È (già) tempo di tracciare un bilancio per Alex Garland. In relativamente pochi
anni di carriera ha costruito opere di densità e rilevanza imprescindibili, per
presa sulla contemporaneità e coraggio di intraprendere riflessioni filosofiche
in un’epoca ostile al pensiero (libero, ma non solo). Ogni suo film assomiglia a
una profezia, e non di quelle rassicuranti: più vicina a Cassandra che a
Nostradamus, più a un Palantír di Mordor che a una sfera di cristallo. Con quel
sesto senso proprio di chi è stato toccato da un’intelligenza superiore Garland
arriva semplicemente prima degli altri, in virtù di un meccanismo di autodifesa
contro la mediocrità e di un sottile sentimento antiamericano, tipico di una
britishness in via di estinzione. Seppur arrivando per tempo al problema,
Garland non ne esce con delle risposte chiare e distinte. La sua esposizione del
dubbio, la sua “verifica incerta”, testimonia con lucidità la difficoltà estrema
di raccontare il presente, di discernere la verità, di capire da che parte
stare. Il che non significa “fare di viltà il gran rifiuto”, bensì arrendersi
alla insensata e fuggevole complessità di un mondo che è, innanzitutto, troppo
veloce per essere afferrato e compreso.
Ad accomunare Ex Machina (2014), Annientamento (2018) o Civil War (2024) è
l’ipercinesia che non lascia spazio all’elaborazione di un pensiero, che obbliga
a una deriva istintuale, sovente quasi ferina. Uscito in sala con un tempismo
mirabile, Civil War ha suscitato inevitabili discussioni, talora facete – perché
proprio la California very Blue State e il Texas very Red State come alleati in
chiave secessionista? – ma ha saputo tradurre in immagini di rara ferocia quella
deriva autodistruttiva inestricabilmente legata a un Paese-bambino come gli
Stati Uniti, armato fino ai denti e dilaniato da divisioni interne sempre più
esacerbate. Un discorso di cui Warfare (2025, in sala dal 21 agosto in Italia) –
codiretto con il reduce di guerra Ray Mendoza – è la naturale prosecuzione: il
passaggio da un ipotetico scenario di conflitti futuri a uno effettivo del
passato prossimo (la seconda guerra in Iraq) comporta un ulteriore spostamento
della soggettiva. Warfare non è un pamphlet antimilitarista, così come Men
(2022) non è un banale pamphlet contro la mascolinità tossica. L’ambivalenza del
primo – l’immersione nel dettaglio bellico a livello di singolo uomo che altera
il linguaggio, ricco di acronimi fino all’esoterismo – si riflette
nell’ambiguità del secondo (sono gli uomini a essere “tutti uguali” o è la
protagonista a vederli così?).
> Civil War ha saputo tradurre in immagini di rara ferocia quella deriva
> autodistruttiva inestricabilmente legata a un Paese-bambino come gli Stati
> Uniti, armato fino ai denti e dilaniato da divisioni interne sempre più
> esacerbate.
Warfare non è un film sulla guerra o contro la guerra. È un film della guerra.
In cui il conflitto è la soggettiva, ignorante e acritica, così immersa nel
proprio presente eterodiretto da risultare cieca a ogni elemento esterno. Una
forma di alienazione radicale, che può essere “preparata” assumendo dosi di
immagini, attraverso il filtro della distorsione mediatica – il video di Eric
Prydz a cui assistono i soldati e con cui si apre il film. Smettere di pensare e
astenersi dal dover esercitare il libero arbitrio sembra essere l’unica via.
Perché per Garland e Mendoza il videogioco-già-giocato-da-qualcuno è l’unica
metafora possibile per una tecnica e una tattica di combattimento (il titolo è
Warfare, infatti) che hanno rimosso il lato umano fino al puro nonsense. Per i
Navy Seals asserragliati in un’abitazione irachena il passaggio dalla baldanza
al panico è rapido, almeno quanto la transizione da esseri umani a oggetti. Dopo
l’esplosione improvvisa e il ferimento grave di due soldati, avviene la
reificazione. L’insensibilità alle casualties of war è il male necessario di un
conflitto impossibile da osservare nella sua interezza e complessità.
Nascondendosi negli acronimi di un gergo bellico imperscrutabile, i Navy Seals
si rifugiano in un microcosmo alienante quanto serve.
