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Trump: “Vicini come non mai alla fine della guerra tra Russia e Ucraina”
“Siamo più vicini che mai” alla fine della guerra in Ucraina. Lo ha detto il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, nello Studio Ovale alla Casa Bianca, dopo il nuovo round di trattative e dopo aver parlato con il suo omologo ucraino Volodymyr Zelensky e con una serie di leader europei. “Stiamo ricevendo un enorme sostegno dai leader europei. Vogliono che finisca”, ha detto Trump sottolineando che gli Usa hanno avuto numerose conversazioni con il presidente russo Vladimir Putin. “Dobbiamo mettere tutti sulla stessa pagina”, ha aggiunto il presidente americano ribadendo di voler mettere fine alle morti causate dalla guerra. L'articolo Trump: “Vicini come non mai alla fine della guerra tra Russia e Ucraina” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Iran, la Nobel per la Pace Narges Mohammadi due volte al pronto soccorso per le manganellate ricevute durante l’arresto
Arrestata e picchiata da poliziotti in borghese, con “violenti e ripetuti colpi di manganello alla testa e al collo”. Queste le pesanti accuse che la Fondazione Narges Mohammadi ha rivolto al regime iraniano dopo l’arresto della vincitrice del Premio Nobel per la Pace avvenuto la settimana scorsa. Nei giorni seguenti, la famiglia di Mohammadi non ha avuto sue notizie, fino a una breve e concisa telefonata in cui sono emerse le pessime condizioni fisiche dell’avvocata e attivista iraniana che è stata portata due volte al pronto soccorso per le violente percosse ricevute dagli agenti durante l’arresto a Mashhad. Parlando al telefono con i suoi familiari, Mohammadi ha raccontato di essere stata accusata di collaborare con il governo israeliano. Oltre a ciò, non sono ancora chiare le imputazioni rivolte a lei e alle altre persone arrestate, 39 in totale secondo Teheran. L’attivista ha poi chiesto alla sua famiglia di presentare una denuncia formale contro le modalità violente dell’arresto e la sua detenzione. Sul secondo punto, il New York Times ha riportato che a Mohammadi non è ancora stato comunicato quale autorità la stia trattenendo e in generale non le sono state fornite delle spiegazioni. Lo scorso sabato, il procuratore di Mashhad, Hasan Hematifar, ha dichiarato ai giornalisti che Mohammadi e Javad Alikordi avevano incoraggiato i manifestanti a inneggiare slogan che violano le norme del governo. Nei giorni scorsi, il Comitato per il Nobel ha dichiarato profonda preoccupazione per il brutale arresto subìto da Mohammadi. Nessun commento invece da parte delle autorità del regime iraniano. L'articolo Iran, la Nobel per la Pace Narges Mohammadi due volte al pronto soccorso per le manganellate ricevute durante l’arresto proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Crolla la Statua della libertà (brasiliana): la riproduzione alta 40 metri cade sotto la forza del vento
Il forte vento che ha colpito la città brasiliana di Guaiba ha fatto crollare una riproduzione della Statua della Libertà alta 40 metri. La statua si trovava vicino al parcheggio di un megastore e fortunatamente il crollo non ha colpito auto e non ha provocato feriti. Alcuni video pubblicati sui social mostrano il busto che si piega sotto la forza del vento L'articolo Crolla la Statua della libertà (brasiliana): la riproduzione alta 40 metri cade sotto la forza del vento proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Gaza, una nuova tempesta di vento devasta le tende degli sfollati. Protezione civile palestinese: “Recuperati 45 corpi dalle macerie”
Una nuova tempesta si è abbattuta sulla Striscia di Gaza e sulle tende degli sfollati. La pioggia e le forti raffiche di vento hanno devastato i campi profughi dove vivono circa 850mila persone che in due anni di bombardamenti hanno perso tutto. I rifugi sono vecchi e logori e faticano a resistere alla forza del vento. Servirebbero nuovi materiali e tende per affrontare l’inverno ma le restrizioni imposte da Israele bloccano una grossa parte degli aiuti umanitari al confine. Intanto la protezione civile ha fatto sapere di aver recuperato 45 corpi dalle macerie dei palazzi distrutti a Gaza City. L'articolo Gaza, una nuova tempesta di vento devasta le tende degli sfollati. Protezione civile palestinese: “Recuperati 45 corpi dalle macerie” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Attacchi cinetici Usa contro presunti narcos: colpite altre 3 barche nel Pacifico orientale, 8 morti
