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Libero l’imam di Torino: alla destra che contesta, ricordo che la legge non serve a reprimere il dissenso
di Luca Grandicelli La Corte di appello di Torino ha disposto la cessazione immediata del trattenimento di Mohamed Shahin, l’imam di Torino incarcerato il 12 novembre 2024 nel Cpr di Caltanissetta. La magistratura ha infatti accolto le istanze dell’avvocato della difesa, richiamandosi direttamente alla direttiva europea che stabilisce come il trattenimento dei richiedenti protezione internazionale debba rappresentare un’eccezione e non una regola, ed escludendo inoltre la sussistenza di una concreta e attuale pericolosità. Di fatto, ristabilendo un principio elementare dello Stato di diritto, ovvero che la privazione della libertà personale non può fondarsi su presupposti politici, né su valutazioni generiche o preventive. L’incarcerazione si è basata infatti sulle motivazioni descritte nel decreto d’espulsione, che vedevano Shahin come portatore di un’ideologia fondamentalista e antisemita e come figura di rilievo in ambienti dell’Islam radicale, con presunti legami con soggetti indagati per terrorismo, accuse da lui sempre respinte. La Corte d’appello di Torino ha ridimensionato tali elementi, chiarendo che i contatti richiamati erano sporadici e risalenti nel tempo, limitati a un’identificazione del 2012 e a una conversazione del 2018 tra terzi, e che erano stati adeguatamente chiariti dallo stesso Shahin nel corso della convalida. Di tutto questo sono state consapevoli migliaia di persone che nelle ultime settimane si sono riversate nelle piazze, di Torino e non solo, per protestare contro quello che è parso un palese esercizio strumentale del diritto per fini puramente politici. Mohamed Shahin, padre di due figli, incensurato, vive da oltre vent’anni in Italia ed è considerato un punto di riferimento per la comunità musulmana e per il dialogo interreligioso nella città e provincia di Torino. Per lui si sono mobilitate non solo persone comuni, i fedeli delle comunità musulmane italiane, ma anche voci autorevoli (e insospettabili) come il vescovo Derio Olivero, Presidente della Commissione della Cei per l’Ecumenismo e il Dialogo, che in un video diffuso sui social ha espresso solidarietà e chiesto la sua liberazione immediata. E poi associazioni per i diritti umani, intellettuali e sindacati. L’episodio conferma dunque, e per ora, come l’Italia sia ancora un paese in cui i magistrati esercitano il proprio ruolo nella più totale libertà e autonomia, nonostante i tentativi e piani dell’esecutivo di delegittimarli, controllarli e indirizzare l’esercizio delle loro funzioni su linee politiche di governo. Vale la pena dunque ricordare alla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che si chiede come “si fa a difendere la sicurezza degli italiani se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici”, che la magistratura serve proprio a questo scopo: a evitare che il potere esecutivo eserciti unilateralmente azioni arbitrarie, a garantire che la sicurezza non diventi un alibi per comprimere diritti fondamentali e a ricordare che, in uno Stato di diritto, la legge non è uno strumento di repressione del dissenso politico; che la separazione dei poteri, quello esecutivo da quello giudiziario, non è un intralcio all’azione di governo, ma la condizione stessa della democrazia. Il caso Shahin non è quindi una sconfitta dello Stato, ma una sua riaffermazione, che trova la sua forza non quando reprime, ma quando accetta di essere limitato dal diritto. Un concetto, quest’ultimo, che su certi versanti a destra non è evidentemente di casa o si estende solo “fino a un certo punto”. IL BLOG SOSTENITORE OSPITA I POST SCRITTI DAI LETTORI CHE HANNO DECISO DI CONTRIBUIRE ALLA CRESCITA DE ILFATTOQUOTIDIANO.IT, SOTTOSCRIVENDO L’OFFERTA SOSTENITORE E DIVENTANDO COSÌ PARTE ATTIVA DELLA NOSTRA COMMUNITY. TRA I POST INVIATI, PETER GOMEZ E LA REDAZIONE SELEZIONERANNO E PUBBLICHERANNO QUELLI PIÙ INTERESSANTI. QUESTO BLOG NASCE DA UN’IDEA DEI LETTORI, CONTINUATE A RENDERLO IL VOSTRO SPAZIO. DIVENTARE SOSTENITORE SIGNIFICA ANCHE METTERCI LA FACCIA, LA FIRMA O L’IMPEGNO: ADERISCI ALLE NOSTRE CAMPAGNE, PENSATE PERCHÉ TU ABBIA UN RUOLO ATTIVO! SE VUOI PARTECIPARE, AL PREZZO DI “UN CAPPUCCINO ALLA SETTIMANA” POTRAI ANCHE SEGUIRE IN DIRETTA STREAMING LA RIUNIONE DI REDAZIONE DEL GIOVEDÌ – MANDANDOCI IN TEMPO REALE SUGGERIMENTI, NOTIZIE E IDEE – E ACCEDERE AL FORUM RISERVATO DOVE DISCUTERE E INTERAGIRE CON LA REDAZIONE. SCOPRI TUTTI I VANTAGGI! L'articolo Libero l’imam di Torino: alla destra che contesta, ricordo che la legge non serve a reprimere il dissenso proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“Cortina è l’unica ad aver avuto due volte le Olimpiadi”. Zaia gonfia il petto per un primato inesistente
