
Cristalli, ossa e corrosioni
Il Tascabile - Thursday, November 6, 2025P ensiamo al suono che potrebbe avere una soluzione chimica sovrasatura: un suono ronzante, uno sciamare amorfo di atomi carichi di potenziale. Poi interviene una singolarità, un germe cristallino, un glitch, che innesca uno stato di tensione talmente eccessivo da non essere più sostenibile. Ecco che il cristallo si crea, una melodia viene inventata per risolvere lo stato ipertensivo: assistiamo alla nascita della forma, alla morfogenesi, al farsi della musica. Ma non c’è neanche il tempo per contemplarla che il nastro scorre a velocità infinita e l’istante dopo ci ritroviamo improvvisamente all’estremo opposto del ciclo. La melodia ha girato su sé stessa per secoli, forse millenni, conservando di sé soltanto una morfologia spettrale, una sorta di resistenza minima allo sbiadimento completo. È quasi impercettibile, ma riusciamo ancora ad ascoltarla: è ridotta a un osso leggero, piatto, che oscilla lievemente nella corrente. Sembra sul punto di sciogliersi del tutto, di sbriciolarsi… sono gli ultimi istanti di un Chupa Chups nella bocca di un bambino in un altro universo… ecco: si è liquefatto; ronzio.
Si tratta di Shadows lifted from invisible hands, album realizzato dal musicista e artista statunitense James Hoff nel 2024 e pubblicato dall’etichetta Shelter Press, sempre impegnata sul fronte più sperimentale delle possibilità espressive della musica elettronica. Per descrivere l’album in modo meno metaforico potremmo dire che si muove tra due estremi che non potrebbero essere più distanti: da un lato il ronzio stridente, quello che sentiamo nelle orecchie quando ci concentriamo sul silenzio, e che è amplificato nel caso di alcune malattie dell’apparato uditivo o quando un eccesso sonoro ha impattato i nostri timpani lasciando un alone di alte frequenze; dall’altro, motivi pop di tracce famosissime (e bellissime), i cui motivetti si insinuano nella testa, girando su loro stessi in modo tanto alieno quanto lo è la percezione del ronzio. Tra queste tracce troviamo “Heart of Glass” di Blondie, “Space Oddity” di David Bowie, “Perfect day” di Lou Reed e “Into the Groove” di Madonna. Queste canzoni sono però rese quasi irriconoscibili per come sono state alterate, ri-suonate o ri-arrangiate e permane soltanto qualcosa della loro figura, una sorta di propensione pop alla figura.
Ma tra questi due poli James Hoff dilata e ci rende sensibile l’intermezzo, il movimento del farsi e disfarsi, il ritornello e il ritornellizzare come processo sempre sul punto di cristallizzarsi e poi di smembrarsi. È l’inversione di una comune esperienza di ascolto e forse anche un’inversione del rapporto con la conoscenza in generale, che in musica è già stata tentata da illustri sperimentatori del crepitio come William Basinski, Philip Jeck o The Caretaker: “Cavalieri del medium”, per riprendere un’espressione usata da Rosalind Krauss nell’ambito delle arti visive. Ma qui il medium non è solo il supporto dell’opera, non vediamo tanto i bordi del quadro quanto la matrice stessa dentro cui sprofonda il contorno distinto. Per mantenere il parallelismo col visivo potremmo dire che l’ascolto di questa musica è simile a quando guardando un colore ci si ritrova, con Benjamin, ad “affondare lo sguardo in un occhio estraneo che lo inghiotte dentro di sé”, sono “colori che vedono sé stessi”, in un mimetismo con la percezione che arriva a far dire: “se fossi materia, mi colorerei”.
James Hoff dilata e ci rende sensibile l’intermezzo, il movimento del farsi e disfarsi, il ritornello e il ritornellizzare come processo sempre sul punto di cristallizzarsi e poi di smembrarsi.
Prendendo sul serio questa inversione musicale della conoscenza potremmo ritrovarci ad ascoltare qualcosa di simile al mito escatologico raccontato per bocca di Socrate nel Fedone platonico, ma amputato proprio della sua aspirazione escatologica alla purezza. Socrate racconta infatti di come la condizione degli esseri umani sia quella di abitare non sulla terra, bensì nelle sue cavità, intorno alle quali vivono “come rane o formiche intorno ad uno stagno”. Esiliati dalla terra vera, luogo puro nell’etere degli astri e del cielo, si trovano a essere immersi in ciò che dell’etere non è altro che il sedimento vischioso, ormai degradato in aria, nebbia e acqua e riversatosi nelle cavità della terra. Ma pare che la loro situazione sia quella di chi, abitando nel mezzo delle profondità del mare, credesse di abitare invece sulla sua superficie, non rendendosi conto di vedere il sole e gli altri astri sempre e soltanto attraverso la densità opaca dell’acqua. Un’acqua che, per effetto della salsedine, corrode e rovina le pietre e in cui, in generale, non cresce nulla di buono e niente può essere perfetto. Al massimo ci sono “rocce, arene e immense distese di melme e pantani”.
