tutto ciò? Un testo recente, Hacking del sé (2024), l’ultimo
contributo del lavoro ormai decennale del collettivo Ippolita, un centro di
ricerca indipendente che si occupa di filosofia dell’informatica e
tecnopolitica, può essere una guida utile. Il libro, raccogliendo una
miscellanea di interventi del collettivo (prefazioni, postfazione, articoli e
cut-up) pubblicati in varie sedi, si interroga proprio su “l’impatto che le
tecnologia commerciali hanno sui loro utenti e come influiscano sulla
costituzione della loro soggettività, sulla loro formazione e sul loro vivere
comune”.
> Secondo il collettivo Ippolita è in atto una sempre maggiore “delega reiterata
> dei desideri e delle capacità cognitive a procedure algoritmiche. Ma se le
> tecnologie non sono neutre, bensì incarnano e configurano mondi, la delega
> tecnica si rivela per quello che è: delega sociale e politica”.
Analizzando la delega tecnologica che mette in atto l’umanità nei confronti
delle tecnologie digitali, Ippolita scandaglia le conseguenze di quel processo
per cui “milioni di utenti si servono di app e servizi per il monitoraggio e la
gestione di aspetti sempre più numerosi della vita quotidiana”; è in atto una
sempre maggiore “delega reiterata dei desideri e delle capacità cognitive a
procedure algoritmiche. Ma se le tecnologie non sono neutre, bensì incarnano e
configurano mondi, la delega tecnica si rivela per quello che è: delega sociale
e politica”.
L’obiettivo delle grandi corporation tecnologiche, si spiega nel testo, è
proprio quello “di rendere comune e abituale un numero crescente di azioni e
relazioni cui viene riconosciuto valore in quanto profittevole, secondo l’etica
del consumo incarnata appunto dall’utente, che è paradossalmente al servizio del
fornitore del servizio”. È lo stesso ribaltamento di prospettiva di cui parla
Gorz riguardo il progresso tecnologico. È lo stesso procedimento che, fuori
dall’ambito tecnologico, è attuato dalla Brawndo Corporation nel film, che è
riuscita a sostituire l’acqua con la sua bevanda energetica.
Per Ippolita la soluzione non passa per un intervento correttivo sociale (che
oggi nessuno, nemmeno gli Stati, se volessero, avrebbero la forza di effettuare)
ma da una disciplina del soggetto, una routine che coinvolga tanto il nostro
corpo quanto la nostra mente. Il concetto è espresso fin dal titolo del volume:
> per hacking del sé, ispirandoci ai lavori dell’ultimo Foucault, intendiamo un
> esercizio di cura del sé che inizia con il comprendere quale tipo di norma le
> megamacchine sono capaci di farci assumere, per capire come disinnescarla
> prima che la sua forza ci renda conformi e oppressi. Avere riguardo per il
> proprio corpo digitale, proteggerlo perché si emancipi dall’informatica
> commerciale, riconoscere l’importanza che ha nella nostra vita, significa fare
> un passo di consapevolezza tecnica e nel contempo di responsabilità etica
> verso noi stessi e verso la comunità. Per questo secondo noi il campo della
> battaglia si gioca sulla cura di sé, tra addestramento e consapevolezza, ed è
> qui che si aprono margini possibili di emancipazione e coscientizzazione.
Il lavoro che bisognerà fare – qui e ora – è esposto nel libro in maniera piana
e pragmatica, sono semplici propositi che provano a illuminare una via
possibile, di cui non conosciamo gli ostacoli futuri ma di cui possiamo già
intuire chiaramente la direzione: “comprendere che tipo di riconfigurazione sta
avvenendo e agire una decodifica delle norme che tentano di scriverci addosso: è
questo l’esercizio e l’abito che stiamo ricercando. Osservare e osservarsi,
andare domandando, sperimentare e verificare nuove individuazioni psichiche e
collettive”.
L'articolo Idiocracy now proviene da Il Tascabile.
I n una delle sue poesie più cupe, non a caso titolata Darkness, lord George
Gordon Byron scrive:
> E gli uomini nel terrore di questa desolazione
> Dimenticavano le passioni, mentre i loro cuori
> Raggelavano in un’egoistica preghiera di luce.
> Essi vivevano accanto a fuochi accesi: i troni,
> I palazzi di re incoronati, le capanne,
> Le dimore e i rifugi di ogni tipo
> Erano bruciati insieme alle città per aver luce,
> E gli uomini si raccoglievano attorno alle case in fiamme
> Per guardarsi ancora una volta in viso.
Nell’estate del 1816, mentre scriveva, le popolazioni si decimavano nella fame e
nel buio: l’eruzione del vulcano Tambora dell’anno precedente aveva liberato
nell’aria nubi di polveri e gas tali da oscurare la luce solare e provocare un
abbassamento drastico delle temperature. Ne seguirono carestie e terremoti;
violenze di massa e culti millenaristici si diffusero nelle campagne. Un senso
di fine divina pervadeva l’orizzonte degli uomini e delle donne del tempo.
