Il suo ultimo album, Joanita, conquista il palco della Santeria Toscana con un
doppio show mostrando la versione più intima della sua autrice
Tag - musica
Nessuno ci conosce bene come l'algoritmo di Spotify, capace di intercettare la
nostra essenza nei momenti in cui nessuno ci osserva e non abbiamo nulla da
dimostrare. E l’età affettiva che ci ha assegnato ne è la prova
S e si ascolta musica con abbastanza ossessione e compulsività, può avvenire una
metamorfosi della fruizione. Non basta più solo ascoltarla, ma se ne vuole
comprendere il significato. Questa esigenza viene da un sospetto: la sensazione
che dietro ai suoni ci sia qualcosa di molto più grande, come fossero un istmo
in cui si stringe la maestà di un oceano. Allora, il fruitore scopre la critica
musicale.
Il rock criticism – per intendersi, la critica musicale rivolta alla musica pop
– è un canone di testi soprattutto anglofoni che si è sviluppato a partire dalla
nascita del rock’n’roll in America. Chi ci si immerge incontra presto un
proverbio di dubbia attribuzione che vorrebbe affossare il canone stesso:
“Writing about music is like dancing about architecture”. Oltre al fatto che un
balletto classico ispirato alla Reggia di Versailles, o una coreografia hip-hop
che imiti i volumi del MOPOP, il Museum of pop culture di Seattle, sarebbero
quantomeno una cosa interessante a cui assistere, il proverbio non considera che
questo canone vive proprio dell’impossibilità titanica di afferrare l’ineffabile
che sta tra una forma così sfuggente come la musica e una così articolata come
il linguaggio scritto.
A partire dalla fine degli anni Settanta una particolare stagione della critica
rock inizia a prendere di petto quell’impossibilità. Firme come Paul Morley, Ian
Penman, Barney Hoyskyns, poi David Stubbs, Jon Savage e il più acclamato Simon
Reynolds, si armano di apparati filosofici, sociologici, semiotici per guardare
la musica pop come un oggetto culturale complesso, che è un condensato di
circostanze storiche, umane, tecniche. L’idea è che l’oceano intravisto
riverberarsi nella goccia di una canzone sia nientemeno che il suono di un’epoca
intera.
Valerio Mattioli è tra gli autori che in Italia hanno più coltivato questo
approccio interpretativo, per cui scrivere attorno alla musica pop può diventare
un’impresa letteraria a sé stante, con una sua dignità artistica (per quanto
parassitaria rispetto all’arte di riferimento). In questa intervista traccia le
connessioni esistenti tra suoni, contesti socioeconomici, sviluppi tecnologici,
sottoculture giovanili. Il tutto seguendo le trame dei suoi libri: Superonda
(2016), una storia musicale dell’Italia fra gli anni Sessanta e i Settanta;
Remoria (2019), ritratto espressionista-surrealista delle periferie romane;
Exmachina (2022), colonna sonora della trasformazione antropologica mediante cui
l’umano si ibrida con l’agente informatico-cibernetico, e ne viene poi
fagocitato; l’ultimo Novanta (2025), resoconto della frenesia di politica e
musica passata dai centri sociali italiani nel decennio precedente all’11
settembre.
PARTIAMO DA NOVANTA. VORREI METTERLO IN PROSPETTIVA CON ALTRI LIBRI CHE HAI
SCRITTO IN CUI SI PARLA DI MUSICA. IN NOVANTA SI PARLA TANTO DI MUSICA, CI SONO
SEI CAPITOLI SU SEDICI IN CUI È PROTAGONISTA ASSOLUTA. IL TUO PRIMO LAVORO
UNITARIO DI RICERCA È STATO SUPERONDA, CHE HA UN APPROCCIO STORICO, DI STORIA
DELLA CULTURA MUSICALE. POI EXMACHINA, CHE È UNA COSA MOLTO DIVERSA. LÌ IL SUONO
È LO SFONDO, L’AMBIENTAZIONE A CUI GUARDARE PER CAPIRE UN PEZZO DI STORIA
DELL’UMANITÀ. IN NOVANTA INVECE TORNI DI NUOVO SULL’APPROCCIO STORICO, UNA
STORIA DEI MOVIMENTI E DELLE SOTTOCULTURE, IN CUI LA MUSICA È UN PERSONAGGIO –
NON PIÙ L’AMBIENTAZIONE – SEPPURE MOLTO INGOMBRANTE, CHE PERÒ VIVE ANCHE DELLE
RELAZIONI CON ALTRI PROTAGONISTI: LINGUAGGI, IMMAGINARI, MOVIMENTI POLITICI. SE
IN EXMACHINA I SUONI RACCONTANO UN’EPOCA, IN NOVANTA INVECE I SUONI STANNO
DENTRO UN’EPOCA, E INTERAGISCONO CON MOLTI ALTRI FENOMENI CULTURALI NEL CREARNE
L’AFFRESCO. LA COSA CHE AVVICINA QUESTI DUE LAVORI È CHE IN ENTRAMBI I CASI LA
MUSICA È UN PUNTO DI VISTA PRIVILEGIATO PER COMPRENDERE UNA TEMPERIE. PERCHÉ LA
MUSICA E I MODI ESPRESSIVI CHE LE GIRANO INTORNO – VESTITI, ARTI VISIVE,
ATTEGGIAMENTI, GESTI, IN SINTESI, LE CULTURE SONORE – SONO UN PUNTO DI VISTA
COSÌ PRIVILEGIATO PER COGLIERE LO SPIRITO DEL TEMPO?
La musica pop, nel senso più ampio del termine, intesa come musica non colta –
un cappello in cui ci puoi mettere tanto Taylor Swift quanto, che ne so, un
qualche rumorista giapponese che fa noise assassino – è un sensore. E anche un
laboratorio storico della modernità. Questo l’aveva già messo nero su bianco
Jacques Attali negli anni Settanta, nel suo libro che si chiamava Rumori, se non
sbaglio…
La musica lo è da tanti punti di vista. Innanzitutto per il ruolo che ha avuto
nel dopoguerra all’interno del mondo giovanile, e per via del ruolo che il mondo
giovanile ha avuto nella definizione dei meccanismi valoriali, comportamentali,
anche economici, dell’Occidente. Ovviamente stiamo parlando della sfera
occidentale. Quindi c’è questo doppio passaggio che pone la musica come
linguaggio preferenziale per capire i mutamenti del mondo in atto in Occidente
dal dopoguerra in poi. Lo è per… come dire, la sua economia politica.
Poi lo è per il fatto di assumere un linguaggio molto immediato, istintivo.
Cioè: la musica pop per lo più è il prodotto di generazioni giovani che si
mettono a fare la loro cosa senza filtri, senza dover passare per le trafile e
gli ostacoli che sovradeterminano altre forme espressive. Anche la scrittura è
un linguaggio molto istintivo, prendi e ti metti a scrivere. Ma la scrittura è,
innanzitutto, solitaria come attività, mentre la musica pop vive in un punto
strano che sta tra l’autorialità delle persone che questa musica la fanno, e il
pubblico che la riceve. La musica pop vive in questo interstizio, che è già di
per sé una posizione strana. La scrittura è solitaria e poi è descrittiva per
sua natura, mentre la musica, in qualche modo, riesce a incorporare proprio
nelle sue stesse forme il tempo presente, e lo fa in maniera non mediata. E
anche completa, perché è la forma espressiva che più di tutte si confronta con,
per esempio, i cambiamenti tecnologici.
PERCHÉ LI USA.
Sì, perché fanno proprio parte del suo armamentario, e questo è un altro punto.
Dopodiché la musica, come fatto sociale, visto il ruolo che ha sempre avuto
all’interno delle culture giovanili, riesce a coagulare attorno a sé dei
fenomeni che sono più genericamente sociali, che sono poi le varie culture e
sottoculture che vedono nella musica un perno, un punto di partenza. Poi da
questo punto di partenza si allargano per contemplare un discorso di tipo
comportamentale, attitudinale, estetico, e persino filosofico… a volte anche in
senso molto stretto. Ci sono delle culture musicali che hanno dato il la a delle
piccole filosofie, delle teorie, quasi, molto ben definite.
E poi, se prendiamo gli ultimi venticinque anni, guarda caso, proprio la musica
è stata sempre il campo di sperimentazione di tutti i grandi sconvolgimenti a
cui abbiamo assistito con il dilagare dell’era informazionale. Dalle nuove
tecnologie, al file sharing, alle piattaforme, allo streaming, è sempre la
musica il banco di prova. Infatti a me che lavoro con i libri fa sempre un po’
ridere e mi cascano un po’ le braccia a vedere quanto il mondo editoriale è
sempre indietro…
GLI ARRIVANO PER ULTIMO QUESTE TRANSIZIONI?
Non solo gli arrivano per ultimo, è proprio che, essendo un mondo molto chiuso,
molto ignorante a volte, all’editore raramente gli viene in mente… come dire, il
mondo editoriale vive sempre di queste crisi, è sempre in crisi continua. “E non
si vendono i libri, e la lettura non esiste più…” ma non gli viene mai da dire:
“vediamo un po’ che è successo nel mondo della musica cinque anni fa”. Perché
quello che è successo nella musica cinque anni fa, capiterà anche a te. Ma
sicuro capita. Quindi la musica è un sensore, è un ambito che vale la pena
studiare anche per capire quali sono le forme del presente, le forme che si
stanno sperimentando sul momento e che dopo diventeranno lingua comune.
HAI USATO LA PAROLA SENSORE… È UNA PAROLA CHE HO LETTO IN NOVANTA: A UN CERTO
PUNTO, MOLTO RAPIDAMENTE, CITI QUESTA “TEORIA DEL SENSORE STORICO” DI PRIMO
MORONI, BALLERINO, STUDIOSO, SCRITTORE, LIBRAIO, AGITATORE CULTURALE, UN
PERSONAGGIO CHE POI APPROFONDISCI PIÙ AVANTI. MI È SEMBRATO CHE, DOPO AVERLA
MENZIONATA, ACCANTONASSI QUELLA TEORIA; INVECE LA TENEVI COME PRINCIPIO
ORGANIZZATIVO DEL LIBRO. NEL BELLISSIMO PASSAGGIO IN CUI INTRODUCI MILITANT A,
IL PRIMO A INCIDERE UN PEZZO RAP IN ITALIANO, SCRIVI CHE LA SUA “È LA STORIA DI
UN CATALIZZATORE – INVOLONTARIO, FORTUITO, ACCIDENTALE – LE CUI GESTA
RIUSCIRANNO NIENTEMENO A CAMBIARE L’INTERO CORSO DEGLI EVENTI”. POI CONTINUI:
“VA BENE, VA BENE: GLI EVENTI SAREBBERO CAMBIATI ANCHE SENZA DI LUI. MA, A
VOLTE, È COME SE LA STORIA AVESSE BISOGNO DI PICCOLE, SINGOLE ANTENNE CHE CON LE
LORO SEMPLICI AZIONI IMPRIMONO SVOLTE DAGLI ESITI IMPREVISTI”.
Per Primo Moroni il sensore era il Leoncavallo a Milano. Tu osservando quello
che succedeva al Leoncavallo, in teoria, secondo Moroni, potevi farti un’idea di
quale sarebbe stata la situazione complessiva nell’ambito dei movimenti. Per
quanto riguarda il discorso delle singole antenne… sai, in realtà, nonostante
possa sembrare in contraddizione con quello che hai appena letto, non sono di
mio una persona particolarmente interessata alla mitologia personale, al
personalismo che individua nella personalità X una specie di figura cristologica
che da sola cambia il percorso degli eventi. Per esempio è una figura retorica
che si usa molto spesso in buona parte della critica musicale.
TIPO JON LANDAU CON “HO VISTO IL FUTURO DEL ROCK’N’ROLL E IL SUO NOME È BRUCE
SPRINGSTEEN”.
Per esempio, certo. Hai tutta questa mitologia che ti prende Bob Dylan, Bruce
Springsteen, questi nomi “che da soli incarnano”… a me quella roba non
interessa. Penso sia una roba noiosa, che serve ad alimentare una mitologia
interna. Oltretutto è stata drammaticamente smentita proprio dalla storia: non
ti aiuta in realtà a leggere i fenomeni e gli eventi. Invece è più interessante
leggere l’evento musicale nel suo complesso, depersonalizzandolo e capendo quali
sono gli effetti che ha questo fenomeno musicale sul mondo, come si intreccia
con le forme e le lingue che il mondo sta sperimentando in quel dato momento in
cui quella forma musicale emerge. Detto ciò, questo contraddice quello che dico
a proposito di Militant A o quello che, qualche capitolo prima, dico a proposito
di Angela Valcavi, la fondatrice della fanzine dark e goth Amen negli anni
Ottanta. Un giorno entra al Leoncavallo e chiede se possono organizzare un
concerto lì dentro ed è da quel primo contatto che il Leoncavallo, che fino a
quel momento – metà degli anni Ottanta – era un posto di reduci sconfitti dalla
storia, ridiventa il centro del radicalismo estetico-politico milanese. Quindi,
se non fosse stata Angela Valcavi, probabilmente sarebbe stata qualcun’altra, o
qualcun altro. Non fosse stato Militant A a fare Batti il tuo tempo, sarebbe
stato qualcun’altra, qualcun altro. Non voglio personalizzare, però quegli
esempi, in qualche modo, sono dei piccoli glitch. Quello che mi interessa semmai
è come un semplice, piccolo gesto provochi il famoso effetto farfalla. La
lezione che mi piace prendere da cose del genere, è che a volte basta solo un
piccolo passetto oltre, per poi produrre delle conseguenze che sulle prime non
ci si aspetta.
IL TUO STILE DI SCRITTURA E DI PENSIERO, QUESTO MODO DI STUDIARE LE MUSICHE E LE
CULTURE SONORE, GUARDANDO A COME PARLANO CON IL MONDO FONDENDO STORIA,
FILOSOFIA, RIFLESSIONE PERSONALE, CON NEL TUO CASO – PENSO A EXMACHINA – ANCHE
UNA COMPONENTE ROMANZESCA DI ALLUCINAZIONI IMMAGINIFICHE UN PO’ OSCURE… È UNO
STILE CHE DEVE MOLTO A TUTTO UN FILONE DI GIORNALISTI-TEORICI, OVVIAMENTE
REYNOLDS, MA ANCHE TUTTO IL GRUPPO CHE CON LUI HA INVASO LA RIVISTA NEW MUSICAL
EXPRESS TRA FINE ANNI SETTANTA E INIZIO OTTANTA: STUBBS, PRIMA ANCORA PAUL
MORLEY, IAN PENNIMAN, BARNEY HOSKYNS. QUESTI AUTORI HANNO CREATO UNA VISIONE
SPECIFICA DELLA CRITICA MUSICALE, IL CUI CREDO SUONA PIÙ O MENO COME: LA CRITICA
MUSICALE SCONFINA E STRABORDA PER FORZA NELL’ANALISI E NELLA CRITICA CULTURALE A
TUTTO TONDO, NEL MOMENTO IN CUI SI RENDE CONTO CHE LA MUSICA POP È TALMENTE
INVISCHIATA NEL RIBOLLIRE DEL MONDO CHE VA STUDIATA PER FORZA INSIEME AL MONDO.
CIOÈ SE PARLI DI MUSICA, DEVI PER FORZA PARLARE DI TUTTO IL MONDO. SECONDO ME
QUESTO È PROPRIO UN GENERE LETTERARIO A SÉ STANTE CHE DÀ UNA CERTA COMPRENSIONE
DEL MONDO. ANCHE TU ALLA FINE PARLI DEL MONDO: IN EXMACHINA I CAPITOLI SONO
DEDICATI A APHEX TWIN, AUTECHRE E BOARDS OF CANADA, MA IL TEMA VERO È LA
RIVOLUZIONE INFORMATICA. PERÒ NE PARLI IN MODO DIVERSO DA QUELLO CHE FA UN LIBRO
DI STORIA NORMALE. SECONDO ME, QUESTO GENERE LETTERARIO DÀ UN MODO DI
COMPRENDERE LE COSE ECCEZIONALE, PERÒ MOLTO OBLIQUO, UN PO’ INIZIATICO, PERCHÉ
NOI – NOI CON LA NOSTRA FORMAZIONE SCIENTIFICA – NON SIAMO ABITUATI A RAGIONARE
COSÌ. SE PENSO “VOGLIO COMPRENDERE ‒ CHE NE SO ‒ LA RIVOLUZIONE INFORMATICA,
DEVO STUDIARE DEI DATI, DEI FATTI FISICI ED ECONOMICI, MAGARI. CI SEMBRA STRANO
DI POTERNE CARPIRE DEGLI ASPETTI IMPORTANTI A PARTIRE DALLA DESCRIZIONE DEI
SUONI NEI DISCHI PUBBLICATI IN QUEL PERIODO. UNA DESCRIZIONE SPESSO FANTASIOSA E
PERSONALE. PERDONAMI SE È UNO SVARIONE, MA MI FA PENSARE A QUELLO CHE DARIO
FABBRI – NON SO SE SEI FAN…
Per niente!
BENE. MA, DICEVO, MI RICORDA QUELLO CHE LUI, NEL SUO AMBITO, DICE DI FARE CON LA
“GEOPOLITICA UMANA”; LUI DICE CHE QUELLO CHE GLI INTERESSA NON È SPIEGARE GLI
SCENARI INTERNAZIONALI A PARTIRE DAI RAPPORTI ECONOMICI TRA GLI STATI, GLI
ARSENALI MILITARI, MA A PARTIRE DAL SENTIRE COMUNE DELLE POPOLAZIONI, DAI LORO
APPETITI, LE LORO PAURE… È UNA COSA CHE A LIVELLO DI RIGORE SCIENTIFICO È MOLTO
LABILE.
È “molto zero”, direi, più che labile. Ma non è solo un discorso di rigore
scientifico. Ad esempio lui oggettifica determinate sensazioni, traslandole in
un piano deterministico, si può dire.
ESATTO. PERÒ IL PARAGONE LO FACEVO PERCHÉ MI SEMBRA CHE IN QUESTA DECLINAZIONE
MOLTO AMBIZIOSA DELLA CRITICA MUSICALE LA SCOMMESSA È PRENDERE PROPRIO DELLE
SENSAZIONI, QUELLE LEGATE AI SUONI – CHE OVVIAMENTE NON SONO SOLO SENSAZIONI
SOGGETTIVE PERCHÉ SONO INSERITE IN DEI CODICI E ANCHE IN DELLE CONDIZIONI
MATERIALI – E, SÌ, OGGETTIFICARLE IN UNA CERTA MISURA.
Allora, innanzitutto, c’è da fare un distinguo tra i miei libri di cui stiamo
parlando. Superonda che era, diciamo, una storia degli anni Sessanta e Settanta
in Italia proprio a partire dalle musiche, è il libro che è più parente di
quest’ultimo, Novanta. Sono i miei due saggi, ecco, saggi di… boh, storia
culturale, senza voler sembrare troppo roboante. Mentre Exmachina, come il
precedente Remoria, per me sono due romanzi.
REMORIA NON L’HO CITATO PROPRIO PERCHÉ LO CONSIDERAVO UN CASO A PARTE INFATTI,
NARRATIVA PURA.
