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Che suono ha un’epoca?
S e si ascolta musica con abbastanza ossessione e compulsività, può avvenire una metamorfosi della fruizione. Non basta più solo ascoltarla, ma se ne vuole comprendere il significato. Questa esigenza viene da un sospetto: la sensazione che dietro ai suoni ci sia qualcosa di molto più grande, come fossero un istmo in cui si stringe la maestà di un oceano. Allora, il fruitore scopre la critica musicale. Il rock criticism – per intendersi, la critica musicale rivolta alla musica pop – è un canone di testi soprattutto anglofoni che si è sviluppato a partire dalla nascita del rock’n’roll in America. Chi ci si immerge incontra presto un proverbio di dubbia attribuzione che vorrebbe affossare il canone stesso: “Writing about music is like dancing about architecture”. Oltre al fatto che un balletto classico ispirato alla Reggia di Versailles, o una coreografia hip-hop che imiti i volumi del MOPOP, il Museum of pop culture di Seattle, sarebbero quantomeno una cosa interessante a cui assistere, il proverbio non considera che questo canone vive proprio dell’impossibilità titanica di afferrare l’ineffabile che sta tra una forma così sfuggente come la musica e una così articolata come il linguaggio scritto. A partire dalla fine degli anni Settanta una particolare stagione della critica rock inizia a prendere di petto quell’impossibilità. Firme come Paul Morley, Ian Penman, Barney Hoyskyns, poi David Stubbs, Jon Savage e il più acclamato Simon Reynolds, si armano di apparati filosofici, sociologici, semiotici per guardare la musica pop come un oggetto culturale complesso, che è un condensato di circostanze storiche, umane, tecniche. L’idea è che l’oceano intravisto riverberarsi nella goccia di una canzone sia nientemeno che il suono di un’epoca intera. Valerio Mattioli è tra gli autori che in Italia hanno più coltivato questo approccio interpretativo, per cui scrivere attorno alla musica pop può diventare un’impresa letteraria a sé stante, con una sua dignità artistica (per quanto parassitaria rispetto all’arte di riferimento). In questa intervista traccia le connessioni esistenti tra suoni, contesti socioeconomici, sviluppi tecnologici, sottoculture giovanili. Il tutto seguendo le trame dei suoi libri: Superonda (2016), una storia musicale dell’Italia fra gli anni Sessanta e i Settanta; Remoria (2019), ritratto espressionista-surrealista delle periferie romane; Exmachina (2022), colonna sonora della trasformazione antropologica mediante cui l’umano si ibrida con l’agente informatico-cibernetico, e ne viene poi fagocitato; l’ultimo Novanta (2025), resoconto della frenesia di politica e musica passata dai centri sociali italiani nel decennio precedente all’11 settembre. PARTIAMO DA NOVANTA. VORREI METTERLO IN PROSPETTIVA CON ALTRI LIBRI CHE HAI SCRITTO IN CUI SI PARLA DI MUSICA. IN NOVANTA SI PARLA TANTO DI MUSICA, CI SONO SEI CAPITOLI SU SEDICI IN CUI È PROTAGONISTA ASSOLUTA. IL TUO PRIMO LAVORO UNITARIO DI RICERCA È STATO SUPERONDA, CHE HA UN APPROCCIO STORICO, DI STORIA DELLA CULTURA MUSICALE. POI EXMACHINA, CHE È UNA COSA MOLTO DIVERSA. LÌ IL SUONO È LO SFONDO, L’AMBIENTAZIONE A CUI GUARDARE PER CAPIRE UN PEZZO DI STORIA DELL’UMANITÀ. IN NOVANTA INVECE TORNI DI NUOVO SULL’APPROCCIO STORICO, UNA STORIA DEI MOVIMENTI E DELLE SOTTOCULTURE, IN CUI LA MUSICA È UN PERSONAGGIO – NON PIÙ L’AMBIENTAZIONE – SEPPURE MOLTO INGOMBRANTE, CHE PERÒ VIVE ANCHE DELLE RELAZIONI CON ALTRI PROTAGONISTI: LINGUAGGI, IMMAGINARI, MOVIMENTI POLITICI. SE IN EXMACHINA I SUONI RACCONTANO UN’EPOCA, IN NOVANTA INVECE I SUONI STANNO DENTRO UN’EPOCA, E INTERAGISCONO CON MOLTI ALTRI FENOMENI CULTURALI NEL CREARNE L’AFFRESCO. LA COSA CHE AVVICINA QUESTI DUE LAVORI È CHE IN ENTRAMBI I CASI LA MUSICA È UN PUNTO DI VISTA PRIVILEGIATO PER COMPRENDERE UNA TEMPERIE. PERCHÉ LA MUSICA E I MODI ESPRESSIVI CHE LE GIRANO INTORNO – VESTITI, ARTI VISIVE, ATTEGGIAMENTI, GESTI, IN SINTESI, LE CULTURE SONORE – SONO UN PUNTO DI VISTA COSÌ PRIVILEGIATO PER COGLIERE LO SPIRITO DEL TEMPO? La musica pop, nel senso più ampio del termine, intesa come musica non colta – un cappello in cui ci puoi mettere tanto Taylor Swift quanto, che ne so, un qualche rumorista giapponese che fa noise assassino – è un sensore. E anche un laboratorio storico della modernità. Questo l’aveva già messo nero su bianco Jacques Attali negli anni Settanta, nel suo libro che si chiamava Rumori, se non sbaglio… La musica lo è da tanti punti di vista. Innanzitutto per il ruolo che ha avuto nel dopoguerra all’interno del mondo giovanile, e per via del ruolo che il mondo giovanile ha avuto nella definizione dei meccanismi valoriali, comportamentali, anche economici, dell’Occidente. Ovviamente stiamo parlando della sfera occidentale. Quindi c’è questo doppio passaggio che pone la musica come linguaggio preferenziale per capire i mutamenti del mondo in atto in Occidente dal dopoguerra in poi. Lo è per… come dire, la sua economia politica. Poi lo è per il fatto di assumere un linguaggio molto immediato, istintivo. Cioè: la musica pop per lo più è il prodotto di generazioni giovani che si mettono a fare la loro cosa senza filtri, senza dover passare per le trafile e gli ostacoli che sovradeterminano altre forme espressive. Anche la scrittura è un linguaggio molto istintivo, prendi e ti metti a scrivere. Ma la scrittura è, innanzitutto, solitaria come attività, mentre la musica pop vive in un punto strano che sta tra l’autorialità delle persone che questa musica la fanno, e il pubblico che la riceve. La musica pop vive in questo interstizio, che è già di per sé una posizione strana. La scrittura è solitaria e poi è descrittiva per sua natura, mentre la musica, in qualche modo, riesce a incorporare proprio nelle sue stesse forme il tempo presente, e lo fa in maniera non mediata. E anche completa, perché è la forma espressiva che più di tutte si confronta con, per esempio, i cambiamenti tecnologici. PERCHÉ LI USA. Sì, perché fanno proprio parte del suo armamentario, e questo è un altro punto. Dopodiché la musica, come fatto sociale, visto il ruolo che ha sempre avuto all’interno delle culture giovanili, riesce a coagulare attorno a sé dei fenomeni che sono più genericamente sociali, che sono poi le varie culture e sottoculture che vedono nella musica un perno, un punto di partenza. Poi da questo punto di partenza si allargano per contemplare un discorso di tipo comportamentale, attitudinale, estetico, e persino filosofico… a volte anche in senso molto stretto. Ci sono delle culture musicali che hanno dato il la a delle piccole filosofie, delle teorie, quasi, molto ben definite. E poi, se prendiamo gli ultimi venticinque anni, guarda caso, proprio la musica è stata sempre il campo di sperimentazione di tutti i grandi sconvolgimenti a cui abbiamo assistito con il dilagare dell’era informazionale. Dalle nuove tecnologie, al file sharing, alle piattaforme, allo streaming, è sempre la musica il banco di prova. Infatti a me che lavoro con i libri fa sempre un po’ ridere e mi cascano un po’ le braccia a vedere quanto il mondo editoriale è sempre indietro… GLI ARRIVANO PER ULTIMO QUESTE TRANSIZIONI? Non solo gli arrivano per ultimo, è proprio che, essendo un mondo molto chiuso, molto ignorante a volte, all’editore raramente gli viene in mente… come dire, il mondo editoriale vive sempre di queste crisi, è sempre in crisi continua. “E non si vendono i libri, e la lettura non esiste più…” ma non gli viene mai da dire: “vediamo un po’ che è successo nel mondo della musica cinque anni fa”. Perché quello che è successo nella musica cinque anni fa, capiterà anche a te. Ma sicuro capita. Quindi la musica è un sensore, è un ambito che vale la pena studiare anche per capire quali sono le forme del presente, le forme che si stanno sperimentando sul momento e che dopo diventeranno lingua comune. HAI USATO LA PAROLA SENSORE… È UNA PAROLA CHE HO LETTO IN NOVANTA: A UN CERTO PUNTO, MOLTO RAPIDAMENTE, CITI QUESTA “TEORIA DEL SENSORE STORICO” DI PRIMO MORONI, BALLERINO, STUDIOSO, SCRITTORE, LIBRAIO, AGITATORE CULTURALE, UN PERSONAGGIO CHE POI APPROFONDISCI PIÙ AVANTI. MI È SEMBRATO CHE, DOPO AVERLA MENZIONATA, ACCANTONASSI QUELLA TEORIA; INVECE LA TENEVI COME PRINCIPIO ORGANIZZATIVO DEL LIBRO. NEL BELLISSIMO PASSAGGIO IN CUI INTRODUCI MILITANT A, IL PRIMO A INCIDERE UN PEZZO RAP IN ITALIANO, SCRIVI CHE LA SUA “È LA STORIA DI UN CATALIZZATORE – INVOLONTARIO, FORTUITO, ACCIDENTALE – LE CUI GESTA RIUSCIRANNO NIENTEMENO A CAMBIARE L’INTERO CORSO DEGLI EVENTI”. POI CONTINUI: “VA BENE, VA BENE: GLI EVENTI SAREBBERO CAMBIATI ANCHE SENZA DI LUI. MA, A VOLTE, È COME SE LA STORIA AVESSE BISOGNO DI PICCOLE, SINGOLE ANTENNE CHE CON LE LORO SEMPLICI AZIONI IMPRIMONO SVOLTE DAGLI ESITI IMPREVISTI”. Per Primo Moroni il sensore era il Leoncavallo a Milano. Tu osservando quello che succedeva al Leoncavallo, in teoria, secondo Moroni, potevi farti un’idea di quale sarebbe stata la situazione complessiva nell’ambito dei movimenti. Per quanto riguarda il discorso delle singole antenne… sai, in realtà, nonostante possa sembrare in contraddizione con quello che hai appena letto, non sono di mio una persona particolarmente interessata alla mitologia personale, al personalismo che individua nella personalità X una specie di figura cristologica che da sola cambia il percorso degli eventi. Per esempio è una figura retorica che si usa molto spesso in buona parte della critica musicale. TIPO JON LANDAU CON “HO VISTO IL FUTURO DEL ROCK’N’ROLL E IL SUO NOME È BRUCE SPRINGSTEEN”. Per esempio, certo. Hai tutta questa mitologia che ti prende Bob Dylan, Bruce Springsteen, questi nomi “che da soli incarnano”… a me quella roba non interessa. Penso sia una roba noiosa, che serve ad alimentare una mitologia interna. Oltretutto è stata drammaticamente smentita proprio dalla storia: non ti aiuta in realtà a leggere i fenomeni e gli eventi. Invece è più interessante leggere l’evento musicale nel suo complesso, depersonalizzandolo e capendo quali sono gli effetti che ha questo fenomeno musicale sul mondo, come si intreccia con le forme e le lingue che il mondo sta sperimentando in quel dato momento in cui quella forma musicale emerge. Detto ciò, questo contraddice quello che dico a proposito di Militant A o quello che, qualche capitolo prima, dico a proposito di Angela Valcavi, la fondatrice della fanzine dark e goth Amen negli anni Ottanta. Un giorno entra al Leoncavallo e chiede se possono organizzare un concerto lì dentro ed è da quel primo contatto che il Leoncavallo, che fino a quel momento – metà degli anni Ottanta – era un posto di reduci sconfitti dalla storia, ridiventa il centro del radicalismo estetico-politico milanese. Quindi, se non fosse stata Angela Valcavi, probabilmente sarebbe stata qualcun’altra, o qualcun altro. Non fosse stato Militant A a fare Batti il tuo tempo, sarebbe stato qualcun’altra, qualcun altro. Non voglio personalizzare, però quegli esempi, in qualche modo, sono dei piccoli glitch. Quello che mi interessa semmai è come un semplice, piccolo gesto provochi il famoso effetto farfalla. La lezione che mi piace prendere da cose del genere, è che a volte basta solo un piccolo passetto oltre, per poi produrre delle conseguenze che sulle prime non ci si aspetta. IL TUO STILE DI SCRITTURA E DI PENSIERO, QUESTO MODO DI STUDIARE LE MUSICHE E LE CULTURE SONORE, GUARDANDO A COME PARLANO CON IL MONDO FONDENDO STORIA, FILOSOFIA, RIFLESSIONE PERSONALE, CON NEL TUO CASO – PENSO A EXMACHINA – ANCHE UNA COMPONENTE ROMANZESCA DI ALLUCINAZIONI IMMAGINIFICHE UN PO’ OSCURE… È UNO STILE CHE DEVE MOLTO A TUTTO UN FILONE DI GIORNALISTI-TEORICI, OVVIAMENTE REYNOLDS, MA ANCHE TUTTO IL GRUPPO CHE CON LUI HA INVASO LA RIVISTA NEW MUSICAL EXPRESS TRA FINE ANNI SETTANTA E INIZIO OTTANTA: STUBBS, PRIMA ANCORA PAUL MORLEY, IAN PENNIMAN, BARNEY HOSKYNS. QUESTI AUTORI HANNO CREATO UNA VISIONE SPECIFICA DELLA CRITICA MUSICALE, IL CUI CREDO SUONA PIÙ O MENO COME: LA CRITICA MUSICALE SCONFINA E STRABORDA PER FORZA NELL’ANALISI E NELLA CRITICA CULTURALE A TUTTO TONDO, NEL MOMENTO IN CUI SI RENDE CONTO CHE LA MUSICA POP È TALMENTE INVISCHIATA NEL RIBOLLIRE DEL MONDO CHE VA STUDIATA PER FORZA INSIEME AL MONDO. CIOÈ SE PARLI DI MUSICA, DEVI PER FORZA PARLARE DI TUTTO IL MONDO. SECONDO ME QUESTO È PROPRIO UN GENERE LETTERARIO A SÉ STANTE CHE DÀ UNA CERTA COMPRENSIONE DEL MONDO. ANCHE TU ALLA FINE PARLI DEL MONDO: IN EXMACHINA I CAPITOLI SONO DEDICATI A APHEX TWIN, AUTECHRE E BOARDS OF CANADA, MA IL TEMA VERO È LA RIVOLUZIONE INFORMATICA. PERÒ NE PARLI IN MODO DIVERSO DA QUELLO CHE FA UN LIBRO DI STORIA NORMALE. SECONDO ME, QUESTO GENERE LETTERARIO DÀ UN MODO DI COMPRENDERE LE COSE ECCEZIONALE, PERÒ MOLTO OBLIQUO, UN PO’ INIZIATICO, PERCHÉ NOI – NOI CON LA NOSTRA FORMAZIONE SCIENTIFICA – NON SIAMO ABITUATI A RAGIONARE COSÌ. SE PENSO “VOGLIO COMPRENDERE ‒ CHE NE SO ‒ LA RIVOLUZIONE INFORMATICA, DEVO STUDIARE DEI DATI, DEI FATTI FISICI ED ECONOMICI, MAGARI. CI SEMBRA STRANO DI POTERNE CARPIRE DEGLI ASPETTI IMPORTANTI A PARTIRE DALLA DESCRIZIONE DEI SUONI NEI DISCHI PUBBLICATI IN QUEL PERIODO. UNA DESCRIZIONE SPESSO FANTASIOSA E PERSONALE. PERDONAMI SE È UNO SVARIONE, MA MI FA PENSARE A QUELLO CHE DARIO FABBRI – NON SO SE SEI FAN… Per niente! BENE. MA, DICEVO, MI RICORDA QUELLO CHE LUI, NEL SUO AMBITO, DICE DI FARE CON LA “GEOPOLITICA UMANA”; LUI DICE CHE QUELLO CHE GLI INTERESSA NON È SPIEGARE GLI SCENARI INTERNAZIONALI A PARTIRE DAI RAPPORTI ECONOMICI TRA GLI STATI, GLI ARSENALI MILITARI, MA A PARTIRE DAL SENTIRE COMUNE DELLE POPOLAZIONI, DAI LORO APPETITI, LE LORO PAURE… È UNA COSA CHE A LIVELLO DI RIGORE SCIENTIFICO È MOLTO LABILE. È “molto zero”, direi, più che labile. Ma non è solo un discorso di rigore scientifico. Ad esempio lui oggettifica determinate sensazioni, traslandole in un piano deterministico, si può dire. ESATTO. PERÒ IL PARAGONE LO FACEVO PERCHÉ MI SEMBRA CHE IN QUESTA DECLINAZIONE MOLTO AMBIZIOSA DELLA CRITICA MUSICALE LA SCOMMESSA È PRENDERE PROPRIO DELLE SENSAZIONI, QUELLE LEGATE AI SUONI – CHE OVVIAMENTE NON SONO SOLO SENSAZIONI SOGGETTIVE PERCHÉ SONO INSERITE IN DEI CODICI E ANCHE IN DELLE CONDIZIONI MATERIALI – E, SÌ, OGGETTIFICARLE IN UNA CERTA MISURA. Allora, innanzitutto, c’è da fare un distinguo tra i miei libri di cui stiamo parlando. Superonda che era, diciamo, una storia degli anni Sessanta e Settanta in Italia proprio a partire dalle musiche, è il libro che è più parente di quest’ultimo, Novanta. Sono i miei due saggi, ecco, saggi di… boh, storia culturale, senza voler sembrare troppo roboante. Mentre Exmachina, come il precedente Remoria, per me sono due romanzi. REMORIA NON L’HO CITATO PROPRIO PERCHÉ LO CONSIDERAVO UN CASO A PARTE INFATTI, NARRATIVA PURA. Remoria è un romanzo fantasy, Exmachina è un romanzo di fantascienza. Poi purtroppo l’editore… ho provato a insistere con Minimum Fax, a dire “mettiamoli tra i romanzi!”, però capisco che la forma e il fatto che si agganciassero a delle cose reali, troppo reali, li hanno condannati alla saggistica, e vabbè. Però, di fatto, si tratta di due libri molto allucinatori. Da un punto di vista scientifico sono smontabili in due minuti, entrambi i libri. Nell’ambito mitopoietico, magari no. Quello che mi interessava era più un discorso di tipo mitopoietico rispetto sia al tema di Remoria, che era la periferia romana, sia al tema dell’Intelligenza artificiale, che in realtà era il tema per me alla base di Exmachina. In Exmachina però c’è anche un dato storico, reale, concreto e molto dimostrabile, cioè il ruolo che un certo tipo di musica elettronica ha avuto nella definizione dell’immaginario e dello sguardo sul mondo della Silicon Valley, banalmente. SÌ, INFATTI, SI AGGANCIA ANCHE A DEI RAPPORTI ESISTITI TRA PERSONE. È un legame che secondo me andava indagato. È stato indagato già all’epoca. Prendi dei testi cruciali degli anni Novanta, per esempio Techgnosis di Erik Davis, che abbiamo ristampato nel 2023 con Nero: è fondamentale lo sguardo che Davis ha nel capire la preoccupante ideologia che stava prendendo forma nella Silicon Valley proprio negli anni Novanta, e l’analisi di Davis delle musiche elettroniche che costituiscono l’ambiente umorale immersivo dell’epoca. O se prendi degli autori stracitati adesso, Mark Fisher, tutto il giro CCRU – Cybernetic Culture Research Unit – ancora negli anni Novanta, nomi che hanno analizzato in grandissima profondità l’impatto delle tecnologie informatiche dal loro apparire fino a oggi… Di quelli, chi è sopravvissuto continua a indagare quell’ambito là, a volte su posizioni preoccupanti, come Nick Land che è diventato, come sappiamo, un filosofo di estrema destra. Se tu ti guardi i loro materiali, di quando nacque la CCRU, l’unità di ricerca sulla cultura cibernetica nata a Warwick in Inghilterra, praticamente tre quarti dei materiali su cui loro lavorano sono le musiche della cultura elettronica del periodo, la jungle, la techno e così via. Quindi effettivamente c’è un legame molto stretto, per quanto Exmachina sia un romanzo di fantascienza. Studiando l’evoluzione di quel suono, puoi trarre delle indicazioni su cosa, diciamo, la civiltà delle macchine cela dietro di sé, o quantomeno di qual è l’ideologia che