Se Civil War e Warfare esplorano le fratture geopolitiche e il potere
distruttivo delle narrazioni, è anche perché Garland vede il cinema come un
campo di battaglia per le idee. Il suo rifiuto di schierarsi in maniera
didascalica non è neutralità, ma consapevolezza che il linguaggio stesso è
un’arma. In un panorama dominato da franchising e riscritture rassicuranti, la
sua ostinazione a creare mondi autonomi, non negoziabili, lo rende un autore
raro. E se la profezia è una maledizione per chi la formula, Garland sembra
averla accettata come condizione del mestiere: guardare un passo oltre, pur
sapendo che nessuno ascolterà in tempo.
> Garland vede il cinema come un campo di battaglia per le idee. Il suo rifiuto
> di schierarsi in maniera didascalica non è neutralità, ma consapevolezza che
> il linguaggio stesso è un’arma.
Volendo individuare un protagonista incognito e ricorrente delle opere di Alex
Garland, occorre concentrarsi sul libero arbitrio, esplicitamente citato nella
serie TV del 2020 che il regista ci ha costruito attorno: DEVS, con ogni
probabilità la migliore serie degli ultimi dieci anni (e naturalmente inedita in
Italia). Uno spy-thriller sulla Silicon Valley costruito attorno a un’invenzione
misteriosa, che si trasforma gradualmente in riflessione filosofica sul libero
arbitrio e sulla predeterminazione del comportamento umano, come se fosse
possibile calcolare in maniera deterministica azioni e reazioni. Il confine tra
tecnologia, filosofia e magia è felicemente abbattuto, per la gioia di Arthur C.
Clarke (“Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla
magia”). Tecnicamente perfetta, densissima nei dialoghi e impreziosita da una
delle migliori battute sulla capacità tutta americana di nascondere e edulcorare
le peggiori verità, concentrandosi sul messaggio e sminuendo la sostanza, in una
contrapposizione degna di Le Carré con l’onesta nudità del male di matrice
russa.
La poetica di Garland, in fondo, è sempre un laboratorio di esperimenti
concettuali ‒ in cui la trama è un vettore, non il fine ‒, e di interrogativi
insoluti: cosa succede se un’Intelligenza artificiale diventa cosciente (Ex
Machina)? Se la natura riformula le sue leggi (Annientamento)? Se il conflitto
armato viene percepito come routine in cui annullarsi (Warfare)? Se un trauma
personale deforma l’intero spettro delle relazioni (Men)?
> In Annientamento, forse il manifesto della poetica garlandiana,
> l’inaffidabilità dell’immagine è totale, la sua paternità ignota. Forse ciò
> che vediamo è attribuibile a una spora che sembra riformulare la natura e
> ricalcolarla.
In quest’ultimo caso, quello di Men, Garland compie un passo rischioso: spoglia
il racconto di sovrastrutture fantascientifiche e lo riduce a un incubo
allegorico, in cui un solo attore (Rory Kinnear) incarna tutte le figure
maschili, moltiplicando l’effetto perturbante. Forse il lavoro meno riuscito di
Garland, o comunque il più problematico, ha suscitato critiche spesso
fuorvianti, legate alla lettura più superficiale del film. Soffermarsi sulla
parabola MeToo e su come la mascolinità tossica si annidi in ogni maschio
significa dimenticare che osserviamo ogni dettaglio attraverso lo sguardo
deformante e traumatizzato della protagonista, senza altri punti di vista. E
quindi ancora una volta discernere soggettività e oggettività, predeterminazione
e libertà di scelta diviene esercizio impossibile. Allo spettatore resta la
possibilità di osservare attraverso un vetro colorato, opaco. Come per lo Harry
Caul di La conversazione (1974), ottenere la certezza di una visione chiara e
distinta è arduo e opinabile quanto ricavare l’audio di una conversazione
privata priva di manipolazioni.
In Annientamento, forse il manifesto della poetica garlandiana, l’inaffidabilità
dell’immagine è totale, la sua paternità ignota. Forse ciò che vediamo è
attribuibile a una spora che sembra riformulare la natura e ricalcolarla, in
direzione uguale e opposta a quanto elaborato dall’Intelligenza artificiale del
lungometraggio di debutto, Ex Machina. Là era un costrutto artificiale a
divenire “more human than human”, e quindi manipolatorio e bugiardo; in
Annientamento è una forza aliena “ecologista” a cambiare le regole del gioco ed
escludere il fattore umano dall’equazione. La resa a un ordine che sfugge a
qualsiasi mappa razionale rimanda, più ancora che ai sinistri vaticini di H.P.