Remoria è un romanzo fantasy, Exmachina è un romanzo di fantascienza. Poi
purtroppo l’editore… ho provato a insistere con Minimum Fax, a dire “mettiamoli
tra i romanzi!”, però capisco che la forma e il fatto che si agganciassero a
delle cose reali, troppo reali, li hanno condannati alla saggistica, e vabbè.
Però, di fatto, si tratta di due libri molto allucinatori. Da un punto di vista
scientifico sono smontabili in due minuti, entrambi i libri. Nell’ambito
mitopoietico, magari no. Quello che mi interessava era più un discorso di tipo
mitopoietico rispetto sia al tema di Remoria, che era la periferia romana, sia
al tema dell’Intelligenza artificiale, che in realtà era il tema per me alla
base di Exmachina. In Exmachina però c’è anche un dato storico, reale, concreto
e molto dimostrabile, cioè il ruolo che un certo tipo di musica elettronica ha
avuto nella definizione dell’immaginario e dello sguardo sul mondo della Silicon
Valley, banalmente.
SÌ, INFATTI, SI AGGANCIA ANCHE A DEI RAPPORTI ESISTITI TRA PERSONE.
È un legame che secondo me andava indagato. È stato indagato già all’epoca.
Prendi dei testi cruciali degli anni Novanta, per esempio Techgnosis di Erik
Davis, che abbiamo ristampato nel 2023 con Nero: è fondamentale lo sguardo che
Davis ha nel capire la preoccupante ideologia che stava prendendo forma nella
Silicon Valley proprio negli anni Novanta, e l’analisi di Davis delle musiche
elettroniche che costituiscono l’ambiente umorale immersivo dell’epoca. O se
prendi degli autori stracitati adesso, Mark Fisher, tutto il giro CCRU –
Cybernetic Culture Research Unit – ancora negli anni Novanta, nomi che hanno
analizzato in grandissima profondità l’impatto delle tecnologie informatiche dal
loro apparire fino a oggi… Di quelli, chi è sopravvissuto continua a indagare
quell’ambito là, a volte su posizioni preoccupanti, come Nick Land che è
diventato, come sappiamo, un filosofo di estrema destra.
Se tu ti guardi i loro materiali, di quando nacque la CCRU, l’unità di ricerca
sulla cultura cibernetica nata a Warwick in Inghilterra, praticamente tre quarti
dei materiali su cui loro lavorano sono le musiche della cultura elettronica del
periodo, la jungle, la techno e così via. Quindi effettivamente c’è un legame
molto stretto, per quanto Exmachina sia un romanzo di fantascienza. Studiando
l’evoluzione di quel suono, puoi trarre delle indicazioni su cosa, diciamo, la
civiltà delle macchine cela dietro di sé, o quantomeno di qual è l’ideologia che
la muove. Per me è molto importante in Exmachina la parte in cui io prendo gli
Autechre come esempio – e altri avrebbero potuto prendere altri musicisti – ma
tramite loro parlo dell’idea che le macchine abbiano una loro agentività e che
siano delle entità… non è giusto dire entità senzienti, perché appunto sarebbe
ricondurle a una visione antropocentrica. Diciamo, esce fuori l’idea che la
logica generativa che sta dietro la Macchina è destinata a ingigantirsi sempre
più fino a soverchiare, a prendere il sopravvento sull’elemento umano. Questa è
una cosa che tu hai già in quelle musiche là, e che adesso ti ritrovi a
dibattere nei post, su Instagram, di questo problema dell’Intelligenza
artificiale di queste cagate che ci troviamo davanti.
Il dibattito attorno a questi temi adesso è veramente indietro rispetto a quello
che già era stato instillato in maniera poetica, visionaria dai musicisti
elettronici che per primi si interfacciarono al linguaggio della Macchina e che
lo presero sul serio. Questa roba l’aveva intuita bene proprio tutto il giro di
CCRU, per esempio una figura come Kodwo Eshun, il cui Più brillante del sole
abbiamo ripubblicato sempre con Nero nel 2021. Era una roba che nella critica
musicale dell’epoca già era molto presente. Adesso sono passati trent’anni e
probabilmente se uno riprendesse alcune di quelle fonti capirebbe qualcosa di
più. Ti dico, il mio grande dispiacere ‒ a cui però sapevo che sarei andato
incontro ‒ è che Exmachina per me era un libro sull’Intelligenza artificiale,
quindi alla gente che conosco che si occupa di questi temi dico, “Ma sai che ho
scritto un libro su questo? Leggitelo!”; ma chiaramente essendo un libro che
parte dalla musica è stato considerato solo da quelli che seguono la musica.
Questo è lo scotto che devi pagare quando parli di musica. La musica è un
linguaggio sempre un po’ guardato con sufficienza dagli altri ambiti culturali.
Non da tutti, però per esempio nel mondo delle lettere c’è una presunzione di
partenza che è nei libri che tu trovi il cuore, la verità… ecco, la riflessione.
PERCHÉ CI SONO LE PAROLE CHE SONO IL CONCETTO, INVECE IL SUONO È UNA COSA
AMORFA.
È amorfa, però al tempo stesso il suono ha questa capacità di essere totalmente
immateriale ed estremamente materiale, cioè definisce e costruisce un ambiente
all’interno del quale tu ti ritrovi immerso. Questo potere è strano se ci pensi.
Non puoi toccare il suono, però se io adesso accendo quella cassa e metto una
musica a palla, noi siamo dentro un ambiente, siamo intrappolati dentro una
quinta, definita da questo banale spostamento.
COME DICEVI È IMMEDIATO, DICIAMO, NON C’È UN DISTACCO, NON C’È UN FILTRO, NON
PUOI DIRE “IO SONO IO E CAPISCO QUESTA COSA CHE STA FUORI DI ME”.
Esatto, arriva contemporaneamente al corpo, alle membra, e poi al cervello. In
alcuni casi anche allo sguardo, c’è una qualità sinestetica della musica che a
volte è indagata, a volte sottovalutata, però è un’altra delle sue qualità.
SULLA SOTTOVALUTAZIONE DELLA MUSICA NEGLI AMBITI CULTURALI, C’È UN LIBRO DI CUI
VOI AVETE SCRITTO SU NOT, DIALECTIC OF POP DI AGNÈS GAYRAUD. LÌ LEI, CONTRO
ADORNO, PROPONE UNA DIFESA DEL POP COME LINGUAGGIO ESTETICO UNIVERSALE, CAPACE
DI ARTICOLARE UNA RIFLESSIONE SUL MONDO TECNOLOGICO E SULLE FORME DELLA VITA
CONTEMPORANEA – NON SOLO COME PRODOTTO STANDARDIZZATO DELL’INDUSTRIA CULTURALE,
MA COME LUOGO IN CUI SI MANIFESTANO UNA SERIE DI TENSIONI: TRA INDIVIDUO E
COLLETTIVITÀ, TECNICA E SENSIBILITÀ, MATERIA E FORMA… PER LEI IL POP NON È
L’OPPOSTO DELLA TEORIA, MA È GIÀ UNA TEORIA IN ATTO, È FILOSOFIA CHE PASSA
ATTRAVERSO IL SUONO E IL CORPO. IN EXMACHINA, IN MODO SIMILE, TRATTI L’IDM
(INTELLIGENT DANCE MUSIC) COME UN PENSIERO INCARNATO, UNA FILOSOFIA DELLE
MACCHINE. PENSI CHE IN ITALIA ESISTA UN PREGIUDIZIO ADORNIANO CONTRO LA
RILEVANZA CULTURALE E POLITICA DEL POP? HO L’IMPRESSIONE CHE ALTROVE, IN AMBITO
ANGLOFONO AD ESEMPIO, I POPULAR MUSIC STUDIES ABBIANO CONQUISTATO SPAZIO E
DIGNITÀ ACCADEMICA, MENTRE QUI IL POP SEMBRA RESTARE CONFINATO A UN IMMAGINARIO
DI CONSUMO O DI COSTUME.
È chiaro che nel mondo anglofono il pop ha una sua rilevanza perché l’hanno
inventata loro la cultura pop come la conosciamo oggi… ma non ti pensare, nel
senso che se senti lo stesso Simon Reynolds, ti direbbe anche lui che, trattando
di musica, è considerato un autore di serie B. Però è vero che senz’altro nel
mondo anglofono l’attenzione è maggiore, ma anche in Francia, ma anche nella
stessa Spagna. L’Italia è veramente…
NON ERA PER FARE GLI ESTEROFILI COSÌ GRATIS EH, È UN’OSSERVAZIONE.
No, no, senz’altro in Italia più che un pregiudizio c’è una certa… arretratezza.
Poi pare che stai a fare la cantilena “l’Italia rimane sempre indietro”, ma è
vero. C’è un discorso a monte su come è strutturata la cultura italiana, con
l’imprinting classico idealista. E un discorso su come poi questo è stato messo
in discussione da tutta una serie di nomi: il più famoso è Umberto Eco, che
invece prende e ti analizza anche i fumetti. Ma anche Eco muove da una posizione
che distingue i famosi “alto” e “basso”. Non è che ci si deve mettere a litigare
con una figura come Eco, un gigante del Novecento, ma al tempo stesso anche Eco
si muove all’interno di un panorama culturale ancora segnato da
quell’imprinting.
Su Adorno, in realtà, non so quanto ci sia di adorniano nella diffidenza
italiana verso il pop. Anzi, recuperiamolo un po’. Adorno prese senz’altro delle
cantonate micidiali, cioè le sue pagine sul jazz sono comiche sostanzialmente,
perché ti fanno vedere quanto veramente lui non avesse colto, non capisse di
cosa stava parlando. Al tempo stesso Adorno diceva una cosa non sbagliata, cioè
che le musiche popular sono parte di un’economia capitalistica che è fondata
sulla merce e quindi sono anche merce. Questa merce ha anche un valore
filosofico, come dice Dialectics of Pop, ma ce l’ha proprio perché è interna al
meccanismo merce, non si chiama fuori da quel contesto. Recupererei una briciola
adorniana.
In Superonda, si parla un po’ di questo: l’Italia è un Paese strano, perché uno
dei maggiori eventi socialmediatici, sociologici, che arrivano ogni anno, è il
Festival di Sanremo, basato sulla musica, sulle canzonette. Eppure proprio il
modo in cui viene interpretata la presenza della canzonetta in Italia è sempre
qualcosa a metà tra l’epifenomeno e il guizzo folcloristico, cioè non vale mai
la pena prenderla troppo sul serio.
CHE INTENDI PER EPIFENOMENO?
Un fenomeno secondario, un’espressione secondaria di una cultura. E questo poi
si riflette anche nel modo in cui la canzone italiana viene concepita, cioè ha
delle regole molto ferree, molto rigide, un melodismo esasperato, le produzioni.
Sì, l’Italia non è il caso di scuola.
NEL CAPITOLO DI NOVANTA INTITOLATO UNDERGROUND, OVERGROUND, MAINSTREAM, PARLANDO
DI QUELLO CHE ALL’EPOCA NEL ROCK ITALIANO SI CHIAMAVA “CROSSOVER”, CIOÈ BAND
COME BLUVERTIGO E SUBSONICA, SCRIVI CHE QUEI GRUPPI SAREBBERO STATI
INCONCEPIBILI SENZA IL LAVORO PREPARATORIO DEI CENTRI SOCIALI, E IL FATTO CHE
SIANO ARRIVATI DA LÌ A SANREMO “MOSTRA LA FACILITÀ CON CUI IL SISTEMA SAPEVA
ASSORBIRE QUALSIASI SPINTA PROPULSIVA DAL BASSO PER TRASFORMARLA IN MERA MERCE
STERILIZZATA”, E CHE QUINDI “IL CROSSOVER ERA UN MODO COME UN ALTRO DA PARTE
DELL’INDUSTRIA DI COPRIRE UNA FETTA NUOVA DI MERCATO VENENDO INCONTRO AI GUSTI
DI UN PUBBLICO ‘MIDBROW’, TROPPO GIOVANE PER ACCONTENTARSI, MA TROPPO TIMOROSO
PER SPINGERSI DOVE LA RIVOLUZIONE COLAVA DAVVERO”. ALLA LUCE DEL FATTO CHE
ESISTONO QUESTI MECCANISMI TRAMITE CUI IL MERCATO VAMPIRIZZA I SUOI POTENZIALI
NEMICI UNDERGROUND E LI ASSORBE, SECONDO TE È POSSIBILE UNA CONTROCULTURA OGGI?
IN REALTÀ TI HO SENTITO DIRE CHE PREFERISCI USARE IL TERMINE SOTTOCULTURA,
MAGARI MI SPIEGHERAI PERCHÉ. IN QUESTO CASO LA DOMANDA DIVENTA: È POSSIBILE UNA
SOTTOCULTURA CON UNA CARICA ANTAGONISTICA? SECONDO ME QUELLO CHE ACCADE CON I
SOCIAL MEDIA E GLI ALGORITMI È CHE LE SOTTOCULTURE CHE UN TEMPO, FINO AGLI ANNI
NOVANTA, ERANO MOVIMENTI FONDATI SU DEI VALORI, INTERESSI CONDIVISI E DELLE
COMUNITÀ CONCRETE, SOLIDE E CEMENTATE, INVECE ADESSO SEMBRANO INNANZITUTTO
RIDOTTE AL LORO ASPETTO ESTETICO; IN PIÙ SONO DELLE ESTETICHE EFFIMERE E
DECORATIVE, TANT’È CHE SPESSO VENGONO PRESE DI PESO E USATE A FINI DI MARKETING.
NON È RARO VEDERE UN TIPO DI ESTETICA SOTTOCULTURALE CHE DIVENTA LA MOODBOARD DI
UNA CAMPAGNA PUBBLICITARIA, O PROPRIO DI UN PRODOTTO. POI C’È UN ALTRO ASPETTO:
UN ANTROPOLOGO CHE SI CHIAMA TED POLHEMUS SOSTIENE CHE I GIOVANI NON CREANO PIÙ
SOTTOCULTURE, MA SI MUOVONO COME IN UN SUPERMERCATO, ARRAFFANDO E MESCOLANDO
STILI E SIMBOLI PRESI DA SOTTOCULTURE DIVERSE, PASSATE E PRESENTI, SENZA LEGAMI,
RIDUCENDO LE COMUNITÀ A UN INSIEME DI ELEMENTI VISIVI PRIVI DI IDEOLOGIA
CONDIVISA. ALTRI INVECE, COME TIM STOCK, OSSERVANO LA NASCITA DI NUOVE
MICROSOTTOCULTURE ONLINE, MENO LEGATE A ESTETICHE E PIÙ A DETERMINATE NARRAZIONI
O OPINIONI CONDIVISE… TU COME LA PENSI?
Non conosco Ted Polhemus, è importante?
NON LO SO SE È IMPORTANTE, L’HO TROVATO SU INTERNET COME QUALSIASI COSA.
“Ted Polhemus, antropologo americano…” c’è anche la pagina Wikipedia, è del
1947, insomma… In realtà, quello che dici tu, mettendolo in bocca Ted Polhemus,
ricorda molto quello che dice Hiroki Azuma, un teorico giapponese, di cui Nero
ha pubblicato nel 2024 un altro testo dei primi anni Duemila, Otaku. Tu sai
cos’è un otaku?
NO, E NON CONOSCO AZUMA.
Beh, gli otaku di base… Ma che è ’sta foto qua… di Ted Polhemus dico. No, perché
sembra una rock star…
È LUI DA GIOVANE, FORSE? UN MEZZO HIPPIE.
Sì… comunque, in Giappone gli otaku vengono descritti come giovani ragazzi,
perlopiù maschi, appassionati in maniera maniacale di anime, manga e
videogiochi. Costruiscono la loro totale identità sulla passione maniacale per
questi linguaggi della cultura pop. Azuma notava come gli otaku non fossero
soltanto dei ricettori passivi di questi prodotti, ma adottassero uno spirito
che trasformava questi prodotti culturali in data base, cioè degli archivi dove
ci sono diverse tipologie di personaggi, di storie, di estetiche, che poi
venivano assemblati e riutilizzati dagli otaku stessi, secondo una logica che
Azuma chiama di “accumuladati”. Questo effettivamente è l’approccio che trovi
nelle sottoculture online contemporanee che descrivi anche tu, dove c’è questo
prendere di qua e di là per costruire… e non è una logica passiva. In questo
senso l’elemento sottoculturale c’è, è il patchwork… ed è una pratica attiva,
non la svilirei.
Io preferisco il termine sottocultura a controcultura perché l’unico periodo
storico in cui probabilmente ha senso parlare di controcultura, con la C
maiuscola, è quello in cui proprio la stessa controcultura è nata, cioè negli
anni Sessanta e Settanta, in cui, appunto, la cultura giovanile ha preso delle
strade, e dei linguaggi, la musica rock di allora su tutti, interfacciandosi con
l’epoca delle contestazioni giovanili… La controcultura lì si configurava – come
il nome stesso dice – come una cultura contro e alternativa a quella ufficiale.
La guardava da pari a pari, proponendosi come avversaria alla stessa, quindi con
una funzione dialettica rispetto alla cultura ufficiale, alla quale però,
evidentemente, riconosceva uno statuto ineludibile di interlocuzione. Il
paradosso della controcultura, se vogliamo, è che definendosi come cultura
alternativa a quella ufficiale, finiva per ribadire lo statuto della cultura
ufficiale. In quel momento il mondo giovanile contestatario era talmente forte
che poteva effettivamente proporsi come polo alternativo, polo opposto. Di là ci
siete voi, i vecchi, la cultura ufficiale; di qua ci siamo noi, i giovani, con
la cultura nuova basata su valori alternativi e differenti da quelli che ci
propinate voi.
E questo è un discorso che si esaurisce già con lo spegnersi di quella stagione.
Già il punk, per esempio, è una storia diversa, e tutto quello che è emerso
dagli anni Ottanta in poi difficilmente acquisisce quei crismi così
onnicomprensivi della controcultura degli anni Sessanta e dei primi Settanta. La
sottocultura è diversa perché ragiona soprattutto per logiche tribali, cioè: noi
siamo un gruppo piccolo, medio, grande, ma comunque un gruppo che lavora sotto…
ecco, mi piace prendere l’espressione sotto-culturale in termini non svilenti,
ma concentrandoci su quel “sotto”. Non come subcultura, quindi cultura derivata,
ma cultura che opera sotto quella ufficiale, in maniera totalmente slegata: la
cultura ufficiale può avere i suoi valori, a noi non ce ne frega niente, noi
abbiamo i nostri, siamo totalmente autosufficienti e dobbiamo rispondere solo
alle altre persone che condividono questi codici assieme a noi, quindi agli
altri membri interni della tribù. In questo senso il punk era molto più una
sottocultura che una controcultura. Poi le sottoculture, dal punto di vista –
per così dire – ideologico, naturalmente sono molto più ambigue che la
controcultura, la nobile controcultura di un tempo. Ci sono delle sottoculture
che sono profondamente, apertamente reazionarie. Ce ne sono altre, invece, più
ambigue, in cui magari esteriormente le forme sono reazionarie, conservatrici,
preoccupanti, predatorie, ma poi se vai a vedere i codici interni tutto diventa
più scivoloso e complesso.