Atre otto persone sono morte nella guerra che gli Usa hanno dichiarato al narcotraffico. Il fatto è accaduto il 15 dicembre nell’Oceano Pacifico orientale, dove già a fine ottobre erano stati effettuati dei raid dal Pentagono. Stavolta l’operazione è stata condotta dalla Joint task force southern spear e diretta dal segretario del Dipartimento della guerra, Pete Hegseth. Degli attacchi cinetici hanno affondato tre imbarcazioni in acque internazionali, uccidendo otto presunti narcotrafficanti: tre sulla prima imbarcazione, due sulla seconda e altri tre sulla terza. “L’intelligence ha confermato che le imbarcazioni stavano transitando lungo note rotte del narcotraffico nel Pacifico orientale ed erano coinvolte in attività di narcotraffico”, scrive l’Us Southern Command sulla piattaforma social X. Giovedì Pete Hegseth, il segretario di Stato Marco Rubio e alti ufficiali dell’esercito sono attesi a Washington per un aggiornamento a porte chiuse ai membri del Congresso sulla campagna di questa amministrazione contro il traffico di stupefacenti dall’America Latina. Il presidente Donald Trump ha più volte giustificato e rivendicato politicamente queste operazioni militari contro i cartelli della droga, che da settembre hanno ucciso almeno 95 persone nei 25 attacchi noti al pubblico. Secondo alcuni avvocati ed esperti di diritto, gli attacchi ai presunti narcotrafficanti sono delle esecuzioni extragiudiziali illegali. A queste accuse, il portavoce del Pentagono Kingsley Wilson aveva risposto così: “Le nostre operazioni nella regione di Southcom (il Comando Sud dell’esercito statunitense, che ha come aree di competenza l’America centrale, il Sud America, i Caraibi e le acque adiacenti della regione, ndr) sono legali sia secondo il diritto statunitense che secondo quello internazionale e tutte le azioni sono conformi al diritto dei conflitti armati”. L'articolo Attacchi cinetici Usa contro presunti narcos: colpite altre 3 barche nel Pacifico orientale, 8 morti proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Strage di Sydney, i due killer erano stati nelle Filippine: “Avrebbero ricevuto addestramento militare da ribelli islamisti”
Erano stati nelle Filippine dal 1° al 28 novembre i due presunti responsabili della strage di Bondi Beach, a Sydney, costata la vita domenica a 15 persone durante la festa ebraica dell’Hanukkah. Lo hanno riferito alla Bbc fonti dell’Ufficio immigrazione di Manila, lo ha confermato anche la polizia dello Stato australiano del Nuovo Galles del Sud. Sul viaggio indagano le autorità australiane. Sajid Akram, 50 anni, si era messo in viaggio con un passaporto indiano, ha spiegato la portavoce dell’Ufficio immigrazione, Dana Sandoval. Il figlio, Naveed, 24 anni, aveva utilizzato un passaporto australiano, ha aggiunto, precisando che avevano dichiarato sarebbero stati a Davao, una grande città sull’isola meridionale di Mindanao, e che sarebbero rientrati in Australia con un volo per Sydney. Le ragioni del viaggio sono oggetto di accertamenti. Il 50enne è stato ucciso a colpi di arma da fuoco, mentre il 24enne è rimasto ferito ed è ricoverato in ospedale. Mindanao, la seconda isola più grande dell’arcipelago, ospita diversi gruppi ribelli islamisti ed è da tempo un focolaio di insurrezione contro il governo. Nel 2017, militanti affiliati all’Isis hanno preso il controllo della città di Marawi, innescando un sanguinoso assedio durato mesi. Alcuni media avevano inoltre scritto che i due avevano ricevuto nelle Filippine “un addestramento di tipo militare“, ma secondo la Bbc l’esercito di Manila non ha ancora confermato. Il National Bureau of Investigation (Nbi) delle Filippine lavora in coordinamento con altre agenzie del governo per ricostruire “le attività” svolte dai