L’anno successivo la Terra tornò a una condizione di equilibrio e le popolazioni
umane continuarono a scannarsi con particolare zelo: “l’anno senza estate”
rimase impresso in qualche poesia come quella di Byron e in un discreto numero
di fonti documentarie, ma sostanzialmente riposto nel cassetto dei brutti
ricordi.
Nel solco delle scienze climatiche oggi parleremmo di “evento estremo” e
bolleremmo come complottisti i contadini convinti dell’imminente apocalisse.
Eppure non muterebbe il senso di fine che ci attanaglia ancora di fronte a
sconvolgimenti imponderabili. Tanto più che quello in cui viviamo, a dispetto di
ogni avanzamento tecnico-scientifico, è un mondo totalmente immerso nelle
catastrofi. Partire dalle parole di Byron ci aiuta allora nel tentativo di
mettere a fuoco quello che sembra essere il senso profondo dell’epoca presente.
Non può non colpire infatti che quell’Ottocento delle nazioni, degli imperi
coloniali, della tecnica e delle rivoluzioni iniziasse proprio con un evento
apocalittico. Il vulcano Tambora battezzava il mondo che veniva: la modernità
nasceva sotto le nubi della catastrofe.
Epifanie catastrofiche
Ora, nel nostro tempo osserviamo un’accelerazione con cui si danno fenomeni
drammatici a ritmo serrato e, davanti ad essi, si diffonde un senso di
straniamento e impotenza generalizzata. C’è difficoltà a comprendere il reale e
ancora di più ad agirlo, eppure l’impotenza sembra essere dovuta non tanto
all’impatto dei fenomeni quanto a una sorta di disabitudine al mondo che è
propria di un Occidente tardocapitalista in una fase di senilità. Risvegliate da
un sonno trentennale che si voleva post-storico, queste società si sono
riscoperte gabbie d’acciaio fragili e totalmente distruttive. Proprio la
catastrofe quale segno del tempo potrebbe allora indicarci una via d’uscita da
questo presente, grazie al suo potere di ribaltamento e sospensione normativa di
cui eravamo dimentichi. Secondo definizione scientifica, infatti, catastrofe è
l’evento che irrompe in un sistema ordinato sparigliandone le carte, produce una
sospensione della norma al cui interno si danno possibilità di mutamento di
quello stesso sistema originario ormai spezzato.
> Proprio la catastrofe quale segno del tempo potrebbe indicarci una via
> d’uscita da questo presente, grazie al suo potere di ribaltamento e
> sospensione della norma.
Le catastrofi irrompono violentemente nella scena e travolgono le storie
individuali in un vortice totalizzante che mette in discussione ogni cosa,
distruggono edifici che sta ai superstiti scegliere come abitare. Un po’ come le
rivoluzioni, le catastrofi contengono in sé tragedia e rinnovamento, e questa
loro ambivalenza le rende un grande elemento immaginifico. Custodiscono il
potere di generare una propria epica. Non è un caso se un capitalismo che ha
divorato ogni risorsa, promesse comprese, non può che indicare un immaginario
che fantastica sulla fine di sé stesso, sfruttando una fascinazione potente e
monetizzabile.
Come la frontiera del western si è data a suo tempo quale luogo dell’immaginario
in cui il capitalismo individualista (e poi le resistenze ad esso) metteva in
scena la propria ascesi mitologica, oggi la catastrofe fa da ribalta per
un’Occidente al tramonto. È in atto da decenni un’opera di occupazione
preventiva di questo immaginario, attraverso il riadattamento dei mitemi stessi
del mondo che muore: la figura dell’audace eroe con le sue armi, la famiglia
nucleare come unico ambito degno di salvezza, l’hobbesiano stato di natura
dell’homo homini lupus che sottende a ogni sospensione normativa.
Eppure sono possibili, si sono operati rovesciamenti di significato, possibili
forme di resistenza alla colonizzazione imperiale dell’immaginario. Bisogna
sottrarre la catastrofe alle passioni tristi. Il perturbamento delle rovine,
siano tracce di passato nelle città o futuri proiettati sullo schermo, ci parla
di qualcosa che se accadesse davvero metterebbe a rischio non solo routine e
certezze assodate ma probabilmente la nostra stessa vita, e noi la rifuggiamo
per istinto di sopravvivenza. Eppure nel suo consumo immaginifico esorcizziamo
la paura e accarezziamo il sogno proibito di veder finire il nostro tempo-mondo,
fuggire dalle gabbie della produttività nella precarietà della catastrofe.