la muove. Per me è molto importante in Exmachina la parte in cui io prendo gli Autechre come esempio – e altri avrebbero potuto prendere altri musicisti – ma tramite loro parlo dell’idea che le macchine abbiano una loro agentività e che siano delle entità… non è giusto dire entità senzienti, perché appunto sarebbe ricondurle a una visione antropocentrica. Diciamo, esce fuori l’idea che la logica generativa che sta dietro la Macchina è destinata a ingigantirsi sempre più fino a soverchiare, a prendere il sopravvento sull’elemento umano. Questa è una cosa che tu hai già in quelle musiche là, e che adesso ti ritrovi a dibattere nei post, su Instagram, di questo problema dell’Intelligenza artificiale di queste cagate che ci troviamo davanti. Il dibattito attorno a questi temi adesso è veramente indietro rispetto a quello che già era stato instillato in maniera poetica, visionaria dai musicisti elettronici che per primi si interfacciarono al linguaggio della Macchina e che lo presero sul serio. Questa roba l’aveva intuita bene proprio tutto il giro di CCRU, per esempio una figura come Kodwo Eshun, il cui Più brillante del sole abbiamo ripubblicato sempre con Nero nel 2021. Era una roba che nella critica musicale dell’epoca già era molto presente. Adesso sono passati trent’anni e probabilmente se uno riprendesse alcune di quelle fonti capirebbe qualcosa di più. Ti dico, il mio grande dispiacere ‒ a cui però sapevo che sarei andato incontro ‒ è che Exmachina per me era un libro sull’Intelligenza artificiale, quindi alla gente che conosco che si occupa di questi temi dico, “Ma sai che ho scritto un libro su questo? Leggitelo!”; ma chiaramente essendo un libro che parte dalla musica è stato considerato solo da quelli che seguono la musica. Questo è lo scotto che devi pagare quando parli di musica. La musica è un linguaggio sempre un po’ guardato con sufficienza dagli altri ambiti culturali. Non da tutti, però per esempio nel mondo delle lettere c’è una presunzione di partenza che è nei libri che tu trovi il cuore, la verità… ecco, la riflessione. PERCHÉ CI SONO LE PAROLE CHE SONO IL CONCETTO, INVECE IL SUONO È UNA COSA AMORFA. È amorfa, però al tempo stesso il suono ha questa capacità di essere totalmente immateriale ed estremamente materiale, cioè definisce e costruisce un ambiente all’interno del quale tu ti ritrovi immerso. Questo potere è strano se ci pensi. Non puoi toccare il suono, però se io adesso accendo quella cassa e metto una musica a palla, noi siamo dentro un ambiente, siamo intrappolati dentro una quinta, definita da questo banale spostamento. COME DICEVI È IMMEDIATO, DICIAMO, NON C’È UN DISTACCO, NON C’È UN FILTRO, NON PUOI DIRE “IO SONO IO E CAPISCO QUESTA COSA CHE STA FUORI DI ME”. Esatto, arriva contemporaneamente al corpo, alle membra, e poi al cervello. In alcuni casi anche allo sguardo, c’è una qualità sinestetica della musica che a volte è indagata, a volte sottovalutata, però è un’altra delle sue qualità. SULLA SOTTOVALUTAZIONE DELLA MUSICA NEGLI AMBITI CULTURALI, C’È UN LIBRO DI CUI VOI AVETE SCRITTO SU NOT, DIALECTIC OF POP DI AGNÈS GAYRAUD. LÌ LEI, CONTRO ADORNO, PROPONE UNA DIFESA DEL POP COME LINGUAGGIO ESTETICO UNIVERSALE, CAPACE DI ARTICOLARE UNA RIFLESSIONE SUL MONDO TECNOLOGICO E SULLE FORME DELLA VITA CONTEMPORANEA – NON SOLO COME PRODOTTO STANDARDIZZATO DELL’INDUSTRIA CULTURALE, MA COME LUOGO IN CUI SI MANIFESTANO UNA SERIE DI TENSIONI: TRA INDIVIDUO E COLLETTIVITÀ, TECNICA E SENSIBILITÀ, MATERIA E FORMA… PER LEI IL POP NON È L’OPPOSTO DELLA TEORIA, MA È GIÀ UNA TEORIA IN ATTO, È FILOSOFIA CHE PASSA ATTRAVERSO IL SUONO E IL CORPO. IN EXMACHINA, IN MODO SIMILE, TRATTI L’IDM (INTELLIGENT DANCE MUSIC) COME UN PENSIERO INCARNATO, UNA FILOSOFIA DELLE MACCHINE. PENSI CHE IN ITALIA ESISTA UN PREGIUDIZIO ADORNIANO CONTRO LA RILEVANZA CULTURALE E POLITICA DEL POP? HO L’IMPRESSIONE CHE ALTROVE, IN AMBITO ANGLOFONO AD ESEMPIO, I POPULAR MUSIC STUDIES ABBIANO CONQUISTATO SPAZIO E DIGNITÀ ACCADEMICA, MENTRE QUI IL POP SEMBRA RESTARE CONFINATO A UN IMMAGINARIO DI CONSUMO O DI COSTUME. È chiaro che nel mondo anglofono il pop ha una sua rilevanza perché l’hanno inventata loro la cultura pop come la conosciamo oggi… ma non ti pensare, nel senso che se senti lo stesso Simon Reynolds, ti direbbe anche lui che, trattando di musica, è considerato un autore di serie B. Però è vero che senz’altro nel mondo anglofono l’attenzione è maggiore, ma anche in Francia, ma anche nella stessa Spagna. L’Italia è veramente… NON ERA PER FARE GLI ESTEROFILI COSÌ GRATIS EH, È UN’OSSERVAZIONE. No, no, senz’altro in Italia più che un pregiudizio c’è una certa… arretratezza. Poi pare che stai a fare la cantilena “l’Italia rimane sempre indietro”, ma è vero. C’è un discorso a monte su come è strutturata la cultura italiana, con l’imprinting classico idealista. E un discorso su come poi questo è stato messo in discussione da tutta una serie di nomi: il più famoso è Umberto Eco, che invece prende e ti analizza anche i fumetti. Ma anche Eco muove da una posizione che distingue i famosi “alto” e “basso”. Non è che ci si deve mettere a litigare con una figura come Eco, un gigante del Novecento, ma al tempo stesso anche Eco si muove all’interno di un panorama culturale ancora segnato da quell’imprinting. Su Adorno, in realtà, non so quanto ci sia di adorniano nella diffidenza italiana verso il pop. Anzi, recuperiamolo un po’. Adorno prese senz’altro delle cantonate micidiali, cioè le sue pagine sul jazz sono comiche sostanzialmente, perché ti fanno vedere quanto veramente lui non avesse colto, non capisse di cosa stava parlando. Al tempo stesso Adorno diceva una cosa non sbagliata, cioè che le musiche popular sono parte di un’economia capitalistica che è fondata sulla merce e quindi sono anche merce. Questa merce ha anche un valore filosofico, come dice Dialectics of Pop, ma ce l’ha proprio perché è interna al meccanismo merce, non si chiama fuori da quel contesto. Recupererei una briciola adorniana. In Superonda, si parla un po’ di questo: l’Italia è un Paese strano, perché uno dei maggiori eventi socialmediatici, sociologici, che arrivano ogni anno, è il Festival di Sanremo, basato sulla musica, sulle canzonette. Eppure proprio il modo in cui viene interpretata la presenza della canzonetta in Italia è sempre qualcosa a metà tra l’epifenomeno e il guizzo folcloristico, cioè non vale mai la pena prenderla troppo sul serio. CHE INTENDI PER EPIFENOMENO? Un fenomeno secondario, un’espressione secondaria di una cultura. E questo poi si riflette anche nel modo in cui la canzone italiana viene concepita, cioè ha delle regole molto ferree, molto rigide, un melodismo esasperato, le produzioni. Sì, l’Italia non è il caso di scuola. NEL CAPITOLO DI NOVANTA INTITOLATO UNDERGROUND, OVERGROUND, MAINSTREAM, PARLANDO DI QUELLO CHE ALL’EPOCA NEL ROCK ITALIANO SI CHIAMAVA “CROSSOVER”, CIOÈ BAND COME BLUVERTIGO E SUBSONICA, SCRIVI CHE QUEI GRUPPI SAREBBERO STATI INCONCEPIBILI SENZA IL LAVORO PREPARATORIO DEI CENTRI SOCIALI, E IL FATTO CHE SIANO ARRIVATI DA LÌ A SANREMO “MOSTRA LA FACILITÀ CON CUI IL SISTEMA SAPEVA ASSORBIRE QUALSIASI SPINTA PROPULSIVA DAL BASSO PER TRASFORMARLA IN MERA MERCE STERILIZZATA”, E CHE QUINDI “IL CROSSOVER ERA UN MODO COME UN ALTRO DA PARTE DELL’INDUSTRIA DI COPRIRE UNA FETTA NUOVA DI MERCATO VENENDO INCONTRO AI GUSTI DI UN PUBBLICO ‘MIDBROW’, TROPPO GIOVANE PER ACCONTENTARSI, MA TROPPO TIMOROSO PER SPINGERSI DOVE LA RIVOLUZIONE COLAVA DAVVERO”. ALLA LUCE DEL FATTO CHE ESISTONO QUESTI MECCANISMI TRAMITE CUI IL MERCATO VAMPIRIZZA I SUOI POTENZIALI NEMICI UNDERGROUND E LI ASSORBE, SECONDO TE È POSSIBILE UNA CONTROCULTURA OGGI? IN REALTÀ TI HO SENTITO DIRE CHE PREFERISCI USARE IL TERMINE SOTTOCULTURA, MAGARI MI SPIEGHERAI PERCHÉ. IN QUESTO CASO LA DOMANDA DIVENTA: È POSSIBILE UNA SOTTOCULTURA CON UNA CARICA ANTAGONISTICA? SECONDO ME QUELLO CHE ACCADE CON I SOCIAL MEDIA E GLI ALGORITMI È CHE LE SOTTOCULTURE CHE UN TEMPO, FINO AGLI ANNI NOVANTA, ERANO MOVIMENTI FONDATI SU DEI VALORI, INTERESSI CONDIVISI E DELLE COMUNITÀ CONCRETE, SOLIDE E CEMENTATE, INVECE ADESSO SEMBRANO INNANZITUTTO RIDOTTE AL LORO ASPETTO ESTETICO; IN PIÙ SONO DELLE ESTETICHE EFFIMERE E DECORATIVE, TANT’È CHE SPESSO VENGONO PRESE DI PESO E USATE A FINI DI MARKETING. NON È RARO VEDERE UN TIPO DI ESTETICA SOTTOCULTURALE CHE DIVENTA LA MOODBOARD DI UNA CAMPAGNA PUBBLICITARIA, O PROPRIO DI UN PRODOTTO. POI C’È UN ALTRO ASPETTO: UN ANTROPOLOGO CHE SI CHIAMA TED POLHEMUS SOSTIENE CHE I GIOVANI NON CREANO PIÙ SOTTOCULTURE, MA SI MUOVONO COME IN UN SUPERMERCATO, ARRAFFANDO E MESCOLANDO STILI E SIMBOLI PRESI DA SOTTOCULTURE DIVERSE, PASSATE E PRESENTI, SENZA LEGAMI, RIDUCENDO LE COMUNITÀ A UN INSIEME DI ELEMENTI VISIVI PRIVI DI IDEOLOGIA CONDIVISA. ALTRI INVECE, COME TIM STOCK, OSSERVANO LA NASCITA DI NUOVE MICROSOTTOCULTURE ONLINE, MENO LEGATE A ESTETICHE E PIÙ A DETERMINATE NARRAZIONI O OPINIONI CONDIVISE… TU COME LA PENSI? Non conosco Ted Polhemus, è importante? NON LO SO SE È IMPORTANTE, L’HO TROVATO SU INTERNET COME QUALSIASI COSA. “Ted Polhemus, antropologo americano…” c’è anche la pagina Wikipedia, è del 1947, insomma… In realtà, quello che dici tu, mettendolo in bocca Ted Polhemus, ricorda molto quello che dice Hiroki Azuma, un teorico giapponese, di cui Nero ha pubblicato nel 2024 un altro testo dei primi anni Duemila, Otaku. Tu sai cos’è un otaku? NO, E NON CONOSCO AZUMA. Beh, gli otaku di base… Ma che è ’sta foto qua… di Ted Polhemus dico. No, perché sembra una rock star… È LUI DA GIOVANE, FORSE? UN MEZZO HIPPIE. Sì… comunque, in Giappone gli otaku vengono descritti come giovani ragazzi, perlopiù maschi, appassionati in maniera maniacale di anime, manga e videogiochi. Costruiscono la loro totale identità sulla passione maniacale per questi linguaggi della cultura pop. Azuma notava come gli otaku non fossero soltanto dei ricettori passivi di questi prodotti, ma adottassero uno spirito che trasformava questi prodotti culturali in data base, cioè degli archivi dove ci sono diverse tipologie di personaggi, di storie, di estetiche, che poi venivano assemblati e riutilizzati dagli otaku stessi, secondo una logica che Azuma chiama di “accumuladati”. Questo effettivamente è l’approccio che trovi nelle sottoculture online contemporanee che descrivi anche tu, dove c’è questo prendere di qua e di là per costruire… e non è una logica passiva. In questo senso l’elemento sottoculturale c’è, è il patchwork… ed è una pratica attiva, non la svilirei. Io preferisco il termine sottocultura a controcultura perché l’unico periodo storico in cui probabilmente ha senso parlare di controcultura, con la C maiuscola, è quello in cui proprio la stessa controcultura è nata, cioè negli anni Sessanta e Settanta, in cui, appunto, la cultura giovanile ha preso delle strade, e dei linguaggi, la musica rock di allora su tutti, interfacciandosi con l’epoca delle contestazioni giovanili… La controcultura lì si configurava – come il nome stesso dice – come una cultura contro e alternativa a quella ufficiale. La guardava da pari a pari, proponendosi come avversaria alla stessa, quindi con una funzione dialettica rispetto alla cultura ufficiale, alla quale però, evidentemente, riconosceva uno statuto ineludibile di interlocuzione. Il paradosso della controcultura, se vogliamo, è che definendosi come cultura alternativa a quella ufficiale, finiva per ribadire lo statuto della cultura ufficiale. In quel momento il mondo giovanile contestatario era talmente forte che poteva effettivamente proporsi come polo alternativo, polo opposto. Di là ci siete voi, i vecchi, la cultura ufficiale; di qua ci siamo noi, i giovani, con la cultura nuova basata su valori alternativi e differenti da quelli che ci propinate voi. E questo è un discorso che si esaurisce già con lo spegnersi di quella stagione. Già il punk, per esempio, è una storia diversa, e tutto quello che è emerso dagli anni Ottanta in poi difficilmente acquisisce quei crismi così onnicomprensivi della controcultura degli anni Sessanta e dei primi Settanta. La sottocultura è diversa perché ragiona soprattutto per logiche tribali, cioè: noi siamo un gruppo piccolo, medio, grande, ma comunque un gruppo che lavora sotto… ecco, mi piace prendere l’espressione sotto-culturale in termini non svilenti, ma concentrandoci su quel “sotto”. Non come subcultura, quindi cultura derivata, ma cultura che opera sotto quella ufficiale, in maniera totalmente slegata: la cultura ufficiale può avere i suoi valori, a noi non ce ne frega niente, noi abbiamo i nostri, siamo totalmente autosufficienti e dobbiamo rispondere solo alle altre persone che condividono questi codici assieme a noi, quindi agli altri membri interni della tribù. In questo senso il punk era molto più una sottocultura che una controcultura. Poi le sottoculture, dal punto di vista – per così dire – ideologico, naturalmente sono molto più ambigue che la controcultura, la nobile controcultura di un tempo. Ci sono delle sottoculture che sono profondamente, apertamente reazionarie. Ce ne sono altre, invece, più ambigue, in cui magari esteriormente le forme sono reazionarie, conservatrici, preoccupanti, predatorie, ma poi se vai a vedere i codici interni tutto diventa più scivoloso e complesso. Per esempio in Remoria io mi concentravo molto sui coatti come sottocultura, perché da una parte sono questa specie di esaltazione iperviolenta, machista della vita di borgata, dall’altra se vai a vedere dentro i comportamenti delle stesse tribù di coatti, scopri un mondo molto più ambiguo, in termini di relazioni tra sessi per esempio, in termini di come veniva esplicitata la mascolinità. L’apparenza esteriore celava un rapporto maschio-femmina molto più articolato di quello che poteva sembrare a uno sguardo esterno. E poi ci sono le sottoculture che, a partire dalla logica tribale, si impossessano anche di una critica radicale all’esistente, e là assomigliano più alla controcultura. Anche negli anni Novanta possiamo parlare di controcultura in questo senso qua. Poi negli anni Novanta anche in Italia c’era chi continuamente gettava il ponte tra gli anni Sessanta degli hippie e gli anni Novanta degli hacker cyberpunk. Io, nel libro penso sia chiaro, trovo poco precisa questa lettura. Però perché siamo arrivati a parlare di questo? Parlando dell’oggi, senz’altro ci sono sottoculture. Fino a tempi recentissimi quella memetica era una sottocultura. Dico fino a tempi recentissimi perché ormai c’è fior fiore di critica interna alla sottocultura memer stessa su cosa è diventata da qualche tempo a questa parte, sul fatto che ormai è pura maniera, è tutto troppo codificato… però se ci pensi quella dei memer è stata una sottocultura che in alcuni ambiti ha avuto anche, sia da un lato che dall’altro, delle svolte radicali. C’è stata la cultura memer di destra, che ha definito tutti gli immaginari dell’alt-right. Però c’è stato anche il suo contraltare. Non lo so, è strano, perché quello che definiva una sottocultura tribale fino a non molto tempo fa era anche l’aspetto molto fisico di condivisione degli spazi, dei corpi. Naturalmente l’online smaterializza tutto e quindi si diluisce anche il recinto che definisce. Puoi scivolare da un recinto all’altro senza farlo sapere agli altri. Le sottoculture aiutavano molto anche a definire l’individuo tra sé e sé, erano uno strumento di empowerment, adesso invece l’identità è sfumata… però non so dove si può arrivare con questo discorso. Non mi starei a preoccupare. Ogni stagione ha bisogno dei propri linguaggi. UN’ULTIMA DOMANDA, SEMPRE SULLE PROSPETTIVE FUTURE, MA IN QUESTO CASO DELLA MUSICA. IN FUTUROMANIA, SIMON REYNOLDS PERCORRE TUTTI I SUONI CHE HANNO VISTO LONTANO, LE MUSICHE DEL PASSATO E DEL PRESENTE CHE HANNO EVOCATO IL FUTURO. NELLA CONTEMPORANEITÀ, AD ESEMPIO, INDIVIDUA ALCUNI ARTISTI DELLA TRAP AMERICANA ESEMPI ANCORA FUNZIONANTI DI QUESTA SPINTA INNOVATIVA. IL LIBRO SI PONE COME CONTROCANTO A RETROMANIA, CHE INVECE MOSTRAVA LA TENDENZA DELLA MUSICA POP A GUARDARE OSSESSIVAMENTE AL SUO PASSATO – E ALLA HAUNTOLOGY DI FISCHER, CHE DESCRIVE COME CERTI GENERI MUSICALI SIANO PERSEGUITATI DA FANTASMI DEL PASSATO O DALLA NOSTALGIA PER UN FUTURO NEGATO. SECONDO TE, QUALI SONO OGGI I SUONI DEL FUTURO? LA MUSICA CONTEMPORANEA RIESCE ANCORA A PROIETTARSI IN AVANTI? Beh, è un altro discorso molto scivoloso. Empatizzo con Reynolds: così come altri autori è cresciuto e si è formato in un periodo storico in cui le musiche pop sembravano seguire un percorso di progressione continua e quindi c’era evoluzione costante, secondo un moto lineare. Era una freccia che puntava sempre avanti, che era poi il moto lineare tipico dello sguardo occidentale e del progresso come ideologia dell’Occidente. Questa freccia a un certo punto è entrata in un ambiente alieno, straniero, che è appunto quello della Macchina. L’esito ultimo dello spingere avanti, avanti, avanti, avanti: alla fine si è oltrepassata una membrana, una soglia che è quella della Macchina, dove questo moto lineare del tempo non ha più senso, non ha più senso per come ragiona la Macchina stessa. Quindi anche i prodotti culturali che nascono dal relazionarsi con la Macchina lo riflettono. PERCHÉ LA MACCHINA ASSEMBLA COSE CHE GIÀ ESISTEVANO IN