due sospettati. Palmer Mallari, portavoce dell’Nbi, ha confermato alla Bbc che padre e figlio sono stati a Davao e “teoricamente nelle aree limitrofe”. Sul tema il ministro degli Esteri australiano, Penny Wong, ha sentito la collega delle Filippine, Tess Lazaro. Sajid e Naveed Akram erano motivati dall'”ideologia dello Stato islamico“, ha affermato il primo ministro australiano Anthony Albanese. “La perversione radicale dell’Islam è assolutamente un problema”, ha detto il premier in una conferenza stampa Gli investigatori hanno affermato che la polizia ha trovato due bandiere artigianali dello Stato Islamico nell’auto con cui i due attentatori si sono recati sul luogo del massacro di domenica. La polizia ha anche recuperato ordigni esplosivi improvvisati all’interno dell’auto. L'articolo Strage di Sydney, i due killer erano stati nelle Filippine: “Avrebbero ricevuto addestramento militare da ribelli islamisti” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Dall’Australia alla Siria, l’Isis colpisce ancora. Trump: “Ci saranno gravi ritorsioni”
Le autorità australiane stanno rivelando altre notizie inquietanti sui due uomini, padre e figlio, responsabili della strage di Bondi Beach, a Sydney, in Australia, in cui sono rimasti uccisi 16 cittadini di religione ebraica mentre festeggiavano la ricorrenza di Hanukkah. Il 50enne, rimasto ucciso nell’attacco, Sajid Akram, era arrivato la prima volta in Australia nel 1998 con un visto studenti, mentre il figlio 24enne Naveed, ferito e ricoverato in ospedale, è cittadino australiano di nascita. Da quanto sta emergendo, i due erano simpatizzanti se non, addirittura affiliati all’Isis. Nel 2019 l’intelligence australiana aveva tenuto sotto controllo il più giovane per circa 6 mesi. Una circostanza confermata oggi dal premier Anthony Albanese che ha spiegato come “l’indagine venne chiusa perchè non vi erano indicazioni di una minaccia in corso o la minaccia di una sua azione violenta” pur precisando che le due persone con cui aveva questi contatti erano state in seguito arrestate. Secondo Abcnews, invece il ragazzo aveva allacciato veri e propri contatti con una cellula terroristica dello Stato Islamico con base a Sydney. Nell’auto dei due attentatori sono state trovate anche due bandiere dello Stato Islamico, hanno fatto sapere ai media fonti investigative convinte che padre e figlio avessero addirittura giurato la propria fedeltà all’Isis. Se i due Akram forse erano “solo” dei sostenitori di quella che fu l’organizzazione terroristica islamica fondata undici anni fa dal defunto Califfo Nero al-Baghdadi, che riuscì a conquistare un’enorme fetta di territorio tra l’Iraq e la Siria, all’Isis apparteneva l’attentatore che sabato ha teso un’imboscata fatale a due soldati americani e al loro interprete civile nel centro della Siria. L’inviato speciale degli Stati Uniti in Siria, Tom Barrack, ha dichiarato che l’agguato terroristico sottolinea la persistente minaccia dell’Isis per la Siria e per la stabilità del mondo intero, compresa la sicurezza del territorio nazionale degli Stati Uniti. La strategia statunitense si concentra sul sostegno ai partner siriani ma con un supporto operativo statunitense limitato visto che le truppe americane rimaste in Siria ormai ammontano solo a 900 unità. Barrack ha quindi sottolineato che i terroristi colpiscono perché sono sottoposti a continue pressioni da parte dei partner siriani, tra cui l’esercito siriano sotto il comando del presidente al-Sharaa (che fu a lungo un esponente della versione siriana di al Qaeda, rivale dell’Isis). A quanto pare però l’osmosi tra gli eserciti ricreatisi dopo i conflitti e i tagliagole dell’Isis prosegue: iniziata con la caduta di Saddam Hussein in Iraq prosegue oggi, anche se in misura inferiore, in Siria. Una fonte a conoscenza della sparatoria ha affermato che l’attentatore era stato affiliato alle forze di sicurezza siriane, ma che al momento non era in servizio. In un post su X, il Comando Centrale degli Stati Uniti ha descritto l’attentatore come un “un lupo solitario dell’Isis”, senza tuttavia menzionare il fatto che fosse probabilmente