Finché l’esorcismo è consumo, però, si conclude in sé stesso. La catastrofe è
allora anzitutto uno specchio in cui riflettersi e osservare, nell’ombra di
rovine futuribili, lo spaventoso senso di smarrimento che pervade le pieghe del
quotidiano. La catastrofe, suggeriva Calvino, è ogni giorno in cui non accade
nulla. Il mondo è finito ieri.
Una fine che vorremmo cinematica
Questo senso di ovattata disperazione è il rumore di fondo di una delle opere
postapocalittiche meglio riuscite: il romanzo La strada (2006; trad. it 2007) di
Cormac McCarthy, poi tradotto in pellicola dal regista John Hillcoat. La storia
segue l’errare di un uomo con suo figlio tra le macerie di quelli che furono gli
Stati Uniti, muovendosi verso sud in cerca del mare e della fine di un inverno
che ferisce, combattendo i morsi della fame e fuggendo dalla minaccia di uomini
che la stessa fame rende predatori. Non conosciamo il nome dell’uomo né quello
del bambino, sappiamo che l’unico scopo del primo è la sopravvivenza del
secondo, una sopravvivenza che non è legata solo all’assillante bisogno
fisiologico ma soprattutto alla conservazione di un senso d’umanità, sempre più
flebile in un panorama di morte.
> La catastrofe è ogni giorno in cui non accade nulla.
“Noi siamo i buoni?” chiede il bambino in uno dei rari dialoghi, “si” risponde
laconico il padre, “perché portiamo il fuoco?” incalza ancora, “perché portiamo
il fuoco”. Stanchezza e disperazione divorano l’uomo da dentro ma la marcia non
può avere termine, nemmeno con la morte. La vita deve replicarsi in ogni modo
possibile: quello che McCarthy ha messo in scena non è una distopia ma il dramma
esistenziale del tempo nostro attraverso la lente focale di una paternità quasi
folle nella sua ostinata missione.
Il tempo del romanzo, scritto nel 2006 e filmato tre anni dopo, è un futuro che
è già avvenuto: il guscio vuoto che è diventato la Terra, con il suo sole
oscurato dalle ceneri e alberi morti che cadono tra le braci fredde di incendi
quasi estinti, richiamano da vicino gli incendi che devastano l’Australia, la
Siberia o la California. Quello di Palisades, a proposito, era un incendio
“cinematico”. Così il carrello della spesa con cui i due trasportano le loro
magre risorse, i vestiti stracciati che indossano, sono i carrelli e gli stracci
che popolano le migliaia di accampamenti di homeless dentro e fuori metropoli
come Los Angeles.
La povertà non necessita di alcun evento spettacolare per incistarsi. Le bande
di predoni pronti a divorare il prossimo, con le loro armi raffazzonate, i mezzi
di fortuna e la fame furiosa negli occhi, rievocano le avanguardie reazionarie
di un’America profonda, incattivita, in cerca di un riscatto dal declassamento e
che, fuor di trama, hanno trovato in Trump il proprio sovrano. Le frasi non
dette e i pochissimi e scarni dialoghi sono i resti essenziali della parola
dentro un silenzio che quotidianamente non possiamo sentire solo perché occupato
da vortici di voci superflue.
L’apocalisse di McCarthy la portiamo dentro. Questo è tanto più vero se contiamo
che lo scrittore è stato forse l’ultimo grande cantore dello spirito americano,
che un po’ si è fatto spirito del mondo, e la tragedia che ha inscenato in La
strada è la nostra tragedia intima, attualissima, ma che riannoda le sue radici
nella genetica stessa della nazione e dei suoi miti. La catastrofe non solo come
riflesso ma come radice nera della Storia che permea la soggettività presente;
come dopplegänger del Progresso: l’ascesi di un mondo fondata sull’olocausto di
mille altri. Nelle pagine dei suoi romanzi, tra la frontiera del mito western e
quella fisica fatta di fili spinati pattugliati da militari, il tempo si dilata
in un unico spazio liscio non più misurabile con gli strumenti convenzionali.
L’unica temporalità è quella dettata dallo scorrere di una natura struggente,
crudele nella sua indifferenza verso l’agire disperato degli umani e delle loro
tragiche traiettorie. La violenza dei silenziosi personaggi di McCarthy è la
violenza che pervade un intero universo infervorato da uno slancio
superomistico, volontà di potenza che lo acceca e lo spinge alla
(auto)distruzione.
> La povertà non necessita di alcun evento spettacolare per incistarsi.
Meridiano di sangue (1985; trad. it. 1996) è forse il suo romanzo più crudo: una
banda di cacciatori di scalpi guidata dal folle ed enorme giudice Holden,
incarnazione depravata del “Destino manifesto”, cavalca al confine messicano
nella guerra per strappare il territorio allo Stato vicino e alle tribù native;
ma più che un conflitto abbiamo una strage criminale dove chiunque finisce per
essere schiacciato. Innocenti, civili, alleati, combattenti e animali cadono
nella necessità di stabilire il potere esclusivo su una terra che rimane
scenario oscuro e distante, al limite di un onirico che ben si addice alle
allucinazioni di potere dei protagonisti.