Lovecraft, al suo maestro Arthur Machen, che celava nel folklore rurale delle
terre britanniche misteri cosmici al di là dell’umana comprensione, tra
ribellioni della natura (The Terror, 1917) e sfoghi di violenta sessualità
pagana (The Great God Pan, 1894). Difficile escludere una influenza esplicita di
Machen quando la protagonista di Men mette piede in una chiesa isolata, in cui
spicca un altare istoriato di inquietanti bassorilievi. Gli strumenti del
terrore misterico rimangono gli stessi: dal tempo dell’inizio Novecento di
Machen al terzo millennio di Garland, più la specie umana si avvicina alla
presunzione di onniscienza e più si allontana dalla conoscenza intima
dell’ignoto, in un ciclo privo di fine apparente.
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M illenovecentonovantadue. “Lo stile di vita americano non è negoziabile”
afferma perentorio George W.H. Bush al Summit della Terra, dando così inizio
anticipato al ventunesimo secolo. Mike Judge ha trent’anni e ha appena venduto
Frog Baseball, il suo primo cortometraggio animato, a MTV. Quell’american way of
life sbandierata da Bush lo ossessionerà per tutta la sua carriera di animatore,
sceneggiatore e regista, fino a diventare il centro gravitazionale di tutto il
suo universo comico, in equilibrio precario tra sarcasmo e barbarie. Nei due
minuti e cinquantotto secondi di Frog Baseball esordiscono i suoi personaggi più
celebri, Beavis e Butt-Head, due giovani metallari perdigiorno che seviziano
degli animali in modi molto creativi alternando le violenze ai riff, cantati a
cappella, di Iron Man dei Black Sabbath e Smoke on the water dei Deep Purple.
Con l’arrivo del corto su MTV, Mike Judge entra di fatto nel rooster della
mitologica Liquid Television, un carosello di short animati a cui devono la
propria fama diversi altri capolavori dell’animazione come Æon Flux o Brad
Dharma, Psychedelic Detective.
Nato a Guayaquil in Ecuador, nel 1962, da madre bibliotecaria e padre
archeologo, a tre anni Mike si trasferisce con la famiglia in una fattoria ad
Albuquerque, nel New Mexico. Finito il liceo si sposta a San Diego dove ottiene
una laurea in fisica alla University California San Diego nel 1985. L’anno
successivo inizia a lavorare a Santa Monica, nella ruggente Silicon Valley, in
un’azienda che produce schede video per computer, tre mesi dopo si licenzia. Per
diversi anni suona come bassista in oscure blues band texane mentre segue un
corso di specializzazione superiore in matematica all’università del Texas. È in
questo periodo che comincia a cimentarsi con l’animazione. Crea il suo primo
corto: Office Space, in cui appare come protagonista Milton, un impiegato
frustrato che, tra un’angheria e l’altra del capo, balbetta tra sé di voler dar
fuoco all’azienda; ai tempi doveva probabilmente apparire come una versione punk
e apocalittica di Dilbert, la celebre striscia feriale di Scott Adams. Riesce a
presentare il corto in un festival di animazione a Dallas e Comedy Central lo
acquista. Nel giro di qualche anno Office Space, rinominato Milton come il suo
protagonista, diventerà un siparietto fisso nel Saturday Night Live.
Nel frattempo Judge lavora per espandere le avventure dei due protagonisti
apparsi in Frog Baseball, dando vita all’omonima serie, Beavis and Butt-Head,
che dal 1993 va in onda su MTV, divenendo la risposta hardcore punk del network
al recente successo dei Simpson di Matt Groening. Nel giro di qualche puntata si
conferma una delle serie animate per adulti di maggior successo negli Stati
Uniti, archetipo, insieme all’opera di Groening di una nuova forma di animazione
per adulti, che verrà sviluppata da South Park (1997) e dai Griffin (1999).
> La serie di animazione Beavis and Butt-Head di Mike Judge, che dal 1993 va in
> onda su MTV, diviene la risposta hardcore punk del network al recente successo
> dei Simpson di Matt Groening.
Nel 1996 Judge si confronta con il cinema, scrive e dirige il film d’animazione
Beavis and Butt-Head do America in cui partecipano anche star umane come Bruce
Willis e Demi Moore. Sessantatré milioni di dollari al box office. L’anno
successivo ritorna in TV con una nuova serie, King of the Hill, scritta insieme
a Greg Daniels (The Simpson, The Office, Park and Recreation), che continuerà ad
andare in onda su FOX per una decina di anni.