anche un soldato dell’esercito siriano del dopo caduta di Assad, avvenuta l’8 dicembre dello scorso anno con l’entrata Damasco di al Sharaa a capo della sua milizia jihadista. Sabato il presidente Trump si era rivolto ai social media per esprimere le proprie condoglianze per i soldati caduti e condannare l’attacco. “Il presidente della Siria, Ahmed al-Sharaa, è estremamente arrabbiato e turbato da questo attacco. Ci saranno ritorsioni molto gravi. Grazie per l’attenzione!”, ha scritto nel post. L'articolo Dall’Australia alla Siria, l’Isis colpisce ancora. Trump: “Ci saranno gravi ritorsioni” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Il business delle terre rare venezuelane che dalla Cina finiscono in Ue: tra miniere illegali, omicidi e distruzione delle riserve naturali
Dietro l’assedio statunitense sul Venezuela non c’è solo il petrolio – di cui il Paese vanta le più grandi riserve a livello mondiale -, ma anche minerali critici, tra cui coltan ed elementi di terre rare, spesso legati alla transizione ecologica. Tali risorse naturali sono state tirate in ballo nelle recenti trattative tra Caracas e Washington laddove Nicolás Maduro avrebbe “offerto di tutto” – parole di Trump – pur di restare al potere mentre a inizio novembre, all’American Business Forum, María Corina Machado ha parlato del suo Paese come hub energetico delle Americhe e prossima “frontiera dell’innovazione”. Ma la realtà va già oltre la fantasia e c’è già un flusso costante di terre rare che partono dal Venezuela, passano dalla Colombia, attraverso la guerriglia dell’Eln, Ejército de liberación nacional, e raggiungono la Cina, il grande monopolista di minerali critici, che li trasforma ed esporta in Europa. Dal gigante asiatico proviene il 98% delle terre rare che raggiungono l’Unione europa e che poi ci troviamo negli scaffali, sotto forma di smartphone e auricolari, nelle vetture elettriche e in altri beni di consumo. Il Paese sudamericano concentra un’importante riserva di minerali critici, prevalentemente nell’Arco Minero, un’area da quasi 112mila chilometri quadri – che equivale al 12,2% del territorio venezuelano – situata nello Stato Amazonas (e quindi nell’Amazzonia venezuelana) dal valore stimato di 2mila miliardi di dollari. Diverse inchieste realizzate da Armando.info, Amazon Underworld e Insight Crime svelano che le risorse dell’Arco Minero non sono sotto il dominio del governo centrale, bensì di gruppi privati e di guerriglie come l’Eln, presente nella metà delle regioni del Paese, con la connivenza di settori deviati della Gnb, la Guardia nazionale bolivariana, già nel mirino delle Nazioni Unite per trame di corruzione e violazione sistematica dei diritti umani. “Ci si doveva limitare a procedure artigianali, rispettose dell’ambiente. Qui invece impiegano macchine pesanti, distruggendo anche le riserve naturali, 3.200 ettari soltanto nella riserva naturale Yacapana“, denuncia l’ong Sos Orinoco. Ma non c’è solo l’impatto ambientale: l’attività estrattiva fa leva sulla povertà della popolazione locale, colpita dalla crisi economica che lacera tutto il Paese. “Qui guadagno in un giorno solo ciò che prenderei altrove nell’arco di un mese”, dice Juan González a Ilfattoquotidiano.it parlando di guadagni di circa “dieci dollari per ogni chilo di coltan”. Il territorio, fuori dalla miniera, è presidiato dalla Guardia nazionale, che lucra dall’attività estrattiva, mentre all’interno delle miniere comanda l’Eln. “Qui ogni trasgressione si paga con la vita”, sostiene una fonte consultata da Armando.info mentre racconta di aver assistito a un’esecuzione da parte della guerriglia: “Lo hanno messo in ginocchio e gli hanno piantato due pallottole in testa. A sparare era una donna”. Anche Human Rights Watch ha denunciato la condizione inumana dei minatori parlando di “trattamenti brutali“, “smembramenti” e “uccisioni” di minatori dinanzi ad altri lavoratori per garantire l’ordine interno. Gli stessi popoli originari hanno spesso alzato la voce contro l’attività mineraria illegale che, secondo l’ong Provea ha recato “problemi di salute” non indifferenti, tra cui “intossicazioni