PRECEDENZA? La temporalità della Macchina è diversa. C’è il fatto di assemblare quello che è stato fatto in precedenza ma c’è anche un moto più spiraliforme in cui elementi del futuro vengono proiettati dal passato e viceversa. Da qua si è aperto un dibattito che ci accompagna da vent’anni: dalla lenta cancellazione del futuro di cui parlava Mark Fisher alla retromania di Simon Reynolds. Qual è la causa? Il fatto che Internet permette la compresenza di tanti materiali del passato; poi c’è una sovrapproduzione di materiali e quindi annaspiamo nella sovrabbondanza di immaginari che produciamo e abbiamo prodotto nei decenni passati; c’è il realismo capitalista che, certificando che “there is no alternative” non lascia spazio al nuovo… Non lo so, io ad esempio in Exmachina mi concentro più su come la Macchina stessa opera. Siamo in una temporalità di tipo diverso e quindi ragionare sui suoni del futuro lascia un po’ il tempo che trova. Cioè, se pensi ai suoni, alle musiche che negli ultimi anni più sono state considerate futuribili, che siano la trap, la drill, l’hyperpop o le forme di musica da club decostruita, sono in realtà dei suoni che riflettono un tempo presente. È difficile paragonarle a quel future shock che poteva avere l’avvento di un genere nuovo nel 1992, quando arriva la jungle, una roba mai sentita prima. Fino alla settimana prima quel suono non c’era, la settimana dopo era ovunque, era qualcosa di totalmente diverso. Di per sé ti faceva dire: “questa è musica del futuro”. Negli anni Novanta hai tutti questi linguaggi musicali che solleticano il gusto per la costante tensione verso l’avvenire che, ripeto, ha un’impostazione da sguardo sul tempo assoluto occidentale. Se prendi altre tradizioni, lo sguardo sul tempo è diverso e quindi anche quest’ansia che abbiamo sui suoni del futuro viene meno, non è un motivo di preoccupazione. Mi chiederei piuttosto quali sono i suoni più “utili” al presente, quelli che ti aiutano a decodificare meglio il tempo in cui li trovi. Se domani, per paradosso, capiamo che la musica fatta a voce e chitarra acustica, la forma più passatista e retrò immaginabile, è importante per noi, ci sarà un motivo e va preso sul serio proprio perché la musica è, dicevamo all’inizio, un prodotto immediato e non mediato di circostanze più ampie. GIÀ È IMPORTANTE LA FORMULA CHITARRA E VOCE, PER ESEMPIO NELLA LO-FI. Certo. Naturalmente quello che c’è adesso è una parcellizzazione estrema in microscene minuscole. Però al tempo stesso hai dei linguaggi diventati così tanto mainstream… ad esempio il rap nelle sue mille sfaccettature ora è una lingua franca che può mettere d’accordo dalla ragazzina di undici anni che guarda, che ne so, Soy Luna in televisione – a undici anni magari non se lo guarda più – al teppista di strada, il maranza. Bisogna tenere a mente poi che anche quelli che una volta chiamavano suoni del futuro erano suoni del presente. Non esistono i suoni del futuro. Come sola idea è strana: da dove arriverebbe un suono del futuro? Negli anni Novanta questo suono del presente veniva considerato del futuro perché il futuro stesso era un tema nel presente dei Novanta. Andrebbe un po’ attorcigliata la questione. Comunque, la Macchina ragiona diversamente. L'articolo Che suono ha un’epoca? proviene da Il Tascabile.
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Cristalli, ossa e corrosioni
P ensiamo al suono che potrebbe avere una soluzione chimica sovrasatura: un suono ronzante, uno sciamare amorfo di atomi carichi di potenziale. Poi interviene una singolarità, un germe cristallino, un glitch, che innesca uno stato di tensione talmente eccessivo da non essere più sostenibile. Ecco che il cristallo si crea, una melodia viene inventata per risolvere lo stato ipertensivo: assistiamo alla nascita della forma, alla morfogenesi, al farsi della musica. Ma non c’è neanche il tempo per contemplarla che il nastro scorre a velocità infinita e l’istante dopo ci ritroviamo improvvisamente all’estremo opposto del ciclo. La melodia ha girato su sé stessa per secoli, forse millenni, conservando di sé soltanto una morfologia spettrale, una sorta di resistenza minima allo sbiadimento completo. È quasi impercettibile, ma riusciamo ancora ad ascoltarla: è ridotta a un osso leggero, piatto, che oscilla lievemente nella corrente. Sembra sul punto di sciogliersi del tutto, di sbriciolarsi… sono gli ultimi istanti di un Chupa Chups nella bocca di un bambino in un altro universo… ecco: si è liquefatto; ronzio. Si tratta di Shadows lifted from invisible hands, album realizzato dal musicista e artista statunitense James Hoff nel 2024 e pubblicato dall’etichetta Shelter Press, sempre impegnata sul fronte più sperimentale delle possibilità espressive della musica elettronica. Per descrivere l’album in modo meno metaforico potremmo dire che si muove tra due estremi che non potrebbero essere più distanti: da un lato il ronzio stridente, quello che sentiamo nelle orecchie quando ci concentriamo sul silenzio, e che è amplificato nel caso di alcune malattie dell’apparato uditivo o quando un eccesso sonoro ha impattato i nostri timpani lasciando un alone di alte frequenze; dall’altro, motivi pop di tracce famosissime (e bellissime), i cui motivetti si insinuano nella testa, girando su loro stessi in modo tanto alieno quanto lo è la percezione del ronzio. Tra queste tracce troviamo “Heart of Glass” di Blondie, “Space Oddity” di David Bowie, “Perfect day” di Lou Reed e “Into the Groove” di Madonna. Queste canzoni sono però rese quasi irriconoscibili per come sono state alterate, ri-suonate o ri-arrangiate e permane soltanto qualcosa della loro figura, una sorta di propensione pop alla figura. Ma tra questi due poli James Hoff dilata e ci rende sensibile l’intermezzo, il movimento del farsi e disfarsi, il ritornello e il ritornellizzare come processo sempre sul punto di cristallizzarsi e poi di smembrarsi. È l’inversione di una comune esperienza di ascolto e forse anche un’inversione del rapporto con la conoscenza in generale, che in musica è già stata tentata da illustri sperimentatori del crepitio come William Basinski, Philip Jeck o The Caretaker: “Cavalieri del medium”, per riprendere un’espressione usata da Rosalind Krauss nell’ambito delle arti visive. Ma qui il medium non è solo il supporto dell’opera, non vediamo tanto i bordi del quadro quanto la matrice stessa dentro cui sprofonda il contorno distinto. Per mantenere il parallelismo col visivo potremmo dire che l’ascolto di questa musica è simile a quando guardando un colore ci si ritrova, con Benjamin, ad “affondare lo sguardo in un occhio estraneo che lo inghiotte dentro di sé”, sono “colori che vedono sé stessi”, in un mimetismo con la percezione che arriva a far dire: “se fossi materia, mi colorerei”. > James Hoff dilata e ci rende sensibile l’intermezzo, il movimento del farsi e > disfarsi, il ritornello e il ritornellizzare come processo sempre sul punto di > cristallizzarsi e poi di smembrarsi. Prendendo sul serio questa inversione musicale della conoscenza potremmo ritrovarci ad ascoltare qualcosa di simile al mito escatologico raccontato per bocca di Socrate nel Fedone platonico, ma amputato proprio della sua aspirazione escatologica alla purezza. Socrate racconta infatti di come la condizione degli esseri umani sia quella di abitare non sulla terra, bensì nelle sue cavità, intorno alle quali vivono “come rane o formiche intorno ad uno stagno”. Esiliati dalla terra vera, luogo puro nell’etere degli astri e del cielo, si trovano a essere immersi in ciò che dell’etere non è altro che il sedimento vischioso, ormai degradato in aria, nebbia e acqua e riversatosi nelle cavità della terra. Ma pare che la loro situazione sia quella di chi, abitando nel mezzo delle profondità del mare, credesse di abitare invece sulla sua superficie, non rendendosi conto di vedere il sole e gli altri astri sempre e soltanto attraverso la densità opaca dell’acqua. Un’acqua che, per effetto della salsedine, corrode e rovina le pietre e in cui, in generale, non cresce nulla di buono e niente può essere perfetto. Al massimo ci sono “rocce, arene e immense distese di melme e pantani”. Tuttavia Platone, essendo il suo mito escatologico, ammette la possibilità arrivare all’estremo lembo del mare e… tirarsene fuori. Chi arriva a quel punto – racconta – e fosse capace “di sostenere una tale visione, conoscerebbe che il vero cielo, la vera luce e la vera terra sono quelli”. E se invece la verità non si facesse che sott’acqua e nella corrosione? Che succederebbe se la luce non fosse altro che quel medium subacqueo, vischioso e opaco attraverso cui e in cui si manifestano le cose, che corrode e illumina al tempo stesso? È l’inversione in cui si trova trascinato il cercatore di perle, nella singolare vicenda raccontata da Georges Didi-Huberman alla fine del suo libro su Aby Warburg. Proprio questa vicenda può funzionare come immagine vivida del mito platonico privato dell’escatologia. Ripercorriamola: inizialmente il pescatore si immerge e, credendo ancora di essere un “detective” del mare, tra i fondali cerca i suoi tesori come enigmi da risolvere. Un giorno trova una perla, la porta in superficie e la bandisce come un trofeo. Poi la porta a casa e la mette in una teca. Compila una scheda che crede definitiva e pensa di aver chiuso con gli abissi. Molto più tardi, per caso, si accorge di non aver mai davvero guardato la perla perché ora, contemplandola come in un sogno, la riconosce immediatamente: “non è altro che l’occhio di suo padre morto, secondo l’indimenticabile profezia cantata da Ariel, nella Tempesta di Shakespeare: A cinque teste sott’acqua Tuo padre giace. Già corallo Sono le sue ossa Ed i suoi occhi Perle. Tutto ciò che di lui Deve perire Subisce una metamorfosi marina In qualche cosa Di ricco e di strano. Ad ogni ora Le ninfe del mare Una campana Fanno rintoccare”. Allora il pescatore, preso dall’inquietudine, dalla schisi, dalla ricerca del tempo perduto non riesce a non rituffarsi. Si immerge in profondità e scopre che i tesori del mare proliferano, che suo padre gli ha lasciato molte altre meraviglie oltre a quell’unica perla e tra esse si confondono tutte le perle di innumerevoli generazioni di antenati, “innumerevoli padri giacciono in innumerevoli tesori sul fondo del mare”. Ma soprattutto scopre che > è la materia stessa in cui nuota, è il mare, l’acqua torbida e materna, tutto > ciò che non è “tesoro” indurito, è lo spazio intermedio tra le cose, > l’invisibile flusso che passa tra perle e coralli, è proprio questo che, con > il tempo, ha trasformato gli occhi di suo padre in perle e le sue ossa in > coralli. È all’intervallo, alla materia del tempo – qui fluente, là stagnante > – che sono dovute tutte le metamorfosi che fanno di un occhio morto un tesoro > sopravvivente. Il desiderio di non tornare più in superficie è forte. È lo stesso spazio intermedio in cui nuota la musica di James Hoff, quello di una cristallizzazione dilatata e in continuo movimento, sempre sospesa e al limite con l’amorfo, che inventa nuove forme modellandosi in relazione all’ambiente esterno, la cui capacità corrosiva innesca nuove germinazioni. Come “un cristallo corrisponde alla struttura fissa lasciata da un individuo che avesse vissuto per un solo istante” (Gilbert Simondon), così le tracce dell’album di Hoff contengono, come in miniatura o in un fermo immagine, tutto il movimento della vita di una forma. Dalla nascita della morfogenesi ci portano direttamente alle forme che giacciono abbandonate sul fondo del mare, ritornelli resi irriconoscibili e mossi dalla corrente come ossi di seppia. Ma come escludere in fondo che anche in queste ossa, prima o poi, potrà innescarsi una nuova metamorfosi? > La musica di James Hoff nuota nello spazio intermedio di una cristallizzazione > dilatata e in continuo movimento, sempre sospesa e al limite con l’amorfo, che > inventa nuove forme modellandosi in relazione all’ambiente esterno, la cui > capacità corrosiva innesca nuove germinazioni. Mi rendo conto di aver fatto una descrizione molto materica di questo album, tanto da farlo sembrare quasi un’opera di land art, come può essere l’eccezionale Spiral Jetty di Robert Smithson. Ma prima di incontrare direttamente Smithson, è forse un altro lavoro di Hoff che può portarci ancora più in prossimità di un’arte a contatto con il tempo, con i processi e i luoghi. Si tratta di HOBO HUFO (v. Cernobyl), un lavoro audio/video pubblicato questa volta dall’etichetta PAN, nel 2019. Il video del lavoro consiste in una versione modificata di Google Street view, che aleggia tra le rovine della città ucraina di Pryp”jat’, determinando i suoi movimenti in relazione alla musica. Pryp”jat’ è una città fantasma, abbandonata dopo il disastro nucleare di Černobyl’, che rientra nella zona di alienazione di trenta chilometri istituita intorno alla centrale e che dal 2022 è in mano alle forze russe. HOBO UFO tiene vertiginosamente insieme numerosi strati: c’è il livello molecolare delle radiazioni radioattive, invisibili ma la cui forza incoercibile ha portato a dover abbandonare un’intera area urbana; un’azione della natura che si riappropria di un luogo affettivamente carico, trasformandolo in materiale indifferente attraverso cui far nuovamente passare la sua azione rimodellatrice; un software che con simile indifferenza registra immagini nello stesso modo in cui farebbe con qualunque altro luogo (in cui il capitalismo è quantomeno riuscito a far arrivare la Google Car o un drone per fotografare la strada); un suono che tra il glitch, la malinconia e una solennità cosmica sembra far passare attraverso di sé tutti questi strati, componendo un’epica che va dalle molecole alle forme di vita umane alla loro autodistruzione. Robert Smithson, che oggi avrebbe ottantasette anni se non fosse scomparso prematuramente all’età di trentacinque, è il grande precursore di questo tipo di gesti artistici, soprattutto per come è riuscito a riflettere sull’esperienza e a rendere sensibile nella sua opera questa confusione di scale, in cui il fare umano e una sorta di entropia cosmica riescono a trovarsi condensati, collidendo e comunicando. Un lavoro rappresentativo del suo atteggiamento e particolarmente affine a HOBO UFO è il testo The monuments of Passaic, del 1967. Si tratta di un’“odissea suburbana” che in realtà non è nulla più che il fotoracconto di un percorso a piedi nella cittadina industriale di Passaic, in provincia di New York. Tutta l’avventura nasce a partire dallo sguardo rivolto a Passaic: uno sguardo che cerca e crea attivamente segnali, monumenti e metafore là dove sembrerebbe non esserci nulla. “Il tempo – scrive Smithson – trasforma le metafore in cose, e le accumula in stanze fredde, o le colloca nei parchi giochi celestiali delle periferie”. Passeggiando per Passaic, la realtà di Smithson si muove in un sottile confine tra rappresentazione e distruzione, mostrandosi come “un particolare tipo di eliografia”, “una sorta di cartolina auto-distruggentesi di un mondo di fallita immortalità e oppressiva smania di grandezza”, «a moving picture that I couldn’t quite picture». La smania umana di in-formare la materia e produrre segni appare come un piccolo e comico museo di tentativi per contrastare l’entropia dell’universo. Ma la sua più grande opera è senza dubbio Spiral Jetty, uno dei maggiori risultati della land art americana. Si tratta del gigantesco “molo a spirale”, tracciato nel 1970 con una ruspa sui bordi del grande lago salato nello Utah, poi inghiottito dall’innalzamento della marea del lago e, infine, riemerso, come fosse Atlantide, nel 1999. Ma, dal momento che la spirale era composta di terra e blocchi di basalto neri, durante il periodo dell’immersione si è ricoperta di cristalli di sale e quando è risorta si è presentata in una nuova forma, fatta di un bianco immacolato e scintillante. In un abile gioco di mise-en-abyme il processo di realizzazione dell’opera è stato anche filmato, entrando a far parte del materiale di un film omonimo che mischia l’opera alla sua documentazione e al gesto di documentare in generale. > Come racconta Smithson, Spiral Jetty non è più distinta dal territorio, non si > stampa su di esso come su una superficie vergine, emerge e fa tutt’uno con > esso, ne è cambiata e lo cambia. Dove comincia Spiral Jetty? Quando comincia? Forse, come un gigantesco rizoma, “non comincia e non finisce, è sempre nel mezzo, tra le cose, interessere, intermezzo” (Deleuze e Guattari). Effettivamente, come racconta Smithson, l’opera non è più distinta dal territorio, non si stampa su di esso come su una superficie vergine, emerge e fa tutt’uno con esso, ne è cambiata e lo cambia. Come in un frattale “ogni cristallo cubico di sale fa eco alla Spiral Jetty nei termini del reticolo molecolare del cristallo. La crescita in un cristallo procede intorno un punto di dislocazione come una vite. La Spiral Jetty potrebbe essere considerata uno strato interno del movimento spiraliforme del reticolo cristallino, ingrandito trilioni di volte”. Smithson gioca realmente e materialmente con il processo di cristallizzazione che abbiamo utilizzato metaforicamente per descrivere il primo album di Hoff: Shadows lifted form invisible