“Il Donbass sia una zona di convivenza”. Il punto che manca in ogni piano di pace

Il Fatto Quotidiano - Thursday, November 20, 2025

di Francesco Vietti*

Punto n. 29: Le parti in conflitto si impegnano a fare dei territori contesi nel Donbass una “zona culturale nonviolenta” per sperimentare pratiche quotidiane di giustizia riparativa, riconciliazione e convivenza tra i residenti.

Al momento del piano in 28 punti che Stati Uniti e Russia starebbero discutendo in segreto per porre fine alla guerra in Ucraina sappiamo poco o nulla. Forse un piano neppure esiste. In ogni caso, sappiamo per certo che non include un punto 29 come quello che avete appena letto qui sopra. E nessun altro piano di pace immaginato in questi anni prevede nulla di simile. Perché? Rispondere è facile: perché convivenza e riconciliazione sono l’incubo di ogni nazionalismo che sogni di purificare con le armi e la violenza territori e comunità che sono invece il frutto di secoli di incontri, mescolanze e scambi culturali.

Le zone di frontiera sono così. Per questo inquietano e infastidiscono tanto i centri dove si concentra il potere politico e si propaga l’idea della purezza e dell’omogeneità linguistica e culturale. Le capitali temono costantemente che la gente che vive sulla frontiera finisca per essere solidale con cui abita al di là del confine e si mostri sleale nei confronti della nazione, fino a tradirla.

L’ampia regione a nord del Mar Nero, che va dal Donbass sino alla Moldavia è sempre stata una regione multilingue e multiculturale. Un tempo, la Bessarabia faceva da frontiera tra l’Impero ottomano, quello austro-ungarico e quello russo. Romeni, ucraini, russi, gagauzi, rom, ebrei, tatari vivono da secoli insieme in queste terre, gli uni accanto agli altri. Le persone parlano due, tre lingue nella loro vita quotidiana e ciascuno ha famiglie e parentele miste.

Questa è la realtà che gli etnonazionalisti trovano insopportabile, l’immonda mescolanza che la guerra vuole cancellare una volta per tutte. Per questo si radono al suolo città e villaggi, per questo si fa terra bruciata di campi e foreste, per questo si fanno saltare le dighe per sommergere le terre sotto le acque, come in un moderno Diluvio. Per questo non si esiterebbe neppure a innescare un incidente nucleare. Fare piazza pulita, eliminare ogni memoria della passata convivenza, ricominciare da zero, con una nuova purezza. Che sia Russia. Che sia Ucraina. E null’altro, dicono a Mosca e a Kiev. Ma la verità è che quelle che sono state in passato sia Russia che Ucraina, oggi non sono più né Russia, né Ucraina. Non sono più nulla. La gente che vi abitava è morta o se n’è andata. Non tornerà. Forse sarà sostituita, da qualcuno che verrà dai centri, dalle capitali, a rendere omogeneo, a giurare lealtà.

Eppure, potrebbe essere diversamente. Perché oltre all’imperativo dell’identità assoluta e della totale differenza si può immaginare una terza via: quella del diritto ad essere simili. Non perfettamente uguali, e neppure così diversi. Per convivere occorre innanzitutto sviluppare una politica della somiglianza: accettare che il mondo in cui viviamo non ci rispecchi perfettamente, affinché anche gli altri possano sentirsi un po’ a casa.

E allora, che quelle zone del Donbass che non sono state ancora rase al suolo, che quelle ultime città in cui non si attende altro che l’assedio finale, che quei campi e quei villaggi in cui si scavano trincee per resistere all’ultimo assalto, diventino invece “zona speciale di convivenza”.

La pace è molto di più della firma di un accordo tra Stati. Va preparata e costruita dal basso, va perseguita con costanza e pazienza, a lungo, per evitare che una tregua non sia altro che la premessa di nuovi conflitti. Per spezzare il ciclo della guerra occorre curare i traumi di chi ha subito violenza e sopraffazione, occorre chiedere e dare perdono, occorre riorientare il proprio pensiero al futuro, trovando nel bene delle future generazioni la ragione del proprio operare. Perché nessuno può davvero sognare che l’unico futuro per i propri figli sia vivere in un “porcospino d’acciaio”.

Ai pacifisti, agli attivisti nonviolenti trattati invariabilmente come ingenui utopisti, viene sempre chiesto con un certo sarcasmo di trovare soluzioni impossibili dopo che il danno è stato fatto, ossia dopo che il bellicismo dilagante ha innescato guerre e fatto divampare conflitti che nessuno sa più come fermare. Chissà cosa accadrebbe se per una volta le montagne di denaro che si spendono per le politiche di riarmo si investissero per finanziare pratiche di pace, riconciliazione e convivenza prima che sia troppo tardi?

*antropologo

L'articolo “Il Donbass sia una zona di convivenza”. Il punto che manca in ogni piano di pace proviene da Il Fatto Quotidiano.