Tuttavia Platone, essendo il suo mito escatologico, ammette la possibilità arrivare all’estremo lembo del mare e… tirarsene fuori. Chi arriva a quel punto – racconta – e fosse capace “di sostenere una tale visione, conoscerebbe che il vero cielo, la vera luce e la vera terra sono quelli”. E se invece la verità non si facesse che sott’acqua e nella corrosione? Che succederebbe se la luce non fosse altro che quel medium subacqueo, vischioso e opaco attraverso cui e in cui si manifestano le cose, che corrode e illumina al tempo stesso?
È l’inversione in cui si trova trascinato il cercatore di perle, nella singolare vicenda raccontata da Georges Didi-Huberman alla fine del suo libro su Aby Warburg. Proprio questa vicenda può funzionare come immagine vivida del mito platonico privato dell’escatologia. Ripercorriamola: inizialmente il pescatore si immerge e, credendo ancora di essere un “detective” del mare, tra i fondali cerca i suoi tesori come enigmi da risolvere. Un giorno trova una perla, la porta in superficie e la bandisce come un trofeo. Poi la porta a casa e la mette in una teca. Compila una scheda che crede definitiva e pensa di aver chiuso con gli abissi. Molto più tardi, per caso, si accorge di non aver mai davvero guardato la perla perché ora, contemplandola come in un sogno, la riconosce immediatamente: “non è altro che l’occhio di suo padre morto, secondo l’indimenticabile profezia cantata da Ariel, nella Tempesta di Shakespeare:
A cinque teste sott’acqua
Tuo padre giace.
Già corallo
Sono le sue ossa
Ed i suoi occhi
Perle.
Tutto ciò che di lui
Deve perire
Subisce una metamorfosi marina
In qualche cosa
Di ricco e di strano.
Ad ogni ora
Le ninfe del mare
Una campana
Fanno rintoccare”.
Allora il pescatore, preso dall’inquietudine, dalla schisi, dalla ricerca del tempo perduto non riesce a non rituffarsi. Si immerge in profondità e scopre che i tesori del mare proliferano, che suo padre gli ha lasciato molte altre meraviglie oltre a quell’unica perla e tra esse si confondono tutte le perle di innumerevoli generazioni di antenati, “innumerevoli padri giacciono in innumerevoli tesori sul fondo del mare”. Ma soprattutto scopre che
è la materia stessa in cui nuota, è il mare, l’acqua torbida e materna, tutto ciò che non è “tesoro” indurito, è lo spazio intermedio tra le cose, l’invisibile flusso che passa tra perle e coralli, è proprio questo che, con il tempo, ha trasformato gli occhi di suo padre in perle e le sue ossa in coralli. È all’intervallo, alla materia del tempo – qui fluente, là stagnante – che sono dovute tutte le metamorfosi che fanno di un occhio morto un tesoro sopravvivente.
Il desiderio di non tornare più in superficie è forte. È lo stesso spazio intermedio in cui nuota la musica di James Hoff, quello di una cristallizzazione dilatata e in continuo movimento, sempre sospesa e al limite con l’amorfo, che inventa nuove forme modellandosi in relazione all’ambiente esterno, la cui capacità corrosiva innesca nuove germinazioni. Come “un cristallo corrisponde alla struttura fissa lasciata da un individuo che avesse vissuto per un solo istante” (Gilbert Simondon), così le tracce dell’album di Hoff contengono, come in miniatura o in un fermo immagine, tutto il movimento della vita di una forma. Dalla nascita della morfogenesi ci portano direttamente alle forme che giacciono abbandonate sul fondo del mare, ritornelli resi irriconoscibili e mossi dalla corrente come ossi di seppia. Ma come escludere in fondo che anche in queste ossa, prima o poi, potrà innescarsi una nuova metamorfosi?
La musica di James Hoff nuota nello spazio intermedio di una cristallizzazione dilatata e in continuo movimento, sempre sospesa e al limite con l’amorfo, che inventa nuove forme modellandosi in relazione all’ambiente esterno, la cui capacità corrosiva innesca nuove germinazioni.