Per esempio in Remoria io mi concentravo molto sui coatti come sottocultura,
perché da una parte sono questa specie di esaltazione iperviolenta, machista
della vita di borgata, dall’altra se vai a vedere dentro i comportamenti delle
stesse tribù di coatti, scopri un mondo molto più ambiguo, in termini di
relazioni tra sessi per esempio, in termini di come veniva esplicitata la
mascolinità. L’apparenza esteriore celava un rapporto maschio-femmina molto più
articolato di quello che poteva sembrare a uno sguardo esterno. E poi ci sono le
sottoculture che, a partire dalla logica tribale, si impossessano anche di una
critica radicale all’esistente, e là assomigliano più alla controcultura. Anche
negli anni Novanta possiamo parlare di controcultura in questo senso qua. Poi
negli anni Novanta anche in Italia c’era chi continuamente gettava il ponte tra
gli anni Sessanta degli hippie e gli anni Novanta degli hacker cyberpunk. Io,
nel libro penso sia chiaro, trovo poco precisa questa lettura.
Però perché siamo arrivati a parlare di questo? Parlando dell’oggi, senz’altro
ci sono sottoculture. Fino a tempi recentissimi quella memetica era una
sottocultura. Dico fino a tempi recentissimi perché ormai c’è fior fiore di
critica interna alla sottocultura memer stessa su cosa è diventata da qualche
tempo a questa parte, sul fatto che ormai è pura maniera, è tutto troppo
codificato… però se ci pensi quella dei memer è stata una sottocultura che in
alcuni ambiti ha avuto anche, sia da un lato che dall’altro, delle svolte
radicali. C’è stata la cultura memer di destra, che ha definito tutti gli
immaginari dell’alt-right. Però c’è stato anche il suo contraltare. Non lo so, è
strano, perché quello che definiva una sottocultura tribale fino a non molto
tempo fa era anche l’aspetto molto fisico di condivisione degli spazi, dei
corpi. Naturalmente l’online smaterializza tutto e quindi si diluisce anche il
recinto che definisce. Puoi scivolare da un recinto all’altro senza farlo sapere
agli altri. Le sottoculture aiutavano molto anche a definire l’individuo tra sé
e sé, erano uno strumento di empowerment, adesso invece l’identità è sfumata…
però non so dove si può arrivare con questo discorso. Non mi starei a
preoccupare. Ogni stagione ha bisogno dei propri linguaggi.
UN’ULTIMA DOMANDA, SEMPRE SULLE PROSPETTIVE FUTURE, MA IN QUESTO CASO DELLA
MUSICA. IN FUTUROMANIA, SIMON REYNOLDS PERCORRE TUTTI I SUONI CHE HANNO VISTO
LONTANO, LE MUSICHE DEL PASSATO E DEL PRESENTE CHE HANNO EVOCATO IL FUTURO.
NELLA CONTEMPORANEITÀ, AD ESEMPIO, INDIVIDUA ALCUNI ARTISTI DELLA TRAP AMERICANA
ESEMPI ANCORA FUNZIONANTI DI QUESTA SPINTA INNOVATIVA. IL LIBRO SI PONE COME
CONTROCANTO A RETROMANIA, CHE INVECE MOSTRAVA LA TENDENZA DELLA MUSICA POP A
GUARDARE OSSESSIVAMENTE AL SUO PASSATO – E ALLA HAUNTOLOGY DI FISCHER, CHE
DESCRIVE COME CERTI GENERI MUSICALI SIANO PERSEGUITATI DA FANTASMI DEL PASSATO O
DALLA NOSTALGIA PER UN FUTURO NEGATO. SECONDO TE, QUALI SONO OGGI I SUONI DEL
FUTURO? LA MUSICA CONTEMPORANEA RIESCE ANCORA A PROIETTARSI IN AVANTI?
Beh, è un altro discorso molto scivoloso. Empatizzo con Reynolds: così come
altri autori è cresciuto e si è formato in un periodo storico in cui le musiche
pop sembravano seguire un percorso di progressione continua e quindi c’era
evoluzione costante, secondo un moto lineare. Era una freccia che puntava sempre
avanti, che era poi il moto lineare tipico dello sguardo occidentale e del
progresso come ideologia dell’Occidente. Questa freccia a un certo punto è
entrata in un ambiente alieno, straniero, che è appunto quello della Macchina.
L’esito ultimo dello spingere avanti, avanti, avanti, avanti: alla fine si è
oltrepassata una membrana, una soglia che è quella della Macchina, dove questo
moto lineare del tempo non ha più senso, non ha più senso per come ragiona la
Macchina stessa. Quindi anche i prodotti culturali che nascono dal relazionarsi
con la Macchina lo riflettono.
PERCHÉ LA MACCHINA ASSEMBLA COSE CHE GIÀ ESISTEVANO IN PRECEDENZA?
La temporalità della Macchina è diversa. C’è il fatto di assemblare quello che è
stato fatto in precedenza ma c’è anche un moto più spiraliforme in cui elementi
del futuro vengono proiettati dal passato e viceversa. Da qua si è aperto un
dibattito che ci accompagna da vent’anni: dalla lenta cancellazione del futuro
di cui parlava Mark Fisher alla retromania di Simon Reynolds. Qual è la causa?
Il fatto che Internet permette la compresenza di tanti materiali del passato;
poi c’è una sovrapproduzione di materiali e quindi annaspiamo nella
sovrabbondanza di immaginari che produciamo e abbiamo prodotto nei decenni
passati; c’è il realismo capitalista che, certificando che “there is no
alternative” non lascia spazio al nuovo…
Non lo so, io ad esempio in Exmachina mi concentro più su come la Macchina
stessa opera. Siamo in una temporalità di tipo diverso e quindi ragionare sui
suoni del futuro lascia un po’ il tempo che trova. Cioè, se pensi ai suoni, alle
musiche che negli ultimi anni più sono state considerate futuribili, che siano
la trap, la drill, l’hyperpop o le forme di musica da club decostruita, sono in
realtà dei suoni che riflettono un tempo presente. È difficile paragonarle a
quel future shock che poteva avere l’avvento di un genere nuovo nel 1992, quando
arriva la jungle, una roba mai sentita prima. Fino alla settimana prima quel
suono non c’era, la settimana dopo era ovunque, era qualcosa di totalmente
diverso. Di per sé ti faceva dire: “questa è musica del futuro”. Negli anni
Novanta hai tutti questi linguaggi musicali che solleticano il gusto per la
costante tensione verso l’avvenire che, ripeto, ha un’impostazione da sguardo
sul tempo assoluto occidentale. Se prendi altre tradizioni, lo sguardo sul tempo
è diverso e quindi anche quest’ansia che abbiamo sui suoni del futuro viene
meno, non è un motivo di preoccupazione.
Mi chiederei piuttosto quali sono i suoni più “utili” al presente, quelli che ti
aiutano a decodificare meglio il tempo in cui li trovi. Se domani, per
paradosso, capiamo che la musica fatta a voce e chitarra acustica, la forma più
passatista e retrò immaginabile, è importante per noi, ci sarà un motivo e va
preso sul serio proprio perché la musica è, dicevamo all’inizio, un prodotto
immediato e non mediato di circostanze più ampie.
GIÀ È IMPORTANTE LA FORMULA CHITARRA E VOCE, PER ESEMPIO NELLA LO-FI.
Certo. Naturalmente quello che c’è adesso è una parcellizzazione estrema in
microscene minuscole. Però al tempo stesso hai dei linguaggi diventati così
tanto mainstream… ad esempio il rap nelle sue mille sfaccettature ora è una
lingua franca che può mettere d’accordo dalla ragazzina di undici anni che
guarda, che ne so, Soy Luna in televisione – a undici anni magari non se lo
guarda più – al teppista di strada, il maranza.
Bisogna tenere a mente poi che anche quelli che una volta chiamavano suoni del
futuro erano suoni del presente. Non esistono i suoni del futuro. Come sola idea
è strana: da dove arriverebbe un suono del futuro? Negli anni Novanta questo
suono del presente veniva considerato del futuro perché il futuro stesso era un
tema nel presente dei Novanta. Andrebbe un po’ attorcigliata la questione.
Comunque, la Macchina ragiona diversamente.
L'articolo Che suono ha un’epoca? proviene da Il Tascabile.
Nel giorno del suo compleanno, è bene ribadirlo: Miley Cyrus è una delle voci
più potenti e versatili degli ultimi quindici anni. E le sue cover lo dimostrano
House è il primo singolo della colonna sonora di Cime tempestose: nasce dalla
collaborazione con John Cale, che per l’occasione le ha dedicato una poesia e
l’ha aiutata a superare un periodo di blocco creativo
P ensiamo al suono che potrebbe avere una soluzione chimica sovrasatura: un
suono ronzante, uno sciamare amorfo di atomi carichi di potenziale. Poi
interviene una singolarità, un germe cristallino, un glitch, che innesca uno
stato di tensione talmente eccessivo da non essere più sostenibile. Ecco che il
cristallo si crea, una melodia viene inventata per risolvere lo stato
ipertensivo: assistiamo alla nascita della forma, alla morfogenesi, al farsi
della musica. Ma non c’è neanche il tempo per contemplarla che il nastro scorre
a velocità infinita e l’istante dopo ci ritroviamo improvvisamente all’estremo
opposto del ciclo. La melodia ha girato su sé stessa per secoli, forse millenni,
conservando di sé soltanto una morfologia spettrale, una sorta di resistenza
minima allo sbiadimento completo. È quasi impercettibile, ma riusciamo ancora ad
ascoltarla: è ridotta a un osso leggero, piatto, che oscilla lievemente nella
corrente. Sembra sul punto di sciogliersi del tutto, di sbriciolarsi… sono gli
ultimi istanti di un Chupa Chups nella bocca di un bambino in un altro universo…
ecco: si è liquefatto; ronzio.
Si tratta di Shadows lifted from invisible hands, album realizzato dal musicista
e artista statunitense James Hoff nel 2024 e pubblicato dall’etichetta Shelter
Press, sempre impegnata sul fronte più sperimentale delle possibilità espressive
della musica elettronica. Per descrivere l’album in modo meno metaforico
potremmo dire che si muove tra due estremi che non potrebbero essere più
distanti: da un lato il ronzio stridente, quello che sentiamo nelle orecchie
quando ci concentriamo sul silenzio, e che è amplificato nel caso di alcune
malattie dell’apparato uditivo o quando un eccesso sonoro ha impattato i nostri
timpani lasciando un alone di alte frequenze; dall’altro, motivi pop di tracce
famosissime (e bellissime), i cui motivetti si insinuano nella testa, girando su
loro stessi in modo tanto alieno quanto lo è la percezione del ronzio. Tra
queste tracce troviamo “Heart of Glass” di Blondie, “Space Oddity” di David
Bowie, “Perfect day” di Lou Reed e “Into the Groove” di Madonna. Queste canzoni
sono però rese quasi irriconoscibili per come sono state alterate, ri-suonate o
ri-arrangiate e permane soltanto qualcosa della loro figura, una sorta di
propensione pop alla figura.
Ma tra questi due poli James Hoff dilata e ci rende sensibile l’intermezzo, il
movimento del farsi e disfarsi, il ritornello e il ritornellizzare come processo
sempre sul punto di cristallizzarsi e poi di smembrarsi. È l’inversione di una
comune esperienza di ascolto e forse anche un’inversione del rapporto con la
conoscenza in generale, che in musica è già stata tentata da illustri
sperimentatori del crepitio come William Basinski, Philip Jeck o The Caretaker:
“Cavalieri del medium”, per riprendere un’espressione usata da Rosalind Krauss
nell’ambito delle arti visive. Ma qui il medium non è solo il supporto
dell’opera, non vediamo tanto i bordi del quadro quanto la matrice stessa dentro
cui sprofonda il contorno distinto. Per mantenere il parallelismo col visivo
potremmo dire che l’ascolto di questa musica è simile a quando guardando un
colore ci si ritrova, con Benjamin, ad “affondare lo sguardo in un occhio
estraneo che lo inghiotte dentro di sé”, sono “colori che vedono sé stessi”, in
un mimetismo con la percezione che arriva a far dire: “se fossi materia, mi
colorerei”.
> James Hoff dilata e ci rende sensibile l’intermezzo, il movimento del farsi e
> disfarsi, il ritornello e il ritornellizzare come processo sempre sul punto di
> cristallizzarsi e poi di smembrarsi.
Prendendo sul serio questa inversione musicale della conoscenza potremmo
ritrovarci ad ascoltare qualcosa di simile al mito escatologico raccontato per
bocca di Socrate nel Fedone platonico, ma amputato proprio della sua aspirazione
escatologica alla purezza. Socrate racconta infatti di come la condizione degli
esseri umani sia quella di abitare non sulla terra, bensì nelle sue cavità,
intorno alle quali vivono “come rane o formiche intorno ad uno stagno”. Esiliati
dalla terra vera, luogo puro nell’etere degli astri e del cielo, si trovano a
essere immersi in ciò che dell’etere non è altro che il sedimento vischioso,
ormai degradato in aria, nebbia e acqua e riversatosi nelle cavità della terra.
Ma pare che la loro situazione sia quella di chi, abitando nel mezzo delle
profondità del mare, credesse di abitare invece sulla sua superficie, non
rendendosi conto di vedere il sole e gli altri astri sempre e soltanto
attraverso la densità opaca dell’acqua. Un’acqua che, per effetto della
salsedine, corrode e rovina le pietre e in cui, in generale, non cresce nulla di
buono e niente può essere perfetto. Al massimo ci sono “rocce, arene e immense
distese di melme e pantani”.
Tuttavia Platone, essendo il suo mito escatologico, ammette la possibilità
arrivare all’estremo lembo del mare e… tirarsene fuori. Chi arriva a quel punto
– racconta – e fosse capace “di sostenere una tale visione, conoscerebbe che il
vero cielo, la vera luce e la vera terra sono quelli”. E se invece la verità non
si facesse che sott’acqua e nella corrosione? Che succederebbe se la luce non
fosse altro che quel medium subacqueo, vischioso e opaco attraverso cui e in cui
si manifestano le cose, che corrode e illumina al tempo stesso?
È l’inversione in cui si trova trascinato il cercatore di perle, nella singolare
vicenda raccontata da Georges Didi-Huberman alla fine del suo libro su Aby
Warburg. Proprio questa vicenda può funzionare come immagine vivida del mito
platonico privato dell’escatologia. Ripercorriamola: inizialmente il pescatore
si immerge e, credendo ancora di essere un “detective” del mare, tra i fondali
cerca i suoi tesori come enigmi da risolvere. Un giorno trova una perla, la
porta in superficie e la bandisce come un trofeo. Poi la porta a casa e la mette
in una teca. Compila una scheda che crede definitiva e pensa di aver chiuso con
gli abissi. Molto più tardi, per caso, si accorge di non aver mai davvero
guardato la perla perché ora, contemplandola come in un sogno, la riconosce
immediatamente: “non è altro che l’occhio di suo padre morto, secondo
l’indimenticabile profezia cantata da Ariel, nella Tempesta di Shakespeare:
A cinque teste sott’acqua
Tuo padre giace.
Già corallo
Sono le sue ossa
Ed i suoi occhi
Perle.
Tutto ciò che di lui
Deve perire
Subisce una metamorfosi marina
In qualche cosa
Di ricco e di strano.
Ad ogni ora
Le ninfe del mare
Una campana
Fanno rintoccare”.
Allora il pescatore, preso dall’inquietudine, dalla schisi, dalla ricerca del
tempo perduto non riesce a non rituffarsi. Si immerge in profondità e scopre che
i tesori del mare proliferano, che suo padre gli ha lasciato molte altre
meraviglie oltre a quell’unica perla e tra esse si confondono tutte le perle di
innumerevoli generazioni di antenati, “innumerevoli padri giacciono in
innumerevoli tesori sul fondo del mare”. Ma soprattutto scopre che
> è la materia stessa in cui nuota, è il mare, l’acqua torbida e materna, tutto
> ciò che non è “tesoro” indurito, è lo spazio intermedio tra le cose,
> l’invisibile flusso che passa tra perle e coralli, è proprio questo che, con
> il tempo, ha trasformato gli occhi di suo padre in perle e le sue ossa in
> coralli. È all’intervallo, alla materia del tempo – qui fluente, là stagnante
> – che sono dovute tutte le metamorfosi che fanno di un occhio morto un tesoro
> sopravvivente.
Il desiderio di non tornare più in superficie è forte. È lo stesso spazio
intermedio in cui nuota la musica di James Hoff, quello di una cristallizzazione
dilatata e in continuo movimento, sempre sospesa e al limite con l’amorfo, che
inventa nuove forme modellandosi in relazione all’ambiente esterno, la cui
capacità corrosiva innesca nuove germinazioni. Come “un cristallo corrisponde
alla struttura fissa lasciata da un individuo che avesse vissuto per un solo
istante” (Gilbert Simondon), così le tracce dell’album di Hoff contengono, come
in miniatura o in un fermo immagine, tutto il movimento della vita di una forma.
Dalla nascita della morfogenesi ci portano direttamente alle forme che giacciono
abbandonate sul fondo del mare, ritornelli resi irriconoscibili e mossi dalla
corrente come ossi di seppia. Ma come escludere in fondo che anche in queste
ossa, prima o poi, potrà innescarsi una nuova metamorfosi?
> La musica di James Hoff nuota nello spazio intermedio di una cristallizzazione
> dilatata e in continuo movimento, sempre sospesa e al limite con l’amorfo, che
> inventa nuove forme modellandosi in relazione all’ambiente esterno, la cui
> capacità corrosiva innesca nuove germinazioni.
Mi rendo conto di aver fatto una descrizione molto materica di questo album,
tanto da farlo sembrare quasi un’opera di land art, come può essere
l’eccezionale Spiral Jetty di Robert Smithson. Ma prima di incontrare
direttamente Smithson, è forse un altro lavoro di Hoff che può portarci ancora
più in prossimità di un’arte a contatto con il tempo, con i processi e i luoghi.
Si tratta di HOBO HUFO (v. Cernobyl), un lavoro audio/video pubblicato questa
volta dall’etichetta PAN, nel 2019. Il video del lavoro consiste in una versione
modificata di Google Street view, che aleggia tra le rovine della città ucraina
di Pryp”jat’, determinando i suoi movimenti in relazione alla musica. Pryp”jat’
è una città fantasma, abbandonata dopo il disastro nucleare di Černobyl’, che
rientra nella zona di alienazione di trenta chilometri istituita intorno alla
centrale e che dal 2022 è in mano alle forze russe.
HOBO UFO tiene vertiginosamente insieme numerosi strati: c’è il livello
molecolare delle radiazioni radioattive, invisibili ma la cui forza incoercibile
ha portato a dover abbandonare un’intera area urbana; un’azione della natura che
si riappropria di un luogo affettivamente carico, trasformandolo in materiale
indifferente attraverso cui far nuovamente passare la sua azione rimodellatrice;
un software che con simile indifferenza registra immagini nello stesso modo in
cui farebbe con qualunque altro luogo (in cui il capitalismo è quantomeno
riuscito a far arrivare la Google Car o un drone per fotografare la strada); un
suono che tra il glitch, la malinconia e una solennità cosmica sembra far
passare attraverso di sé tutti questi strati, componendo un’epica che va dalle
molecole alle forme di vita umane alla loro autodistruzione.