È un racconto d’invenzione, eppure affonda i piedi in un’ampiamente documentata
storia di crimini di guerra che hanno edificato la “nazione più grande del
mondo” e che non sono relegate a spettri del passato ma si rinnovano ad ogni suo
passo. Mentre scriveva Meridiano di sangue, nella prima metà degli anni Ottanta,
McCarthy non aveva in mente solo le guerre ai nativi. Attorno a lui era
tangibile il trauma seguito alla sconfitta americana in Vietnam: l’orrore che si
erano riportati a casa i giovani veterani era un decimo di quello che si erano
lasciati alle spalle, in uno scenario divenuto anch’esso quasi mitologico quanto
la frontiera (basti citare, su tutti, il capolavoro di Francis Ford Coppola
Apocalypse Now, 1979).
In quel frangente le vicende degli scalpatori di Holden portavano in controluce
il segno di quell’ultima guerra e, come una premonizione, anticipavano
l’inchiesta che sarebbe emersa solo nel 2003, ironicamente al tempo delle
rivelazioni di Abu Grahib, sulla famigerata Tiger Force: il battaglione punitivo
dell’esercito americano utilizzato per terrorizzare i villaggi vietnamiti nel
vano tentativo di estirpare il sostegno popolare alla guerriglia. Eccidi,
torture, stupri e innumerevoli crimini della Tiger Force emersero chiaramente
come la punta di diamante di un uso sistematizzato della brutalità. Erano (sono)
la traduzione bellica di una politica imperiale che non ha alcuna considerazione
delle tracce del suo passaggio. Gli scapolari di scalpi di Meridiano di sangue e
quelli di orecchie della Tiger Force, le piramidi di teschi di bufalo nelle
cartoline dell’Ottocento yankee e le immagini del villaggio My Lai avvolto dalle
fiamme restano come i negativi dell’album fotografico di una storia egemone,
residui che vanificano ogni autoassoluzione. Alla fine del romanzo l’anonimo
ragazzo/narratore, complice e sopravvissuto alle vicende degli scalpatori, dopo
anni di modestia ritrova per caso il suo vecchio capo e la sua vita termina quel
giorno, con una sorta di lampo del passato che torna per battere cassa.
Durante la guerra fredda, con il tangibile rischio di un conflitto nucleare, gli
scienziati nucleari idearono, per somma fortuna di scrittori e registi, il
Doomsday Clock: un orologio che stabilisce, da inizio a fine, la storia
dell’uomo sulle dodici ore del quadrante. Oggi, nel pieno di una febbre bellica
senza antidoti, le lancette segnano 89 secondi alla mezzanotte: un minuto e
mezzo dall’estinzione della razza umana per mezzo di un conflitto termonucleare.
Finché non è disertata, la catastrofe imperiale, epifenomeno funesto della
logica capitalista, non lascia margini alla rigenerazione della vita. Non
trovano scampo nemmeno i sopravvissuti guardinghi o i suoi agenti, solo la
feroce volontà di potenza dei giudici Holden rimane intatta in un lago di
sangue.
> Non tutte le apocalissi sono così assolute e l’immaginario ne ricava una
> miniera preziosa di strumenti d’indagine.
Fortunatamente, però, non tutte le apocalissi sono così assolute e l’immaginario
ne ricava una miniera preziosa di strumenti d’indagine. Catastrofe come forma
della conoscenza quindi, sempre contesa nella dialettica dei rapporti di forza.
Il cinema americano, Wunderwaffen del softpower atlantista, è stato generoso nel
battere questo territorio e tentare d’imporgli le sue norme. Non per caso le
narrazioni del disaster (o del post-apocalyptic) movie si sono per lo più date
seguendo i medesimi schemi: il Destino manifesto trascende nel ruolo salvifico
dell’America rispetto al mondo intero e al suo popolo, s’impersonifica nell’eroe
quale Individuo (sovente maschio e caucasico) in grado di esercitare da solo un
potere trasformativo degli eventi.
Quando la catastrofe mina l’ordine delle cose, minacciando indistintamente la
vita umana e la proprietà privata, attraverso il collasso delle relazioni
sociali in una guerra di tutti contro tutti, è l’operato dell’eroe che
ristabilisce l’ordine originario attraverso la sconfitta dell’evento mostruoso
(e qui entrano solitamente in ballo gli emblemi della nazione: il presidente,
l’esercito, la White House) oppure attraverso il ristabilirsi di un piccolo
ordine in mezzo all’irreversibilità della fine: il salvataggio della famiglia
nucleare, il ritiro nella natura e la vita attraverso il lavoro manuale. Uno
spettro piccolo-borghese che proprio non vuole lasciare questo mondo.