Nessuno potrà mai capire quale meccanismo induca i politici a dire le bugie, a stravolgere l’oggettività a proprio uso e consumo, a fornire dati errati per il semplice piacere di apparire, affermare una differenza, rivendicare un merito. Sperando di uscirne senza smentite. In questa sagra degli strafalcioni, più o meno voluti, c’è un terreno – quello della storia delle Olimpiadi – che dovrebbe essere risparmiato. Basterebbe studiare o soltanto leggere qualche scheda messa a disposizione da Fondazione Milano Cortina 2026. Il Comitato organizzatore ha investito, infatti, cifre importanti nell’allestimento del sistema informatico, al punto da sfidare le procedure di appalto, come hanno testimoniato le inchieste aperte nel 2024 dalla Procura della Repubblica di Milano, nell’ipotesi di turbativa d’asta. A parte l’esito di quel filone investigativo, con la parola che è passata alla Corte Costituzionale, non si può negare che la mole di notizie sulle caratteristiche presenti, passate e future dei Giochi fornite agli appassionati sia molto consistente e affidabile. Un capitolo speciale è dedicato, per esempio, a tutte le edizioni, estive e invernali, che si sono succedute nell’era moderna, a partire da Atene 1896 e da Chamonix-Mont Blanc 1924, con un corollario di informazioni, a cominciare dalla successione cronologica delle edizioni. Per questo motivo non possono che stupire le parole pronunciate dall’ormai ex governatore del Veneto Luca Zaia sul piazzale del Quirinale, poco dopo l’accensione della fiamma da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Rivendicando per l’ennesima volta l’intuizione della candidatura italiana distribuita sul territorio (Regioni Lombardia e Veneto, Province autonome del Trentino – Alto Adige) ha detto, gonfiando il petto: “Nasce tutto da una mia idea candidare Cortina, Trento e Bolzano. Dicevano che sarebbe stato impossibile, perché Cortina aveva già avuto le Olimpiadi nel 1956. Oggi posso dire che Cortina è l’unica realtà al mondo che ha avuto per due volte le Olimpiadi e quindi è un bel risultato. Tre miliardi e mezzo di cittadini del mondo vedranno le nostre Olimpiadi. L’ultima indagine ci dice che vale 5,3 miliardi di Pil. Direi che ci sono tutti i presupposti per un nuovo Rinascimento”. Trascurando l’eterna giaculatoria dei miliardi di telespettatori che guarderanno le nostre montagne e dei soldi che nevicheranno sui borghi alpini, colpisce l’enfasi con cui viene celebrata la doppia Olimpiade che a distanza di settant’anni sarebbe celebrata nello stesso luogo, unico luogo, Cortina d’Ampezzo. Un record storico. Una medaglia d’oro che l’ex governatore leghista del Veneto si è appuntato da solo al petto, ancor prima di essere premiato da 200 mila preferenze nelle regionali di fine novembre. Peccato si tratti di una balla. È vero che Cortina è sede di due edizioni, nel 1956 (821 atleti, 32 paesi) e nel 2026 (più di tremila atleti e 93 paesi). Ma non è la sola. Ce ne sono altre quattro ad aver avuto lo stesso privilegio. La svizzera Sankt Moritz è stata sede dei secondi giochi invernali nel 1928 (464 atleti, 25 nazioni partecipanti) e della quinta edizione nel 1948 (669 atleti, 28 nazioni), la prima dopo l’interruzione dovuta alla Seconda guerra mondiale. Ma c’è anche la statunitense Lake Placid, sui Monti Adirondack, contea di Essex, nello Stato di New York: venne scelta nel 1932 (terza edizione, 232 atleti, 17 nazioni) e fece il bis nel 1980 (13. edizione, 1.072 gareggianti e 37 nazioni). Non manca nemmeno l’Austria, con Innsbruck, la cui pista da bob ha costituito un’alternativa nel caso Cortina non riuscisse a costruire il proprio impianto: fu sede nel 1964 (nona edizione, 1.091 atleti, 36 paesi) e nel 1976 (12. edizione, 1.123 atleti, 37 paesi). C’è infine un quinto caso, la statunitense Salt Lake City, stato dell’Utah, ospitante nel 2002 (19. edizione, 2.399 atleti, 77 paesi) che è già stata designata per la 26. edizione, nel 2034. Cortina è già bella di suo, o meglio lo era prima degli stravolgimenti infrastrutturali provocati dall’infernale macchina organizzativa delle Olimpiadi. Che bisogno c’era di attribuirle un merito che non ha? Nessuno, anche perché la citazione errata è immediatamente confutabile e va ascritta a quella babele di parole che gli amministratori, gonfiando il proprio ego e il consenso personale, distribuiscono ai cittadini più creduloni o a quelli così disincantati da non prestarvi nemmeno attenzione. L'articolo “Cortina è l’unica ad aver avuto due volte le Olimpiadi”. Zaia gonfia il petto per un primato inesistente proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Auto inquinanti dopo il 2035? Se l’Europa torna indietro sull’elettrico, se ne avvantaggerà la Cina