e malattie croniche che colpiscono soprattutto bambini e anziani”. Compromesse anche le attività agricole che garantiscono la sussistenza alle comunità aborigene, come gli Yanomami, spesso ignorate dal potere centrale. I minerali estratti vengono distribuiti in sacchi di 40 chilogrammi circa, navigano – di notte, su canoe artigianali o go fast – attraverso il fiume Orinoco. Prima tappa: Colombia. I controlli vengono superati con documentazione e titoli falsi e, anche se l’esercito colombiano ha provveduto a sequestri record di circa 60 tonnellate, la merce viene poi restituita. Documenti falsi, di produzione colombiana, servono ad aggirare le lacune giuridiche e la fragile normativa in vigore. Riuscita la pratica di ripulitura, i minerali vanno in Cina, che conta sulla presenza di importanti stabilimenti e raffinerie. Pechino sorveglia i flussi dalla loro partenza, attraverso imprese presenti nell’Arco Minero. “Non c’è solo la rotta colombiana, ma i minerali escono anche attraverso il Brasile e la Guyana, tramite vie illegali, in assenza di controlli statali”, afferma a Ilfattoquotidiano.it il giornalista Carlos Uzcátegui, già residente nello Stato Bolívar. “Vengono usate anche piste clandestine e stabilimenti militari dismessi mentre molte terre sono diventate inabitabili, come Santa Elena de Uairén e il Kilómetro 88“. Caracas tace sul fenomeno, Bogotà si arrende a una più grande “trama internazionale” – targata Pechino, lontana da Trump – e i gruppi armati si espandono e pongono lo sguardo anche su altre località come la Sierra de Perijá, nello stato Zulia, anch’essa sotto l’Eln, dove si ipotizza la presenza di elementi di terre rare e altri minerali. È una questione di domanda e offerta. L'articolo Il business delle terre rare venezuelane che dalla Cina finiscono in Ue: tra miniere illegali, omicidi e distruzione delle riserve naturali proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Spagna, i Socialisti travolti da uno scandalo di abusi sessuali. E gli alleati di Sumar chiedono il rimpasto di governo
Il Partito Socialista Operaio Spagnolo (PSOE) attraversa una delle fasi più complesse e contraddittorie della sua recente traiettoria di governo. A una crisi politica latente, legata alla fragilità della maggioranza parlamentare e ai rapporti sempre più tesi con gli alleati indipendentisti, si è sommata nelle ultime settimane una crisi morale e di credibilità provocata dall’emersione di diversi casi di presunte molestie e abusi sessuali che coinvolgono dirigenti ed esponenti del partito. Una vicenda che colpisce al cuore l’identità pubblica del PSOE, forza che da anni rivendica un ruolo di avanguardia nella lotta contro la violenza maschilista e che adesso mette a rischio, di nuovo, la tenuta dell’esecutivo, con gli alleati di Sumar che chiedono un rimpasto di governo. I casi emersi hanno avuto un forte impatto mediatico e politico perché riguardano figure inserite, a vario titolo, nei gangli del potere socialista. Il primo a esplodere a livello nazionale è stato quello di Francisco Paco Salazar, ex consigliere politico di lunga esperienza e considerato vicino agli ambienti della presidenza del governo. Diverse donne, militanti o lavoratrici in ambiti collegati al partito, lo hanno accusato di comportamenti sessisti, commenti sul corpo, messaggi inappropriati e pressioni per incontri fuori dall’orario di lavoro. Secondo quanto ricostruito dalla stampa, almeno due denunce formali sono state presentate attraverso i canali interni del PSOE, senza però ricevere risposta per mesi. Una gestione che ha alimentato l’accusa più grave rivolta al partito: non tanto l’esistenza di singoli comportamenti abusivi, quanto la tendenza a minimizzare e ritardare l’intervento per proteggere l’organizzazione. Salazar ha sempre respinto le accuse, ma ha infine lasciato i suoi incarichi in un clima segnato dalla percezione di una reazione tardiva e difensiva. Un secondo caso riguarda Antonio Navarro, segretario generale del PSOE a Torremolinos, accusato da una donna del partito di molestie attraverso messaggi WhatsApp e commenti ritenuti umilianti. Dopo la pubblicazione