A tagliar corto, questa è più o meno la forma che il capitale ha tentato di
imporre come proprio epitaffio, un finale gattopardiano per imbrigliare lo
spazio del possibile. E si potrebbero elencare centinaia di pellicole dove la
minaccia è differente ma il ciclo si ripete: The Day After (di Nicholas Meyer,
1983, guerra termonucleare), 2012 (di Roland Emmerich, 2009, disastro
ambientale), Indipendence Day (ancora Emmerich, 1996, attacco alieno), 28 giorni
dopo (di Danny Boyle, 2002, epidemia zombie). Eppure, un’assoluta colonizzazione
dell’immaginario costituisce ancora, a dispetto di qualsiasi Intelligenza
artificiale o algoritmo predittivo, una missione impossibile. La sua natura
ontologicamente ingovernabile ne fa un terreno impervio, da scorribande, da covo
di disertori. Per cui non andremo oltre con la filmografia dell’impero, che già
occupa posto in abbondanza e procederemo con i suoi controutilizzi.
È stato ad esempio un sabotatore particolarmente abile Jonathan Nolan, già
reduce del capolavoro western-scifi Westworld (2016), nell’ideazione della serie
Fallout (2024) che riprende le vicende alla base dell’omonima saga videoludica
di culto: un’America completamente distrutta dalle ricadute di una guerra
termonucleare è popolata da bande di predoni, eserciti pretoriani e città-stato
governate dalle più bizzarre fedi e forme politiche; pericolo e fame sono
ovunque, tra le rovine della civiltà un tempo egemone si aggirano forme di vita
mutate dalle radiazioni.
> Un’assoluta colonizzazione dell’immaginario costituisce ancora, a dispetto di
> qualsiasi Intelligenza artificiale o algoritmo predittivo, una missione
> impossibile.
Il successo del videogame fu dovuto anzitutto all’ampia autonomia di gioco di
cui gode il gamer, che lo mette in condizione di creare la propria storia
piuttosto che seguirne una predisposta (e qui già possiamo percepire il piacere
della fuga), ma soprattutto all’ambiguità morale che struttura tutto il gioco:
il giocatore/personaggio può prendere le decisioni migliori come aiutare un
bambino, o le più efferate come ucciderlo. In questa sospensione di giudizio la
catastrofe diventa una tela attraverso cui decine di migliaia di adolescenti (e
non) hanno attraversato e consumato una piccola epica personale, tagliata su
misura per ciascuno di loro.
Nolan ha utilizzato questo potere immersivo dell’ambiguità e un’estetica
retrofuturista che strizza l’occhio alla grande sci-fi degli anni Cinquanta per
costruire una spietata metafora degli Stati Uniti i cui miti perdono ogni poesia
e si rivelano goffe pezze che a malapena celano l’interesse più famelico.
La Vault-tec, mega azienda del settore tecnologico con ramificazioni
nell’industria bellica già nel pre-bomba, permette a una selezionatissima
minoranza di cittadini di vivere dentro complessi bunker sotterranei mentre
l’umanità della superficie è lasciata in balia di sé stessa.
L’azienda è onnipresente nella trama e diventa nel Fallout di Nolan l’esplicita
metafora del comparto militar-industriale, il cui strapotere provoca non solo
l’apocalisse nucleare all’origine della storia ma la riproduzione di meccanismi
di gerarchizzazione e sfruttamento delle forme di vita rigenerando i meccanismi
del capitale anche oltre la fine del mondo. Tra l’umanità dei bunker e quella
della zona contaminata vige un rapporto verticale in cui i primi si ritengono
custodi della civiltà, eletti destinati a esportare l’ordine e la verità ai
barbari della superficie, i quali dovrebbero essere ben contenti di adattarsi o,
nel caso peggiore, possono essere sterminati in quanto privi di effettiva
umanità (ecco tornare gli orrori dell’Herrenvolk che, dal genocidio dei nativi
alle guerre democratiche, allunga la sua ombra sui futuri)
La catastrofe, dentro Fallout, cessa finalmente di essere un movimento neutro
che coinvolge tutti indistintamente: la posizione all’interno della scala
sociale determina coinvolgimenti e responsabilità differenti, stabilisce la
possibilità stessa di vita o di morte; l’ambiguità morale e la violenza
riflettono una dimensione in cui l’orizzonte non è dominato da alcun destino che
guida la mano dell’eroe ma da costanti rapporti di forza tra alto e basso. Non a
caso uno dei personaggi principali, plastica incarnazione della sospensione
morale, è un pistolero mercenario vissuto a cavallo tra i due mondi che le
radiazioni hanno trasformato in ghoul, creatura tra l’umano e lo zombie; frutto
di una transizione incompleta dove i mitologici panni del cowboy sono indossati
da un mostro che ha perso cittadinanza nella comunità degli uomini e delle
donne.