Mentre il successo gli sorride, Judge decide di abbandonare per la prima volta
l’animazione e confrontarsi con un film live action, il remake di un’opera di
animazione realizzato con attori reali. Scrive così la sceneggiatura per un
lungometraggio ispirato alla sua serie di corti ambientati in ufficio.
Riproposto con il suo nome originale, Office Space esce nei cinema nel 1999 ed è
un fiasco, rientra appena delle spese di produzione (dieci milioni contro i
dodici guadagnati). Il film è l’occasione per riproporre molte delle gag della
serie animata originale calandole in una inedita cornice politica, quasi
sindacale.
Peter Gibbons, il protagonista e collega di Milton, è anche lui un impiegato
frustrato della Initech, una software house texana. Insofferente al suo monotono
lavoro d’ufficio e costantemente sopraffatto dai rimproveri passivo-aggressivi
dei suoi otto capi, Peter viene convinto dalla sua ragazza a intraprendere delle
sedute di psicoterapia. Seduto sulla poltrona confessa allo psichiatra che da
quando ha iniziato a lavorare “ogni singolo giorno della mia vita è stato
peggiore di quello precedente; questo significa che ogni singolo giorno che ci
incontriamo qui, quello è il giorno peggiore della mia vita”. Il dottore,
impressionato dalla sua tristezza, gli propone un percorso di ipnosi, ma durante
una delle sedute, mentre cade in trance con la proposizione di “ignorare tutte
le sue preoccupazioni riguardo il suo lavoro, fino a quando non schioccherò
nuovamente le dita”, lo psichiatra muore per un attacco cardiaco. Peter, ancora
incosciente, torna a casa e si risveglia il mattino successivo in uno stato di
inedito benessere. Niente è cambiato tranne che, nonostante non si sia
presentato a lavoro, gli infiniti messaggi del capo nella segreteria telefonica
non lo turbano più.
Comincia così a ignorare completamente le preoccupazioni per il lavoro e la sua
vita si riempie nuovamente di senso: chiude la sua vecchia relazione in costante
crisi e chiede di uscire alla ragazza che ammirava da tempo. Ottiene addirittura
una promozione al lavoro quando impressiona una coppia di headhunter, chiamati a
efficientare l’azienda, confessando di “lavorare appena quindici minuti ogni
giorno e il resto del tempo fissare la sua scrivania” e che proprio alla
struttura dell’azienda si deve la sua totale assenza di motivazione sul lavoro:
“Ho otto capi. Questo significa che quando faccio un errore ci sono otto diverse
persone che vengono a farmelo notare. Questa è la mia sola motivazione: evitare
di essere scocciato”. Gibbons è insomma un impiegato in quiet quitting che,
attraverso una forma artificiale di rimozione della responsabilizzazione
introiettata sul lavoro, ritrova la libertà di affermare sé stesso in un mondo
nel quale non era che un ingranaggio anonimo.
È questo il primo distillato del cinema di Mike Judge che tornerà in ognuno dei
suoi film: prendere l’impalcatura della rom-com per sviluppare al suo interno un
tema politico. Nonostante i risultati altalenanti, l’intuizione è efficace e
permette al film di sviluppare una profonda riflessione sui i lati più
disumanizzanti dello sfruttamento lavorativo.
La svolta decisiva nel film avviene quando Gibbons e due suoi colleghi che
stanno per essere licenziati, decidono di truffare l’azienda con un virus
informatico che devia microtransazioni sul loro conto bancario, “come succede in
Superman 3, un film davvero sottovalutato”. Dopo varie peripezie e sul punto di
venire scoperti, Peter decide di restituire il denaro con un assegno e lascia
nell’ufficio del capo una lettera in cui confessa la truffa. Proprio quel
giorno, dopo l’ennesima angheria, Milton decide finalmente di dare fuoco
all’azienda, che brucerà insieme alle prove del misfatto.
> In Office Space è presente un aspetto del cinema di Mike Judge che tornerà in
> ognuno dei suoi film: prendere l’impalcatura della rom-com per sviluppare al
> suo interno un tema politico.
Sono i classici temi dell’alienazione e della reificazione, ampiamente esposti
da Karl Marx nelle sue teorizzazioni sulla struttura del lavoro nella società
capitalista quelli su cui si concentra la trama del film. L’alienazione è lo
stato in cui si trova l’uomo quando non riconosce più nel lavoro (nella sua
organizzazione, nei suoi strumenti, nei suoi prodotti) una parte di sé, una sua
creazione, ma gli appare come qualcosa che sfuggendo alla sua volontà si pone
contro di lui, un ostacolo alla spontanea ricerca di felicità e realizzazione. È
un conflitto che ricorda quello tra il dottor Frankenstein e la sua creatura, se
soltanto il primo soffrisse di un’amnesia che non gli permettesse più di
riconoscerla come un frutto del suo ingegno. La reificazione, in breve, è la
naturalizzazione di questo stato: l’uomo crede di riconoscere nello stato
transitorio imposto dalle logiche dello sfruttamento una legge di natura.