di Andrea Boraschi* Martedì l’Ue deciderà il futuro del settore auto europeo. La revisione della normativa sulle emissioni di CO₂ delle auto, dunque la decisione di confermare o meno l’obiettivo di vendere solo veicoli a zero emissioni dal 2035, ci dirà se l’Europa è davvero intenzionata a competere con Cina e Stati Uniti o se, di fatto, accetterà una prospettiva in cui il futuro dell’auto non è europeo. L’industria automobilistica del continente e i suoi alleati politici, nonché le lobby dell’oil&gas, hanno impegnato tutte le loro forze in questa battaglia. Ciò che realmente vogliono – oltre il paravento fumoso della “neutralità tecnologica” – è la possibilità di continuare a vendere auto endotermiche anche dopo il 2035. E di lasciare maggiore spazio, da qui ad allora, a tecnologie e carburanti assai lontani – per capacità di riduzione delle emissioni, per efficienza, maturità tecnologica e sostenibilità – dalle prestazioni dell’auto elettrica (BEV). Che sarà invece – per stessa ammissione dei carmaker – la tecnologia dominante nei prossimi anni. L’industria è molto abile, quando si tratta di addossare la responsabilità della sua crisi sui regolatori e sulle politiche climatiche. La realtà, però, è che la crisi dell’auto non ha nulla a che fare col 2035. Le vendite di auto in Europa sono calate di tre milioni, rispetto al 2019, perché le case automobilistiche hanno privilegiato margini di profitto più alti a scapito dei volumi. Tra il 2018 e il 2024 il prezzo medio di un’auto di massa è salito del 40%, passando da 22.000 a 30.700 euro. E sono stati anni in cui molti produttori hanno registrato profitti record. Queste decisioni stanno ora producendo effetti concreti. La maggior parte degli europei non può più permettersi un’auto nuova, mentre in Cina i marchi europei stanno cedendo mercato sotto la pressione della concorrenza locale sui veicoli elettrici. Come se ne esce? La “soluzione magica” dei carmaker sarebbe di aprire le porte ai biocarburanti e agli ibridi plug-in (PHEV) dopo il 2035. Un rimedio effimero, volto a massimizzare nel breve termine la componente endotermica; e un grave errore strategico nel medio-lungo termine, che rischia di condurre l’industria europea in un vicolo cieco. Ecco perché. La prospettiva industriale – Una prospettiva di decarbonizzazione chiara, dunque obiettivi trasparenti e stabili, rappresenta la bussola degli investimenti e della fiducia nel mercato. Indebolire il target del 2035 significherebbe mettere a rischio centinaia di miliardi già impegnati nella filiera dell’elettrico: batterie, reti di ricarica, elettronica di potenza e componenti. Non a caso, oltre 200 CEO e leader del settore hanno scritto alla Commissione europea esortandola a non toccare questi obiettivi. La sostenibilità economica – Dietro lo slogan della “neutralità tecnologica” si nascondono soluzioni costose per i consumatori. Le auto elettriche sono già le più economiche, nell’intero ciclo di possesso e utilizzo, e presto saranno anche le più convenienti da acquistare. Al contrario, gli ibridi plug-in costano in media 15.000 euro in più delle elettriche; se ai costi di acquisto si sommano quelli di utilizzo, le PHEV possono arrivare a costare fino al 18% in più per veicoli nuovi, percentuali che salgono ulteriormente (fino al 29%) per l’usato. Gli e-fuel – altra soluzione propugnata dall’industria – arriverebbero a costare fino a 6-8 euro al litro. E anche i biocarburanti avanzati, tanto cari all’Italia, sarebbero un’alternativa costosa a causa della loro scarsa disponibilità. L’avanzata dell’elettrico – La corsa globale verso l’elettrico, per contro, è in atto e non da segni di inversione. Le vendite di veicoli elettrici crescono non solo in Cina, ma anche in mercati emergenti come Thailandia e Vietnam. E anche in Europa