Robert Smithson, che oggi avrebbe ottantasette anni se non fosse scomparso
prematuramente all’età di trentacinque, è il grande precursore di questo tipo di
gesti artistici, soprattutto per come è riuscito a riflettere sull’esperienza e
a rendere sensibile nella sua opera questa confusione di scale, in cui il fare
umano e una sorta di entropia cosmica riescono a trovarsi condensati, collidendo
e comunicando. Un lavoro rappresentativo del suo atteggiamento e particolarmente
affine a HOBO UFO è il testo The monuments of Passaic, del 1967. Si tratta di
un’“odissea suburbana” che in realtà non è nulla più che il fotoracconto di un
percorso a piedi nella cittadina industriale di Passaic, in provincia di New
York. Tutta l’avventura nasce a partire dallo sguardo rivolto a Passaic: uno
sguardo che cerca e crea attivamente segnali, monumenti e metafore là dove
sembrerebbe non esserci nulla. “Il tempo – scrive Smithson – trasforma le
metafore in cose, e le accumula in stanze fredde, o le colloca nei parchi giochi
celestiali delle periferie”. Passeggiando per Passaic, la realtà di Smithson si
muove in un sottile confine tra rappresentazione e distruzione, mostrandosi come
“un particolare tipo di eliografia”, “una sorta di cartolina auto-distruggentesi
di un mondo di fallita immortalità e oppressiva smania di grandezza”, «a moving
picture that I couldn’t quite picture». La smania umana di in-formare la materia
e produrre segni appare come un piccolo e comico museo di tentativi per
contrastare l’entropia dell’universo.
Ma la sua più grande opera è senza dubbio Spiral Jetty, uno dei maggiori
risultati della land art americana. Si tratta del gigantesco “molo a spirale”,
tracciato nel 1970 con una ruspa sui bordi del grande lago salato nello Utah,
poi inghiottito dall’innalzamento della marea del lago e, infine, riemerso, come
fosse Atlantide, nel 1999. Ma, dal momento che la spirale era composta di terra
e blocchi di basalto neri, durante il periodo dell’immersione si è ricoperta di
cristalli di sale e quando è risorta si è presentata in una nuova forma, fatta
di un bianco immacolato e scintillante. In un abile gioco di mise-en-abyme il
processo di realizzazione dell’opera è stato anche filmato, entrando a far parte
del materiale di un film omonimo che mischia l’opera alla sua documentazione e
al gesto di documentare in generale.
> Come racconta Smithson, Spiral Jetty non è più distinta dal territorio, non si
> stampa su di esso come su una superficie vergine, emerge e fa tutt’uno con
> esso, ne è cambiata e lo cambia.
Dove comincia Spiral Jetty? Quando comincia? Forse, come un gigantesco rizoma,
“non comincia e non finisce, è sempre nel mezzo, tra le cose, interessere,
intermezzo” (Deleuze e Guattari). Effettivamente, come racconta Smithson,
l’opera non è più distinta dal territorio, non si stampa su di esso come su una
superficie vergine, emerge e fa tutt’uno con esso, ne è cambiata e lo cambia.
Come in un frattale “ogni cristallo cubico di sale fa eco alla Spiral Jetty nei
termini del reticolo molecolare del cristallo. La crescita in un cristallo
procede intorno un punto di dislocazione come una vite. La Spiral Jetty potrebbe
essere considerata uno strato interno del movimento spiraliforme del reticolo
cristallino, ingrandito trilioni di volte”. Smithson gioca realmente e
materialmente con il processo di cristallizzazione che abbiamo utilizzato
metaforicamente per descrivere il primo album di Hoff: Shadows lifted form
invisible hands e Spiral Jetty risuonano insieme.
Tra l’esperienza del luogo che cattura Smithson, l’avventura titanica della
realizzazione, il suo racconto filmato e narrato e l’azione del luogo sull’opera
si realizza un unico continuum, un unico medium, un’unica meteorologia, in cui
vari attori umani e non umani reagiscono uno nell’altro e uno con l’altro,
leggendosi e forzandosi a vicenda. Da un certo punto di vista Spiral Jetty non
esiste, ci sono solo riecheggiamenti e fluttuazioni, “mentre si afferra la
spirale, se ne viene afferrati”: è un gigantesco metabolismo. Mentre filma il
luogo dall’alto Smithson racconta:
> Il suono del motore dell’elicottero è diventato un lamento primordiale
> riecheggiante in inconsistenti visioni aeree. Ero qualcosa di diverso da
> un’ombra in una bolla di plastica fluttuante in un luogo fuori dal mio corpo e
> dalla mia mente? […] Stavo di nuovo scivolando fuori da me stesso,
> dissolvendomi in un inizio unicellulare, cercando di localizzare il nucleo
> alla fine della spirale. Tutto questo sangue in moto ci fa rendere conto di
> soluzioni protoplasmiche, la materia essenziale tra il formato e il non
> formato, masse di cellule fatte prevalentemente di acqua, proteine, lipidi,
> carboidrati e sali inorganici. Ogni goccia che schizzava sopra la Spiral Jetty
> coagulava in un cristallo. L’acqua ondeggiante diffondeva milioni e milioni di
> cristalli sopra il basalto.
Ma, prima di disintegrarci anche noi, fermiamoci un attimo. Cosa resta di tutto
questo? Il sito dell’opera è diventato luogo di migrazione per chi, conquistato
da questo racconto, ha provato a prenderne parte. Lo scrittore Geoff Dyer
ricorda, per esempio, di averlo percepito come “come un luogo abbandonato, ma
non un luogo il cui senso fosse stato abbandonato. Aveva conservato – o generato
– una sua cupa nodalità”.
> Tra l’esperienza del luogo che cattura Smithson, l’avventura titanica della
> realizzazione, il suo racconto filmato e narrato e l’azione del luogo
> sull’opera si realizza un unico continuum, un unico medium, un’unica
> meteorologia, in cui vari attori umani e non umani reagiscono uno nell’altro.
La nodalità è il tentativo umano di collocarsi, di darsi un posto nel tempo
naturale, dandogli una forma tramite strategie diverse, come si fa in modo più
burocratico con i calendari o con i musei: un far tempo del tempo. Tuttavia qui
la forma singolare si perde e quello che si esperisce è la sfasatura tra lo
sfondo e la figura, che non sono più annodati in maniera stabile, facendo
trasparire piuttosto l’annodare come tentativo fluttuante. È un’immersione in un
tempo denso, in un unico medium dentro cui si fanno e si disfano le forme
naturali e culturali. Ma le differenze sono effimere, sono velocità diverse di
impressione che catturano un insetto nell’ambra, il suono in un ritornello pop e
un reperto storico in un museo. Velocità e rallentamenti di una stessa
vetrinizzazione del tempo, che Smithson e Hoff ci rendono sensibile. Un ralenti
insieme umano e cosmico, sospeso tra le cose, un solo fenomeno emotivo “né Eros
né Thanatos, ma Vita-Morte, con un solo pensiero, uno stesso gesto” (Barthes).
Se allora non c’è un luogo fuori da questo intreccio che sia al riparo da
radiazioni e spettri, resta la possibilità di sperimentare con i nodi, per
trovarci tramite e attraverso i legami che scopriamo, muovendoci tra cristalli,
ossa e corrosioni.
L'articolo Cristalli, ossa e corrosioni proviene da Il Tascabile.
I veri intellettuali rosicano quando un fenomeno culturale non li riguarda o non
lo sanno spiegare, quando gli sorvola sopra la testa come un bombardiere B-52
pronto a nuclearizzare la loro egemonia, così decidono di prenderlo al lazo, di
cavalcarlo come Major T.J. “King” Kong del Dottor Stranamore, spesso si
schiantano e deflagrano per la goduria di tutti, raramente riescono a prendere
in giro la bomba, così tanto che non esplode. Non so se Alberto Piccinini e
Giovanni Robertini, autori del libro Maxi-rissa. I diari della trap (2025), si
siano schiantati o siano riusciti nell’operazione quasi impossibile di
descrivere la trap, ossia quel fenomeno che lo stesso Robertini descrive come
“ovunque, una sorta di iperoggetto”, sempre citando il saggio del “profeta
dell’Antropocene” Timothy Morton, che ha il titolo più accennato da chi vuole
parlare di fenomeni presenti.
È chiaro che intuendo le date di nascita di Robertini e Piccinini sarebbe facile
pensare al loro libro, che tratta proprio di un tipo di musica che ha un
pubblico tendenzialmente giovane, come un’operazione che ricorda tanto il meme
di Steve Buscemi vestito da skater (con una maglia con scritto “Music Band”),
visibilmente vecchio, che si rivolge a un gruppo di highschooler con l’iconica
“What’s up, fellow kids?”, oppure come un libro scritto in ritardo rispetto a un
fenomeno che raggiungeva uno dei suoi picchi con la creazione culturale della
Dark Polo Gang e la loro hit Sportswear uscita nel novembre del 2016, ovvero
quasi nove anni fa.
Questa, però, è una critica superficiale e fregare due volpi come questa coppia
è difficile: la loro rubrica su Rolling Stone si chiama proprio Boomer Gang, a
scanso di equivoci e di onde da poter surfare. Partendo dal fondo, lo stesso
Piccinini mette le proverbiali mani avanti, cercando di annullare, accettare o
superare hegelianamente la critica che compare nella testa di tutti quando
vediamo questo libro: “Di questa operazione vorrei rivendicare A) l’incompetenza
‒ e la faccia tosta di fingere di saper addentrarmi in discorsi complicati coi
miei figli che ne sanno parecchio più di me; B) il dilettantismo, direi
nell’accezione nobile con la quale David Foster Wallace e il suo compagno di
università Mark Costello scrissero Il rap spiegato ai bianchi nel 1989, un
reference book di questo libretto. Se qui ci fosse una bibliografia sarebbe
senz’altro il primo titolo”.
> Come uno specchio riflesso, analizzando la trap, Robertini e Piccinini
> riescono a riprodurre un “impero dei segni” della bolla della sinistra dirtbag
> italiana.
Quindi tanto vale gettarsi in questo flusso à la Blob, una cifra che sembra non
poter mai lasciare il corpo di Piccinini come la materia nera di Venom, e
cercare di destreggiarsi in quella che oscilla in tutte le sue pagine tra una
critica feroce al nostro immaginario così castrante e la chiacchierata tra due
universitari che hanno appena letto Roland Barthes (citato nell’outro). Questo
libro è seducente, ma chi deve sedurre? Io, noi? Il libro cita Toni Negri alla
primissima pagina. Come uno specchio riflesso, analizzando la trap, Robertini e
Piccinini riescono a riprodurre un “impero dei segni” della bolla della sinistra
dirtbag italiana. Questo è un libro che seduce chi è di sinistra, ma ascolta la
Zanzara, non sopporta i moralismi, ha eretto Žižek a più grande filosofo
contemporaneo, guarda Canale 5 “per analizzare il nemico” e quando ascolta “Mi
piacciono le armi” di Simba La Rue viene posseduto dal demone di Adorno che lo
costringe a spiegare perché sia davvero una canzone rivoluzionaria e che lo
diceva Fanon che il processo di decolonizzazione è un processo violento.
E sono bravissimi a farlo, alla seconda pagina viene citato il venerabile
maestro: “Nello scorso decennio il filosofo Mark Fisher ci aveva spiegato che
l’immaginario hip hop rappresentava in generale la bipolarità del tardo
capitalismo: l’alternarsi di depressione ed euforia causato dall’ideologia
secondo cui ognuno sarebbe responsabile della propria miseria così come del
proprio successo”. La seduzione continua pagine più avanti, ne è un esempio la
critica elegante alla libreria Tuba al Pigneto, dove si condensa tutto questo
lisciamento di pelo:
> Abbiamo visto le femministe radicali della Libreria Tuba del Pigneto tifare
> per Rose Villain a Sanremo 2025 intravedendo nella sua esibizione teatrale e
> queer, con styling manga modello Sailor Moon e coreografia pronta per TikTok,
> le infinite possibilità che la sua finzione poteva offrire rispetto alla
> presunta verità degli altri cantautori in gara. Rose, coi capelli blu e i
> colori primari è la nostra regina hyperpop. “L’hyperpop parte dal principio
> che, nell’era dei social network, per un* artista è impossibile essere
> autentic* e spontane*” scrive Julie Ackermann (Hyperpop, Nero Editions).
Ma attenzione a pensare che i nostri eroi siano così ingenui da produrre
l’ennesima analisi filosofico-politica del fenomeno della trap, citando Simon
Reynolds, Naomi Klein o Jameson, no, no, no. C’è di più di così e questo je ne
sais quoi sono i featuring alla fine di ogni capitoletto: ciò che li salva,
almeno all’inizio, dall’essere un articolo di una rivista online di studenti. Il
monologare “pallido e assorto” imbandisce la tavola per il contenuto reale, gli
estratti delle interviste a chi la trap la fa. Aperti come dei fiori a primavera
grazie al sex appeal delle pagine prima, arriviamo a ascoltare i nostri trappers
come i bianchi universitari di Berkeley davanti a Malcolm X. Così ascoltiamo
Simba La Rue che dice:
> Ho rischiato di morire più volte. Tra risse, coltellate, agguati, anche
> sparatorie. Ma come ti dicevo prima queste cose non mi fanno paura perché sono
> sicuro che tutto è scritto, se deve succedere succede. L’unica cosa di cui ho
> paura è tornare povero, crescere mio figlio come sono cresciuto io. Quando ero
> bambino esistevano solo i soldi. […] Chi ti dice che i soldi non fanno la
> felicità è un bugiardo! Se cresci senza avere niente e sei fissato solo con le
> cose materiali, poi quando fai i soldi e viaggi e conosci altra gente, altre
> lingue, capisci che è questa la vita. Ma a questo ragionamento ci arrivi solo
> quando hai i soldi, prima pensi solo a come farli.
O anche Paky: “Ora ci sono molti che ci imitano, che vorrebbero essere come noi,
ma non lo sono, riconosco chi è di strada e chi non lo è. Lo vedo dagli occhi. I
vostri per esempio sono occhi tranquilli, di chi ha studiato, che sta bene con
se stesso. Quando guardo gli occhi delle persone di qui vedo un’altra cosa”.
Uno dei passaggi più significativi di questo cinema verità pasoliniano è quando
Giovanni Robertini scrive della sua esperienza come testimone delle riprese di
un video (“Haram Freestyle2“) di Mowgli CLL durante l’iftar, il pasto serale che
interrompe il digiuno del Ramadan: “Al calar del sole di un sabato di fine marzo
2025 arrivo a Quarto Oggiaro spesso chiamato ‘il Bronx di Milano’, niente più di
un luogo comune da quartiere popolare” e fin qui sembra un qualsiasi articolo
del New Yorker e in parte lo è, come segue: “Nel cortile di una palazzina dei
ragazzi stanno sistemando all’aperto dei tavoli, sedie e tovaglie, con la
speranza che il tempo regga. […] [Mowgli] Mi racconta che il posto in cui ci
troviamo ‒ un magazzino con affaccio sul cortile interno ‒ è di un’associazione
che si chiama ‘Dar El Kalimat’ di cui fa parte il suo amico Hani: aiutano più di
cento famiglie ogni settimana a fare la spesa (accanto a noi sono accatastate
scatole di zuppe e cartoni di succhi di frutta), fanno corsi di italiano per
donne arabe e… pure corsi di Zumba!”. Robertini qui non riesce a perdersi nel
flusso, il tono cambia per un motivo che spiega dopo: «Io rimango come
spettatore nella mia bolla piccoloborghese a qualche chilometro verso il centro,
ringraziando Mowgli per avermi fatto parlare di musica e di politica con un
ragazzo di ventitré anni, un privilegio oggi per me superiore a quello di
incontrare una navigata rockstar d’oltreoceano. Se la sua trap arrivasse in
classifica il mondo sarebbe un posto più interessante».
> Il monologare “pallido e assorto” imbandisce la tavola per il contenuto reale,
> gli estratti delle interviste a chi la trap la fa.
È un gioco di equilibrio: la voglia caciarona di perdersi a parlare di Silvia
Sardone (citatissima nel libro), della stupidissima industria musicale italiana
e di Baby Gang che fa l’endorsement a Forza Italia deve fare i conti con
l’accorgersi che ciò che i trappers dimostrano è importante, è il distillato
purissimo del nostro mondo, perché è, come asserisce Piccinini alla fine:
“capace di svelare ogni segreto del neocapitalismo tecno-feudale in cui siamo
precipitati con tutte le scarpe perché racconta storie di luoghi dove non ci
sono regole né leggi, se non quelle che si ricavano dall’uso della strada e
dalle consuetudini mafiose, e non ci metti niente a risalire fino a Shakespeare
passando per L’odio, West Side Story e il noir americano”.
Lo scontro tra queste due forze crea intrattenimento costante, una schizofrenia
controllata indotta al lettore o alla lettrice attraverso degli elettrodi
posizionati sul rilascio di dopamina. Leggere questo libro è come parlare con un
tuo amico che scrolla reels tutto il giorno: “Dopo Ruby c’è il Berlusconi
ultimo, quello sposato con la darkissima Marta Fascina, plastica
rappresentazione di una via di uscita psichedelica ‒ l’unica possibile, scartata
quella politica ‒ dalla situazione: Silvio e Marta con la macchinetta da golf,
la panchina, la mongolfiera, i cuori, gli aeroplanini che sventolano il suo
nome” e poi via ecco un’altra linea di pensiero che si accavalla subito senza
soluzione di continuità: “Walt Disney, Jeff Koons, Douglas Sirk, tutte le
telepromozioni Mediaset in un colpo solo. Un kolossal pop. Una luce abbagliante
accesa nel cuore della Brianza, forse la mutazione seguita alla bomba N (tra i
commenti di Twitter c’è chi scrive che siamo tutti morti nel 1994, viviamo nel
sogno di Silvio)”.
Robertini e Piccinini si sono lasciati attraversare dallo spirito del tempo,
l’hanno condotto finché non potevano più controllarlo (la bomba di sopra). Ci
consegnano un’analisi più vera, più autentica e più divertente di un qualsiasi
libro di Morton, perché se nel 1989 attraverso il rap Wallace e Costello
parlavano degli Stati Uniti che si vantavano di aver vinto la storia,
dimenticandosi voci diverse da quelle dei bianchi dei sobborghi, nel 2025
Piccinini e Robertini parlano della fine della storia e dello stato attuale del
capitalismo con il suo linguaggio, il suo campo semantico, la sua stupidità e la
sua schizofrenia. Come Blob nel 1989 anticipò il saggio di Baudrillard, La
guerre du Golfe n’a pas eu lieu (1991), in modo più scanzonato e divertente e
con meno parole, così i due boomers riflettono la società dello spettacolo senza
mediare nulla, come dei monaci buddhisti in posizione di pieno ascolto, e quello
che viene fuori è un rimaneggiamento di Guy Debord letto da Barbara D’Urso, un
processo senza esclusione di colpi all’hypernormalisation descritta da Adam
Curtis, cioè quel processo di razionalizzazione ed edulcorazione della
complessità contemporanea per evitare di subire la Storia.