hands e Spiral Jetty risuonano insieme. Tra l’esperienza del luogo che cattura Smithson, l’avventura titanica della realizzazione, il suo racconto filmato e narrato e l’azione del luogo sull’opera si realizza un unico continuum, un unico medium, un’unica meteorologia, in cui vari attori umani e non umani reagiscono uno nell’altro e uno con l’altro, leggendosi e forzandosi a vicenda. Da un certo punto di vista Spiral Jetty non esiste, ci sono solo riecheggiamenti e fluttuazioni, “mentre si afferra la spirale, se ne viene afferrati”: è un gigantesco metabolismo. Mentre filma il luogo dall’alto Smithson racconta: > Il suono del motore dell’elicottero è diventato un lamento primordiale > riecheggiante in inconsistenti visioni aeree. Ero qualcosa di diverso da > un’ombra in una bolla di plastica fluttuante in un luogo fuori dal mio corpo e > dalla mia mente? […] Stavo di nuovo scivolando fuori da me stesso, > dissolvendomi in un inizio unicellulare, cercando di localizzare il nucleo > alla fine della spirale. Tutto questo sangue in moto ci fa rendere conto di > soluzioni protoplasmiche, la materia essenziale tra il formato e il non > formato, masse di cellule fatte prevalentemente di acqua, proteine, lipidi, > carboidrati e sali inorganici. Ogni goccia che schizzava sopra la Spiral Jetty > coagulava in un cristallo. L’acqua ondeggiante diffondeva milioni e milioni di > cristalli sopra il basalto. Ma, prima di disintegrarci anche noi, fermiamoci un attimo. Cosa resta di tutto questo? Il sito dell’opera è diventato luogo di migrazione per chi, conquistato da questo racconto, ha provato a prenderne parte. Lo scrittore Geoff Dyer ricorda, per esempio, di averlo percepito come “come un luogo abbandonato, ma non un luogo il cui senso fosse stato abbandonato. Aveva conservato – o generato – una sua cupa nodalità”. > Tra l’esperienza del luogo che cattura Smithson, l’avventura titanica della > realizzazione, il suo racconto filmato e narrato e l’azione del luogo > sull’opera si realizza un unico continuum, un unico medium, un’unica > meteorologia, in cui vari attori umani e non umani reagiscono uno nell’altro. La nodalità è il tentativo umano di collocarsi, di darsi un posto nel tempo naturale, dandogli una forma tramite strategie diverse, come si fa in modo più burocratico con i calendari o con i musei: un far tempo del tempo. Tuttavia qui la forma singolare si perde e quello che si esperisce è la sfasatura tra lo sfondo e la figura, che non sono più annodati in maniera stabile, facendo trasparire piuttosto l’annodare come tentativo fluttuante. È un’immersione in un tempo denso, in un unico medium dentro cui si fanno e si disfano le forme naturali e culturali. Ma le differenze sono effimere, sono velocità diverse di impressione che catturano un insetto nell’ambra, il suono in un ritornello pop e un reperto storico in un museo. Velocità e rallentamenti di una stessa vetrinizzazione del tempo, che Smithson e Hoff ci rendono sensibile. Un ralenti insieme umano e cosmico, sospeso tra le cose, un solo fenomeno emotivo “né Eros né Thanatos, ma Vita-Morte, con un solo pensiero, uno stesso gesto” (Barthes). Se allora non c’è un luogo fuori da questo intreccio che sia al riparo da radiazioni e spettri, resta la possibilità di sperimentare con i nodi, per trovarci tramite e attraverso i legami che scopriamo, muovendoci tra cristalli, ossa e corrosioni. L'articolo Cristalli, ossa e corrosioni proviene da Il Tascabile.
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La trap spiegata ai bianchi
I veri intellettuali rosicano quando un fenomeno culturale non li riguarda o non lo sanno spiegare, quando gli sorvola sopra la testa come un bombardiere B-52 pronto a nuclearizzare la loro egemonia, così decidono di prenderlo al lazo, di cavalcarlo come Major T.J. “King” Kong del Dottor Stranamore, spesso si schiantano e deflagrano per la goduria di tutti, raramente riescono a prendere in giro la bomba, così tanto che non esplode. Non so se Alberto Piccinini e Giovanni Robertini, autori del libro Maxi-rissa. I diari della trap (2025), si siano schiantati o siano riusciti nell’operazione quasi impossibile di descrivere la trap, ossia quel fenomeno che lo stesso Robertini descrive come “ovunque, una sorta di iperoggetto”, sempre citando il saggio del “profeta dell’Antropocene” Timothy Morton, che ha il titolo più accennato da chi vuole parlare di fenomeni presenti. È chiaro che intuendo le date di nascita di Robertini e Piccinini sarebbe facile pensare al loro libro, che tratta proprio di un tipo di musica che ha un pubblico tendenzialmente giovane, come un’operazione che ricorda tanto il meme di Steve Buscemi vestito da skater (con una maglia con scritto “Music Band”), visibilmente vecchio, che si rivolge a un gruppo di highschooler con l’iconica “What’s up, fellow kids?”, oppure come un libro scritto in ritardo rispetto a un fenomeno che raggiungeva uno dei suoi picchi con la creazione culturale della Dark Polo Gang e la loro hit Sportswear uscita nel novembre del 2016, ovvero quasi nove anni fa. Questa, però, è una critica superficiale e fregare due volpi come questa coppia è difficile: la loro rubrica su Rolling Stone si chiama proprio Boomer Gang, a scanso di equivoci e di onde da poter surfare. Partendo dal fondo, lo stesso Piccinini mette le proverbiali mani avanti, cercando di annullare, accettare o superare hegelianamente la critica che compare nella testa di tutti quando vediamo questo libro: “Di questa operazione vorrei rivendicare A) l’incompetenza ‒ e la faccia tosta di fingere di saper addentrarmi in discorsi complicati coi miei figli che ne sanno parecchio più di me; B) il dilettantismo, direi nell’accezione nobile con la quale David Foster Wallace e il suo compagno di università Mark Costello scrissero Il rap spiegato ai bianchi nel 1989, un reference book di questo libretto. Se qui ci fosse una bibliografia sarebbe senz’altro il primo titolo”. > Come uno specchio riflesso, analizzando la trap, Robertini e Piccinini > riescono a riprodurre un “impero dei segni” della bolla della sinistra dirtbag > italiana. Quindi tanto vale gettarsi in questo flusso à la Blob, una cifra che sembra non poter mai lasciare il corpo di Piccinini come la materia nera di Venom, e cercare di destreggiarsi in quella che oscilla in tutte le sue pagine tra una critica feroce al nostro immaginario così castrante e la chiacchierata tra due universitari che hanno appena letto Roland Barthes (citato nell’outro). Questo libro è seducente, ma chi deve sedurre? Io, noi? Il libro cita Toni Negri alla primissima pagina. Come uno specchio riflesso, analizzando la trap, Robertini e Piccinini riescono a riprodurre un “impero dei segni” della bolla della sinistra dirtbag italiana. Questo è un libro che seduce chi è di sinistra, ma ascolta la Zanzara, non sopporta i moralismi, ha eretto Žižek a più grande filosofo contemporaneo, guarda Canale 5 “per analizzare il nemico” e quando ascolta “Mi piacciono le armi” di Simba La Rue viene posseduto dal demone di Adorno che lo costringe a spiegare perché sia davvero una canzone rivoluzionaria e che lo diceva Fanon che il processo di decolonizzazione è un processo violento. E sono bravissimi a farlo, alla seconda pagina viene citato il venerabile maestro: “Nello scorso decennio il filosofo Mark Fisher ci aveva spiegato che l’immaginario hip hop rappresentava in generale la bipolarità del tardo capitalismo: l’alternarsi di depressione ed euforia causato dall’ideologia secondo cui ognuno sarebbe responsabile della propria miseria così come del proprio successo”. La seduzione continua pagine più avanti, ne è un esempio la critica elegante alla libreria Tuba al Pigneto, dove si condensa tutto questo lisciamento di pelo: > Abbiamo visto le femministe radicali della Libreria Tuba del Pigneto tifare > per Rose Villain a Sanremo 2025 intravedendo nella sua esibizione teatrale e > queer, con styling manga modello Sailor Moon e coreografia pronta per TikTok, > le infinite possibilità che la sua finzione poteva offrire rispetto alla > presunta verità degli altri cantautori in gara. Rose, coi capelli blu e i > colori primari è la nostra regina hyperpop. “L’hyperpop parte dal principio > che, nell’era dei social network, per un* artista è impossibile essere > autentic* e spontane*” scrive Julie Ackermann (Hyperpop, Nero Editions). Ma attenzione a pensare che i nostri eroi siano così ingenui da produrre l’ennesima analisi filosofico-politica del fenomeno della trap, citando Simon Reynolds, Naomi Klein o Jameson, no, no, no. C’è di più di così e questo je ne sais quoi sono i featuring alla fine di ogni capitoletto: ciò che li salva, almeno all’inizio, dall’essere un articolo di una rivista online di studenti. Il monologare “pallido e assorto” imbandisce la tavola per il contenuto reale, gli estratti delle interviste a chi la trap la fa. Aperti come dei fiori a primavera grazie al sex appeal delle pagine prima, arriviamo a ascoltare i nostri trappers come i bianchi universitari di Berkeley davanti a Malcolm X. Così ascoltiamo Simba La Rue che dice: > Ho rischiato di morire più volte. Tra risse, coltellate, agguati, anche > sparatorie. Ma come ti dicevo prima queste cose non mi fanno paura perché sono > sicuro che tutto è scritto, se deve succedere succede. L’unica cosa di cui ho > paura è tornare povero, crescere mio figlio come sono cresciuto io. Quando ero > bambino esistevano solo i soldi. […] Chi ti dice che i soldi non fanno la > felicità è un bugiardo! Se cresci senza avere niente e sei fissato solo con le > cose materiali, poi quando fai i soldi e viaggi e conosci altra gente, altre > lingue, capisci che è questa la vita. Ma a questo ragionamento ci arrivi solo > quando hai i soldi, prima pensi solo a come farli. O anche Paky: “Ora ci sono molti che ci imitano, che vorrebbero essere come noi, ma non lo sono, riconosco chi è di strada e chi non lo è. Lo vedo dagli occhi. I vostri per esempio sono occhi tranquilli, di chi ha studiato, che sta bene con se stesso. Quando guardo gli occhi delle persone di qui vedo un’altra cosa”. Uno dei passaggi più significativi di questo cinema verità pasoliniano è quando Giovanni Robertini scrive della sua esperienza come testimone delle riprese di un video (“Haram Freestyle2“) di Mowgli CLL durante l’iftar, il pasto serale che interrompe il digiuno del Ramadan: “Al calar del sole di un sabato di fine marzo 2025 arrivo a Quarto Oggiaro spesso chiamato ‘il Bronx di Milano’, niente più di un luogo comune da quartiere popolare” e fin qui sembra un qualsiasi articolo del New Yorker e in parte lo è, come segue: “Nel cortile di una palazzina dei ragazzi stanno sistemando all’aperto dei tavoli, sedie e tovaglie, con la speranza che il tempo regga. […] [Mowgli] Mi racconta che il posto in cui ci troviamo ‒ un magazzino con affaccio sul cortile interno ‒ è di un’associazione che si chiama ‘Dar El Kalimat’ di cui fa parte il suo amico Hani: aiutano più di cento famiglie ogni settimana a fare la spesa (accanto a noi sono accatastate scatole di zuppe e cartoni di succhi di frutta), fanno corsi di italiano per donne arabe e… pure corsi di Zumba!”. Robertini qui non riesce a perdersi nel flusso, il tono cambia per un motivo che spiega dopo: «Io rimango come spettatore nella mia bolla piccoloborghese a qualche chilometro verso il centro, ringraziando Mowgli per avermi fatto parlare di musica e di politica con un ragazzo di ventitré anni, un privilegio oggi per me superiore a quello di incontrare una navigata rockstar d’oltreoceano. Se la sua trap arrivasse in classifica il mondo sarebbe un posto più interessante». > Il monologare “pallido e assorto” imbandisce la tavola per il contenuto reale, > gli estratti delle interviste a chi la trap la fa. È un gioco di equilibrio: la voglia caciarona di perdersi a parlare di Silvia Sardone (citatissima nel libro), della stupidissima industria musicale italiana e di Baby Gang che fa l’endorsement a Forza Italia deve fare i conti con l’accorgersi che ciò che i trappers dimostrano è importante, è il distillato purissimo del nostro mondo, perché è, come asserisce Piccinini alla fine: “capace di svelare ogni segreto del neocapitalismo tecno-feudale in cui siamo precipitati con tutte le scarpe perché racconta storie di luoghi dove non ci sono regole né leggi, se non quelle che si ricavano dall’uso della strada e dalle consuetudini mafiose, e non ci metti niente a risalire fino a Shakespeare passando per L’odio, West Side Story e il noir americano”. Lo scontro tra queste due forze crea intrattenimento costante, una schizofrenia controllata indotta al lettore o alla lettrice attraverso degli elettrodi posizionati sul rilascio di dopamina. Leggere questo libro è come parlare con un tuo amico che scrolla reels tutto il giorno: “Dopo Ruby c’è il Berlusconi ultimo, quello sposato con la darkissima Marta Fascina, plastica rappresentazione di una via di uscita psichedelica ‒ l’unica possibile, scartata quella politica ‒ dalla situazione: Silvio e Marta con la macchinetta da golf, la panchina, la mongolfiera, i cuori, gli aeroplanini che sventolano il suo nome” e poi via ecco un’altra linea di pensiero che si accavalla subito senza soluzione di continuità: “Walt Disney, Jeff Koons, Douglas Sirk, tutte le telepromozioni Mediaset in un colpo solo. Un kolossal pop. Una luce abbagliante accesa nel cuore della Brianza, forse la mutazione seguita alla bomba N (tra i commenti di Twitter c’è chi scrive che siamo tutti morti nel 1994, viviamo nel sogno di Silvio)”. Robertini e Piccinini si sono lasciati attraversare dallo spirito del tempo, l’hanno condotto finché non potevano più controllarlo (la bomba di sopra). Ci consegnano un’analisi più vera, più autentica e più divertente di un qualsiasi libro di Morton, perché se nel 1989 attraverso il rap Wallace e Costello parlavano degli Stati Uniti che si vantavano di aver vinto la storia, dimenticandosi voci diverse da quelle dei bianchi dei sobborghi, nel 2025 Piccinini e Robertini parlano della fine della storia e dello stato attuale del capitalismo con il suo linguaggio, il suo campo semantico, la sua stupidità e la sua schizofrenia. Come Blob nel 1989  anticipò il saggio di Baudrillard, La guerre du Golfe n’a pas eu lieu (1991), in modo più scanzonato e divertente e con meno parole, così i due boomers riflettono la società dello spettacolo senza mediare nulla, come dei monaci buddhisti in posizione di pieno ascolto, e quello che viene fuori è un rimaneggiamento di Guy Debord letto da Barbara D’Urso, un processo senza esclusione di colpi all’hypernormalisation descritta da Adam Curtis, cioè quel processo di razionalizzazione ed edulcorazione della complessità contemporanea per evitare di subire la Storia. Le pagine che i due autori dedicano al caso di Ramy Elgaml sono le migliori del libro. La critica di una società morente si lega al vero senso di tutta la faccenda della trap, che poi è la stessa del rap del 1989; per i ghettizzati della nostra società esistono due modi e basta per finire tra i salvati e non tra i sommersi: spaccare con la musica, essere forti negli sport (“Tra loro ci potrebbe essere il prossimo Lamine Yamal”, dice Mowgli, “sempre che non vengano scavalcati dal figlio di quello che ha l’amico manager”). Piccinini e Robertini ne sono consapevoli e vogliono che emerga questo groundhog day dell’oppressione, infatti di fianco a Ramy ci mettono Rodney King, quello delle proteste a Los Angeles nel 1994 e Carlo Giuliani, al nazi-immobiliarismo sionista per Gaza gli antisemiti polacchi del 1937. > Le pagine che i due autori dedicano al caso di Ramy Elgaml sono le migliori > del libro. La critica di una società morente si lega al vero senso di tutta la > faccenda della trap, che poi è la stessa del rap del 1989. Finendolo e rileggendo l’introduzione, il senso di questo libro si apre in tutta la sua chiarezza. Robertini e Piccinini parlano di trap e trappers non perché ne parlano meglio di altri o conoscono più retroscena, ma perché parlano di tutto il resto, perché, come spiega Robertini: “I valori dei trapper sono gli stessi dei loro genitori, di anni di Berlusconi, di sessismo, individualismo esasperato, culto del denaro e iperconsumismo, e che ora tornano indietro ai padri e alle madri col filtro dell’autotune. I trapper semplicemente riflettono il mondo così com’è, non come vorrebbero che fosse”. Bisogna andare oltre al paraculismo, allo spezzettamento, alla finta giovinezza e soprattutto alla mancanza totale di critica musicale per se, se non qualche pezzo in giro tipo “L’ottanta per cento delle rime che scrive Lazza parlano di quanto è bravo a scrivere rime che parlano di quanto è bravo a scrivere rime eccetera. E Chopin suonato al piano? Il campionamento di Erik Satie nel suo disco?”, per apprezzare questo libro. Ma io sono sicuro che sul mio scaffale preferisco avere questa testimonianza del periodo 2016-2025 italiano piuttosto che un “La trap spiegata bene”. Rimango in attesa che qualcuno nelle alte sfere del potere mediatico offra a Piccinini e Robertini soldi infiniti per produrre centinaia e centinaia di documentari su qualsiasi cosa, perché sembrano sempre a loro agio. L'articolo La trap spiegata ai bianchi proviene da Il Tascabile.