Continuando la lettura marxista, il film incappa proprio in quella che era la
maggiore forma di ribellione operaia con cui il giovane Marx si era duramente
confrontato: il luddismo. In una delle scene finali del film infatti vediamo
Peter abbandonare l’ufficio per l’ultima volta, insieme ai suoi due complici,
Michael e Samir, e portare con sé una delle fotocopiatrici. La macchina sarà la
protagonista di una lunga scena di “pestaggio luddista” con tanto di
slow-motion, mazze da baseball e gangsta rap in sottofondo.
Mentre in Office Space i temi dell’alienazione e della reificazione restano
confinati al mondo dell’ufficio, di cui esiste ancora un fuori, un mondo esterno
fatto di amicizie, bevute e barbecue in cui si può evadere, nella sua opera
successiva Mike Judge porterà queste minacce alle estreme conseguenze fino a
coinvolgere l’intera società e infiltrarsi profondamente nelle facoltà cognitive
dell’umanità intera.
Nel 2006, con il suo terzo film, Idiocracy, Judge si confronta per la prima
volta con la fantascienza. Il film si apre con un’epica voce fuoricampo che,
mentre assistiamo all’avvicinarsi sullo schermo del globo terrestre fluttuante
nello spazio, ci introduce alla premessa distopica:
> L’evoluzione umana era giunta a una svolta. La selezione naturale, il processo
> per cui il più forte, più intelligente, più veloce, si riproduce in maniera
> maggiore rispetto agli altri, il processo che un tempo aveva favorito gli
> aspetti più nobili dell’uomo adesso favoriva caratteristiche diverse. La
> maggior parte della fantascienza dell’epoca aveva predetto un futuro più
> civilizzato e più intelligente, ma più il tempo passava, più le cose
> sembravano andare nella direzione opposta: un istupidimento generale. Com’era
> potuto succedere? L’evoluzione non premia necessariamente l’intelligenza.
> Senza predatori naturali ad assottigliare il branco iniziò a premiare coloro
> che si riproducevano di più e lasciò che gli intelligenti diventassero una
> specie in via d’estinzione.
Non è, evidentemente, la più raffinata delle ipotesi di biologia speculativa, ma
c’è anche di peggio: il problema, in cui incappa Mike Judge al minuto uno del
film, implicito nella sua stessa premessa (darwinismo sociale), e ben più
problematico, è l’eugenetica.
Incomincia così la memorabile sequenza (un case study, ci suggerisce la scritta
in sovraimpressione) in cui vediamo due coppie confrontarsi con la propria
intenzione di procreare in un frenetico montaggio alternato: per Trevor e Carol,
dall’alto quoziente intellettivo, “avere figli è un’importante decisione”,
“aspettiamo il momento giusto” (all’unisono, guardandosi negli occhi) “non
vogliamo farlo senza riflettere”; Trish invece entra in cucina mentre Clevon sta
bevendo una birra e gli urla: “oh merda sono di nuovo incinta”; apprendiamo
dall’albero genealogico in sovraimpressione che questo è il loro quinto figlio.
Le scene continuano a susseguirsi in un’escalation grottesca che avanza di
quinquennio in quinquennio: Trevor e Carol constatano sereni che “non possiamo
permetterci un figlio adesso, non con l’attuale congiuntura finanziaria”; nel
frattempo Clevon ha avuto due figli anche con la vicina di casa Britney e uno da
Mckenzie che lo sta inseguendo con un bastone; Trevor e Carol, finalmente decisi
al grande passo, non riescono a ottenere una gravidanza e battibeccano sul
possibile ricorso all’inseminazione artificiale; intanto Clevon Jr., quarterback
della squadra locale e primogenito di Clevon, nonostante si sia impalato con i
genitali su un cancello in seguito a un incidente con una moto d’acqua, grazie
ai progressi scientifici nel campo delle cellule staminali è riuscito comunque
ad avere diversi figli con le cheerleaders del suo liceo; purtroppo Trevor è
morto per un infarto mentre si masturbava per ottenere lo sperma per
l’inseminazione artificiale, Carol incrociando le dita dice di aver congelato i
suoi ultimi ovuli, “per quando arriverà l’uomo giusto”; l’albero genealogico di
Clevon nel frattempo si espande fino a straripare dallo schermo; “andò avanti
così per generazioni” annuncia, piena di pathos, la voce fuori campo.