delle accuse, la direzione socialista lo ha sospeso dal ruolo, in attesa degli sviluppi giudiziari. In Galizia, è stato invece José Tomé, presidente della Deputazione di Lugo e figura influente del socialismo locale, a dimettersi dopo segnalazioni interne di comportamenti inappropriati. Tomé ha parlato di un attacco politico e di un tentativo di “incastrarlo”, ma la pressione interna e l’attenzione mediatica hanno reso inevitabile il passo indietro. Il caso più recente è quello di Javier Izquierdo, senatore ed esponente della Commissione Esecutiva Federale del PSOE, che ha rassegnato le dimissioni dopo una nuova denuncia per molestie sessuali. In un messaggio pubblico ha parlato di “motivi personali”, ma il contesto ha reso evidente il legame tra il suo ritiro e la vicenda. La risposta del PSOE ha suscitato critiche trasversali. Da più parti si accusa il partito di aver agito con lentezza, scarsa trasparenza e insufficiente attenzione alle vittime. “Non basta dichiarare tolleranza zero, servono azioni immediate e verificabili”, ha ammesso la dirigente socialista Rebeca Torró dando voce a un malessere diffuso anche all’interno del partito. Le associazioni femministe socialiste, come Femes, hanno parlato di un sistema di tutela che, nei fatti, continua a scoraggiare la denuncia. Critiche durissime proprio contro chi, negli ultimi anni, ha promosso alcune delle politiche più avanzate in Europa contro la violenza maschilista. Tra queste figurano la legge sul consenso sessuale (“solo sì è sì”), il rafforzamento delle misure di protezione per le vittime di violenza di genere, l’estensione dei diritti economici e sociali alle donne che denunciano abusi, l’aumento dei fondi per i centri contro la violenza sulle donne e una strategia statale che riconosce la violenza maschilista come un problema strutturale, non privato. Sánchez ha più volte ribadito che “la durezza contro lo stalking e l’abuso ha delle sigle, e sono quelle del PSOE”, rivendicando la coerenza dell’azione legislativa socialista. Eppure, proprio questa distanza tra l’impianto normativo e la gestione concreta dei casi interni rischia di minare la credibilità dell’intero progetto politico. La crisi ha avuto effetti immediati anche sulla stabilità dell’esecutivo. Il partner di coalizione Sumar ha preso pubblicamente le distanze dalla gestione socialista della vicenda. La vicepremier Yolanda Díaz ha parlato di una situazione “insostenibile”, chiedendo un rimpasto di governo come segnale politico di discontinuità. Una richiesta che ha aperto una frattura evidente nella maggioranza. Pedro Sánchez ha respinto l’ipotesi di un rimpasto profondo e ha escluso elezioni anticipate, ribadendo la volontà di proseguire l’azione di governo “nonostante circostanze complesse”. Ma la crisi arriva in un momento particolarmente delicato: il PSOE governa grazie a una maggioranza parlamentare fragile, fondata sull’appoggio esterno di partiti indipendentisti catalani e baschi, con i quali i rapporti si sono recentemente deteriorati su dossier chiave. La rottura di alcuni canali di dialogo con gli indipendentisti riduce i margini di manovra del governo e rende Sánchez ancora più restio a concedere spazio agli alleati di sinistra all’interno dell’esecutivo. La strategia socialista, coerente con una tradizione consolidata, resta quella di mantenere una gestione fortemente centralizzata del governo, cercando appoggi esterni caso per caso piuttosto che ridefinire gli equilibri interni. In questo quadro, la crisi degli scandali sessuali non è solo una questione etica o reputazionale: è un fattore che si intreccia con la fragilità parlamentare, le tensioni nella coalizione e il difficile rapporto con gli indipendentisti. Un nodo politico che il PSOE non potrà sciogliere solo con dichiarazioni di principio, ma che richiederà scelte strutturali, sia sul piano interno sia su quello della tenuta dell’esecutivo. L'articolo Spagna, i Socialisti travolti da uno scandalo di abusi sessuali. E gli alleati di Sumar chiedono il rimpasto di governo proviene da Il Fatto Quotidiano.
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