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Ozzy Pop
“A ddio prince of darkness”: questo il titolo più gettonato al momento della dipartita del grande Ozzy Osbourne, cantante emblema dei Black Sabbath, ma soprattutto solista a tutto tondo e pioniere di un’attitudine sonora grazie alla quale molti artisti campano e hanno campato, semplicemente dilatando frammenti del Sabbath sound (pensiamo a tutto il movimento doom), oppure velocizzandolo (il thrash metal tutto), distillandone l’alone oscuro (il gothic), ma anche il noise (Helmet), e potremmo continuare per ore. Ma attenzione, Ozzy non ha influenzato solo la zona “dura” della musica, non è solo il padrino dell’heavy metal: lo testimoniano i peana da parte di gente come Elton John, Billie Eilish, Lady Gaga, Cyndi Lauper, Duran Duran, Post Malone, Yungblud, insomma il suo apporto allo scenario mondiale è stato “trasversale”, se non addirittura “contaminante”. Ma in particolare pochi – a parte Geezer Butler, il bassista dei Sabbath, che l’ha ricordato come “the prince of laughter” ‒ si sono soffermati sul fatto che il “principe delle tenebre” forse non era esattamente così, ma piuttosto è stato infilato a forza da stampa e addetti ai lavori in un ruolo che poi ha cavalcato. E quello che ha aperto il vaso di Pandora è stato l’omaggio social che al nostro hanno rivolto personalità notissime del pop italiano: sì, pop italiano. E la cosa ha suscitato emozioni discordanti tra la gente: chi non crede a quello che legge, chi deride senza mezzi termini, chi reagisce con curiosità, chi grida al complotto e chi fa il superiore, ma pochi che abbiano colto il significato importantissimo della cosa. Proprio per questo, passiamo in rassegna i nomi di questi artisti italiani che hanno “osato” ricordare Ozzy senza avere ‒ apparentemente – un pedigree metal o come minimo estremo, e per questo messi alla gogna dagli “ortodossi” del rock. > L’omaggio social che hanno rivolto a Ozzy Osbourne personalità notissime del > pop italiano ha suscitato emozioni discordanti. Iniziamo dal post che ha fatto più scalpore, quello di Amedeo Minghi: il nostro ricorda Ozzy come si ricorda un mito personale, rimembrando i momenti in cui negli anni Settanta, da giovanissimo ‒ ancora lontano dall’exploit Sanremese – il nostro nelle cantine suonava i Sabbath. Che c’è dei Sabbath e di Ozzy nella musica di Amedeo, si chiederà il popolino ignaro? Ebbene basterebbe dare uno sguardo più approfondito al repertorio di Minghi, in particolare al primo disco del 1973: lì troverete un brano “Candida Sidelia”, il quale senza dubbio echeggia le gesta di Ozzy. Un brano rock le cui linee vocali ‒ ma anche l’atmosfera torbida del testo a cura della grande Carla Vistarini ‒ avrebbero potuto essere cantate dall’artista inglese, il che mette subito Minghi nel cerchio di chi ha cognizione di causa per parlare di hard rock e affini, a differenza di chi lo critica e non conosce nulla, neppure di chi si ostinano ad attaccare. Ovviamente Amedeo si è incazzato abbestia, sentendosi pressato a dover dimostrare chissà che cosa: basterebbe ricordare ai signorini haters che “Vattene amore”, sminuita come “Trottolino amoroso”, ha uno dei testi più surreali che la storia della musica italiana conosca e l’autore è il geniale Pasquale Panella, meglio conosciuto come il paroliere del periodo bianco di Battisti, quindi non certo un’educanda. Segue poi il cordoglio di Red Canzian, il bassista storico dei Pooh che sostituì Riccardo Fogli e che, proprio prima di entrare nella band più famosa d’Italia, soleva interpretare “Paranoid” con il suo primo gruppo, probabilmente i Prototipi (effettivamente la sua voce non sfigurerebbe): anche qui commenti perplessi ma forse meno stupore, in quanto Red negli anni Settanta suonava nei Capsicum Red, band prog prodotta dalla Bla Bla, copertina di Gianni Sassi della Cramps ecc.: ma ricordiamo che anche i Pooh si sono distinti nell’album Opera prima – nel pieno periodo del successo di “Tanta voglia di lei”, 1971 – registrando “Il primo e l’ultimo uomo”, un pezzo sfacciatamente hard rock con delle sonorità e un andazzo vocale – lì però cantava Negrini, poiché Red entrerà in formazione solo tre anni dopo ‒ che ricorda proprio i Sabbath e Ozzy. Nonostante questo siamo costretti a vedere Red combattere con gli arroganti scettici del web, rispondendo a tono con un self control davvero invidiabile. Poi abbiamo Drupi, che in gioventù divide il palco con Ozzy e disegna un ricordo di lui e dei Sabbath notevolissimo: nel 1968, ingaggiati probabilmente per sbaglio in una manifestazione per famiglie a Cesenatico, con obbligo di abbassare i volumi a mezzanotte, i nostri ovviamente scatenano l’inferno tanto che l’organizzatore gli toglie la spina e manco li paga. E poi ci sono quelli che, per ragioni anagrafiche, sono più sospetti e non hanno scuse di “cantine negli anni Sessanta” nel cassetto: ad esempio Eros Ramazzotti, che però è effettivamente un patito di hard rock e classic rock (fa testo l’intro di “Le cose della vita”, per fare un esempio, in cui il nostro schitarra alla grande) e  che qua e là inserisce delle strutture che arrangiate in altra guisa porterebbero direttamente al modello di riferimento. > Il “principe delle tenebre” forse non era esattamente così, ma piuttosto è > stato infilato a forza da stampa e addetti ai lavori in un ruolo che poi ha > cavalcato. Federico Zampaglione dei Tiromancino anche lui si prostra innanzi alla salma del Maestro, con un “se nella vita suono lo devo anche a te”; a molti risulta difficile credere a una simile cosa, ma chi è informato sa che lo Zampaglione melenso di “Per me è importante” fece due dischi alternativi come Insisto e Alone alieno che a tutti gli effetti hanno molti –  se non moltissimi – spunti hard rock, per non parlare del fatto che insieme al fratello Francesco produssero nel 2011 L’inferno dei vivi, l’ultimo disco in vita di Richard Benson, che Ozzy – istrionismi a parte – ce lo aveva nelle vene. Viene semilinciata anche Laura Pausini, solo perché la nostra ‒ incontrandolo a una manifestazione e scambiandoci due chiacchiere ‒ ricorda Ozzy per la sua gentilezza, tenendo la musica da parte: ma è anche vero che in molti degli spettacoli della cantante di Faenza i chitarristi non vengono certo dal mondo “leggero”, ma anzi sono chiaramente di stampo metal prestato al pop, cosa tra l’altro abbastanza comune in quel mondo a dimostrazione che le barriere sono molto sottili. Angelo Branduardi, dal canto suo, ricorda – in maniera ovviamente ironica ‒ come molti dopo aver ascoltato la sua musica si siano buttati su Ozzy: noi possiamo dire che Branduardi col discorso Blizzard aveva in comune un immaginario spesso fatto di streghe incantesimi e – a bocce ferme – di favole nere, tra l’altro bazzicando parecchio il mondo medievale britannico fatto di occulto e via dicendo: ragion per cui i suoi omaggi hanno a che vedere con una chiara fonte di ispirazione, Osbourne stesso. Diversa la questione per Cesare Cremonini, che non scrive nulla che possa attirare critiche ma posta solo una foto in bianco e nero del cantante britannico. Solo un omaggio dettato dal momento? In realtà no, perché Cremonini si è dichiaratamente fatto le ossa con l’hard rock, partendo in tenera età coi Queen e andando poi a ritroso (e ovviamente anche Brian May ha ricordato il grande Ozzy, senza il quale probabilmente i Queen non avrebbero neanche tirato fuori gli strumenti dalle custodie). Ragion per cui ogni tipo di “perplessità” può essere mandata al mittente. E Vasco Rossi? Beh, uno come Vasco ovviamente non poteva non omaggiare uno dei suoi grandi maestri: per la capacità comunicativa in primis, e in secondo luogo – musicalmente – Rossi ha preso qua e là pezzi del rock di Ozzy infilandoli nelle sue canzoni, così come ha fatto con gli Ac/Dc, i Judas Priest e via dicendo (a mio modesto parere anche il suo modo di stare sul palco, con quei momenti gigioneschi e i famosi “eeeh” a braccia spalancate  deve molto agli “Uh yeah” di Ozzy e del suo trascinare la folla come un vero jester). Forse di tutti gli epitaffi è il più scontato, d’altronde Vasco viene soprannominato “rocker di Zocca” e negli ultimi tempi rivedeva i suoi pezzi live in chiave “metal” con in formazione Will Hunt degli Evanescence, tanto per dire. Enrico Ruggeri anche omaggia il Blizzard, ma nel suo caso c’è un alto tasso di tolleranza per i trascorsi nei Decibel, che nella loro miscela di punk e hard rock caratterizzante gli esordi avevano senza dubbio i Sabbath come riferimento (e poi il fatto che Ruggeri abbia una cultura hard rock piuttosto ampia è cosa risaputa). Infatti pochi se la sono presa, eppure Ruggeri è l’autore di cose come “Quello che le donne non dicono”: strano che per questo non sia alla gogna come i suoi sopracitati colleghi. Ma la questione di fondo è che Ozzy Osbourne ha sempre fatto pop: la melodia della voce è fondamentale, avvinghiante, è la cosa principale anche e proprio perché all’interno di un contesto dalle sonorità heavy: anche perché poi il concetto di “pesantezza” in musica nel frattempo è mutato ed estremizzato (se pensiamo al noise rock e derivati) e ascoltare il lavoro del fu ragazzo di Birmingham oggi non è più respingente come  agli esordi (anche se ultimamente c’è una grande involuzione nel rock, per cui il nostro è uscito di scena ringiovanito a livello musicale). Anzi, quello è stato il suo punto di forza, esser riuscito a trasformare il concetto di pop, ma non a negarlo. Nel suo modo di inseguire i riff di chitarra c’è l’essenzialità del pop: dritto alla bisogna, niente orpelli. > La questione di fondo è che Ozzy Osbourne ha sempre fatto pop: la melodia > della voce è fondamentale, avvinghiante, è la cosa principale anche e proprio > perché all’interno di un contesto dalle sonorità heavy. E i suoi punti di riferimento assoluti sono i Beatles: basti guardare l’incontro tra lui e Paul McCartney nel backstage di un concerto del baronetto, anno 2001: Ozzy per la prima volta – incredibilmente – lo incontra ed è emozionato come un ragazzino. Tra l’altro la canzone “I want you (She’s so heavy)” dei Beatles è incredibilmente Sabbath: esce nel 1969 e, come scritto da Josh Hart e Damian Fanelli su Guitar World, merita il 34° posto nella loro lista delle “50 canzoni più pesanti prima dei Black Sabbath” definendo il brano un “bluesy rock” che “potrebbe aver inavvertitamente dato inizio al doom metal”. Qualcosa vorrà pure dire: come qualcosa vuol dire quando il nostro interpreta brani “leggeri” nel repertorio dei Sabbath, come le celeberrime “Changes” e “Planet Caravan”, in cui la voce diventa espressione di tutta la fragilità e la dolcezza del caso: tant’è che addirittura i Pantera (in fissa per il brano) praticamente si vergognarono di includere la loro cover nell’album Far Beyond Driven, scrivendo una “lettera aperta ai fan” che secondo loro non avrebbero apprezzato la cosa perché troppo melodica, risolvendo il tutto mandandoli a fanculo (nel live “back to the beginning” Phil Anselmo si sentirà finalmente libero di cantarla con tutto il cuore). Soprattutto nella carriera solista Ozzy darà una grande importanza alle ballad, come nel caso della storica “Goodbye to romance” (non a caso individuata come soft rock da vari algoritmi), la stessa “Mama I’m coming home” scritta con un altro beatlesiano DOC, ovvero Lemmy dei Motorhead, “So tired” che in effetti, quando fu scelta come secondo singolo per “Barking at the Moon”, vide il disappunto di molti fans: è vero, nel metal questa cosa delle ballad è abbastanza diffusa ma  ‒ qui sta il bello ‒ è proprio Ozzy ad averne gettato le basi coi Sabbath. Sabbath che, ricordiamolo, non sono sempre stati a schitarrare in maniera monolitica, ma hanno anche sconfinato in cose molto più orecchiabili, sperimentando anche coi sintetizzatori in dischi come Technical Ecstasy e Never say die!, che se è vero che sono stati il canto del cigno della formazione storica creandosi anche molti nemici tra la critica e il pubblico, è vero anche che rappresentano due album coraggiosi seppur imperfetti dove la band si rifiuta di essere il cliché di se stessa dicendo ad alta voce: “sì ok, non sappiamo dove stiamo andando, ma sappiamo che stiamo forgiando il pop del futuro”. > Basta guardare i funerali di Ozzy in streaming per rendersi conto di che razza > di evento pop sia stato: migliaia di persone a ricordare quello che veramente, > per parafrasare la canzone manifesto di Lennon, è stato un “working class > hero”. Quello della contaminazione tra generi, quello degli esperimenti più o meno riusciti, quello che sì, abbiamo cantato di temi oscuri ma da sempre questi temi fanno parte di un discorso popolare, e non ci siamo limitati a quelli; dovevamo farlo perché, come ricordava Ozzy stesso “Eravamo io e cinque bambini, i miei fratelli, che vivevamo in una casa con due camere da letto. Mio padre lavorava di notte, mia madre di giorno, non avevamo soldi, non avevamo mai avuto una macchina, andavamo raramente in vacanza… E all’improvviso, sai, sentiamo dire ‘Se vai a San Francisco assicurati di mettere un fiore tra i capelli’. E pensiamo (con disprezzo) ‘Che cazzo è San Francisco? Da dove spunta fuori? Cos’è questa stronzata dei fiori? Io non ho neanche le scarpe ai piedi!’”. E basta guardare i funerali di Ozzy in streaming per rendersi conto di che razza di evento pop sia stato: migliaia di persone a ricordare quello che veramente, per parafrasare la canzone manifesto di Lennon, è stato un “working class hero”. Dal pop(olo) veniva, al pop(olo) è tornato. Gli altri continuino pure a guardare la luna senza abbaiarle contro. Listen in awe and you’ll hear him Bark at the moon L'articolo Ozzy Pop proviene da Il Tascabile.