Mi rendo conto di aver fatto una descrizione molto materica di questo album, tanto da farlo sembrare quasi un’opera di land art, come può essere l’eccezionale Spiral Jetty di Robert Smithson. Ma prima di incontrare direttamente Smithson, è forse un altro lavoro di Hoff che può portarci ancora più in prossimità di un’arte a contatto con il tempo, con i processi e i luoghi. Si tratta di HOBO HUFO (v. Cernobyl), un lavoro audio/video pubblicato questa volta dall’etichetta PAN, nel 2019. Il video del lavoro consiste in una versione modificata di Google Street view, che aleggia tra le rovine della città ucraina di Pryp”jat’, determinando i suoi movimenti in relazione alla musica. Pryp”jat’ è una città fantasma, abbandonata dopo il disastro nucleare di Černobyl’, che rientra nella zona di alienazione di trenta chilometri istituita intorno alla centrale e che dal 2022 è in mano alle forze russe.
HOBO UFO tiene vertiginosamente insieme numerosi strati: c’è il livello molecolare delle radiazioni radioattive, invisibili ma la cui forza incoercibile ha portato a dover abbandonare un’intera area urbana; un’azione della natura che si riappropria di un luogo affettivamente carico, trasformandolo in materiale indifferente attraverso cui far nuovamente passare la sua azione rimodellatrice; un software che con simile indifferenza registra immagini nello stesso modo in cui farebbe con qualunque altro luogo (in cui il capitalismo è quantomeno riuscito a far arrivare la Google Car o un drone per fotografare la strada); un suono che tra il glitch, la malinconia e una solennità cosmica sembra far passare attraverso di sé tutti questi strati, componendo un’epica che va dalle molecole alle forme di vita umane alla loro autodistruzione.
Robert Smithson, che oggi avrebbe ottantasette anni se non fosse scomparso prematuramente all’età di trentacinque, è il grande precursore di questo tipo di gesti artistici, soprattutto per come è riuscito a riflettere sull’esperienza e a rendere sensibile nella sua opera questa confusione di scale, in cui il fare umano e una sorta di entropia cosmica riescono a trovarsi condensati, collidendo e comunicando. Un lavoro rappresentativo del suo atteggiamento e particolarmente affine a HOBO UFO è il testo The monuments of Passaic, del 1967. Si tratta di un’“odissea suburbana” che in realtà non è nulla più che il fotoracconto di un percorso a piedi nella cittadina industriale di Passaic, in provincia di New York. Tutta l’avventura nasce a partire dallo sguardo rivolto a Passaic: uno sguardo che cerca e crea attivamente segnali, monumenti e metafore là dove sembrerebbe non esserci nulla. “Il tempo – scrive Smithson – trasforma le metafore in cose, e le accumula in stanze fredde, o le colloca nei parchi giochi celestiali delle periferie”. Passeggiando per Passaic, la realtà di Smithson si muove in un sottile confine tra rappresentazione e distruzione, mostrandosi come “un particolare tipo di eliografia”, “una sorta di cartolina auto-distruggentesi di un mondo di fallita immortalità e oppressiva smania di grandezza”, «a moving picture that I couldn’t quite picture». La smania umana di in-formare la materia e produrre segni appare come un piccolo e comico museo di tentativi per contrastare l’entropia dell’universo.
Ma la sua più grande opera è senza dubbio Spiral Jetty, uno dei maggiori risultati della land art americana. Si tratta del gigantesco “molo a spirale”, tracciato nel 1970 con una ruspa sui bordi del grande lago salato nello Utah, poi inghiottito dall’innalzamento della marea del lago e, infine, riemerso, come fosse Atlantide, nel 1999. Ma, dal momento che la spirale era composta di terra e blocchi di basalto neri, durante il periodo dell’immersione si è ricoperta di cristalli di sale e quando è risorta si è presentata in una nuova forma, fatta di un bianco immacolato e scintillante. In un abile gioco di mise-en-abyme il processo di realizzazione dell’opera è stato anche filmato, entrando a far parte del materiale di un film omonimo che mischia l’opera alla sua documentazione e al gesto di documentare in generale.
Come racconta Smithson, Spiral Jetty non è più distinta dal territorio, non si stampa su di esso come su una superficie vergine, emerge e fa tutt’uno con esso, ne è cambiata e lo cambia.