> In Idiocracy i due partecipanti a un esperimento segreto di ibernazione si
> ritrovano nel 2505 in un mondo dove regna la più totale stupidità. Ma quello
> in cui vediamo risvegliarsi i due protagonisti non è poi così dissimile dal
> nostro 2025.
Esposto il presupposto teorico dell’intreccio narrativo, il film si sviluppa
come una scanzonata commedia fantascientifica in cui seguiamo le avventure di
Joe Bauers, bibliotecario dell’esercito, e Rita, una prostituta, scelti per i
loro parametri cognitivi “perfettamente nella media”, per partecipare a un
esperimento segreto di ibernazione della durata di un anno. Qualcosa ovviamente
va storto e i due si ritrovano nel 2505 in un mondo dove regna la più totale
stupidità. Ma quello in cui vediamo risvegliarsi i due protagonisti non è poi
così dissimile dal nostro 2025 (di cui è pure una sorta di anagramma numerico).
Prendiamo il primo incontro di Joe, che piomba per sbaglio nella casa di Frito
Pendejo, quello che più avanti nel film diventerà il suo avvocato. Lo trova
seduto, su una poltrona con gabinetto integrato, mentre guarda un grande schermo
contornato di pubblicità su cui va in onda Ow! My balls!, una serie
interminabile di video in cui il protagonista incappa in vari incidenti che
hanno a che fare con i suoi genitali. Una situazione familiare che non può non
ricordarci quella di una seduta mattutina al bagno mentre ci frastorniamo con
centinaia di clip su TikTok.
Joe e Frito, durante tutta la parte centrale del film, ci accompagnano in varie
peripezie, permettendoci di scoprire come funziona la società del futuro: mentre
le insegne delle attività commerciali hanno adottato nomi sempre più volgari
(bambini festeggiano il compleanno dalla famosa catena di fastfood Buttfuckers),
i vari indumenti che le persone indossano non sono che patchwork pubblicitari di
una moltitudine di brand e Joe, nonostante parli il suo inglese medio, ha grandi
difficoltà a comunicare con chiunque: ogni volta scatena una reazione violenta
in chi lo ascolta perché, come ci avverte la solita voce fuori campo, la sua
lingua rispetto a quella corrente suona davvero “pompous and faggy”. Ancora:
negli ospedali si accumulano le slot machine, il film di maggior successo
dell’anno si chiama Ass ed “è esattamente quello, per novanta minuti” (un culo
su uno schermo). Joe finirà persino per incontrare il presidente degli Stati
Uniti Dwayne Elizondo Mountain Dew Herbert Camacho, un ex wrestler che ha
trasformato la Casa bianca in una corrida di macchiette untuose da talent show.
Una classe politica non dissimile da quella che è possibile ammirare oggi nel
secondo governo Trump.
Ogni azione (ricordiamolo: siamo nel futuro) è tecnologicamente determinata,
dalle diagnosi negli ospedali, alla videosorveglianza onnipervasiva, dalla
gestione carceraria fino alla identità stessa dell’individuo, esposta
costantemente al controllo delle forze dell’ordine tramite un codice a barre
tatuato sul polso. Tutto così assurdo eppure stranamente familiare, come nella
migliore fantascienza. Con una forzatura ermeneutica possiamo provare a
ipotizzare, con il senno di poi, che un così plateale declino cognitivo, invece
che da una selezione genetica, potrebbe essere stato causato proprio dall’uso di
quelle tecnologie compiacenti che, in Idiocracy, vediamo radicate profondamente
nella vita quotidiana della società.
Tanto nella fantascienza di Judge, quanto nel nostro presente, viviamo in una
società ipertecnologica che, deresponsabilizzando l’individuo in ogni sua
mansione pratica e lo porta a un inaridimento cognitivo dovuto all’oblio del
processo stesso, demandato ormai da tempo, soltanto alla macchina. È la
situazione che André Gorz, filosofo francese, in L’immateriale (2003),
interrogandosi se l’umanità sia ancora soggetto o oggetto della propria
evoluzione tecnologica, rintraccia nelle nuove forme di capitalismo cognitivo:
> gli apparati megatecnologici, ritenuti dominare la natura e sottometterla al
> potere degli uomini, assoggettano gli uomini agli strumenti di quel potere. Il
> soggetto sono loro: questa megamacchina tecnoscientifica che ha abolito la
> natura per dominarla e che costringe l’umanità a mettersi al servizio di
> questo dominio. Lo sviluppo delle conoscenze tecnoscientifiche cristallizzate
> nel macchinario del capitale, non ha generato una società dell’intelligenza ma
> una società dell’ignoranza. La grande maggioranza conosce sempre più cose, ma
> ne sa e ne comprende sempre meno.