> L’ambiguità morale e la violenza riflettono una dimensione in cui l’orizzonte
> non è dominato da alcun destino che guida la mano dell’eroe ma da costanti
> rapporti di forza tra alto e basso.
Mostro la cui condizione d’isolamento lo rende al tempo stesso più adatto
all’ambiente circostante e più umano degli umani stessi che, nella lotta per la
sopravvivenza, perdono ogni tratto positivo. La deformazione diventa
adattamento, l’erranza e l’ambiguità forme di resistenza. Non è l’umanità che si
salva; almeno non quella che persegue nello scimmiottare caricature di civiltà
morte e forme di vita (auto)distruttive.
Ghoul, zombie e mostruosità del dopo-fine
Il ghoul in effetti si presta bene a questo détournement. Creatura del
folk-horror dalle fattezze antropomorfe, si nutre di cadaveri e abita luoghi
desolati; è una di quelle figure reiette che viene sospinta agli angoli delle
storie. È un mostro di second’ordine: ex-umano perseguitato da una morte
incompiuta, mangia per necessità, attacca per difesa e non ha altri scopi che
l’autoconservazione; non ha fattezze animalesche né poteri sovrannaturali. È un
deforme riflesso degli umani che si ciba dei loro resti e usa gli spazi di
risulta; senziente al pari dell’umano, ne comprende la lingua e le passioni, in
una vicinanza che amplifica la mostruosità e pertanto lo costringe all’ombra
dell’esilio. Questa mutazione mette in discussione la narrazione teleologica che
legge ogni mutamento come un avanzamento verso la perfezione o una deviazione da
eliminare: ciò che non ci avvicina a Dio ci spinge verso Satana, continua a
sussurrarci una coscienza che presumiamo scientista ma allevata da secoli di
pensiero religioso. Il ghoul non avanza né devia ma muta: è alterità familiare,
inquietudine.
C’è una particolare vicinanza tra il ghoul e il più celebre zombie: simili nelle
fattezze e nell’essere una derivazione umana, a separarli è il fatto che il
primo è frutto di una mutazione, mentre il secondo di un processo di morte e
resurrezione da cui ne discende l’assenza (in fondo presunta) di ragione e una
dieta a base di persone vive. Mostro proletario per eccellenza, lo zombie ha
catalizzato su di sé interi filoni creativi e nel suo universo si è dato lo
spazio più largo per sperimentare diserzioni alla norma dell’immaginario
catastrofico. Questa specie di morte cerebrale e movimento a branchi che lo
caratterizzano, ne hanno fatto una metafora dell’omologazione e, nel periodo
della guerra fredda, un’allegoria delle masse anomiche del socialismo che veniva
a minacciare lo stile di vita americano. Qualche successiva lettura xenofoba ci
ha voluto vedere un’immagine della cosiddetta invasione dei migranti. C’è però
un’irrecuperabilità dello zombie che lo rende refrattario a qualsiasi
disciplinamento. Rintracciabile forse nella sua origine nel voodoo haitiano, in
cui le comunità afrodiscendenti lo leggevano come schiavo alternativamente
costretto al lavoro in una condizione di non-vita o tornato dalla morte per
vendicarsi del padrone.
Ogni incidente che coinvolge gli zombie porta inevitabilmente l’umanità a un
passo dall’estinzione. E d’altronde è proprio degli umani che si servono:
mangiandoli e trasformandoli ne contendono l’egemonia sulla catena alimentare,
li assorbono in una collettività espansiva che si sbarazza della civiltà
instaurando un nuovo regime di natura assolutamente privo di gerarchie e
sfruttamento: gli zombie non hanno nomi né volti distinguibili, non hanno
lingua, genere, proprietà né titoli, mangiano solo animali umani e soltanto
quanto necessario alla loro riproduzione di specie. Lo zombie non è un
postumano, non nel senso di un superamento costruttivo, non aggiunge nulla alla
specie; non è nemmeno un subumano, poiché non degrada la forma di vita umana a
uno stato inferiore: la annienta per farsi spazio. Siamo davanti a un salto di
specie, uno spillover dell’immaginario. Le orde senza verbo sembrano dire: i
morti siete voi! La non-coscienza zombie, mai davvero confutabile, è
l’annullamento dell’eccezionalità antropica che liquida millenni di cosiddetto
progresso imponendo il paradigma di un mondo altro. La fine del mondo è la fine
del mondo degli uomini.
> La fine del mondo è la fine del mondo degli uomini.