Le pagine che i due autori dedicano al caso di Ramy Elgaml sono le migliori del
libro. La critica di una società morente si lega al vero senso di tutta la
faccenda della trap, che poi è la stessa del rap del 1989; per i ghettizzati
della nostra società esistono due modi e basta per finire tra i salvati e non
tra i sommersi: spaccare con la musica, essere forti negli sport (“Tra loro ci
potrebbe essere il prossimo Lamine Yamal”, dice Mowgli, “sempre che non vengano
scavalcati dal figlio di quello che ha l’amico manager”). Piccinini e Robertini
ne sono consapevoli e vogliono che emerga questo groundhog day dell’oppressione,
infatti di fianco a Ramy ci mettono Rodney King, quello delle proteste a Los
Angeles nel 1994 e Carlo Giuliani, al nazi-immobiliarismo sionista per Gaza gli
antisemiti polacchi del 1937.
> Le pagine che i due autori dedicano al caso di Ramy Elgaml sono le migliori
> del libro. La critica di una società morente si lega al vero senso di tutta la
> faccenda della trap, che poi è la stessa del rap del 1989.
Finendolo e rileggendo l’introduzione, il senso di questo libro si apre in tutta
la sua chiarezza. Robertini e Piccinini parlano di trap e trappers non perché ne
parlano meglio di altri o conoscono più retroscena, ma perché parlano di tutto
il resto, perché, come spiega Robertini: “I valori dei trapper sono gli stessi
dei loro genitori, di anni di Berlusconi, di sessismo, individualismo
esasperato, culto del denaro e iperconsumismo, e che ora tornano indietro ai
padri e alle madri col filtro dell’autotune. I trapper semplicemente riflettono
il mondo così com’è, non come vorrebbero che fosse”. Bisogna andare oltre al
paraculismo, allo spezzettamento, alla finta giovinezza e soprattutto alla
mancanza totale di critica musicale per se, se non qualche pezzo in giro tipo
“L’ottanta per cento delle rime che scrive Lazza parlano di quanto è bravo a
scrivere rime che parlano di quanto è bravo a scrivere rime eccetera. E Chopin
suonato al piano? Il campionamento di Erik Satie nel suo disco?”, per apprezzare
questo libro.
Ma io sono sicuro che sul mio scaffale preferisco avere questa testimonianza del
periodo 2016-2025 italiano piuttosto che un “La trap spiegata bene”.
Rimango in attesa che qualcuno nelle alte sfere del potere mediatico offra a
Piccinini e Robertini soldi infiniti per produrre centinaia e centinaia di
documentari su qualsiasi cosa, perché sembrano sempre a loro agio.
L'articolo La trap spiegata ai bianchi proviene da Il Tascabile.
“A ddio prince of darkness”: questo il titolo più gettonato al momento della
dipartita del grande Ozzy Osbourne, cantante emblema dei Black Sabbath, ma
soprattutto solista a tutto tondo e pioniere di un’attitudine sonora grazie alla
quale molti artisti campano e hanno campato, semplicemente dilatando frammenti
del Sabbath sound (pensiamo a tutto il movimento doom), oppure velocizzandolo
(il thrash metal tutto), distillandone l’alone oscuro (il gothic), ma anche il
noise (Helmet), e potremmo continuare per ore. Ma attenzione, Ozzy non ha
influenzato solo la zona “dura” della musica, non è solo il padrino dell’heavy
metal: lo testimoniano i peana da parte di gente come Elton John, Billie Eilish,
Lady Gaga, Cyndi Lauper, Duran Duran, Post Malone, Yungblud, insomma il suo
apporto allo scenario mondiale è stato “trasversale”, se non addirittura
“contaminante”. Ma in particolare pochi – a parte Geezer Butler, il bassista dei
Sabbath, che l’ha ricordato come “the prince of laughter” ‒ si sono soffermati
sul fatto che il “principe delle tenebre” forse non era esattamente così, ma
piuttosto è stato infilato a forza da stampa e addetti ai lavori in un ruolo che
poi ha cavalcato.
E quello che ha aperto il vaso di Pandora è stato l’omaggio social che al nostro
hanno rivolto personalità notissime del pop italiano: sì, pop italiano. E la
cosa ha suscitato emozioni discordanti tra la gente: chi non crede a quello che
legge, chi deride senza mezzi termini, chi reagisce con curiosità, chi grida al
complotto e chi fa il superiore, ma pochi che abbiano colto il significato
importantissimo della cosa. Proprio per questo, passiamo in rassegna i nomi di
questi artisti italiani che hanno “osato” ricordare Ozzy senza avere ‒
apparentemente – un pedigree metal o come minimo estremo, e per questo messi
alla gogna dagli “ortodossi” del rock.
> L’omaggio social che hanno rivolto a Ozzy Osbourne personalità notissime del
> pop italiano ha suscitato emozioni discordanti.
Iniziamo dal post che ha fatto più scalpore, quello di Amedeo Minghi: il nostro
ricorda Ozzy come si ricorda un mito personale, rimembrando i momenti in cui
negli anni Settanta, da giovanissimo ‒ ancora lontano dall’exploit Sanremese –
il nostro nelle cantine suonava i Sabbath. Che c’è dei Sabbath e di Ozzy nella
musica di Amedeo, si chiederà il popolino ignaro? Ebbene basterebbe dare uno
sguardo più approfondito al repertorio di Minghi, in particolare al primo disco
del 1973: lì troverete un brano “Candida Sidelia”, il quale senza dubbio
echeggia le gesta di Ozzy. Un brano rock le cui linee vocali ‒ ma anche
l’atmosfera torbida del testo a cura della grande Carla Vistarini ‒ avrebbero
potuto essere cantate dall’artista inglese, il che mette subito Minghi nel
cerchio di chi ha cognizione di causa per parlare di hard rock e affini, a
differenza di chi lo critica e non conosce nulla, neppure di chi si ostinano ad
attaccare. Ovviamente Amedeo si è incazzato abbestia, sentendosi pressato a
dover dimostrare chissà che cosa: basterebbe ricordare ai signorini haters che
“Vattene amore”, sminuita come “Trottolino amoroso”, ha uno dei testi più
surreali che la storia della musica italiana conosca e l’autore è il geniale
Pasquale Panella, meglio conosciuto come il paroliere del periodo bianco di
Battisti, quindi non certo un’educanda.
Segue poi il cordoglio di Red Canzian, il bassista storico dei Pooh che sostituì
Riccardo Fogli e che, proprio prima di entrare nella band più famosa d’Italia,
soleva interpretare “Paranoid” con il suo primo gruppo, probabilmente i
Prototipi (effettivamente la sua voce non sfigurerebbe): anche qui commenti
perplessi ma forse meno stupore, in quanto Red negli anni Settanta suonava nei
Capsicum Red, band prog prodotta dalla Bla Bla, copertina di Gianni Sassi della
Cramps ecc.: ma ricordiamo che anche i Pooh si sono distinti nell’album Opera
prima – nel pieno periodo del successo di “Tanta voglia di lei”, 1971 –
registrando “Il primo e l’ultimo uomo”, un pezzo sfacciatamente hard rock con
delle sonorità e un andazzo vocale – lì però cantava Negrini, poiché Red entrerà
in formazione solo tre anni dopo ‒ che ricorda proprio i Sabbath e Ozzy.
Nonostante questo siamo costretti a vedere Red combattere con gli arroganti
scettici del web, rispondendo a tono con un self control davvero invidiabile.
Poi abbiamo Drupi, che in gioventù divide il palco con Ozzy e disegna un ricordo
di lui e dei Sabbath notevolissimo: nel 1968, ingaggiati probabilmente per
sbaglio in una manifestazione per famiglie a Cesenatico, con obbligo di
abbassare i volumi a mezzanotte, i nostri ovviamente scatenano l’inferno tanto
che l’organizzatore gli toglie la spina e manco li paga. E poi ci sono quelli
che, per ragioni anagrafiche, sono più sospetti e non hanno scuse di “cantine
negli anni Sessanta” nel cassetto: ad esempio Eros Ramazzotti, che però è
effettivamente un patito di hard rock e classic rock (fa testo l’intro di “Le
cose della vita”, per fare un esempio, in cui il nostro schitarra alla grande)
e che qua e là inserisce delle strutture che arrangiate in altra guisa
porterebbero direttamente al modello di riferimento.
> Il “principe delle tenebre” forse non era esattamente così, ma piuttosto è
> stato infilato a forza da stampa e addetti ai lavori in un ruolo che poi ha
> cavalcato.
Federico Zampaglione dei Tiromancino anche lui si prostra innanzi alla salma del
Maestro, con un “se nella vita suono lo devo anche a te”; a molti risulta
difficile credere a una simile cosa, ma chi è informato sa che lo Zampaglione
melenso di “Per me è importante” fece due dischi alternativi come Insisto e
Alone alieno che a tutti gli effetti hanno molti – se non moltissimi – spunti
hard rock, per non parlare del fatto che insieme al fratello Francesco
produssero nel 2011 L’inferno dei vivi, l’ultimo disco in vita di Richard
Benson, che Ozzy – istrionismi a parte – ce lo aveva nelle vene. Viene
semilinciata anche Laura Pausini, solo perché la nostra ‒ incontrandolo a una
manifestazione e scambiandoci due chiacchiere ‒ ricorda Ozzy per la sua
gentilezza, tenendo la musica da parte: ma è anche vero che in molti degli
spettacoli della cantante di Faenza i chitarristi non vengono certo dal mondo
“leggero”, ma anzi sono chiaramente di stampo metal prestato al pop, cosa tra
l’altro abbastanza comune in quel mondo a dimostrazione che le barriere sono
molto sottili.
Angelo Branduardi, dal canto suo, ricorda – in maniera ovviamente ironica ‒ come
molti dopo aver ascoltato la sua musica si siano buttati su Ozzy: noi possiamo
dire che Branduardi col discorso Blizzard aveva in comune un immaginario spesso
fatto di streghe incantesimi e – a bocce ferme – di favole nere, tra l’altro
bazzicando parecchio il mondo medievale britannico fatto di occulto e via
dicendo: ragion per cui i suoi omaggi hanno a che vedere con una chiara fonte di
ispirazione, Osbourne stesso.
Diversa la questione per Cesare Cremonini, che non scrive nulla che possa
attirare critiche ma posta solo una foto in bianco e nero del cantante
britannico. Solo un omaggio dettato dal momento? In realtà no, perché Cremonini
si è dichiaratamente fatto le ossa con l’hard rock, partendo in tenera età coi
Queen e andando poi a ritroso (e ovviamente anche Brian May ha ricordato il
grande Ozzy, senza il quale probabilmente i Queen non avrebbero neanche tirato
fuori gli strumenti dalle custodie). Ragion per cui ogni tipo di “perplessità”
può essere mandata al mittente.
E Vasco Rossi? Beh, uno come Vasco ovviamente non poteva non omaggiare uno dei
suoi grandi maestri: per la capacità comunicativa in primis, e in secondo luogo
– musicalmente – Rossi ha preso qua e là pezzi del rock di Ozzy infilandoli
nelle sue canzoni, così come ha fatto con gli Ac/Dc, i Judas Priest e via
dicendo (a mio modesto parere anche il suo modo di stare sul palco, con quei
momenti gigioneschi e i famosi “eeeh” a braccia spalancate deve molto agli “Uh
yeah” di Ozzy e del suo trascinare la folla come un vero jester). Forse di tutti
gli epitaffi è il più scontato, d’altronde Vasco viene soprannominato “rocker di
Zocca” e negli ultimi tempi rivedeva i suoi pezzi live in chiave “metal” con in
formazione Will Hunt degli Evanescence, tanto per dire.
Enrico Ruggeri anche omaggia il Blizzard, ma nel suo caso c’è un alto tasso di
tolleranza per i trascorsi nei Decibel, che nella loro miscela di punk e hard
rock caratterizzante gli esordi avevano senza dubbio i Sabbath come riferimento
(e poi il fatto che Ruggeri abbia una cultura hard rock piuttosto ampia è cosa
risaputa). Infatti pochi se la sono presa, eppure Ruggeri è l’autore di cose
come “Quello che le donne non dicono”: strano che per questo non sia alla gogna
come i suoi sopracitati colleghi.
Ma la questione di fondo è che Ozzy Osbourne ha sempre fatto pop: la melodia
della voce è fondamentale, avvinghiante, è la cosa principale anche e proprio
perché all’interno di un contesto dalle sonorità heavy: anche perché poi il
concetto di “pesantezza” in musica nel frattempo è mutato ed estremizzato (se
pensiamo al noise rock e derivati) e ascoltare il lavoro del fu ragazzo di
Birmingham oggi non è più respingente come agli esordi (anche se ultimamente
c’è una grande involuzione nel rock, per cui il nostro è uscito di scena
ringiovanito a livello musicale). Anzi, quello è stato il suo punto di forza,
esser riuscito a trasformare il concetto di pop, ma non a negarlo. Nel suo modo
di inseguire i riff di chitarra c’è l’essenzialità del pop: dritto alla bisogna,
niente orpelli.
> La questione di fondo è che Ozzy Osbourne ha sempre fatto pop: la melodia
> della voce è fondamentale, avvinghiante, è la cosa principale anche e proprio
> perché all’interno di un contesto dalle sonorità heavy.
E i suoi punti di riferimento assoluti sono i Beatles: basti guardare l’incontro
tra lui e Paul McCartney nel backstage di un concerto del baronetto, anno 2001:
Ozzy per la prima volta – incredibilmente – lo incontra ed è emozionato come un
ragazzino. Tra l’altro la canzone “I want you (She’s so heavy)” dei Beatles è
incredibilmente Sabbath: esce nel 1969 e, come scritto da Josh Hart e Damian
Fanelli su Guitar World, merita il 34° posto nella loro lista delle “50 canzoni
più pesanti prima dei Black Sabbath” definendo il brano un “bluesy rock” che
“potrebbe aver inavvertitamente dato inizio al doom metal”. Qualcosa vorrà pure
dire: come qualcosa vuol dire quando il nostro interpreta brani “leggeri” nel
repertorio dei Sabbath, come le celeberrime “Changes” e “Planet Caravan”, in cui
la voce diventa espressione di tutta la fragilità e la dolcezza del caso: tant’è
che addirittura i Pantera (in fissa per il brano) praticamente si vergognarono
di includere la loro cover nell’album Far Beyond Driven, scrivendo una “lettera
aperta ai fan” che secondo loro non avrebbero apprezzato la cosa perché troppo
melodica, risolvendo il tutto mandandoli a fanculo (nel live “back to the
beginning” Phil Anselmo si sentirà finalmente libero di cantarla con tutto il
cuore).
Soprattutto nella carriera solista Ozzy darà una grande importanza alle ballad,
come nel caso della storica “Goodbye to romance” (non a caso individuata come
soft rock da vari algoritmi), la stessa “Mama I’m coming home” scritta con un
altro beatlesiano DOC, ovvero Lemmy dei Motorhead, “So tired” che in effetti,
quando fu scelta come secondo singolo per “Barking at the Moon”, vide il
disappunto di molti fans: è vero, nel metal questa cosa delle ballad è
abbastanza diffusa ma ‒ qui sta il bello ‒ è proprio Ozzy ad averne gettato le
basi coi Sabbath. Sabbath che, ricordiamolo, non sono sempre stati a schitarrare
in maniera monolitica, ma hanno anche sconfinato in cose molto più orecchiabili,
sperimentando anche coi sintetizzatori in dischi come Technical Ecstasy e Never
say die!, che se è vero che sono stati il canto del cigno della formazione
storica creandosi anche molti nemici tra la critica e il pubblico, è vero anche
che rappresentano due album coraggiosi seppur imperfetti dove la band si rifiuta
di essere il cliché di se stessa dicendo ad alta voce: “sì ok, non sappiamo dove
stiamo andando, ma sappiamo che stiamo forgiando il pop del futuro”.
> Basta guardare i funerali di Ozzy in streaming per rendersi conto di che razza
> di evento pop sia stato: migliaia di persone a ricordare quello che veramente,
> per parafrasare la canzone manifesto di Lennon, è stato un “working class
> hero”.
Quello della contaminazione tra generi, quello degli esperimenti più o meno
riusciti, quello che sì, abbiamo cantato di temi oscuri ma da sempre questi temi
fanno parte di un discorso popolare, e non ci siamo limitati a quelli; dovevamo
farlo perché, come ricordava Ozzy stesso “Eravamo io e cinque bambini, i miei
fratelli, che vivevamo in una casa con due camere da letto. Mio padre lavorava
di notte, mia madre di giorno, non avevamo soldi, non avevamo mai avuto una
macchina, andavamo raramente in vacanza… E all’improvviso, sai, sentiamo dire
‘Se vai a San Francisco assicurati di mettere un fiore tra i capelli’. E
pensiamo (con disprezzo) ‘Che cazzo è San Francisco? Da dove spunta fuori? Cos’è
questa stronzata dei fiori? Io non ho neanche le scarpe ai piedi!’”. E basta
guardare i funerali di Ozzy in streaming per rendersi conto di che razza di
evento pop sia stato: migliaia di persone a ricordare quello che veramente, per
parafrasare la canzone manifesto di Lennon, è stato un “working class hero”. Dal
pop(olo) veniva, al pop(olo) è tornato. Gli altri continuino pure a guardare la
luna senza abbaiarle contro.
Listen in awe and you’ll hear him
Bark at the moon
L'articolo Ozzy Pop proviene da Il Tascabile.
I l 2025 è l’anno di Napoli: ovviamente il pensiero passa per la festa di un
sudato scudetto, con inarrestabili canti e balli per strada. Ma Napoli non balla
solo per questi eventi: il ballo è l’essenza stessa di Napoli. Il dancefloor
partenopeo sta diventando – più che un’area adibita allo “slego” ‒ un
personaggio popolare, un Pulcinella del Tremila che non teme la tradizione ma la
scavalca portandosela sulle spalle. Gennaro Ascione (prolifico autore di saggi,
romanzi, scrittore per teatro cinema e insegnante di studi culturali
all’Orientale di Napoli, nonché una delle eminenze grigie del fenomeno Napoli
segreta) ha deciso dunque di “percorrere le sottoculture musicali della città
dagli anni Settanta ad oggi”, analizzando la storia del suo ballare come storia
di decolonizzazione e di sguardo aperto al mondo, con un libro dal titolo
semplice ma efficace: Napoli balla (2025). Ci facciamo quindi una chiacchierata
con l’autore per fare il punto sul manifesto di intenzioni che tale libello
suggerisce.
ALLORA GENNARO, ABBIAMO TRA LE MANI QUESTO BEL LIBRO: ADESSO TU MI DEVI DIRE
COME TI È VENUTO IN MENTE DI SCRIVERLO? PERCHÉ IO TI RICONOSCO IN VARIE FOGGE,
PERÒ IN VESTE DI CRITICO MUSICALE… DICIAMO CHE QUESTO È UN PO’ IL TUO DEBUTTO IN
QUESTO SENSO. O DICO UNA FESSERIA?