In Idiocracy le piante vengono annaffiate da anni con una bevanda energetica
chiamata Brawndo – The thirst mutilator. Lo scopriamo quasi alla fine del film,
quando realizziamo che tutto il mondo è preda di una carestia di cui non si
conoscono le cause. Nel frattempo Joe aveva aperto un lavandino e visto uscire
la bevanda verde fluorescente invece dell’acqua, una tra le tante stranezze.
Tutto il mondo in realtà ha sostituito da tempo e ovunque l’acqua col Brawndo;
quando Joe chiede dell’acqua gli viene risposto ridendo “quale? quella del
cesso?”; quando chiede il perché di questa sostituzione gli viene risposto
“perché Brawndo ha gli elettroliti!”, ma nessuno, Joe compreso, sa cosa siano
questi elettroliti.
> Tanto nella fantascienza di Judge, quanto nel nostro presente, viviamo in una
> società ipertecnologica che, deresponsabilizzando l’individuo in ogni sua
> mansione pratica e lo porta a un inaridimento cognitivo dovuto all’oblio del
> processo stesso, demandato ormai da tempo, soltanto alla macchina.
Torna, come in Office Space, il tema dell’alienazione e della reificazione, ma
in Idiocracy la sua pervasività è completa, l’ottusità tecnocratica della
software house ha infiltrato l’intera società e come l’ufficio era destinato a
bruciare alla fine del film precedente, qui il mondo, reso sterile dall’eccesso
di sali minerali contenuti nella Brawndo sembra destinato a inaridirsi e
collassare.
L’apocalisse appare imminente perché anche il bene primario alla base della vita
terrestre, l’acqua, ha subito un processo di completa risignificazione
mercantile, è mancante di una qualche proprietà fondamentale (i decantati
elettroliti) e, in quanto gratuita e disponibile, non può avere valore, o se lo
ha deve essere regolamentata. È proprio questo il modo in cui Gorz illustra il
rapporto fagocitante tra capitalismo e natura: “l’abolizione della natura ha
come motore non il progetto demiurgico della scienza, ma il progetto del
capitale di sostituire alle ricchezze prime, che la natura offre gratuitamente e
che sono accessibili a tutti, delle ricchezze artificiali e mercantili:
trasformare il mondo in merci di cui il capitale monopolizza la produzione,
ponendosi in tal modo come padrone dell’umanità”.
Quando Joe viene infine riconosciuto come l’uomo più intelligente del mondo e
assoldato dal presidente Camacho come ministro degli Interni per risolvere il
problema della siccità, propone banalmente di sostituire della semplice acqua
alla bevanda energetica usata nell’irrigazione dei campi ormai infertili. Prima
che, tra lo sgomento di tutti, la soluzione si riveli efficace, il presidente
viene contattato dal CEO della Brawndo Corporation in preda al panico, le azioni
stanno crollando e il computer ha eseguito autonomamente i licenziamenti
necessari a riassestare la società, metà della popolazione del Paese si ritrova
disoccupata e inferocita invade la Casa bianca: vogliono la testa di Joe. La
messa in scena del film è decisamente più sobria rispetto all’attacco a Capitol
Hill del 2021.
Lo scambio reciproco di soggetto e oggetto che Gorz vede nel rapporto odierno
tra esseri umani e tecnologia digitale non determina soltanto un inedito
slittamento di potere ma anche un capovolgimento delle influenze ideologiche
attive in questo campo di forze. Quella che Marcuse definiva la razionalità
tecnologica, l’ideologia della classe dominante di cui è imbevuto ogni prodotto
tecnologico da questa progettato, in una società in cui la tecnologia è ormai
soggetto autonomo dell’esistente, da strumento del potere diventa essa stessa
creatrice di una propria ideologia autonoma che l’uomo subisce passivamente.
L’umanità aspira infine a quell’assenza di pensiero (istupidimento), a
quell’automatismo freddo (deresponsabilizzazione) che è una caratteristica
intrinseca della macchina.