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Come balla Napoli segreta
I l 2025 è l’anno di Napoli: ovviamente il pensiero passa per la festa di un sudato scudetto, con inarrestabili canti e balli per strada. Ma Napoli non balla solo per questi eventi: il ballo è l’essenza stessa di Napoli. Il dancefloor partenopeo sta diventando – più che un’area adibita allo “slego” ‒ un personaggio popolare, un Pulcinella del Tremila che non teme la tradizione ma la scavalca portandosela sulle spalle. Gennaro Ascione (prolifico autore di saggi, romanzi, scrittore per teatro cinema e insegnante di studi culturali all’Orientale di Napoli, nonché una delle eminenze grigie del fenomeno Napoli segreta) ha deciso dunque di “percorrere le sottoculture musicali della città dagli anni Settanta ad oggi”, analizzando la storia del suo ballare come storia di decolonizzazione e di sguardo aperto al mondo, con un libro dal titolo semplice ma efficace: Napoli balla (2025). Ci facciamo quindi una chiacchierata con l’autore per fare il punto sul manifesto di intenzioni che tale libello suggerisce. ALLORA GENNARO, ABBIAMO TRA LE MANI QUESTO BEL LIBRO: ADESSO TU MI DEVI DIRE COME TI È VENUTO IN MENTE DI SCRIVERLO? PERCHÉ IO TI RICONOSCO IN VARIE FOGGE, PERÒ IN VESTE DI CRITICO MUSICALE… DICIAMO CHE QUESTO È UN PO’ IL TUO DEBUTTO IN QUESTO SENSO. O DICO UNA FESSERIA? No, dici bene: è veramente un debutto. il libro nasce come proposta per un soggetto di un documentario che mi è stato chiesto nel 2019. E mi era stato detto: la vogliamo fare una cosa su Napoli con una chiave che sia diversa dalle solite narrazioni? E io siccome, come sai, sono appassionato di musica ma anche di tecnologia e di sottoculture, avevo proposto una docufiction, una docuserie in quattro puntate. CON QUALE CASA DI PRODUZIONE? Con Anemone, che sarebbe la casa di produzione dei video di Liberato. Tra le altre cose hanno vinto anche il premio a Venezia per una giovane regia l’anno scorso, cioè per il film Le mosche di Edgardo Pistone. E poi, come sai, queste cose a volte non vanno in porto dal punto di vista dello sviluppo. Quindi mi era rimasto questo soggetto e avevo sviluppato anche delle cose divise in quattro capitoli che analizzavano però quattro periodi temporali. Poi…  in mezzo c’è stato Napoli segreta, il mio libro Vendi Napoli e poi muori (2018). Quindi era un po’ che mi balenava in testa questa idea di utilizzare gli strumenti degli studi culturali per fare un “non saggio”… non so se sei d’accordo, però non si può dire che questo libro sia un saggio. SICURAMENTE È UN IBRIDO, PERÒ SÌ: SECONDO ME C’È ANCHE L’ASPETTO DEL SAGGIO. E infatti ho pensato: troviamo una scrittura ibrida che mi consenta di attraversare queste sottoculture, prendendole non soltanto come periodi storici che stanno uno dietro all’altro ma permettendo anche ogni tanto di ritornare indietro. Per dire, nello stesso momento in cui abbiamo raccontato la Napoli di James Senese poi stavano succedendo anche altre cose. Mentre stiamo raccontando la Napoli dei punk dobbiamo un attimo riprendere un filo per andare in direzione dell’underground: quindi l’idea era di arrivare fino ad oggi per raccontare la Napoli di adesso, attraverso la voce di certi protagonisti. Però quando arrivi alla fine della lettura si sono accumulati così tanti strati che è come se le cose che leggi dell’ultimo capitolo prendano un senso completamente diverso da prima perché diciamo: “ma guarda che ‘sta cosa viene da un percorso antico!” MA INFATTI È SINTOMATICO CHE TU L’ABBIA SCRITTO PRIMA ANCORA DELL’ESPLOSIONE DI NAPOLI SEGRETA: IN REALTÀ È COME SE TU ANALIZZASSI NAPOLI FILTRANDO IL PUNTO DI VISTA SOCIOLOGICO, ANTROPOLOGICO DIRETTAMENTE COL SUO DISCORSO MUSICALE, CHE POI È ANCHE UNO DEI GRANDI FONDAMENTI DEL POPOLO NAPOLETANO. E IN EFFETTI TU LA PRENDI DA LONTANISSIMO, ADDIRITTURA DA O’ SOLE MIO, DA QUANDO CIOÈ INIZIA L’ESPORTAZIONE DEL “NAPOLI SOUND” ALL’ESTERO, GRAZIE AL FATTO DI ESSERE UNA CITTÀ COLONIALE O POSTCOLONIALE, COME LA CHIAMI TU. Esatto, sì. VUOI SPIEGARE UN PO’ QUESTO DISCORSO? SECONDO TE NAPOLI ANCORA ADESSO È UNA CITTÀ POSTCOLONIALE? Forse adesso lo è in maniera evidente: come dici tu giustamente lo è dalle origini, perché postcoloniale non significa che viene dopo la colonia ma che nei 500 anni di modernità e colonialismo tu acquisti consapevolezza e ragioni attraverso i movimenti di persone, di idee e di cultura: quindi è postcoloniale perché storicamente è stata colonizzata, ed è postcoloniale perché le emigrazioni  ‒ come da tutto il resto dell’Italia verso altri posti  ‒ creano questi doppi legami per cui la musica di O’ sole mio, e in generale della canzone napoletana, viaggia appresso ai migranti, dalla Crimea agli Stati Uniti al Sud America: però di ritorno arriva la musica dei 78 giri, che comincia a girare sui grammofoni e poi arriva il jazz, un fenomeno che penso tu conosca meglio di me nel modo in cui dall’Atlantico nero torna in Europa. C’è tutto un movimento che oggi è evidente, perché magari ‒ a differenza di una città come Londra o come Parigi ‒ adesso qui abbiamo seconde e terze generazioni di afrodiscendenti che però sono a tutti gli effetti proprio napoletani. E quelli si costituiscono il loro dancefloor, la loro musica che non passa più per le metropoli del nord, ma magari dal wolof della Nigeria, dall’afrobeats contemporanea, e parla direttamente con l’amapiano che è la house music sudafricana. Quindi adesso è postcoloniale in una maniera ancora più evidente, però è una costruzione storica. DA QUESTO PUNTO DI VISTA È CRUCIALE LA STORIA DI JAMES SENESE E MARIO MUSELLA, GLI SHOWMEN, CHE SONO APPUNTO I FIGLI DELLA GUERRA: E QUINDI ANCHE IL METICCIATO, PER CUI DA UNA PARTE SONO NAPOLETANI E DALL’ALTRA SONO AMERICANI FIGLI DI NERI, FIGLI DI PELLEROSSA. DUNQUE GIÀ DA LÀ DICIAMO CHE LA CITTÀ MUSICALMENTE PRENDE DEGLI ASPETTI CHE PROBABILMENTE SONO DI UN CLASH CULTURALE NOTEVOLE… Guarda, sulla musica in particolare secondo me è proprio una dialettica più che un clash: primo perché dal punto di vista storico quella che pensiamo essere la canzone classica napoletana è già una forma ibrida di tante cose, in quanto dentro ci sono già tante influenze che poi vengono codificate nel dialetto napoletano. IN QUESTO SENSO C’È DA DIRE CHE NAPOLI HA QUESTA CAPACITÀ MUSICALE DI FARE SUOI DEI LINGUAGGI ALTRI, COME I GIAPPONESI QUANDO PRENDONO QUALSIASI TIPO DI ROBA E POI PENSI CHE L’ABBIANO INVENTATA LORO. SEMPLICEMENTE NE HANNO FATTA UNA VERSIONE TALMENTE PERSONALE CHE POI DIVENTA PECULIARE. È certamente una via, quella che dici tu, il fatto di ritradurre in una chiave ‒ chiamiamola napoletana o comunque etnica ‒ dei fenomeni che stanno succedendo in giro per il mondo. Quindi sia nella canzone napoletana sia dagli Showmen fino ai Napoli Centrale di Senese, a Pino Daniele c’è questo movimento. Come dire: ritraduciamo la fusion, il blues, il rhythm and blues e lo facciamo in napoletano. Ma c’è anche un’altra via che invece è come se prendesse la direzione opposta, e forse Napoli segreta si avvicina di più a questa cosa: la disco funk fatta a Napoli tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta esce proprio all’ombra di Pino Daniele e di Napoli Centrale. Perché fanno un discorso del tipo: noi vogliamo fare la disco music, e il fatto che la facciamo in napoletano è perché alla fine cantiamo in napoletano, ma noi vogliamo andare verso quella cosa, no?  Non la vogliamo riportare a casa. QUESTO È UNO DEI TANTI MOTIVI PER CUI L’OPERAZIONE NAPOLI SEGRETA HA FUNZIONATO. Sì, perché se prendi i pezzi che tu conosci bene di Tony Iglio, tipo Luci a New York lui sta prendendo Gershwin e la sta semplicemente risuonando: e lui è napoletano ma non ci sta mettendo il mandolino dentro, no? Quindi è affascinante come già negli anni Settanta queste diverse modalità aprano la possibilità di narrare tante Napoli: per cui non c’è Napoli come città, ci stanno tante città dentro a questo calderone, e ognuna interagisce in modo diverso rispetto a quello che sta succedendo. Se prendi per esempio le culture del dancefloor degli anni Ottanta-Novanta, di napoletano c’è solo il fatto che si faceva a Napoli. INFATTI TU FAI ANCHE UNA LETTURA STORICA DEL CAMBIAMENTO DEL DANCEFLOOR, DEL BALLO A NAPOLI: MA DAL PUNTO DI VISTA DELLA FISICITÀ, SULLA PISTA NAPOLI È DIVERSA MAGARI DA ALTRE CITTÀ MOLTO PIÙ FREDDE COME POTREBBE ESSERE LONDRA O SIMILIA? A NAPOLI NON C’È FORSE UN ALTRO TIPO DI APPROCCIO? Napoli, dal punto di vista del ballo, è uguale alle altre città secondo me: questa è una tesi centrale del libro. SEI SICURO DI QUESTA COSA?  Sì, perché comunque se sei andato a ballare nel resto del mondo ti sei reso conto che i dancefloor della musica underground sono gli stessi, anzi ci sono dei dancefloor molto più esplosivi di Napoli, no?  Io ho cercato proprio una via che fosse quella di dire: Napoli come metropoli, così come lo sono le altre, ha sviluppato in modo proprio dei linguaggi che però sono universali rispetto alla Napoli che canta e suona, in cui magari si vede una differenza. Ma se io prendo, che ne so… la scena rave di inizio anni Novanta a Napoli e prendo la scena rave di inizio anni Novanta a Roma, io non posso più utilizzare il filtro della specificità culturale per raccontare quella storia. A Roma c’era Lory D che faceva “Antisystem” e a Napoli non c’era una scena rave, per cui si andava a ballare a Roma o ai Technival. E quindi i raver napoletani, come hai letto, a un certo punto si devono inventare un posto addirittura completamente illegale sotto lo stadio San Paolo. Però il linguaggio che stanno cercando di utilizzare in maniera quasi disperata è un linguaggio universale: in questo Napoli non è differente da altri posti, secondo me, e questo è importante. PERÒ FORSE C’È UNA TENSIONE ALL’UNIVERSALE MOLTO PIÙ CHE A ROMA PER DIRE, AD APRIRSI MOLTO DI PIÙ ALL’INNOVAZIONE, E PROBABILMENTE È COSÌ DA SEMPRE. PER ESEMPIO NEL LIBRO DICI CHE TOTÒ PRATICAMENTE SI “INVENTA” LA BREAKDANCE, CON LE SUE MOVENZE, IN TEMPI CHIARAMENTE NON SOSPETTI. Beh, lui la inventa a sua insaputa, si muove con il corpo già negli anni Trenta come si muove Marcel Marceau perché magari qualcosa però gli è arrivata, quindi lui nel fare la marionetta utilizza dei codici: questo è il bello dei fenomeni culturali, perché quando vuoi stabilire chi ha inventato cosa ti vai a lanciare in un ginepraio. Per questo il discorso sull’autenticità, secondo me, fa un po’ ridere: perché se prendi Carosone, che io ho raccontato, come fai a stabilire nei pezzi di Carosone dove comincia il napoletano e dove comincia invece tutto questo milieu che lui ha attraversato quando era ragazzo? Lo puoi vedere nelle forme espressive: puoi dire che Carosone sta utilizzando la chiave di lettura dell’esotico per fare delle cose ballabili, ma stabilire se lui sta facendo boogie oppure swing diventa forse la parte meno interessante della faccenda. CERTAMENTE: SONO PIÙ INTERESSANTI COSE COME CARAVAN PETROL, QUESTI ESOTISMI CHE FORSE VENGONO APPROCCIATI NELLA STESSA MANIERA PIÙ AVANTI, QUANDO IL SYNTH POP DEGLI ANNI OTTANTA, E QUINDI L’ELETTRONICA, ENTRA NELLA MUSICA NAPOLETANA. AD ESEMPIO COMPUTER DI ENZO DI DOMENICO, QUESTI GRANDISSIMI BRANI DI NAPOLI SEGRETA IN CUI LA TECNOLOGIA VIENE TRASFORMATA E DECLINATA ANCHE NEL LINGUAGGIO TESTUALE, PERCHÉ IN EFFETTI POI IL NAPOLETANO CREDO CHE SIA COME L’INGLESE, CHE SIA MIGLIORE PER FARE QUEL DETERMINATO TIPO DI MUSICA; SI RIESCONO A FARE DEI PEZZI PIÙ INTERESSANTI DAL PUNTO DI VISTA SONORO. Oppure semplicemente diversi no? Perché pensiamo all’hip hop: l’hip hop col napoletano ha trovato subito un gancio, perché utilizzando molte parole tronche; quando è arrivato l’hip hop suonava già con degli appoggi ritmici che hanno permesso alla lingua napoletana di trovare una potenza espressiva. Però se io penso al rap di Dj Gruff non è che posso dire che il rap in napoletano sia migliore di quello che ha fatto lui, che utilizza l’italiano come se fosse Dante, no? CHIARO, PERÒ INDUBBIAMENTE È RICONOSCIBILE, PERSONALE, LO SPECCHIO DI UN POPOLO; E OVVIAMENTE NESSUNO PUÒ FARE RAP IN NAPOLETANO SE NON I NAPOLETANI. MA IN EFFETTI TU FAI UN DISCORSO MOLTO PIÙ SOTTILE, CHE È QUELLO DELLE GRANDI CONVERSIONI MUSICALI INTERNE A UNO STESSO LINGUAGGIO MUSICALE DI NAPOLI. TIPO IL METALLARO CHE SI CONVERTE ALLA HOUSE, IL GIOVANE POST PUNK CHE POI CAMBIA E DIVENTA PALADINO DELLA DANCE, NO? LE GRANDI CITAZIONI DEI BISCA CHE INFATTI PARTONO A FARE LA NO WAVE E POI SI RITROVANO IN UN CONTESTO PIÙ FUNKY COLLABORANDO PURE CON I 99 POSSE, IN UN AMBIENTE CROSSOVER CON L’HIP HOP. PARLANDO CON I PROTAGONISTI COME TI HANNO RACCONTATO QUESTE CONVERSIONI? COME SE LE SONO VISSUTE?  Loro se le sono vissute in maniera completamente inconsapevole, perché quando tu stai dentro il fenomeno musicale, specialmente se stai suonando, segui il tuo istinto: quindi per esempio i Bisca si chiamavano Bisca con la ‘k’ all’inizio, perché facevano ska: poi è durato due mesi e un amico loro, chitarrista, torna da un’estate a Londra e porta dei dischi. Tra questi dischi c’è No New York, quindi loro sentono James Chance e dicono: “Ma che è questa roba? Vogliamo fare questa cosa qua!”. E il fatto che io abbia potuto raccontare più che analizzare i passaggi clamorosi da un genere all’altro di cui parli tu, è perché il protagonista del libro non è un umano e non è un gruppo di umani, ma è il dancefloor come spazio sociale in rapporto alle sottoculture: quindi io l’ho visto nascere nei cafè chantant dove suonava Carosone, facendosi spazio piano piano tra i tavolini e arrivando fino ai locali della Napoli Underground. Perché effettivamente la storia dell’underground è particolare a Napoli: la città è terremotata, quindi piena di eroinomani in superficie, e questi soggetti post punk scendono nelle caverne, in queste cave di tufo, club storici come il KGB, il Diamond Dogs, lo ZX. Loro cominciano a sperimentare questa forma di liberazione del corpo in maniera individuale, non di ballo coreografico ‒ io faccio un passetto e tu ne fai un altro ‒ e neanche di ballo acrobatico ma semplicemente un approccio post punk in cui ognuno si muove in maniera quasi solitaria sul dancefloor. ORA CHE CI PENSO LA TUA SEMBRA LA DESCRIZIONE CHE EDOARDO BENNATO FA IN LA CITTÀ TREMA NEL 1983, CON QUESTO SOTTOBOSCO “CONTORTO”, DICIAMO… Beh, i Contortions di James Chance ce l’hanno proprio nel nome: l’idea è che sei solo tu e ti contorci mentre balli a volumi spropositati di musica nuova, con chitarre distorte però, già con un’idea di groove. È una cosa proprio che spezza il movimento, perché sono talmente sincopati la batteria e il basso di quella roba, che non ci stai più dentro in come si ballava l’afrobeat: e questa cosa secondo me è stata fondamentale nel costruire un primo momento di liberazione dei corpi come singoli, che poi sui dancefloor successivi si sono incontrati con altri corpi liberati e hanno trovato nuovi codici di interazione che non passavano per le forme già codificate di movimento. Questa cosa a Napoli avviene in modo interessante, perché a differenza di quanto succede con la forma discoteca, avviene in dei club underground che si chiamano “discoteche” per approssimazione merceologica. Perché in tutti e due i posti si balla, però a Napoli c’era già il Kiss Kiss, che era la discoteca un po’ sull’idea della Riviera romagnola: quindi la macchina per il fumo, il glitter ball, i tavolini, tutti quanti un po’ bellini e si balla la domenica pomeriggio oppure si fa festa la sera un po’ come le realtà che ha raccontato Claudio Coccoluto riguardo le prime esperienze con Marco Trani. Una scena disco superscintillante in cui Marco Trani faceva la superstar e Coccoluto in qualche modo si doveva ricavare uno spazietto. Poi quello spazietto comincia a diventare una sottocultura underground in cui il club è vissuto in posti scuri, in cui si ascolta musica ossessiva e ripetitiva, si comincia a prendere un nuovo tipo di droga che è l’ecstasy, perché questa storia non sta in piedi senza passare per l’utilizzo di sostanze: comincia a diventare una cultura urbana con dei propri codici che nella discoteca normale della domenica pomeriggio, con quelli con le Timberland al piede, non ha proprio niente a che fare. COCCOLUTO DICEVA ANCHE CHE IL DANCEFLOOR NAPOLETANO È L’UNICO CHE APPLAUDE QUANDO FAI UN MISSAGGIO FATTO BENE, QUESTO STA NEL LIBRO. Sì, è l’intervista che lui ha rilasciato per un documentario l’anno scorso: quasi con le lacrime, lui si ricorda che alla fine di un set in cui davanti aveva duecento persone mette We Are Family delle Sister Sledge e la gente fa l’applauso al mixaggio, perché comunque stava nascendo una cultura tutta nuova, senza istruzioni per l’uso. Perché magari l’hip hop, il rythm & blues erano passati attraverso i mass media, quindi tu avevi visto un codice e provavi a replicarlo. Invece questi movimenti underground che partono da Londra, Ibiza, ma anche da Berlino, arrivano tramite dei pionieri che cominciano a raccontare le cose come vanno: ma chiaramente il racconto è meno codificato. Se io non accompagno il racconto con delle immagini, tu devi usare il tuo cinema interno per produrre delle immagini nuove: e questa cosa crea i veri e propri movimenti dal basso delle culture underground, che a Napoli sono fatte proprio dai metallari. Un manipolo di metallari che avevano una band che si chiamavano Skizo, che erano stati i primi a fare il trash metal, poi a un certo punto hanno come un’illuminazione: anche io sono stato metallaro, come tu ben sai, perché secondo me si mantiene un’idea che nel metal è forte, cioè il fatto di portare avanti un discorso radicale. Se sei stato metallaro è come aver fatto il militare insieme: c’è quell’idea di mantenere una linea dritta con della musica tosta che ascolti, e ascolti solo quella. E a Napoli viene fatto quel discorso per cui si importa la primissima acid house, la house music fatta coi campioni a gruppo che si ripetono, prodotta da gente che non ha né arte né parte da un punto di vista musicale, quindi è molto intuitiva: però quella roba deve essere tosta e prolungata per tutta la notte.  