No, dici bene: è veramente un debutto. il libro nasce come proposta per
un soggetto di un documentario che mi è stato chiesto nel 2019. E mi era stato
detto: la vogliamo fare una cosa su Napoli con una chiave che sia diversa dalle
solite narrazioni? E io siccome, come sai, sono appassionato di musica ma anche
di tecnologia e di sottoculture, avevo proposto una docufiction, una docuserie
in quattro puntate.
CON QUALE CASA DI PRODUZIONE?
Con Anemone, che sarebbe la casa di produzione dei video di Liberato. Tra le
altre cose hanno vinto anche il premio a Venezia per una giovane regia l’anno
scorso, cioè per il film Le mosche di Edgardo Pistone. E poi, come sai, queste
cose a volte non vanno in porto dal punto di vista dello sviluppo. Quindi mi era
rimasto questo soggetto e avevo sviluppato anche delle cose divise in quattro
capitoli che analizzavano però quattro periodi temporali. Poi… in mezzo c’è
stato Napoli segreta, il mio libro Vendi Napoli e poi muori (2018). Quindi era
un po’ che mi balenava in testa questa idea di utilizzare gli strumenti degli
studi culturali per fare un “non saggio”… non so se sei d’accordo, però non si
può dire che questo libro sia un saggio.
SICURAMENTE È UN IBRIDO, PERÒ SÌ: SECONDO ME C’È ANCHE L’ASPETTO DEL SAGGIO.
E infatti ho pensato: troviamo una scrittura ibrida che mi consenta di
attraversare queste sottoculture, prendendole non soltanto come periodi storici
che stanno uno dietro all’altro ma permettendo anche ogni tanto di ritornare
indietro. Per dire, nello stesso momento in cui abbiamo raccontato la Napoli di
James Senese poi stavano succedendo anche altre cose. Mentre stiamo raccontando
la Napoli dei punk dobbiamo un attimo riprendere un filo per andare in direzione
dell’underground: quindi l’idea era di arrivare fino ad oggi per raccontare la
Napoli di adesso, attraverso la voce di certi protagonisti. Però quando arrivi
alla fine della lettura si sono accumulati così tanti strati che è come se le
cose che leggi dell’ultimo capitolo prendano un senso completamente diverso da
prima perché diciamo: “ma guarda che ‘sta cosa viene da un percorso antico!”
MA INFATTI È SINTOMATICO CHE TU L’ABBIA SCRITTO PRIMA ANCORA DELL’ESPLOSIONE DI
NAPOLI SEGRETA: IN REALTÀ È COME SE TU ANALIZZASSI NAPOLI FILTRANDO IL PUNTO DI
VISTA SOCIOLOGICO, ANTROPOLOGICO DIRETTAMENTE COL SUO DISCORSO MUSICALE, CHE POI
È ANCHE UNO DEI GRANDI FONDAMENTI DEL POPOLO NAPOLETANO. E IN EFFETTI TU LA
PRENDI DA LONTANISSIMO, ADDIRITTURA DA O’ SOLE MIO, DA QUANDO CIOÈ INIZIA
L’ESPORTAZIONE DEL “NAPOLI SOUND” ALL’ESTERO, GRAZIE AL FATTO DI ESSERE UNA
CITTÀ COLONIALE O POSTCOLONIALE, COME LA CHIAMI TU.
Esatto, sì.
VUOI SPIEGARE UN PO’ QUESTO DISCORSO? SECONDO TE NAPOLI ANCORA ADESSO È UNA
CITTÀ POSTCOLONIALE?
Forse adesso lo è in maniera evidente: come dici tu giustamente lo è dalle
origini, perché postcoloniale non significa che viene dopo la colonia ma che nei
500 anni di modernità e colonialismo tu acquisti consapevolezza
e ragioni attraverso i movimenti di persone, di idee e di cultura: quindi è
postcoloniale perché storicamente è stata colonizzata, ed è postcoloniale
perché le emigrazioni ‒ come da tutto il resto dell’Italia verso altri posti ‒
creano questi doppi legami per cui la musica di O’ sole mio, e in generale della
canzone napoletana, viaggia appresso ai migranti, dalla Crimea agli Stati Uniti
al Sud America: però di ritorno arriva la musica dei 78 giri, che comincia a
girare sui grammofoni e poi arriva il jazz, un fenomeno che penso tu conosca
meglio di me nel modo in cui dall’Atlantico nero torna in Europa. C’è tutto un
movimento che oggi è evidente, perché magari ‒ a differenza di una città come
Londra o come Parigi ‒ adesso qui abbiamo seconde e terze generazioni di
afrodiscendenti che però sono a tutti gli effetti proprio napoletani. E quelli
si costituiscono il loro dancefloor, la loro musica che non passa più per le
metropoli del nord, ma magari dal wolof della Nigeria, dall’afrobeats
contemporanea, e parla direttamente con l’amapiano che è la house music
sudafricana. Quindi adesso è postcoloniale in una maniera ancora più evidente,
però è una costruzione storica.
DA QUESTO PUNTO DI VISTA È CRUCIALE LA STORIA DI JAMES SENESE E MARIO MUSELLA,
GLI SHOWMEN, CHE SONO APPUNTO I FIGLI DELLA GUERRA: E QUINDI ANCHE IL
METICCIATO, PER CUI DA UNA PARTE SONO NAPOLETANI E DALL’ALTRA SONO
AMERICANI FIGLI DI NERI, FIGLI DI PELLEROSSA. DUNQUE GIÀ DA LÀ DICIAMO CHE LA
CITTÀ MUSICALMENTE PRENDE DEGLI ASPETTI CHE PROBABILMENTE SONO DI UN CLASH
CULTURALE NOTEVOLE…
Guarda, sulla musica in particolare secondo me è proprio una dialettica più che
un clash: primo perché dal punto di vista storico quella che pensiamo essere la
canzone classica napoletana è già una forma ibrida di tante cose, in
quanto dentro ci sono già tante influenze che poi vengono codificate nel
dialetto napoletano.
IN QUESTO SENSO C’È DA DIRE CHE NAPOLI HA QUESTA CAPACITÀ MUSICALE DI FARE SUOI
DEI LINGUAGGI ALTRI, COME I GIAPPONESI QUANDO PRENDONO QUALSIASI TIPO DI ROBA E
POI PENSI CHE L’ABBIANO INVENTATA LORO. SEMPLICEMENTE NE HANNO FATTA UNA
VERSIONE TALMENTE PERSONALE CHE POI DIVENTA PECULIARE.
È certamente una via, quella che dici tu, il fatto di ritradurre in una chiave ‒
chiamiamola napoletana o comunque etnica ‒ dei fenomeni che stanno succedendo in
giro per il mondo. Quindi sia nella canzone napoletana sia dagli Showmen fino ai
Napoli Centrale di Senese, a Pino Daniele c’è questo movimento. Come dire:
ritraduciamo la fusion, il blues, il rhythm and blues e lo facciamo in
napoletano. Ma c’è anche un’altra via che invece è come se prendesse la
direzione opposta, e forse Napoli segreta si avvicina di più a questa cosa: la
disco funk fatta a Napoli tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni
Ottanta esce proprio all’ombra di Pino Daniele e di Napoli Centrale. Perché
fanno un discorso del tipo: noi vogliamo fare la disco music, e il fatto che la
facciamo in napoletano è perché alla fine cantiamo in napoletano, ma noi
vogliamo andare verso quella cosa, no? Non la vogliamo riportare a casa.
QUESTO È UNO DEI TANTI MOTIVI PER CUI L’OPERAZIONE NAPOLI SEGRETA HA FUNZIONATO.
Sì, perché se prendi i pezzi che tu conosci bene di Tony Iglio, tipo Luci a New
York lui sta prendendo Gershwin e la sta semplicemente risuonando: e lui è
napoletano ma non ci sta mettendo il mandolino dentro, no? Quindi è
affascinante come già negli anni Settanta queste diverse modalità aprano la
possibilità di narrare tante Napoli: per cui non c’è Napoli come città, ci
stanno tante città dentro a questo calderone, e ognuna interagisce in modo
diverso rispetto a quello che sta succedendo. Se prendi per esempio le culture
del dancefloor degli anni Ottanta-Novanta, di napoletano c’è solo il fatto che
si faceva a Napoli.
INFATTI TU FAI ANCHE UNA LETTURA STORICA DEL CAMBIAMENTO DEL DANCEFLOOR, DEL
BALLO A NAPOLI: MA DAL PUNTO DI VISTA DELLA FISICITÀ, SULLA PISTA NAPOLI È
DIVERSA MAGARI DA ALTRE CITTÀ MOLTO PIÙ FREDDE COME POTREBBE ESSERE LONDRA O
SIMILIA? A NAPOLI NON C’È FORSE UN ALTRO TIPO DI APPROCCIO?
Napoli, dal punto di vista del ballo, è uguale alle altre città secondo me:
questa è una tesi centrale del libro.
SEI SICURO DI QUESTA COSA?
Sì, perché comunque se sei andato a ballare nel resto del mondo ti sei reso
conto che i dancefloor della musica underground sono gli stessi, anzi ci sono
dei dancefloor molto più esplosivi di Napoli, no? Io ho cercato proprio una via
che fosse quella di dire: Napoli come metropoli, così come lo sono le altre, ha
sviluppato in modo proprio dei linguaggi che però sono universali rispetto alla
Napoli che canta e suona, in cui magari si vede una differenza. Ma se io prendo,
che ne so… la scena rave di inizio anni Novanta a Napoli e prendo la scena rave
di inizio anni Novanta a Roma, io non posso più utilizzare il filtro della
specificità culturale per raccontare quella storia. A Roma c’era Lory D che
faceva “Antisystem” e a Napoli non c’era una scena rave, per cui si andava a
ballare a Roma o ai Technival. E quindi i raver napoletani, come hai letto, a un
certo punto si devono inventare un posto addirittura completamente illegale
sotto lo stadio San Paolo. Però il linguaggio che stanno cercando di
utilizzare in maniera quasi disperata è un linguaggio universale: in questo
Napoli non è differente da altri posti, secondo me, e questo è importante.
PERÒ FORSE C’È UNA TENSIONE ALL’UNIVERSALE MOLTO PIÙ CHE A ROMA PER DIRE, AD
APRIRSI MOLTO DI PIÙ ALL’INNOVAZIONE, E PROBABILMENTE È COSÌ DA SEMPRE. PER
ESEMPIO NEL LIBRO DICI CHE TOTÒ PRATICAMENTE SI “INVENTA” LA BREAKDANCE, CON LE
SUE MOVENZE, IN TEMPI CHIARAMENTE NON SOSPETTI.
Beh, lui la inventa a sua insaputa, si muove con il corpo già negli anni Trenta
come si muove Marcel Marceau perché magari qualcosa però gli è arrivata, quindi
lui nel fare la marionetta utilizza dei codici: questo è il bello dei fenomeni
culturali, perché quando vuoi stabilire chi ha inventato cosa ti vai a lanciare
in un ginepraio. Per questo il discorso sull’autenticità, secondo me, fa un po’
ridere: perché se prendi Carosone, che io ho raccontato, come fai a
stabilire nei pezzi di Carosone dove comincia il napoletano e dove comincia
invece tutto questo milieu che lui ha attraversato quando era ragazzo? Lo puoi
vedere nelle forme espressive: puoi dire che Carosone sta utilizzando la chiave
di lettura dell’esotico per fare delle cose ballabili, ma stabilire se lui sta
facendo boogie oppure swing diventa forse la parte meno interessante della
faccenda.
CERTAMENTE: SONO PIÙ INTERESSANTI COSE COME CARAVAN PETROL, QUESTI ESOTISMI CHE
FORSE VENGONO APPROCCIATI NELLA STESSA MANIERA PIÙ AVANTI, QUANDO IL SYNTH POP
DEGLI ANNI OTTANTA, E QUINDI L’ELETTRONICA, ENTRA NELLA MUSICA NAPOLETANA. AD
ESEMPIO COMPUTER DI ENZO DI DOMENICO, QUESTI GRANDISSIMI BRANI DI NAPOLI SEGRETA
IN CUI LA TECNOLOGIA VIENE TRASFORMATA E DECLINATA ANCHE NEL LINGUAGGIO
TESTUALE, PERCHÉ IN EFFETTI POI IL NAPOLETANO CREDO CHE SIA COME L’INGLESE, CHE
SIA MIGLIORE PER FARE QUEL DETERMINATO TIPO DI MUSICA; SI RIESCONO A FARE DEI
PEZZI PIÙ INTERESSANTI DAL PUNTO DI VISTA SONORO.
Oppure semplicemente diversi no? Perché pensiamo all’hip hop: l’hip hop col
napoletano ha trovato subito un gancio, perché utilizzando molte parole
tronche; quando è arrivato l’hip hop suonava già con degli appoggi ritmici che
hanno permesso alla lingua napoletana di trovare una potenza espressiva. Però se
io penso al rap di Dj Gruff non è che posso dire che il rap in napoletano sia
migliore di quello che ha fatto lui, che utilizza l’italiano come se
fosse Dante, no?
CHIARO, PERÒ INDUBBIAMENTE È RICONOSCIBILE, PERSONALE, LO SPECCHIO DI UN
POPOLO; E OVVIAMENTE NESSUNO PUÒ FARE RAP IN NAPOLETANO SE NON I NAPOLETANI. MA
IN EFFETTI TU FAI UN DISCORSO MOLTO PIÙ SOTTILE, CHE È QUELLO DELLE GRANDI
CONVERSIONI MUSICALI INTERNE A UNO STESSO LINGUAGGIO MUSICALE DI NAPOLI. TIPO IL
METALLARO CHE SI CONVERTE ALLA HOUSE, IL GIOVANE POST PUNK CHE POI CAMBIA E
DIVENTA PALADINO DELLA DANCE, NO? LE GRANDI CITAZIONI DEI BISCA CHE INFATTI
PARTONO A FARE LA NO WAVE E POI SI RITROVANO IN UN CONTESTO PIÙ
FUNKY COLLABORANDO PURE CON I 99 POSSE, IN UN AMBIENTE CROSSOVER CON L’HIP
HOP. PARLANDO CON I PROTAGONISTI COME TI HANNO RACCONTATO QUESTE CONVERSIONI?
COME SE LE SONO VISSUTE?
Loro se le sono vissute in maniera completamente inconsapevole, perché quando tu
stai dentro il fenomeno musicale, specialmente se stai suonando, segui il tuo
istinto: quindi per esempio i Bisca si chiamavano Bisca con la ‘k’ all’inizio,
perché facevano ska: poi è durato due mesi e un amico loro, chitarrista, torna
da un’estate a Londra e porta dei dischi. Tra questi dischi c’è No New York,
quindi loro sentono James Chance e dicono: “Ma che è questa roba? Vogliamo
fare questa cosa qua!”. E il fatto che io abbia potuto raccontare più che
analizzare i passaggi clamorosi da un genere all’altro di cui parli tu, è perché
il protagonista del libro non è un umano e non è un gruppo di umani, ma è il
dancefloor come spazio sociale in rapporto alle sottoculture: quindi io l’ho
visto nascere nei cafè chantant dove suonava Carosone, facendosi spazio piano
piano tra i tavolini e arrivando fino ai locali della Napoli Underground. Perché
effettivamente la storia dell’underground è particolare a Napoli: la città è
terremotata, quindi piena di eroinomani in superficie, e questi soggetti post
punk scendono nelle caverne, in queste cave di tufo, club storici come il
KGB, il Diamond Dogs, lo ZX. Loro cominciano a sperimentare questa forma di
liberazione del corpo in maniera individuale, non di ballo coreografico ‒ io
faccio un passetto e tu ne fai un altro ‒ e neanche di ballo acrobatico ma
semplicemente un approccio post punk in cui ognuno si muove in maniera quasi
solitaria sul dancefloor.
ORA CHE CI PENSO LA TUA SEMBRA LA DESCRIZIONE CHE EDOARDO BENNATO FA IN LA CITTÀ
TREMA NEL 1983, CON QUESTO SOTTOBOSCO “CONTORTO”, DICIAMO…
Beh, i Contortions di James Chance ce l’hanno proprio nel nome: l’idea è che sei
solo tu e ti contorci mentre balli a volumi spropositati di musica nuova, con
chitarre distorte però, già con un’idea di groove. È una cosa proprio che spezza
il movimento, perché sono talmente sincopati la batteria e il basso di quella
roba, che non ci stai più dentro in come si ballava l’afrobeat: e questa cosa
secondo me è stata fondamentale nel costruire un primo momento di liberazione
dei corpi come singoli, che poi sui dancefloor successivi si sono incontrati con
altri corpi liberati e hanno trovato nuovi codici di interazione che non
passavano per le forme già codificate di movimento. Questa cosa a Napoli
avviene in modo interessante, perché a differenza di quanto succede con la forma
discoteca, avviene in dei club underground che si chiamano “discoteche”
per approssimazione merceologica. Perché in tutti e due i posti si balla, però a
Napoli c’era già il Kiss Kiss, che era la discoteca un po’ sull’idea della
Riviera romagnola: quindi la macchina per il fumo, il glitter ball, i
tavolini, tutti quanti un po’ bellini e si balla la domenica pomeriggio oppure
si fa festa la sera un po’ come le realtà che ha raccontato Claudio Coccoluto
riguardo le prime esperienze con Marco Trani. Una scena disco superscintillante
in cui Marco Trani faceva la superstar e Coccoluto in qualche modo si doveva
ricavare uno spazietto. Poi quello spazietto comincia a diventare una
sottocultura underground in cui il club è vissuto in posti scuri, in cui si
ascolta musica ossessiva e ripetitiva, si comincia a prendere un nuovo tipo di
droga che è l’ecstasy, perché questa storia non sta in piedi senza passare per
l’utilizzo di sostanze: comincia a diventare una cultura urbana con dei propri
codici che nella discoteca normale della domenica pomeriggio, con quelli con
le Timberland al piede, non ha proprio niente a che fare.
COCCOLUTO DICEVA ANCHE CHE IL DANCEFLOOR NAPOLETANO È L’UNICO CHE APPLAUDE
QUANDO FAI UN MISSAGGIO FATTO BENE, QUESTO STA NEL LIBRO.