Non stiamo già decantando tutti da anni le virtù sorprendenti dell’Intelligenza
artificiale? Sentendoci in pericolo, dipendenti, aspirando infine alla sua
velocità e abilità tecnica? Quanto abbiamo dovuto sminuire la vita umana in sé
per paragonarci a efficienti dispositivi digitali e quanto della visione attuale
dell’uomo come semplice macchina pensante è implicita in questo schema di
pensiero? Continua Gorz: “l’uomo è ‘obsoleto’, bisogna dotarlo di protesi
chimiche per ‘tranquillizzare’ il suo sistema nervoso stressato dalle
aggressioni che subisce e di protesi elettroniche per aumentare le capacità del
suo cervello”.
Come si esce da tutto ciò? Un testo recente, Hacking del sé (2024), l’ultimo
contributo del lavoro ormai decennale del collettivo Ippolita, un centro di
ricerca indipendente che si occupa di filosofia dell’informatica e
tecnopolitica, può essere una guida utile. Il libro, raccogliendo una
miscellanea di interventi del collettivo (prefazioni, postfazione, articoli e
cut-up) pubblicati in varie sedi, si interroga proprio su “l’impatto che le
tecnologia commerciali hanno sui loro utenti e come influiscano sulla
costituzione della loro soggettività, sulla loro formazione e sul loro vivere
comune”.
> Secondo il collettivo Ippolita è in atto una sempre maggiore “delega reiterata
> dei desideri e delle capacità cognitive a procedure algoritmiche. Ma se le
> tecnologie non sono neutre, bensì incarnano e configurano mondi, la delega
> tecnica si rivela per quello che è: delega sociale e politica”.
Analizzando la delega tecnologica che mette in atto l’umanità nei confronti
delle tecnologie digitali, Ippolita scandaglia le conseguenze di quel processo
per cui “milioni di utenti si servono di app e servizi per il monitoraggio e la
gestione di aspetti sempre più numerosi della vita quotidiana”; è in atto una
sempre maggiore “delega reiterata dei desideri e delle capacità cognitive a
procedure algoritmiche. Ma se le tecnologie non sono neutre, bensì incarnano e
configurano mondi, la delega tecnica si rivela per quello che è: delega sociale
e politica”.
L’obiettivo delle grandi corporation tecnologiche, si spiega nel testo, è
proprio quello “di rendere comune e abituale un numero crescente di azioni e
relazioni cui viene riconosciuto valore in quanto profittevole, secondo l’etica
del consumo incarnata appunto dall’utente, che è paradossalmente al servizio del
fornitore del servizio”. È lo stesso ribaltamento di prospettiva di cui parla
Gorz riguardo il progresso tecnologico. È lo stesso procedimento che, fuori
dall’ambito tecnologico, è attuato dalla Brawndo Corporation nel film, che è
riuscita a sostituire l’acqua con la sua bevanda energetica.
Per Ippolita la soluzione non passa per un intervento correttivo sociale (che
oggi nessuno, nemmeno gli Stati, se volessero, avrebbero la forza di effettuare)
ma da una disciplina del soggetto, una routine che coinvolga tanto il nostro
corpo quanto la nostra mente. Il concetto è espresso fin dal titolo del volume:
> per hacking del sé, ispirandoci ai lavori dell’ultimo Foucault, intendiamo un
> esercizio di cura del sé che inizia con il comprendere quale tipo di norma le
> megamacchine sono capaci di farci assumere, per capire come disinnescarla
> prima che la sua forza ci renda conformi e oppressi. Avere riguardo per il
> proprio corpo digitale, proteggerlo perché si emancipi dall’informatica
> commerciale, riconoscere l’importanza che ha nella nostra vita, significa fare
> un passo di consapevolezza tecnica e nel contempo di responsabilità etica
> verso noi stessi e verso la comunità. Per questo secondo noi il campo della
> battaglia si gioca sulla cura di sé, tra addestramento e consapevolezza, ed è
> qui che si aprono margini possibili di emancipazione e coscientizzazione.
Il lavoro che bisognerà fare – qui e ora – è esposto nel libro in maniera piana
e pragmatica, sono semplici propositi che provano a illuminare una via
possibile, di cui non conosciamo gli ostacoli futuri ma di cui possiamo già
intuire chiaramente la direzione: “comprendere che tipo di riconfigurazione sta
avvenendo e agire una decodifica delle norme che tentano di scriverci addosso: è
questo l’esercizio e l’abito che stiamo ricercando. Osservare e osservarsi,
andare domandando, sperimentare e verificare nuove individuazioni psichiche e
collettive”.
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