PURA QUESTIONE DI ATTITUDINE, INSOMMA. Esatto: questo secondo me è il mash che solo il dancefloor poteva realizzare, perché sono due sottoculture così esteticamente diverse quelle della house e dell’heavy metal, che si poteva avverare soltanto su un piano non estetico, non musicale… PRIMA PARLAVI DELL’IMPORTANZA DELLA DROGA NEL CLUBBING, MA NEL LIBRO SCRIVI ANCHE – DI CONSEGUENZA ‒ DEI PROBLEMI CON LA MALAVITA ORGANIZZATA. COSA CHE MI HA RICORDATO MOLTO QUANDO INTERVISTAI PETER HOOK DEI NEW ORDER E MI RACCONTÒ APPUNTO DEI PROBLEMI CHE HA ATTRAVERSATO LA FACTORY IN QUEL SENSO. ALL’INTERNO DI QUESTO DISCORSO DEL LIBRO, L’AVANZARE DELLE MAFIE NEL CLUBBING HA CAMBIATO MOLTO LA SUA FORMA E ANCHE LA QUALITÀ DELLE DROGHE… Sì, io per raccontare questa storia mi sono domandato: ok, va bene ragionare per i movimenti culturali, la tecnica, la musica, cosa sta andando. Però che cosa significa fare un locale notturno a Napoli? O in un altro tessuto metropolitano? Significa comunque che l’esperienza di produrre il dancefloor come spazio sociale da parte delle crew che organizzano è mediata anche da tante situazioni. E che significa? Che in quel locale ci comincia a entrare innanzitutto ogni classe sociale, quindi molti ragazzi presi bene che fanno esperienza col fatto che viene il dj dall’estero e magari lo vanno a prendere all’aeroporto: è un momento di grande emancipazione sociale perché cominciano ad arrivare dei movimenti culturali che parlano un linguaggio di apertura, di internazionalizzazione, però in una situazione che è quella della festa. Quindi nella festa si beve, ci si droga, e diventa una miscela umana praticamente quasi esplosiva, che tu appena la muovi un po’ più forte può esplodere tipo nitroglicerina. Quindi, ovviamente, quando si cominciano a generare i profitti, come in tutte le realtà e non soltanto a Napoli, la gente ci comincia a mettere gli occhi addosso, perché tra l’altro i locali sono in territori comunque controllati dalla malavita. Quindi in qualche modo devi avere a che fare con i rampolli che vogliono entrare nel locale, quelli che vogliono gestire il traffico perché capiscono che là c’è un business che sta partendo e quindi cominciano a tagliare le gambe ai freerider. E QUESTO COSA COMPORTA? Rispetto all’inizio, in cui magari arrivava la droga buona perché veniva scelta dai freerider e portata in città, comporta che tutto peggiora. Tutti raccontano di storie per cui ai bei tempi bastava un quarto in una pasticca per stare fatti tutta la notte… il che taglia anche le gambe al bar però, no? Sai, nell’organizzazione dei club il bar lo fai a livello del locale, ma se quello non guadagna una lira perché tutti quanti hanno preso una sola pasticca e stanno a posto tutta la notte, il meccanismo della mercificazione mette delle pressioni: quindi queste varie pressioni cominciano a far abbassare il livello medio della qualità delle sostanze. Io le varie interviste del libro le ho chiuse quasi tutte domandando a ciascuno dei protagonisti delle varie epoche: ti ricordi la prima pasticca che hai visto? E da là viene fuori l’elenco che leggiamo nel libro, e non ti dico come si illuminavano gli occhi a tutti quanti! [ride] E POI IMPROVVISAMENTE TUTTO QUESTO ASPETTO DELLA DARK SIDE NON DICO CHE SPARISCE PERÒ DIVENTA PIÙ CHE ALTRO TROVARE NELLA DARK SIDE LA LUCE: SECONDO ME NAPOLI SEGRETA HA TIRATO FUORI QUESTE SOLARIZZAZIONI ALL’INTERNO MAGARI DI UN PERIODO STORICO “HARDCORE”, RIVELANDO L’ALTRA FACCIA NASCOSTA DI UNA STESSA MEDAGLIA: NAPOLI SEGRETA NASCE DA UNA GRANDE RICERCA DI RECUPERO, DI DIGGING E TU NE FAI PARTE, SEI UN PO’ L’IDEOLOGO. MA ECCO: NEL LIBRO TU NON TI SCRIVI, PARLI IN TERZA PERSONA QUANDO PARLI DI NAPOLI SEGRETA… COME MAI? No ego, no ego! [ride]. In realtà ho fatto così perché quando in un libro parti da O’ sole mio fino a Carosone a Pino Daniele… poi c’è una fase intermedia tra Napoli segreta e Napoli Centrale: perché a un certo punto De Piscopo e Tony Esposito cominciano ad andare verso il dancefloor… O ad esempio prendi Enzo Avitabile, che forse è quello che ha l’intuizione fin da subito: Avitabile infatti sta pure nella compilation Balearic Beats, Soul express… C’erano già, all’ombra del fenomeno Pino Daniele, delle forme intermedie che andavano verso il dancefloor, quindi rispetto a questa storia io mi sentivo proprio inutile. Io lo potevo soltanto raccontare a modo mio, però effettivamente Napoli segreta come periodo non esiste come tale: abbiamo ricostruito a ritroso questa scena che non esisteva. Quindi i collegamenti li abbiamo fatti ex post dopo una ricerca fatta da Lorenzo Sannino e Gianpaolo Della Noce: anche i Nu Genea, li abbiamo messi in comunicazione noi. Noi siamo andati a recuperarli. MA GLI AUTORI DI QUELLA ROBA ALL’EPOCA ERANO CONSAPEVOLI DI FARE QUALCOSA DI POTENZIALMENTE CLAMOROSO? Tu prima parlavi del synthpop di Enzo Di Domenico: ecco, quando noi siamo andati a chiedere a Enzo Di Domenico di Computer (che a te fa impazzire per il verso “sto computer che ‘bbuo / sono un missile o sono un robot”), o di Robot…Voglio dire, loro ci hanno detto che erano tutte idee che venivano in qualche modo da turnisti che erano andati al concerto dei Kraftwerk nel 1981, e che cominciavano ad ascoltare le cose un po’ più spinte. E questa cosa nasce dal fatto che si dovevano produrre molti dischi tentando di piazzare la hit: perché la logica qual è? Alan Sorrenti ha spaccato con Figli delle stelle nel 1977. E tutta la gente che comunque è a Napoli dice: “Scusami ma perché non proviamo a farla anche noi questa cosa, no? Creiamo un’industria interna!”. Ma l’idea è: facciamo molte uscite, ma con una tiratura di dischi molto bassa. Perché se piazziamo la hit, bene: ma non è che poi possiamo produrre tanti dischi di questa roba se nessuno se la ascolta. Quindi quei prodotti sono rimasti effettivamente e completamente inascoltati. È stata veramente una meteora. Una bolla. Col senno di poi abbiamo incrociato quelle produzioni che stavano avanti, perché che ne so… Ara Macao aveva tutto un sound quasi caraibico, Tony Iglio era jazz stile New York City.  Poi c’era il synthpop che fa capolino, oppure la wave, delle chitarre applicate a dei groove che vanno comunque sul dancefloor. Senza parlare poi delle produzioni più propriamente disco-music, come quelle di Tonica e Dominante, con Gennarino o’ Sioux o Cicogna, gli Oro che si convertono, no? Perché erano gli Antico castagno, una band progressive: loro sapevano suonare, ma a un certo punto dicono “Basta, facciamo i Bee Gees!” [ride]. HAI CITATO ALAN SORRENTI, PERÒ CREDO CHE IN QUESTO SVILUPPO DELLA NON-SCENA CI SIA ANCHE NINO BONOCORE, CHE È IMPORTANTISSIMO, NO?  Sì, il Bonocore di Palinuro Bar, che poi ha creato tutto il format, diciamo, del nostro programma. Poi anche Tony Cicco da Formula 3. Era un po’ come con le sigle dei cartoni animati. Tutta gente che, o per pudore o per altre ragioni, non voleva forse neanche essere associata a quelle produzioni che faceva. Infatti le pubblicava su delle microetichette che erano “darkroom di darkroom”. Quindi c’era ad esempio la BBB, Black Beautiful Butterfly, che aveva la ATA Records come sottoetichetta. Stiamo parlando proprio di scivolare nell’abisso della produzione discografica. Lo stesso Avitabile che pubblica con lo pesudonimo Waterbank scrivendo il nome al contrario per non essere riconosciuto: pieno satanismo discografico [ride]. DA QUESTO ARRIVIAMO ALLA NAPOLI DI OGGI DESCRITTA NEL LIBRO, CHE HA DEGLI ASPETTI INEDITI: ALL’INTERNO DI QUESTO VARIO MISCUGLIO DI COSE, CI TROVI ANCHE APPUNTO DELLE SERATE IN CUI MAGARI TROVI IL DJ BIANCO NAPOLETANO CHE DEVE METTERE MUSICA AFRO PER VARI AFRICANI DI VARIE ZONE DELL’AFRICA, CHE MAGARI NON SI RISCONTRANO MUSICALMENTE TRA DI LORO. QUINDI DEVI IN QUALCHE MODO FARE UN SET CHE METTA D’ACCORDO TUTTI. SPIEGAMI UN PO’ COSA SUCCEDE.  Questo è un momento interessante da questo punto di vista, Sei la prima persona con cui riesco a parlare di questa cosa, quindi innanzitutto grazie. Secondo me già le interviste della parte finale del libro aprono proprio a delle questioni che io ho cercato di costruire passo dopo passo, che poi alla fine esplodono. Perché quando io dico afrobeats in testa ho l’Africa, ma se tu parli con un ragazzo afrodiscendente, quello interpreta il genere come se io dicessi eurodance: anzi molto meno. Musica dance europea che cosa significa? Moroder? E chiaramente questa cosa sul dancefloor contemporaneo è così perché ci sono i ragazzi magari del Gambia che sono legati a un’idea più dancefloor reggae; ci sono i nigeriani che invece sono la New York dell’afrobeats con la”s”, non l’afrobeat di Fela Kuti, ma questo genere nuovo che fondamentalmente viene dal rythm & blues anche un po’ più commerciale, però cantato in wolof ad esempio, tutto con dei ritmi e dei suoni legati a un certo approccio al dancefloor. Poi c’è l’amapiano, che è la house music molto soft e cantata che viene dal Sudafrica… quindi questa cosa ha a che fare con Napoli perché succede anche a Napoli: ma non è napoletana nel senso in cui nel palinsesto nazionale abbiamo costruito le caselle in cui prima c’è Senese, poi ci mettiamo Pino Daniele poi dopo ci mettiamo Nu Genea, no? è una cosa di una complessità metropolitana differente. Per capirci: se parlassimo di cinema, Sorrentino non potrebbe fare un film su questa roba. Infatti nel contratto ho fatto inserire una clausola anti-Sorrentino. AHAHAH, SI CHIAMA PROPRIO COSÌ? NON CI CREDO. È vero! Ho parlato al mio avvocato, ho detto dobbiamo fare una clausola anti-Sorrentino per qualsiasi eventuale adattamento cinematografico: lo dobbiamo decidere noi, perché non può passare per una forma di pittoresco con cui si racconta Napoli. Questa che ho descritto è Napoli come metropoli in mezzo ad altre metropoli più grandi, più piccole, ma il linguaggio è quello della periferia, non quello del centro: anche esteticamente è il fatto che tu vedi dei palazzoni che quando ti muovi sono in sync, quindi li vedi come le barre di un sequencer che si spostano avanti e indietro. IN QUESTO CONTESTO C’È ANCHE IL CAMBIO DI NOME DEI NU GUINEA A NU GENEA: MOLTI SI SONO CHIESTI IL PERCHÉ DI QUESTO, IO PER PRIMO PERCHÉ NON MI SEMBRAVA PARTICOLARMENTE GRAVE LA COSA. PERÒ RIENTRA ANCHE NELL’AUTOCOSCIENZA DEL RISCHIO DELL’APPROPRIAZIONE CULTURALE, GIUSTO?  Sì, certo. A Napoli l’abbiamo maturata questa consapevolezza perché di solito l’abbiamo subita: la storia precedente qual era? Era che noi sapevamo che Paul Oakenfold e Danny Ramplin si erano appropriati di quello che stava succedendo a Ibiza nel 1987-88 e l’avevano chiamato loro Balearic Sound: se parli con Leo Mas lui racconta: “A un certo punto Paul Oakenfold venne dove stavo suonando con in mano questa cassetta e mi dice ’ho fatto la compilation’”; e Leo lo guarda e esclama: “Ma di che stai parlando? Perché, tu stavi a Ibiza?”. È la stessa cosa un po’ con il Napoli sound; a un certo punto qualcuno di cui non possiamo fare il nome ci contatta e comincia dire che vuole fare una compilation ‒ e siamo nel 2016-2017 ‒, perché ha sentito che si fanno delle feste con il sound disco-funk napoletano. Insiste, insiste, insiste e lui vuole venire a una festa a tutti i costi… NEL LIBRO C’È SCRITTO CHI È, NO? Uno l’abbiamo scritto ma l’altro non lo diciamo chi è, ma l’abbiamo mandato in un posto sconosciuto! [ride]: c’è stata una riunione del soviet di Napoli segreta ed è stato deciso “quel nome sì, quell’altro no”, e la compilation la facciamo noi perché non vogliamo che qualcuno si appropri di questo sound. Però contemporaneamente i Nu Genea si sono resi conto che il nome che stavano utilizzando era una forma di appropriazione culturale a loro volta, perché la Nuova Guinea è un posto in cui loro non sono mai stati, e quindi si sono posti il problema, con una maturità molto contemporanea rispetto a questa questione: quindi di questo vado orgoglioso. Napoli, se la vogliamo prendere rispetto a questo movimento musicale contemporaneo, ha la maturità per ragionare sulla questione dell’appropriazione culturale in tutti e due i versi: cioè non vogliamo seguirla ma non vogliamo neanche realizzarla per parte nostra. HO NOTATO CHE ALL’INIZIO DEL LIBRO C’È UN CAPITOLO CON UNA CITAZIONE DI UN ALTRO TUO LIBRO O SBAGLIO? È UNA AUTOAPPROPRIAZIONE CULTURALE FORSE? [ride] Il libro Napoli balla comincia con un estratto di Vendi Napoli e poi muori, che abbiamo già citato: un mio libro del 2018 che narra una distopia in cui la città è invasa e dominata da gabbiani cyborg e succedono una serie di omicidi seriali legati alla turistificazione della città; poi mi sono fatto prendere la mano e finisce tutto in strage [ride]. Ho voluto cominciare con quella cosa perché è come aprire una porta sul piano della narrazione poetico-letteraria. Ho personificato un loop di basso e una scarica di percussioni che sono state separate nell’Africa durante le deportazioni degli schiavi e poi attraversano i percorsi che vanno dal blues alla house al funk alla techno Detroit, per un verso: e di là dal Mediterraneo verso la musica microtonale fino ai madrigali, alla musica popolare, e poi si rincontrano a Napoli e questo incontro avviene dopo secoli nelle cuffie di un dj. In questa storia il dj è protagonista perché comunque è una figura nuova se ci pensi: anche lì è una figura di musicista propria del periodo della decolonizzazione, è una cosa nuova nella storia dell’umanità. Quindi secondo me è centrale dargli il giusto peso, perché lui ha dovuto lottare per affermarsi come qualcuno che avesse a che fare con la musica, dato che all’inizio è stato snobbato. CERTO: POI CHIARAMENTE NEL LIBRO C’È ANCHE IL DISCORSO DEL DJ CHE DIVENTA SUPERSTAR VS. IL DJ CHE INVECE STA IN MEZZO AL DANCEFLOOR COME TUTTI GLI ALTRI, QUINDI UNA DIFFERENZA ANCHE DI STILE E APPROCCIO CHE NEL TEMPO SONO CAMBIATI. Sì, questione di prossemica. Perché il dancefloor nasce come rivoluzione contro la prossemica del palcoscenico, in quanto il palcoscenico riproduce la band che suona sul palco e riproduce la prossemica del proselitismo: io sto in una posizione gerarchica superiore e tutti quanti dovete guardare me che faccio qualcosa. Il dancefloor nasce invece come possibilità di rimescolare le carte, di guardarsi in faccia l’uno con l’altro indipendentemente da chi sta facendo cosa. Poi, per ragioni anche di mercificazione, il dj è diventato una star come una rock star, quindi adesso stanno tutti quanti con i telefonini a riprendere il dj che non fa quasi niente perché le tracce vanno da sole e lui fa finta di muovere manopole; quindi io spero che si possa tornare a un’idea di dancefloor come possibilità di guardarsi in maniera egualitaria, di stare insieme con il corpo indipendentemente dalle divisioni e dalle gerarchie esterne. Se fosse una seduta di psicoterapia si parlerebbe di integrare l’esperienza comunitaria del dancefloor nella società invece di portare le divisioni della società dentro al dancefloor, come ad esempio fare i tavolini dei vip, le restricted areas ecc. ecc. E COME LO VEDI IL DANCEFLOOR NEL FUTURO DI NAPOLI? QUESTA COSA NEL LIBRO NON C’È: SI PARLA NEL PRESENTE PERÒ NON CI SONO DELLE IPOTESI DI FUTURO…. Come avrai letto, è volutamente esclusa la dimensione underground contemporanea, perché è stata proprio una scelta autoriale deontologica: se voglio preservare in qualche modo l’underground lo devo mantenere segreto, ed è lo stesso discorso che abbiamo fatto con Napoli segreta, no? Noi abbiamo dichiarato fin dal primo disco che quell’operazione era un diversivo, perché mentre voi guardate le tracce che abbiamo pubblicato, noi ce ne sentiamo tutt’altre che non pubblicheremo mai. Il discorso è esattamente questo, se vuoi mantenere qualcosa underground, keep it secret. Semplicemente non se ne deve parlare: l’unica cosa, l’unica regola del segreto è… l’omertà [ride] L'articolo Come balla Napoli segreta proviene da Il Tascabile.