Sì, è l’intervista che lui ha rilasciato per un documentario l’anno scorso:
quasi con le lacrime, lui si ricorda che alla fine di un set in cui
davanti aveva duecento persone mette We Are Family delle Sister Sledge e la
gente fa l’applauso al mixaggio, perché comunque stava nascendo una
cultura tutta nuova, senza istruzioni per l’uso. Perché magari l’hip hop, il
rythm & blues erano passati attraverso i mass media, quindi tu avevi visto un
codice e provavi a replicarlo. Invece questi movimenti underground che partono
da Londra, Ibiza, ma anche da Berlino, arrivano tramite dei pionieri
che cominciano a raccontare le cose come vanno: ma chiaramente il racconto è
meno codificato. Se io non accompagno il racconto con delle immagini, tu devi
usare il tuo cinema interno per produrre delle immagini nuove: e questa cosa
crea i veri e propri movimenti dal basso delle culture underground, che a Napoli
sono fatte proprio dai metallari. Un manipolo di metallari che avevano una band
che si chiamavano Skizo, che erano stati i primi a fare il trash metal, poi a un
certo punto hanno come un’illuminazione: anche io sono stato metallaro, come tu
ben sai, perché secondo me si mantiene un’idea che nel metal è forte, cioè il
fatto di portare avanti un discorso radicale. Se sei stato metallaro è come aver
fatto il militare insieme: c’è quell’idea di mantenere una linea dritta con
della musica tosta che ascolti, e ascolti solo quella. E a Napoli viene fatto
quel discorso per cui si importa la primissima acid house, la house music fatta
coi campioni a gruppo che si ripetono, prodotta da gente che non ha né arte né
parte da un punto di vista musicale, quindi è molto intuitiva: però quella roba
deve essere tosta e prolungata per tutta la notte.
PURA QUESTIONE DI ATTITUDINE, INSOMMA.
Esatto: questo secondo me è il mash che solo il dancefloor poteva
realizzare, perché sono due sottoculture così esteticamente diverse quelle della
house e dell’heavy metal, che si poteva avverare soltanto su un piano non
estetico, non musicale…
PRIMA PARLAVI DELL’IMPORTANZA DELLA DROGA NEL CLUBBING, MA NEL LIBRO SCRIVI
ANCHE – DI CONSEGUENZA ‒ DEI PROBLEMI CON LA MALAVITA ORGANIZZATA. COSA CHE MI
HA RICORDATO MOLTO QUANDO INTERVISTAI PETER HOOK DEI NEW ORDER E MI RACCONTÒ
APPUNTO DEI PROBLEMI CHE HA ATTRAVERSATO LA FACTORY IN QUEL SENSO. ALL’INTERNO
DI QUESTO DISCORSO DEL LIBRO, L’AVANZARE DELLE MAFIE NEL CLUBBING HA CAMBIATO
MOLTO LA SUA FORMA E ANCHE LA QUALITÀ DELLE DROGHE…
Sì, io per raccontare questa storia mi sono domandato: ok, va bene ragionare
per i movimenti culturali, la tecnica, la musica, cosa sta andando. Però che
cosa significa fare un locale notturno a Napoli? O in un altro tessuto
metropolitano? Significa comunque che l’esperienza di produrre il dancefloor
come spazio sociale da parte delle crew che organizzano è mediata anche da
tante situazioni. E che significa? Che in quel locale ci comincia a
entrare innanzitutto ogni classe sociale, quindi molti ragazzi presi bene che
fanno esperienza col fatto che viene il dj dall’estero e magari lo vanno a
prendere all’aeroporto: è un momento di grande emancipazione sociale perché
cominciano ad arrivare dei movimenti culturali che parlano un linguaggio
di apertura, di internazionalizzazione, però in una situazione che è quella
della festa. Quindi nella festa si beve, ci si droga, e diventa una miscela
umana praticamente quasi esplosiva, che tu appena la muovi un po’ più forte può
esplodere tipo nitroglicerina. Quindi, ovviamente, quando si cominciano a
generare i profitti, come in tutte le realtà e non soltanto a Napoli, la gente
ci comincia a mettere gli occhi addosso, perché tra l’altro i locali sono in
territori comunque controllati dalla malavita. Quindi in qualche modo devi avere
a che fare con i rampolli che vogliono entrare nel locale, quelli che vogliono
gestire il traffico perché capiscono che là c’è un business che sta partendo e
quindi cominciano a tagliare le gambe ai freerider.
E QUESTO COSA COMPORTA?
Rispetto all’inizio, in cui magari arrivava la droga buona perché veniva scelta
dai freerider e portata in città, comporta che tutto peggiora. Tutti raccontano
di storie per cui ai bei tempi bastava un quarto in una pasticca per stare fatti
tutta la notte… il che taglia anche le gambe al bar però, no? Sai,
nell’organizzazione dei club il bar lo fai a livello del locale, ma se quello
non guadagna una lira perché tutti quanti hanno preso una sola pasticca e stanno
a posto tutta la notte, il meccanismo della mercificazione mette delle
pressioni: quindi queste varie pressioni cominciano a far abbassare il livello
medio della qualità delle sostanze. Io le varie interviste del libro le ho
chiuse quasi tutte domandando a ciascuno dei protagonisti delle varie epoche: ti
ricordi la prima pasticca che hai visto? E da là viene fuori l’elenco che
leggiamo nel libro, e non ti dico come si illuminavano gli occhi a tutti quanti!
[ride]
E POI IMPROVVISAMENTE TUTTO QUESTO ASPETTO DELLA DARK SIDE NON DICO CHE
SPARISCE PERÒ DIVENTA PIÙ CHE ALTRO TROVARE NELLA DARK SIDE LA LUCE: SECONDO ME
NAPOLI SEGRETA HA TIRATO FUORI QUESTE SOLARIZZAZIONI ALL’INTERNO MAGARI DI UN
PERIODO STORICO “HARDCORE”, RIVELANDO L’ALTRA FACCIA NASCOSTA DI UNA STESSA
MEDAGLIA: NAPOLI SEGRETA NASCE DA UNA GRANDE RICERCA DI RECUPERO, DI DIGGING E
TU NE FAI PARTE, SEI UN PO’ L’IDEOLOGO. MA ECCO: NEL LIBRO TU NON TI SCRIVI,
PARLI IN TERZA PERSONA QUANDO PARLI DI NAPOLI SEGRETA… COME MAI?
No ego, no ego! [ride]. In realtà ho fatto così perché quando in un libro parti
da O’ sole mio fino a Carosone a Pino Daniele… poi c’è una fase intermedia tra
Napoli segreta e Napoli Centrale: perché a un certo punto De Piscopo e Tony
Esposito cominciano ad andare verso il dancefloor… O ad esempio prendi Enzo
Avitabile, che forse è quello che ha l’intuizione fin da subito:
Avitabile infatti sta pure nella compilation Balearic Beats, Soul express…
C’erano già, all’ombra del fenomeno Pino Daniele, delle forme intermedie che
andavano verso il dancefloor, quindi rispetto a questa storia io mi sentivo
proprio inutile. Io lo potevo soltanto raccontare a modo mio, però
effettivamente Napoli segreta come periodo non esiste come tale: abbiamo
ricostruito a ritroso questa scena che non esisteva. Quindi i collegamenti li
abbiamo fatti ex post dopo una ricerca fatta da Lorenzo Sannino e Gianpaolo
Della Noce: anche i Nu Genea, li abbiamo messi in comunicazione noi. Noi siamo
andati a recuperarli.
MA GLI AUTORI DI QUELLA ROBA ALL’EPOCA ERANO CONSAPEVOLI DI FARE QUALCOSA DI
POTENZIALMENTE CLAMOROSO?
Tu prima parlavi del synthpop di Enzo Di Domenico: ecco, quando noi siamo andati
a chiedere a Enzo Di Domenico di Computer (che a te fa impazzire per il verso
“sto computer che ‘bbuo / sono un missile o sono un robot”), o di Robot…Voglio
dire, loro ci hanno detto che erano tutte idee che venivano in qualche modo da
turnisti che erano andati al concerto dei Kraftwerk nel 1981, e che cominciavano
ad ascoltare le cose un po’ più spinte. E questa cosa nasce dal fatto che si
dovevano produrre molti dischi tentando di piazzare la hit: perché la logica
qual è? Alan Sorrenti ha spaccato con Figli delle stelle nel 1977. E tutta la
gente che comunque è a Napoli dice: “Scusami ma perché non proviamo a farla
anche noi questa cosa, no? Creiamo un’industria interna!”. Ma l’idea è: facciamo
molte uscite, ma con una tiratura di dischi molto bassa. Perché se piazziamo la
hit, bene: ma non è che poi possiamo produrre tanti dischi di questa roba se
nessuno se la ascolta. Quindi quei prodotti sono rimasti effettivamente e
completamente inascoltati. È stata veramente una meteora. Una bolla. Col senno
di poi abbiamo incrociato quelle produzioni che stavano avanti, perché che ne
so… Ara Macao aveva tutto un sound quasi caraibico, Tony Iglio era jazz stile
New York City. Poi c’era il synthpop che fa capolino, oppure la wave, delle
chitarre applicate a dei groove che vanno comunque sul dancefloor. Senza parlare
poi delle produzioni più propriamente disco-music, come quelle di Tonica e
Dominante, con Gennarino o’ Sioux o Cicogna, gli Oro che si convertono, no?
Perché erano gli Antico castagno, una band progressive: loro sapevano suonare,
ma a un certo punto dicono “Basta, facciamo i Bee Gees!” [ride].
HAI CITATO ALAN SORRENTI, PERÒ CREDO CHE IN QUESTO SVILUPPO DELLA NON-SCENA CI
SIA ANCHE NINO BONOCORE, CHE È IMPORTANTISSIMO, NO?
Sì, il Bonocore di Palinuro Bar, che poi ha creato tutto il format, diciamo, del
nostro programma. Poi anche Tony Cicco da Formula 3. Era un po’ come con le
sigle dei cartoni animati. Tutta gente che, o per pudore o per altre ragioni,
non voleva forse neanche essere associata a quelle produzioni che
faceva. Infatti le pubblicava su delle microetichette che erano “darkroom di
darkroom”. Quindi c’era ad esempio la BBB, Black Beautiful Butterfly, che aveva
la ATA Records come sottoetichetta. Stiamo parlando proprio di
scivolare nell’abisso della produzione discografica. Lo stesso Avitabile che
pubblica con lo pesudonimo Waterbank scrivendo il nome al contrario per non
essere riconosciuto: pieno satanismo discografico [ride].
DA QUESTO ARRIVIAMO ALLA NAPOLI DI OGGI DESCRITTA NEL LIBRO, CHE HA DEGLI
ASPETTI INEDITI: ALL’INTERNO DI QUESTO VARIO MISCUGLIO DI COSE, CI TROVI ANCHE
APPUNTO DELLE SERATE IN CUI MAGARI TROVI IL DJ BIANCO NAPOLETANO CHE
DEVE METTERE MUSICA AFRO PER VARI AFRICANI DI VARIE ZONE DELL’AFRICA, CHE
MAGARI NON SI RISCONTRANO MUSICALMENTE TRA DI LORO. QUINDI DEVI IN QUALCHE
MODO FARE UN SET CHE METTA D’ACCORDO TUTTI. SPIEGAMI UN PO’ COSA SUCCEDE.
Questo è un momento interessante da questo punto di vista, Sei la prima persona
con cui riesco a parlare di questa cosa, quindi innanzitutto grazie. Secondo me
già le interviste della parte finale del libro aprono proprio a delle
questioni che io ho cercato di costruire passo dopo passo, che poi alla
fine esplodono. Perché quando io dico afrobeats in testa ho l’Africa, ma se tu
parli con un ragazzo afrodiscendente, quello interpreta il genere come se io
dicessi eurodance: anzi molto meno. Musica dance europea che cosa significa?
Moroder? E chiaramente questa cosa sul dancefloor contemporaneo è così perché ci
sono i ragazzi magari del Gambia che sono legati a un’idea più dancefloor
reggae; ci sono i nigeriani che invece sono la New York dell’afrobeats con
la”s”, non l’afrobeat di Fela Kuti, ma questo genere nuovo che fondamentalmente
viene dal rythm & blues anche un po’ più commerciale, però cantato in wolof ad
esempio, tutto con dei ritmi e dei suoni legati a un certo approccio al
dancefloor. Poi c’è l’amapiano, che è la house music molto soft e cantata che
viene dal Sudafrica… quindi questa cosa ha a che fare con Napoli perché
succede anche a Napoli: ma non è napoletana nel senso in cui nel
palinsesto nazionale abbiamo costruito le caselle in cui prima c’è Senese, poi
ci mettiamo Pino Daniele poi dopo ci mettiamo Nu Genea, no? è una cosa di una
complessità metropolitana differente. Per capirci: se parlassimo di
cinema, Sorrentino non potrebbe fare un film su questa roba. Infatti nel
contratto ho fatto inserire una clausola anti-Sorrentino.
AHAHAH, SI CHIAMA PROPRIO COSÌ? NON CI CREDO.
È vero! Ho parlato al mio avvocato, ho detto dobbiamo fare una clausola
anti-Sorrentino per qualsiasi eventuale adattamento cinematografico: lo dobbiamo
decidere noi, perché non può passare per una forma di pittoresco con cui si
racconta Napoli. Questa che ho descritto è Napoli come metropoli in mezzo ad
altre metropoli più grandi, più piccole, ma il linguaggio è quello della
periferia, non quello del centro: anche esteticamente è il fatto che tu vedi dei
palazzoni che quando ti muovi sono in sync, quindi li vedi come le barre di un
sequencer che si spostano avanti e indietro.
IN QUESTO CONTESTO C’È ANCHE IL CAMBIO DI NOME DEI NU GUINEA A NU GENEA: MOLTI
SI SONO CHIESTI IL PERCHÉ DI QUESTO, IO PER PRIMO PERCHÉ NON MI SEMBRAVA
PARTICOLARMENTE GRAVE LA COSA. PERÒ RIENTRA ANCHE NELL’AUTOCOSCIENZA DEL RISCHIO
DELL’APPROPRIAZIONE CULTURALE, GIUSTO?
Sì, certo. A Napoli l’abbiamo maturata questa consapevolezza perché di solito
l’abbiamo subita: la storia precedente qual era? Era che noi sapevamo che Paul
Oakenfold e Danny Ramplin si erano appropriati di quello che stava succedendo a
Ibiza nel 1987-88 e l’avevano chiamato loro Balearic Sound: se parli con Leo Mas
lui racconta: “A un certo punto Paul Oakenfold venne dove stavo suonando con in
mano questa cassetta e mi dice ’ho fatto la compilation’”; e Leo lo guarda e
esclama: “Ma di che stai parlando? Perché, tu stavi a Ibiza?”. È la stessa
cosa un po’ con il Napoli sound; a un certo punto qualcuno di cui non possiamo
fare il nome ci contatta e comincia dire che vuole fare una compilation ‒ e
siamo nel 2016-2017 ‒, perché ha sentito che si fanno delle feste con il sound
disco-funk napoletano. Insiste, insiste, insiste e lui vuole venire a una festa
a tutti i costi…
NEL LIBRO C’È SCRITTO CHI È, NO?
Uno l’abbiamo scritto ma l’altro non lo diciamo chi è, ma l’abbiamo mandato in
un posto sconosciuto! [ride]: c’è stata una riunione del soviet di Napoli
segreta ed è stato deciso “quel nome sì, quell’altro no”, e la compilation la
facciamo noi perché non vogliamo che qualcuno si appropri di questo sound. Però
contemporaneamente i Nu Genea si sono resi conto che il nome che stavano
utilizzando era una forma di appropriazione culturale a loro volta, perché la
Nuova Guinea è un posto in cui loro non sono mai stati, e quindi si sono
posti il problema, con una maturità molto contemporanea rispetto a questa
questione: quindi di questo vado orgoglioso. Napoli, se la vogliamo
prendere rispetto a questo movimento musicale contemporaneo, ha la maturità per
ragionare sulla questione dell’appropriazione culturale in tutti e due i
versi: cioè non vogliamo seguirla ma non vogliamo neanche realizzarla per parte
nostra.
HO NOTATO CHE ALL’INIZIO DEL LIBRO C’È UN CAPITOLO CON UNA CITAZIONE DI UN
ALTRO TUO LIBRO O SBAGLIO? È UNA AUTOAPPROPRIAZIONE CULTURALE FORSE?
[ride] Il libro Napoli balla comincia con un estratto di Vendi Napoli e poi
muori, che abbiamo già citato: un mio libro del 2018 che narra una distopia in
cui la città è invasa e dominata da gabbiani cyborg e succedono una serie
di omicidi seriali legati alla turistificazione della città; poi mi sono fatto
prendere la mano e finisce tutto in strage [ride]. Ho voluto cominciare con
quella cosa perché è come aprire una porta sul piano della narrazione
poetico-letteraria. Ho personificato un loop di basso e una scarica di
percussioni che sono state separate nell’Africa durante le deportazioni degli
schiavi e poi attraversano i percorsi che vanno dal blues alla house al funk
alla techno Detroit, per un verso: e di là dal Mediterraneo verso la musica
microtonale fino ai madrigali, alla musica popolare, e poi si rincontrano a
Napoli e questo incontro avviene dopo secoli nelle cuffie di un dj. In questa
storia il dj è protagonista perché comunque è una figura nuova se ci
pensi: anche lì è una figura di musicista propria del periodo della
decolonizzazione, è una cosa nuova nella storia dell’umanità. Quindi secondo me
è centrale dargli il giusto peso, perché lui ha dovuto lottare per
affermarsi come qualcuno che avesse a che fare con la musica, dato che
all’inizio è stato snobbato.
CERTO: POI CHIARAMENTE NEL LIBRO C’È ANCHE IL DISCORSO DEL DJ CHE DIVENTA
SUPERSTAR VS. IL DJ CHE INVECE STA IN MEZZO AL DANCEFLOOR COME TUTTI GLI
ALTRI, QUINDI UNA DIFFERENZA ANCHE DI STILE E APPROCCIO CHE NEL TEMPO SONO
CAMBIATI.
Sì, questione di prossemica. Perché il dancefloor nasce come rivoluzione contro
la prossemica del palcoscenico, in quanto il palcoscenico riproduce la band che
suona sul palco e riproduce la prossemica del proselitismo: io sto in una
posizione gerarchica superiore e tutti quanti dovete guardare me che faccio
qualcosa. Il dancefloor nasce invece come possibilità di rimescolare le carte,
di guardarsi in faccia l’uno con l’altro indipendentemente da chi sta facendo
cosa. Poi, per ragioni anche di mercificazione, il dj è diventato una star come
una rock star, quindi adesso stanno tutti quanti con i telefonini a riprendere
il dj che non fa quasi niente perché le tracce vanno da sole e lui fa finta di
muovere manopole; quindi io spero che si possa tornare a un’idea di dancefloor
come possibilità di guardarsi in maniera egualitaria, di stare insieme con il
corpo indipendentemente dalle divisioni e dalle gerarchie esterne. Se fosse una
seduta di psicoterapia si parlerebbe di integrare l’esperienza comunitaria del
dancefloor nella società invece di portare le divisioni della società dentro al
dancefloor, come ad esempio fare i tavolini dei vip, le restricted areas ecc.
ecc.
E COME LO VEDI IL DANCEFLOOR NEL FUTURO DI NAPOLI? QUESTA COSA NEL LIBRO NON
C’È: SI PARLA NEL PRESENTE PERÒ NON CI SONO DELLE IPOTESI DI FUTURO….
Come avrai letto, è volutamente esclusa la dimensione underground
contemporanea, perché è stata proprio una scelta autoriale deontologica: se
voglio preservare in qualche modo l’underground lo devo mantenere segreto, ed è
lo stesso discorso che abbiamo fatto con Napoli segreta, no? Noi abbiamo
dichiarato fin dal primo disco che quell’operazione era un diversivo, perché
mentre voi guardate le tracce che abbiamo pubblicato, noi ce ne sentiamo
tutt’altre che non pubblicheremo mai. Il discorso è esattamente questo, se
vuoi mantenere qualcosa underground, keep it secret. Semplicemente non se ne
deve parlare: l’unica cosa, l’unica regola del segreto è… l’omertà [ride]
L'articolo Come balla Napoli segreta proviene da Il Tascabile.