Ne era ben consapevole George Romero, maestro assoluto del genere, che nella
pellicola Land of the dead (2005), quasi al termine della sua carriera, rende
esplicito il passaggio di testimone. In un pianeta ormai occupato dai non-morti
le comunità umane vivono in città-stato fortificate e diseguali, dove pochi
satrapi spadroneggiano su masse affamate. Il territorio esterno, popolato dagli
zombie, è attraversato esclusivamente per la caccia alle risorse e i suoi
abitanti massacrati con noncuranza fino a provocarne una marcia vendicativa
sulla città, che degenera nella rivolta interna e nel suo collasso definitivo,
con l’eliminazione dei padroni locali proprio per mano dei non-morti. Nelle
ultime scene, il protagonista ha l’opportunità di sterminare l’orda che si
ritira ma riconoscendo, per la prima volta nella filmografia prima che nella
pellicola, una forma di vita si fa da parte. Se i sopravvissuti umani possono,
nel finale, ricostruire una comunità su basi più eque è perché si sono liberati
non dagli zombie, di cui condividevano la miseria, ma dai vivi regnanti.
L’estinzione delle forme di potere è una catastrofe che schiude le possibilità
di ibridi inediti.
Riflettendo il proprio tempo e le sue urgenze, negli ultimi anni questi ibridi
si sono fatti via via spazio nel genere anche in modalità inaspettate. Una
traccia di ciò è rintracciabile nella serie The last of us (2023), dove una
mutazione del fungo parassita Cordyceps, solitamente associato alle formiche, si
trasmette agli umani compiendo il suo spillover grazie al riscaldamento globale.
Gli zombie in questo caso vengono governati dalla simbiosi micotica che ne
determina le azioni e li connette tra loro in una coscienza collettiva
attraverso il micelio. I corpi trasmettono informazioni tra loro e si
modificano, si compostano l’un l’altro per dare nutrimento alla specie.
Inaspettato matrimonio tra gli zombie di George Romero e i funghi di Anna Tsing.
Seppure lo schema narrativo ripeta il ciclo dell’eroe che deve riportare le cose
al punto di equilibrio, nessuna “Restaurazione” è possibile: mentre gli umani
perpetuano la loro esistenza violenta e si spengono poco a poco, gli infetti
proliferano ovunque candidandosi a ereditare la Terra in piena reciproca
connessione. Il mostruoso emerge come effetto dell’incapacità umana ad andare
oltre sé stessa.
A guardar bene, ciò che ritorna in scena nei futuri catastrofici è una
condizione arcaica dell’umanità, la sua origine prima della scrittura e dei
sovrani. Intorno al V millennio a.C. piccole civiltà stanziali dell’Europa
centro-occidentale vennero investite dalle tribù delle steppe orientali: genti
dalla lingua incomprensibile che si muovevano a dorso di cavallo, animale ancora
sconosciuto in quei territori e che saranno apparsi a quei contadini come
spaventosi ibridi: centauri dalle gambe equine e busto umano. D’altronde
l’ibrido faceva parte dell’orizzonte entro cui si muovevano. Come riporta Luca
Misculin nel suo podcast L’invasione, a montare quei cavalli erano molto spesso
giovani maschi, poco più che bambini, nell’atto di compiere il rito di
passaggio: il Koryos, un periodo di anni in cui tutti i ragazzi coetanei
abbandonavano il proprio villaggio per trascorrere un tempo di nomadismo prima
di fare ritorno come adulti.
La vita dei membri del Koryos si conformava, più che alla vita umana, a quella
dei branchi di lupi con il loro errare predatorio, le mutevoli leggi interne. E
nei lupi questi ragazzi si identificavano e riferivano a sé stessi, dei lupi
vestivano le pelli. Non vi è dubbio che l’apparire nei villaggi di queste
chimere cavallo-umano-lupo fosse presagio di violenza, la loro sopravvivenza
legata al saccheggio ne ha determinato l’espansione disordinata su nuovi
territori, ma è altrettanto vero che molto spesso questi gruppi finirono per non
tornare ai luoghi d’origine e stanziarsi presso altre comunità. L’erranza del
Koryos, pur col suo portato di brutalità patriarcale, nell’incontro/scontro con
umanità differenti, ha finito per rideterminare l’assetto di un mondo, ponendo
fine a forme di vita conchiuse e seminando quella che sarebbe diventata la
civiltà protoindoeuropea. Le piccole apocalissi che investivano i modesti
insediamenti del continente, estinguevano un passato per “compostarlo” nelle
possibilità di forme di vita altre, più ampie.
La catastrofe è il modus della Storia
La storia del mondo è una storia senza morale, quella dell’umanità è una storia
di catastrofi. Ciò è particolarmente vero, come abbiamo visto, per la modernità.
A differire oggi è che le evidenze di un mutamento climatico senza precedenti ci
si riversano contro con una forza che l’attuale livello tecnologico permette di
osservare, misurare e prevedere, senza però riuscire a fermarla. Gli umani
osservano per la prima volta da vicino l’eventualità dell’estinzione per propria
mano. Tutto ciò non è più eludibile da alcun discorso politico, è il Tema, la
cornice entro cui ogni cosa necessita di essere interpretata.