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Jack Bruce, il cantautore che veniva dal basso
I nutile dire che fosse un eccellente bassista. Senza stilare classifiche approssimative, Jack Bruce è stato semplicemente tra i bassisti più importanti della storia della musica. Ha ispirato milioni di persone. I suoi giri di basso resteranno per sempre fonte di ispirazione per chiunque tenti di approcciarsi a quello strumento così ritmico, ma anche così melodico. “Era un grande musicista e compositore, e una fonte di enorme ispirazione per me”, ha scritto il suo ex compagno dei Cream, Eric Clapton, in ricordo di Jack Bruce. Questa frase di Clapton – notoriamente parsimonioso di elogi – racchiude già l’essenza di Jack Bruce: un bassista incredibile, e, al contempo, pilastro creativo spesso nascosto dietro le quinte. Roger Waters, fondatore dei Pink Floyd, lo ha definito “probabilmente il bassista musicalmente più dotato di sempre”. Tony Iommi dei Black Sabbath, ha detto che “è stato un eroe per molti”. Alcuni tra i bassisti più virtuosi del rock si sono ispirati a lui: Geddy Lee, Sting, Geezer Butler, Flea, Billy Sheehan, Jack Cassidy, solo per citarne alcuni. Per quale motivo? Perché Jack Bruce ha ridefinito il ruolo del basso elettrico nel rock, trasformandolo da semplice sostegno ritmico a voce solista e melodica. La sua peculiarità più evidente era l’uso del basso come strumento indipendente, con linee fluide, spesso in contrappunto alla voce o alla chitarra. Non si limitava a seguire gli accordi: li ampliava, li complicava, spesso introducendo note di passaggio cromatiche o scelte armoniche audaci che lo avvicinavano più al jazz che al blues-rock canonico. Bruce proveniva da una formazione classica (aveva studiato violoncello) e jazzistica, e questo influenzava sia il suo tocco – molto articolato e dinamico – sia il suo senso dell’armonia. Nei Cream, ad esempio, distorceva con un fuzz pieno e saturo, che gli permetteva di occupare frequenze più alte e di emergere anche in un contesto di power trio, senza mai perdere precisione o musicalità. Il suo basso non accompagna: improvvisa, reagisce quasi, e spesso guida. Essendo anche un ottimo cantante, riusciva a cantare su linee intricate e sincopate, cosa rarissima tra i bassisti. Ma forse la sua dote più sottovalutata era il senso della forma: anche nei pezzi più liberi, Bruce costruiva sempre un discorso compiuto, con un inizio, uno sviluppo e una fine, quasi come se scrivesse melodie parallele alla voce. In “Politician” (Wheels of Fire, con i Cream, 1968) il basso è al centro del pezzo: non si limita a sostenere l’armonia, ma la spezza e ricompone con continui anticipi, ritardi e variazioni. Ogni strofa presenta piccoli spostamenti ritmici e melodici, che danno l’idea di un discorso in evoluzione, non ripetitivo. Nella sua carriera solista, questa caratteristica viene ancor più approfondita. “Smiles and Grins” (Harmony Row, 1971) si profonde in otto minuti in cui il basso assume un ruolo strutturale, alternando riff, pause e armonizzazioni. Bruce modula, varia, riprende temi come in una composizione da camera, il tutto attraverso uno sviluppo coerente, persino architettonico. In “Pieces of Mind” (Out of the Storm, 1974) il basso lavora in dialettica col piano, disegnando una linea tesa, frammentata, che solo a tratti si scontra con l’armonia. Un perfetto esempio di come costruire frasi aperte e narrative, e non meri accompagnamenti. Eppure, anche se sembra assurdo, limitarsi al suo lavoro al basso significherebbe sminuire la sua figura: Jack Bruce ha scritto grandissime canzoni, rivelandosi un autore di rara versatilità. > Jack Bruce ha ridefinito il ruolo del basso elettrico nel rock, trasformandolo > da semplice sostegno ritmico a voce solista e melodica. La sua peculiarità più > evidente era l’uso del basso come strumento indipendente, con linee fluide, > spesso in contrappunto alla voce o alla chitarra. Nato in Scozia nel 1943, ebbe sin da giovanissimo una formazione eclettica. Prima di sfondare con i Cream, era un violoncellista che aspirava a fare jazz. Un’impronta poliedrica che non lo abbandonerà più. Quando nel 1966 si unì a Eric Clapton e Ginger Baker per formare i Cream, Bruce portò con sé un bagaglio musicale vastissimo; non a caso nel power trio fu lui a cantare la maggior parte dei brani e a scriverne la musica, spesso in coppia con il paroliere Pete Brown. I riff e le melodie di classici come “Sunshine of Your Love”, “White Room” e “I Feel Free” nascevano dal suo estro, con Brown a fornire testi visionari. Bruce era di fatto la mente creativa dei Cream, tanto che già all’epoca veniva riconosciuto come principale autore e voce primaria del gruppo, al pari – se non più – del celeberrimo Clapton. La sua voce quasi operistica e il suo basso melodico diedero ai Cream un sound inconfondibile, fondendo potenza blues e raffinatezza armonica. Anche all’apice del successo con i Cream, non si adagiò mai sugli allori. Anzi, la sua curiosità musicale lo portò a spingersi oltre i confini del rock. Nei pochi anni di attività della band, infuse nei brani elementi di jazz e improvvisazione, influenze psichedeliche e persino spunti di musica colta. Questa apertura mentale gettò le basi di tutta la sua carriera successiva: “i Cream suonavano blues-rock e rock jazzato”, ricordò Bruce, “io ho sempre pensato al gruppo quasi come a una band jazz, solo che non l’abbiamo mai detto a Eric”. La battuta tradisce la verità di fondo: Bruce portò nel rock la mentalità libera del jazzista. Non sorprende quindi che, scioltisi i Cream nel 1968, preferisca intraprendere strade musicali molto diverse. Il suo primo album solista, Songs for a Tailor (1969), spiazzò chi si aspettava un’altra “Sunshine”: niente power trio o lunghe jam, ma canzoni raffinate, dagli arrangiamenti sofisticati e quasi impossibili da etichettare. Tutti i brani furono scritti da Bruce insieme a Pete Brown, e mescolavano Canterbury, venature prog, jazz, accenni folk e barlumi di musica classica. Per alcuni addirittura troppo eclettico; sicuramente un po’ acerbo nel complesso. Eppure basta ascoltare “Theme for an Imaginary Western”, probabilmente una delle canzoni più belle di sempre, per capire che il tentativo non era quello di stupire con l’eclettismo, ma di scrivere una canzone che avesse il respiro di un paesaggio interiore. È infatti un brano che sembra esistere fuori dal tempo: lirico, dolente, epico, eppure contenuto, con cambi di accordo mai prevedibili, e la voce di Jack – piena, vibrante, malinconica – attraversa tutto con un’intensità che fa pensare più a Mahler che al rock. È un altro di quei brani in cui emerge, tra le altre cose, la sua genialità al basso, nel quale costruisce una melodia indipendente dal basso, che si muove sotto la voce come una seconda linea narrativa. Non c’è nulla di virtuosistico: tutto è fatto per accompagnare la drammaticità della canzone, con un senso del pathos che richiama davvero il lied classico. > Anche all’apice del successo con i Cream, non si adagiò mai sugli allori. > Anzi, la sua curiosità musicale lo portò a spingersi oltre i confini del rock. > Nei pochi anni di attività della band, infuse nei brani elementi di jazz e > improvvisazione, influenze psichedeliche e persino spunti di musica colta. Negli anni Settanta Bruce continuò a seguire il suo istinto musicale eclettico. Harmony Row (1971), il suo terzo album solista, spinse ancora più in là la ricerca artistica: un’opera intimista, quasi cameristica nel suo intreccio di pianoforte, basso e batteria, lontana anni luce dal blues-rock mainstream. Si apre con “Can You Follow?”, una ballata brevissima, appena un minuto e mezzo, costruita quasi solo su voce e pianoforte, con un arrangiamento essenziale e malinconico. Il titolo stesso – una domanda semplice, “Can you follow?” – dà il tono alla canzone: un invito fragile, esitante, sembra parlare del bisogno di connessione, della paura di restare soli, della difficoltà di comunicare qualcosa di vero. La voce di Bruce è calda, tremolante, vulnerabile; non c’è virtuosismo, ma un’intensità quasi struggente. Molti fan la considerano una delle sue canzoni più emozionanti, anche perché arriva dopo un periodo difficile della sua vita (problemi di salute, depressione, isolamento, molta droga e molto alcool). È come se Bruce, da solo al piano, chiedesse a chi ascolta: “Puoi seguirmi in questo stato d’animo?”. Segue “Escape to the Royal Wood (On Ice)”, uno dei brani più ermetici della collaborazione tra Bruce e i testi di Pete Brown. Il titolo stesso – “ Fuga nel bosco reale (sul ghiaccio)” – è una metafora ambigua, dal sapore mitico. Potrebbe alludere a una fuga dalla civiltà verso un altrove primitivo o onirico, ma “on ice” suggerisce qualcosa di instabile, fragile, a rischio di rompersi. L’immaginario è ricchissimo: si passa da elementi naturali a visioni urbane, da riflessioni metafisiche a dettagli concreti, con un tono insieme epico e intimo. Il disco prosegue con splendidi intermezzi con voce e piano (“There’s a Forest”), sfuriate quasi prog (“Smiles and Grins”) e ballate nostalgiche, ai limiti del cinematico, come nel caso di “Folk Song”. La critica britannica gridò al capolavoro – Melody Maker uscì con il titolo “Il genio di Jack” nelle recensioni – e ancora oggi molti fan lo indicano come l’album più bello di Bruce. Eppure Harmony Row, a cui l’artista era personalmente legatissimo, fallì nelle classifiche e rimase un cult per pochi intenditori. Accadde lo stesso con il successivo, e altrettanto bello, Out of the Storm (1974). In realtà questo divario tra acclamazione artistica e successo commerciale fu un leitmotiv della carriera di Bruce. Dopo lo scioglimento dei Cream, infatti, non riuscì a tradurre la fama iniziale in uno status da rockstar universale. Mentre Clapton riempiva arene, Bruce pubblicava dischi innovativi che però vendevano ogni volta meno del precedente, faticando spesso a trovare supporto dall’industria musicale. Parte della colpa fu di manager e discografici poco lungimiranti, ma in gioco c’era sicuramente anche la personalità controcorrente di Bruce. Lui stesso ammise di aver commesso errori e di non essere “uno facile” nel music business. Schivo, testardo e perfezionista, preferiva seguire la propria strada piuttosto che le mode, pagando questa integrità con un relativo isolamento dal grande pubblico. Era, in fondo, un bassista ammirato dai colleghi, un professionista instancabile, sempre alla ricerca della perfezione e mai del tutto soddisfatto, poco incline ai compromessi richiesti dal mercato. Solo per capire la caratura, suonò con alcuni tra i più grandi, tra cui Jimi Hendrix, Kip Hanrahan (con il quale produsse alcuni dei suoi dischi più belli), John McLaughlin, John Mayall, Carla Bley, Tony Williams, Lou Reed (suonando in quasi tutti i brani dell’iconico Berlin), Billy Cobham, Soft Machine, Frank Zappa (è suo il basso magmatico nell’incendiaria “Apostrophe’”), Jaco Pastorius, Joe Bonamassa e molti, molti altri. > Mentre Clapton riempiva arene, Bruce pubblicava dischi innovativi che però > vendevano ogni volta meno del precedente, faticando spesso a trovare supporto > dall’industria musicale. Anche in mezzo a così tante esplorazioni, Bruce non perse mai di vista la canzone. Al contrario, anche nei brani più complessi cercava la melodia memorabile e l’emozione sincera. Il suo perfezionismo era al servizio dell’espressione artistica, e uno degli strumenti principali di questa espressione fu la sua voce potente e vibrante; in un’epoca in cui molti bassisti lasciavano ad altri il ruolo di cantante, Jack Bruce sfoderò un talento vocale pari al suo virtuosismo strumentale. La sua voce aveva radici nel blues ma formazione nel canto classico: un timbro tenorile capace di salire in acuto con intensità soul e al tempo stesso di piegarsi a sfumature delicate. E avere una voce del genere aiuta molto a scrivere canzoni memorabili: pensiamo a gruppi come Procol Harum e The Moody Blues, che osavano sperimentare, ma restavano saldissimi alla solidità della forma canzone. Queste caratteristiche apparivano già in alcuni brani creamiani come “White Room”, che devono molto della loro forza emotiva all’interpretazione vocale di Bruce, drammatica e insieme raffinata. “Aveva una voce incredibile, unica” ha ricordato il suo amico e collega paroliere Pete Brown, sottolineando come Jack sapesse passare da toni graffianti a passaggi dolcissimi con una naturalezza disarmante. In effetti, riascoltando oggi le sue performance, colpisce la modernità del suo cantato: Bruce poteva essere aggressivo senza mai perdere il controllo tecnico, e allo stesso tempo comunicare vulnerabilità. Questo è facilmente riscontrabile nella splendida tripletta iniziale di Out of the Storm (l’insistente basso di “Pieces of Mind”; la gemma nostalgica “Golden Days”, che insegna su come trattenere dentro di sé i ricordi più felici, trasformandoli in guida interiore, attraverso cori e melodie d’altri tempi; la solenne psichedelia di “Running Trough Our Hands”), un quarto d’ora di magia melodica. Accordi pianistici sinistramente romantici, arpeggi che provengono dalle più sperdute vallate del Suffolk e la sua voce, che quasi fanno dimenticare il bassista eccezionale che è per evocare un polistrumentista completo al servizio della canzone. La capacità di scrittura di Jack Bruce non era di certo limitata ai crismi degli anni Sessanta e Settanta. Adattabilissima ogni volta al suo contesto storico, ma mai penetrata dalla moda. Un disco come il raffinatissimo I’ve Always Wanted to Do This (1980) lo avrebbe potuto scrivere Peter Gabriel, con i suoi ritornelli quasi funk e la sua produzione pomp da arena. Eppure neanche gli Ottanta lo portarono al successo, tanto che quasi per una decina d’anni non pubblicò i suoi album con major. L’industria lo voleva a fare bizzarie al basso con qualche chitarrista energico, sulla scia dei Cream. Non che lui si tirasse indietro, il Bruce “da circo”, il bassista leggendario da piazzare accanto a una chitarra ruggente, restava forse l’unico modo per fare soldi in una carriera che aveva aspettative da rockstar, ma il conto in banca non troppo più alto di quello di un tournista. > La sua voce aveva radici nel blues ma formazione nel canto classico: un timbro > tenorile capace di salire in acuto con intensità soul e al tempo stesso di > piegarsi a sfumature delicate. Da questo punto di vista, Around the Next Dream, sotto il nome BBM (Baker, Bruce, Moore) del 1994 resta una delle operazioni più emblematiche. Venduta come una sorta di reunion dei Cream, con Bruce al basso, Ginger Baker alla batteria e Gary Moore alla chitarra (in sostituzione a Clapton) – e Kip Hanrahan alle percussioni –, nonostante la qualità dei musicisti, il progetto appare costruito su misura per il pubblico classic rock, e Bruce sembra relegato a replicare sé stesso. Nel 2005 arriva invece la vera e propria live reunion dei Cream con Clapton e Baker al Royal Albert Hall. Benché avvenuta molto decenni dopo lo scioglimento del gruppo, evidenzia come il brand Cream avesse sempre più valore dell’identità artistica di Bruce. Nel live risulta impeccabile, ma ingabbiato: la performance è celebrativa, ma poco rischiosa o creativa. La stampa ovviamente lo riconosce, ma in termini retrospettivi. Jack Bruce, quindi, non si tirò mai indietro dall’accontentare questa esigenza dell’industria discografica. Fece quello per tutta la sua carriera, ma anche più o meno il contrario. I suoi dischi solisti sono abbastanza anarchici e riflettono le sue idiosincrasie. L’esempio eclatante è rappresentato da Automatic (1983), gemma synth-pop in cui il nostro si cimenta con il Fairlight, senza l’ausilio di altri musicisti. Il risultato è un capolavoro sconosciuto. Solo per il mercato tedesco, prodotto dalla Intercord. Bruce scopre i sintetizzatori e la loro incredibile potenzialità. Dirà di questo strumento: “Ero affascinato da quella cosa – era una macchina delle meraviglie che poteva fare tutto. Potevi avere un’intera orchestra, suoni strani.” Infatti Automatic inizialmente avrebbe dovuto chiamarsi One Man And His Box. Anche qui, Bruce non decide di prodigarsi in dionisiaci smanopolamenti sperimentali, ma di costruire canzoni vere e proprie, con una struttura geometrica. Ne esce un album almeno musicalmente variegato, e sintomatico del periodo nero che stava vivendo – in passato era stato dipendente dall’eroina e da altre sostanze. “Travelling Child” e “New World” (soprattutto), sono due brani che fanno piangere. Pop perfetto. > In un mondo musicale sempre più segmentato per generi, la figura di Jack Bruce > – musicista senza frontiere, autore sofisticato e anima inquieta – risplende > come quella di un autentico innovatore. Quella di Jack Bruce è infatti davvero un’esplorazione topografica di ogni territorio della canzone: le vette elettroniche di Automatic, così distanti dai Cream e dai suoi primi dischi solisti, ma anche tutto quello che c’è nel mezzo, per arrivare alle canzoni di sola voce, piano e organo di Monkjack (1995). Quando si parla di Jack Bruce, tutti pensano al bassista, uno dei più grandi di sempre. È giusto, ma io, personalmente, penso anche ad altre cose. Oltre a quelle già citate, penso a canzoni come “Into the Storm”, “Without a Word”, “Lost Inside a Song”, “Mickey the Fiddler”, “Jet Set Jewel”, “Waiting on a Word”, “Kelly’s Blues” e tante, tante altre. In un mondo musicale sempre più segmentato per generi, la figura di Jack Bruce – musicista senza frontiere, autore sofisticato e anima inquieta – risplende come quella di un autentico innovatore. Riascoltarlo significa non solo rendere omaggio a uno dei grandi del rock, ma anche riscoprire canzoni di straordinaria modernità, in bilico perfetto tra intelletto e cuore. L'articolo Jack Bruce, il cantautore che veniva dal basso proviene da Il Tascabile.
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