Dove comincia Spiral Jetty? Quando comincia? Forse, come un gigantesco rizoma, “non comincia e non finisce, è sempre nel mezzo, tra le cose, interessere, intermezzo” (Deleuze e Guattari). Effettivamente, come racconta Smithson, l’opera non è più distinta dal territorio, non si stampa su di esso come su una superficie vergine, emerge e fa tutt’uno con esso, ne è cambiata e lo cambia. Come in un frattale “ogni cristallo cubico di sale fa eco alla Spiral Jetty nei termini del reticolo molecolare del cristallo. La crescita in un cristallo procede intorno un punto di dislocazione come una vite. La Spiral Jetty potrebbe essere considerata uno strato interno del movimento spiraliforme del reticolo cristallino, ingrandito trilioni di volte”. Smithson gioca realmente e materialmente con il processo di cristallizzazione che abbiamo utilizzato metaforicamente per descrivere il primo album di Hoff: Shadows lifted form invisible hands e Spiral Jetty risuonano insieme.
Tra l’esperienza del luogo che cattura Smithson, l’avventura titanica della realizzazione, il suo racconto filmato e narrato e l’azione del luogo sull’opera si realizza un unico continuum, un unico medium, un’unica meteorologia, in cui vari attori umani e non umani reagiscono uno nell’altro e uno con l’altro, leggendosi e forzandosi a vicenda. Da un certo punto di vista Spiral Jetty non esiste, ci sono solo riecheggiamenti e fluttuazioni, “mentre si afferra la spirale, se ne viene afferrati”: è un gigantesco metabolismo. Mentre filma il luogo dall’alto Smithson racconta:
Il suono del motore dell’elicottero è diventato un lamento primordiale riecheggiante in inconsistenti visioni aeree. Ero qualcosa di diverso da un’ombra in una bolla di plastica fluttuante in un luogo fuori dal mio corpo e dalla mia mente? […] Stavo di nuovo scivolando fuori da me stesso, dissolvendomi in un inizio unicellulare, cercando di localizzare il nucleo alla fine della spirale. Tutto questo sangue in moto ci fa rendere conto di soluzioni protoplasmiche, la materia essenziale tra il formato e il non formato, masse di cellule fatte prevalentemente di acqua, proteine, lipidi, carboidrati e sali inorganici. Ogni goccia che schizzava sopra la Spiral Jetty coagulava in un cristallo. L’acqua ondeggiante diffondeva milioni e milioni di cristalli sopra il basalto.
Ma, prima di disintegrarci anche noi, fermiamoci un attimo. Cosa resta di tutto questo? Il sito dell’opera è diventato luogo di migrazione per chi, conquistato da questo racconto, ha provato a prenderne parte. Lo scrittore Geoff Dyer ricorda, per esempio, di averlo percepito come “come un luogo abbandonato, ma non un luogo il cui senso fosse stato abbandonato. Aveva conservato – o generato – una sua cupa nodalità”.
Tra l’esperienza del luogo che cattura Smithson, l’avventura titanica della realizzazione, il suo racconto filmato e narrato e l’azione del luogo sull’opera si realizza un unico continuum, un unico medium, un’unica meteorologia, in cui vari attori umani e non umani reagiscono uno nell’altro.
La nodalità è il tentativo umano di collocarsi, di darsi un posto nel tempo naturale, dandogli una forma tramite strategie diverse, come si fa in modo più burocratico con i calendari o con i musei: un far tempo del tempo. Tuttavia qui la forma singolare si perde e quello che si esperisce è la sfasatura tra lo sfondo e la figura, che non sono più annodati in maniera stabile, facendo trasparire piuttosto l’annodare come tentativo fluttuante. È un’immersione in un tempo denso, in un unico medium dentro cui si fanno e si disfano le forme naturali e culturali. Ma le differenze sono effimere, sono velocità diverse di impressione che catturano un insetto nell’ambra, il suono in un ritornello pop e un reperto storico in un museo. Velocità e rallentamenti di una stessa vetrinizzazione del tempo, che Smithson e Hoff ci rendono sensibile. Un ralenti insieme umano e cosmico, sospeso tra le cose, un solo fenomeno emotivo “né Eros né Thanatos, ma Vita-Morte, con un solo pensiero, uno stesso gesto” (Barthes). Se allora non c’è un luogo fuori da questo intreccio che sia al riparo da radiazioni e spettri, resta la possibilità di sperimentare con i nodi, per trovarci tramite e attraverso i legami che scopriamo, muovendoci tra cristalli, ossa e corrosioni.
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