> A guardar bene ciò che ritorna in scena nei futuri catastrofici è una
> condizione arcaica dell’umanità, la sua origine prima della scrittura e dei
> sovrani.
Ma c’è un di più, un’eccedenza che si intreccia e non si esaurisce nella
questione ecologica e fa tracimare ovunque un senso di fine. La crisi è
ambientale, politica, esistenziale, finanziaria, culturale, produttiva,
sanitaria; è ovunque e si autoalimenta, tratteggia affreschi da Hyeronimus Bosch
in un mondo che non sa più tenersi insieme, che favoleggia sulla propria fine
proprio per l’incapacità di pensare sé stesso in un avvenire. Presi dal panico
di un tempo che diviene ingovernabile e atterriti dall’assenza di strutture
psichiche collettive in grado di farci sentire saldi nel presente, pensiamo che
nulla sopravviverà alla nostra fine.
Questo pensiero sciocco ed etnocentrico (ci preme sottolineare il prefisso
etno-) è il primo dispositivo di governo delle alterità possibili. Ma se la
modernità è catastrofe allora siamo oggi dinanzi a una ripresa di senso delle
cose. La presunzione dell’universalismo bianco di forgiare un mondo a propria
immagine a qualunque costo non poteva che produrre edifici fragili; la fine
della storia con cui il liberismo ha legittimato sé stesso in quanto Nomos della
terra non era che un abbaglio. Ottuso e autoreferenziale squillo di trombe, ha
intenzionalmente rimosso e oscurato qualsiasi moto lo eccedesse. E quando le
fondamenta del suo edificio hanno iniziato a tremare, la Storia si è
ripresentata alla porta, lo ha costretto in tempi strettissimi a tornare sui
propri passi e discutere di fine della fine della storia. Possiamo seguire la
suggestione di Anton Jäger nel suo Iperpolitica (2024), quando osserva che la
desertificazione sociale prodotta dal neoliberismo ha determinato un’umanità
alienata, piegata su sé stessa e priva di respiro collettivo. Senza classi,
chiese, partiti, senza forme di organizzazione delle collettività esistono solo
individualità e fragili bolle. Dopo una brevissima estate le società del
benessere si sono trovate, crisi dopo crisi, a svegliarsi da un sonno
farmacologico e a necessitare di una grammatica del mondo che avevano
disimparato.
È arcinoto l’adagio per cui è più probabile la fine del mondo che del
capitalismo; non esiste a oggi un modello alternativo in grado di sfidare il
campione in carica; motivo in più per cui occorre osservare tra le sue scorie
per trovare strumenti utili. Come lo stato d’eccezione, la catastrofe non si
pone come momento chiuso in sé, slegato dal mondo in cui si manifesta, piuttosto
è una contingenza che ne porta all’estremo i tratti salienti: nel caos che
l’accompagna, è un momento di disvelamento. Il suo darsi in permanenza la
configura come dispositivo di governo. Visto e agito dall’alto, il campo del
possibile è un momento di ristrutturazione del modo di produzione. Un buon
affare, anche se sporco. Ridevano gli imprenditori edili mentre L’Aquila si
sbriciolava nel sisma del 2009.
Parallelamente è un ottimo momento per stabilire un ordine rigido e un maggiore
controllo sociale, recuperando le linee di fuga e soffocando le forme di
autorganizzazione emerse dalla necessità che si presentano come rotture
potenziali in grado di ribaltare l’assioma. Ecco allora che assumere la
catastrofe come campo del possibile significa cogliere le vie di trasformazione,
resistenza e abitabilità dell’attuale scenario tardocapitalista proprio
attraverso le sue rovine, Il tentativo prioritario è sottrarla alle narrazioni
immobilizzanti dell’immaginario apocalittico, al fine di sondare questa ipotesi.
> Vi è un doppio movimento all’interno della catastrofe: ristrutturazione
> dall’alto, fuga dal basso; irrigidimento dei dispositivi di governo e
> istintivi tentativi di sottrazione.
Vi è allora un doppio movimento all’interno della catastrofe: ristrutturazione
dall’alto, fuga dal basso; irrigidimento dei dispositivi di governo e istintivi
tentativi di sottrazione. Apre un margine di conflitto che può spezzare il
continuum della storia o riassestarlo sui suoi binari Questa è la grammatica
dimenticata che occorre reimparare per non soffocare tra le macerie ma abitare
un mondo di rovine, per decifrarne il senso. L’apocalisse oggi spaventa non come
evento escatologico, ma come lingua dimenticata. Siamo tornati al cospetto di
una catastrofe che non se n’era mai andata, semplicemente avevamo smesso di
guardarla, di riconoscerla e riconoscerci in essa.
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