I nutile dire che fosse un eccellente bassista. Senza stilare classifiche
approssimative, Jack Bruce è stato semplicemente tra i bassisti più importanti
della storia della musica. Ha ispirato milioni di persone. I suoi giri di basso
resteranno per sempre fonte di ispirazione per chiunque tenti di approcciarsi a
quello strumento così ritmico, ma anche così melodico. “Era un grande musicista
e compositore, e una fonte di enorme ispirazione per me”, ha scritto il suo ex
compagno dei Cream, Eric Clapton, in ricordo di Jack Bruce. Questa frase di
Clapton – notoriamente parsimonioso di elogi – racchiude già l’essenza di Jack
Bruce: un bassista incredibile, e, al contempo, pilastro creativo spesso
nascosto dietro le quinte. Roger Waters, fondatore dei Pink Floyd, lo ha
definito “probabilmente il bassista musicalmente più dotato di sempre”. Tony
Iommi dei Black Sabbath, ha detto che “è stato un eroe per molti”. Alcuni tra i
bassisti più virtuosi del rock si sono ispirati a lui: Geddy Lee, Sting, Geezer
Butler, Flea, Billy Sheehan, Jack Cassidy, solo per citarne alcuni. Per quale
motivo?
Perché Jack Bruce ha ridefinito il ruolo del basso elettrico nel rock,
trasformandolo da semplice sostegno ritmico a voce solista e melodica. La sua
peculiarità più evidente era l’uso del basso come strumento indipendente, con
linee fluide, spesso in contrappunto alla voce o alla chitarra. Non si limitava
a seguire gli accordi: li ampliava, li complicava, spesso introducendo note di
passaggio cromatiche o scelte armoniche audaci che lo avvicinavano più al jazz
che al blues-rock canonico. Bruce proveniva da una formazione classica (aveva
studiato violoncello) e jazzistica, e questo influenzava sia il suo tocco –
molto articolato e dinamico – sia il suo senso dell’armonia. Nei Cream, ad
esempio, distorceva con un fuzz pieno e saturo, che gli permetteva di occupare
frequenze più alte e di emergere anche in un contesto di power trio, senza mai
perdere precisione o musicalità.
Il suo basso non accompagna: improvvisa, reagisce quasi, e spesso guida. Essendo
anche un ottimo cantante, riusciva a cantare su linee intricate e sincopate,
cosa rarissima tra i bassisti. Ma forse la sua dote più sottovalutata era il
senso della forma: anche nei pezzi più liberi, Bruce costruiva sempre un
discorso compiuto, con un inizio, uno sviluppo e una fine, quasi come se
scrivesse melodie parallele alla voce. In “Politician” (Wheels of Fire, con i
Cream, 1968) il basso è al centro del pezzo: non si limita a sostenere
l’armonia, ma la spezza e ricompone con continui anticipi, ritardi e variazioni.
Ogni strofa presenta piccoli spostamenti ritmici e melodici, che danno l’idea di
un discorso in evoluzione, non ripetitivo. Nella sua carriera solista, questa
caratteristica viene ancor più approfondita. “Smiles and Grins” (Harmony Row,
1971) si profonde in otto minuti in cui il basso assume un ruolo strutturale,
alternando riff, pause e armonizzazioni. Bruce modula, varia, riprende temi come
in una composizione da camera, il tutto attraverso uno sviluppo coerente,
persino architettonico. In “Pieces of Mind” (Out of the Storm, 1974) il basso
lavora in dialettica col piano, disegnando una linea tesa, frammentata, che solo
a tratti si scontra con l’armonia. Un perfetto esempio di come costruire frasi
aperte e narrative, e non meri accompagnamenti. Eppure, anche se sembra assurdo,
limitarsi al suo lavoro al basso significherebbe sminuire la sua figura: Jack
Bruce ha scritto grandissime canzoni, rivelandosi un autore di rara versatilità.
> Jack Bruce ha ridefinito il ruolo del basso elettrico nel rock, trasformandolo
> da semplice sostegno ritmico a voce solista e melodica. La sua peculiarità più
> evidente era l’uso del basso come strumento indipendente, con linee fluide,
> spesso in contrappunto alla voce o alla chitarra.
Nato in Scozia nel 1943, ebbe sin da giovanissimo una formazione eclettica.
Prima di sfondare con i Cream, era un violoncellista che aspirava a fare jazz.
Un’impronta poliedrica che non lo abbandonerà più. Quando nel 1966 si unì a Eric
Clapton e Ginger Baker per formare i Cream, Bruce portò con sé un bagaglio
musicale vastissimo; non a caso nel power trio fu lui a cantare la maggior parte
dei brani e a scriverne la musica, spesso in coppia con il paroliere Pete Brown.
I riff e le melodie di classici come “Sunshine of Your Love”, “White Room” e “I
Feel Free” nascevano dal suo estro, con Brown a fornire testi visionari. Bruce
era di fatto la mente creativa dei Cream, tanto che già all’epoca veniva
riconosciuto come principale autore e voce primaria del gruppo, al pari – se non
più – del celeberrimo Clapton. La sua voce quasi operistica e il suo basso
melodico diedero ai Cream un sound inconfondibile, fondendo potenza blues e
raffinatezza armonica.
Anche all’apice del successo con i Cream, non si adagiò mai sugli allori. Anzi,
la sua curiosità musicale lo portò a spingersi oltre i confini del rock. Nei
pochi anni di attività della band, infuse nei brani elementi di jazz e
improvvisazione, influenze psichedeliche e persino spunti di musica colta.
Questa apertura mentale gettò le basi di tutta la sua carriera successiva: “i
Cream suonavano blues-rock e rock jazzato”, ricordò Bruce, “io ho sempre pensato
al gruppo quasi come a una band jazz, solo che non l’abbiamo mai detto a Eric”.
La battuta tradisce la verità di fondo: Bruce portò nel rock la mentalità libera
del jazzista. Non sorprende quindi che, scioltisi i Cream nel 1968, preferisca
intraprendere strade musicali molto diverse.
Il suo primo album solista, Songs for a Tailor (1969), spiazzò chi si aspettava
un’altra “Sunshine”: niente power trio o lunghe jam, ma canzoni raffinate, dagli
arrangiamenti sofisticati e quasi impossibili da etichettare. Tutti i brani
furono scritti da Bruce insieme a Pete Brown, e mescolavano Canterbury, venature
prog, jazz, accenni folk e barlumi di musica classica. Per alcuni addirittura
troppo eclettico; sicuramente un po’ acerbo nel complesso. Eppure basta
ascoltare “Theme for an Imaginary Western”, probabilmente una delle canzoni più
belle di sempre, per capire che il tentativo non era quello di stupire con
l’eclettismo, ma di scrivere una canzone che avesse il respiro di un paesaggio
interiore. È infatti un brano che sembra esistere fuori dal tempo: lirico,
dolente, epico, eppure contenuto, con cambi di accordo mai prevedibili, e la
voce di Jack – piena, vibrante, malinconica – attraversa tutto con un’intensità
che fa pensare più a Mahler che al rock. È un altro di quei brani in cui emerge,
tra le altre cose, la sua genialità al basso, nel quale costruisce una melodia
indipendente dal basso, che si muove sotto la voce come una seconda linea
narrativa. Non c’è nulla di virtuosistico: tutto è fatto per accompagnare la
drammaticità della canzone, con un senso del pathos che richiama davvero il lied
classico.
> Anche all’apice del successo con i Cream, non si adagiò mai sugli allori.
> Anzi, la sua curiosità musicale lo portò a spingersi oltre i confini del rock.
> Nei pochi anni di attività della band, infuse nei brani elementi di jazz e
> improvvisazione, influenze psichedeliche e persino spunti di musica colta.
Negli anni Settanta Bruce continuò a seguire il suo istinto musicale eclettico.
Harmony Row (1971), il suo terzo album solista, spinse ancora più in là la
ricerca artistica: un’opera intimista, quasi cameristica nel suo intreccio di
pianoforte, basso e batteria, lontana anni luce dal blues-rock mainstream. Si
apre con “Can You Follow?”, una ballata brevissima, appena un minuto e mezzo,
costruita quasi solo su voce e pianoforte, con un arrangiamento essenziale e
malinconico. Il titolo stesso – una domanda semplice, “Can you follow?” – dà il
tono alla canzone: un invito fragile, esitante, sembra parlare del bisogno di
connessione, della paura di restare soli, della difficoltà di comunicare
qualcosa di vero. La voce di Bruce è calda, tremolante, vulnerabile; non c’è
virtuosismo, ma un’intensità quasi struggente. Molti fan la considerano una
delle sue canzoni più emozionanti, anche perché arriva dopo un periodo difficile
della sua vita (problemi di salute, depressione, isolamento, molta droga e molto
alcool). È come se Bruce, da solo al piano, chiedesse a chi ascolta: “Puoi
seguirmi in questo stato d’animo?”.
Segue “Escape to the Royal Wood (On Ice)”, uno dei brani più ermetici della
collaborazione tra Bruce e i testi di Pete Brown. Il titolo stesso – “ Fuga nel
bosco reale (sul ghiaccio)” – è una metafora ambigua, dal sapore mitico.
Potrebbe alludere a una fuga dalla civiltà verso un altrove primitivo o onirico,
ma “on ice” suggerisce qualcosa di instabile, fragile, a rischio di rompersi.
L’immaginario è ricchissimo: si passa da elementi naturali a visioni urbane, da
riflessioni metafisiche a dettagli concreti, con un tono insieme epico e intimo.
Il disco prosegue con splendidi intermezzi con voce e piano (“There’s a
Forest”), sfuriate quasi prog (“Smiles and Grins”) e ballate nostalgiche, ai
limiti del cinematico, come nel caso di “Folk Song”.
La critica britannica gridò al capolavoro – Melody Maker uscì con il titolo “Il
genio di Jack” nelle recensioni – e ancora oggi molti fan lo indicano come
l’album più bello di Bruce. Eppure Harmony Row, a cui l’artista era
personalmente legatissimo, fallì nelle classifiche e rimase un cult per pochi
intenditori. Accadde lo stesso con il successivo, e altrettanto bello, Out of
the Storm (1974). In realtà questo divario tra acclamazione artistica e successo
commerciale fu un leitmotiv della carriera di Bruce. Dopo lo scioglimento dei
Cream, infatti, non riuscì a tradurre la fama iniziale in uno status da rockstar
universale. Mentre Clapton riempiva arene, Bruce pubblicava dischi innovativi
che però vendevano ogni volta meno del precedente, faticando spesso a trovare
supporto dall’industria musicale. Parte della colpa fu di manager e discografici
poco lungimiranti, ma in gioco c’era sicuramente anche la personalità
controcorrente di Bruce.
Lui stesso ammise di aver commesso errori e di non essere “uno facile” nel music
business. Schivo, testardo e perfezionista, preferiva seguire la propria strada
piuttosto che le mode, pagando questa integrità con un relativo isolamento dal
grande pubblico. Era, in fondo, un bassista ammirato dai colleghi, un
professionista instancabile, sempre alla ricerca della perfezione e mai del
tutto soddisfatto, poco incline ai compromessi richiesti dal mercato. Solo per
capire la caratura, suonò con alcuni tra i più grandi, tra cui Jimi Hendrix, Kip
Hanrahan (con il quale produsse alcuni dei suoi dischi più belli), John
McLaughlin, John Mayall, Carla Bley, Tony Williams, Lou Reed (suonando in quasi
tutti i brani dell’iconico Berlin), Billy Cobham, Soft Machine, Frank Zappa (è
suo il basso magmatico nell’incendiaria “Apostrophe’”), Jaco Pastorius, Joe
Bonamassa e molti, molti altri.
> Mentre Clapton riempiva arene, Bruce pubblicava dischi innovativi che però
> vendevano ogni volta meno del precedente, faticando spesso a trovare supporto
> dall’industria musicale.
Anche in mezzo a così tante esplorazioni, Bruce non perse mai di vista la
canzone. Al contrario, anche nei brani più complessi cercava la melodia
memorabile e l’emozione sincera. Il suo perfezionismo era al servizio
dell’espressione artistica, e uno degli strumenti principali di questa
espressione fu la sua voce potente e vibrante; in un’epoca in cui molti bassisti
lasciavano ad altri il ruolo di cantante, Jack Bruce sfoderò un talento vocale
pari al suo virtuosismo strumentale. La sua voce aveva radici nel blues ma
formazione nel canto classico: un timbro tenorile capace di salire in acuto con
intensità soul e al tempo stesso di piegarsi a sfumature delicate. E avere una
voce del genere aiuta molto a scrivere canzoni memorabili: pensiamo a gruppi
come Procol Harum e The Moody Blues, che osavano sperimentare, ma restavano
saldissimi alla solidità della forma canzone.
Queste caratteristiche apparivano già in alcuni brani creamiani come “White
Room”, che devono molto della loro forza emotiva all’interpretazione vocale di
Bruce, drammatica e insieme raffinata. “Aveva una voce incredibile, unica” ha
ricordato il suo amico e collega paroliere Pete Brown, sottolineando come Jack
sapesse passare da toni graffianti a passaggi dolcissimi con una naturalezza
disarmante. In effetti, riascoltando oggi le sue performance, colpisce la
modernità del suo cantato: Bruce poteva essere aggressivo senza mai perdere il
controllo tecnico, e allo stesso tempo comunicare vulnerabilità. Questo è
facilmente riscontrabile nella splendida tripletta iniziale di Out of the Storm
(l’insistente basso di “Pieces of Mind”; la gemma nostalgica “Golden Days”, che
insegna su come trattenere dentro di sé i ricordi più felici, trasformandoli in
guida interiore, attraverso cori e melodie d’altri tempi; la solenne psichedelia
di “Running Trough Our Hands”), un quarto d’ora di magia melodica. Accordi
pianistici sinistramente romantici, arpeggi che provengono dalle più sperdute
vallate del Suffolk e la sua voce, che quasi fanno dimenticare il bassista
eccezionale che è per evocare un polistrumentista completo al servizio della
canzone.
La capacità di scrittura di Jack Bruce non era di certo limitata ai crismi degli
anni Sessanta e Settanta. Adattabilissima ogni volta al suo contesto storico, ma
mai penetrata dalla moda. Un disco come il raffinatissimo I’ve Always Wanted to
Do This (1980) lo avrebbe potuto scrivere Peter Gabriel, con i suoi ritornelli
quasi funk e la sua produzione pomp da arena. Eppure neanche gli Ottanta lo
portarono al successo, tanto che quasi per una decina d’anni non pubblicò i suoi
album con major. L’industria lo voleva a fare bizzarie al basso con qualche
chitarrista energico, sulla scia dei Cream. Non che lui si tirasse indietro, il
Bruce “da circo”, il bassista leggendario da piazzare accanto a una chitarra
ruggente, restava forse l’unico modo per fare soldi in una carriera che aveva
aspettative da rockstar, ma il conto in banca non troppo più alto di quello di
un tournista.
> La sua voce aveva radici nel blues ma formazione nel canto classico: un timbro
> tenorile capace di salire in acuto con intensità soul e al tempo stesso di
> piegarsi a sfumature delicate.
Da questo punto di vista, Around the Next Dream, sotto il nome BBM (Baker,
Bruce, Moore) del 1994 resta una delle operazioni più emblematiche. Venduta come
una sorta di reunion dei Cream, con Bruce al basso, Ginger Baker alla batteria e
Gary Moore alla chitarra (in sostituzione a Clapton) – e Kip Hanrahan alle
percussioni –, nonostante la qualità dei musicisti, il progetto appare costruito
su misura per il pubblico classic rock, e Bruce sembra relegato a replicare sé
stesso. Nel 2005 arriva invece la vera e propria live reunion dei Cream con
Clapton e Baker al Royal Albert Hall. Benché avvenuta molto decenni dopo lo
scioglimento del gruppo, evidenzia come il brand Cream avesse sempre più valore
dell’identità artistica di Bruce. Nel live risulta impeccabile, ma ingabbiato:
la performance è celebrativa, ma poco rischiosa o creativa. La stampa ovviamente
lo riconosce, ma in termini retrospettivi.
Jack Bruce, quindi, non si tirò mai indietro dall’accontentare questa esigenza
dell’industria discografica. Fece quello per tutta la sua carriera, ma anche più
o meno il contrario. I suoi dischi solisti sono abbastanza anarchici e
riflettono le sue idiosincrasie. L’esempio eclatante è rappresentato da
Automatic (1983), gemma synth-pop in cui il nostro si cimenta con il Fairlight,
senza l’ausilio di altri musicisti. Il risultato è un capolavoro sconosciuto.
Solo per il mercato tedesco, prodotto dalla Intercord. Bruce scopre i
sintetizzatori e la loro incredibile potenzialità. Dirà di questo strumento:
“Ero affascinato da quella cosa – era una macchina delle meraviglie che poteva
fare tutto. Potevi avere un’intera orchestra, suoni strani.” Infatti Automatic
inizialmente avrebbe dovuto chiamarsi One Man And His Box. Anche qui, Bruce non
decide di prodigarsi in dionisiaci smanopolamenti sperimentali, ma di costruire
canzoni vere e proprie, con una struttura geometrica. Ne esce un album almeno
musicalmente variegato, e sintomatico del periodo nero che stava vivendo – in
passato era stato dipendente dall’eroina e da altre sostanze. “Travelling Child”
e “New World” (soprattutto), sono due brani che fanno piangere. Pop perfetto.
> In un mondo musicale sempre più segmentato per generi, la figura di Jack Bruce
> – musicista senza frontiere, autore sofisticato e anima inquieta – risplende
> come quella di un autentico innovatore.
Quella di Jack Bruce è infatti davvero un’esplorazione topografica di ogni
territorio della canzone: le vette elettroniche di Automatic, così distanti dai
Cream e dai suoi primi dischi solisti, ma anche tutto quello che c’è nel mezzo,
per arrivare alle canzoni di sola voce, piano e organo di Monkjack (1995).
Quando si parla di Jack Bruce, tutti pensano al bassista, uno dei più grandi di
sempre. È giusto, ma io, personalmente, penso anche ad altre cose. Oltre a
quelle già citate, penso a canzoni come “Into the Storm”, “Without a Word”,
“Lost Inside a Song”, “Mickey the Fiddler”, “Jet Set Jewel”, “Waiting on a
Word”, “Kelly’s Blues” e tante, tante altre. In un mondo musicale sempre più
segmentato per generi, la figura di Jack Bruce – musicista senza frontiere,
autore sofisticato e anima inquieta – risplende come quella di un autentico
innovatore. Riascoltarlo significa non solo rendere omaggio a uno dei grandi del
rock, ma anche riscoprire canzoni di straordinaria modernità, in bilico perfetto
tra intelletto e cuore.
L'articolo Jack Bruce, il cantautore che veniva dal basso proviene da Il
Tascabile.