la transizione sta accelerando. Lo scorso novembre, i veicoli elettrici hanno raggiunto un nuovo massimo storico, con 160.000 unità vendute in sette mercati del continente europeo. Dall’inizio dell’anno si registra una solida crescita del 30%: oggi in Francia le BEV valgono il 26% del mercato, in Portogallo il 32%; nel Regno Unito sfiorano il 26,5% e in Germania sono al 22%, massimo storico dopo la fine degli incentivi nel 2023. In Italia, lo scorso novembre le elettriche hanno rappresentato il 12% del mercato. Un risultato frutto degli incentivi, certo; ma anche la dimostrazione ultima che i consumatori non disprezzano affatto l’auto elettrica, hanno semmai bisogno di politiche di sostegno alla transizione. Il declino inesorabile dei motori tradizionali – Sul fronte opposto, i motori tradizionali sono in costante declino. Le vendite di auto a combustione interna (ICE) non si sono mai riprese dal picco del 2019; da allora a oggi, ICE e ibride (non plug in), sommate, hanno perso il 10% del mercato (mentre le elettriche ne hanno conquistato il 15%). La domanda complessiva di auto è diminuita – tra le altre cose – a causa di stagnazione economica, inflazione e tassi d’interesse elevati. Ma quando i clienti torneranno, troveranno un mercato dominato dalle elettriche, non dai motori tradizionali. Chi scommette ancora sul ritorno dei veicoli a combustione — biofuel costosi, e-fuel o veicoli ibridi, che fanno ancora in gran parte leva sulla tecnologia endotermica — semplicemente si illude. L’Europa è a un bivio – Solo mantenendo fermi gli obiettivi attuali il settore auto europeo ha una reale possibilità di competere nel mercato globale dei veicoli elettrici. Indebolirli significherebbe aggrapparsi a rendite di posizione sempre più esili, e rimanere ancora più indietro in termini di innovazione. In altre parole: rallentare la transizione non aiuta. Peggiora la nostra posizione competitiva. L’industria automobilistica europea si è resa conto tardi di essere indietro rispetto alla Cina. Ma ogni esitazione, oggi, è un vantaggio ulteriore per Pechino, che non rallenterà la corsa verso l’elettrico solo perché noi prolunghiamo la vita dei motori endotermici. Mentre i consumatori europei, nel frattempo, smetteranno di acquistare una tecnologia di qualità inferiore e già oggi, in molti Paesi, più costosa. Se l’Ue fa marcia indietro ora, rischia di perdere il più grande cambiamento industriale di questa generazione, abbandonando l’ambizione di padroneggiare una delle tecnologie più importanti del XXI secolo e i vantaggi industriali, economici e sociali che ne derivano. Ora è il momento di mantenere la rotta e, per i decisori, di mostrare leadership e visione. Puntare su e-fuel e biofuel, su ibridi e su veicoli a combustione “efficienti” è la direzione certa per trasformare l’Europa in un museo dell’auto. *direttore T&E Italia L'articolo Auto inquinanti dopo il 2035? Se l’Europa torna indietro sull’elettrico, se ne avvantaggerà la Cina proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Si conclude un annus horribilis: un incontro a Bologna tenta di fare il punto sulla crisi internazionale
Sta per concludersi un 2025 vero annus horribilis. Il primo anno della seconda presidenza Trump, il quarto della guerra in Ucraina, il terzo del genocidio palestinese a Gaza, perpetrato dagli israeliani di Netanyahu dopo la strage del 7 ottobre ad opera di Hamas. Vecchie guerre proseguono e nuove “fioriscono” in Sudan, in Congo, in Myanmar, tra India e Pakistan, e da poco in Venezuela (mascherata da caccia ai narcotrafficanti) e perfino tra Thailandia e Cambogia (di cui non è nemmeno chiara l’origine). Altre annunciate sono in procinto di scoppiare, perfino nel bel suolo d’Europa a sentire i proclami delle varie triadi nostrane, i volenterosi, i baltici, e soprattutto gli alemanni, delle cui ultime gesta, insieme alle nostre camicie nere, portiamo gli indelebili segni della memoria. Non si fa altro che parlare (e fabbricare) di armamenti, leve obbligatorie, lezioni di strategia militare nelle scuole, gite nelle caserme e giochi nei carrarmati, mentre l’opinione pubblica è sempre più disorientata dalla voce greve e biforcuta della bionda premier che giura “mai un soldato italiano andrà in guerra” dimenticando però di motivare la cosa con il nostro fondamentale art. 11 della Costituzione che esplicitamente la ripudia. Il mondo sembra correre cieco sull’orlo dell’abisso e nel frattempo per spendere in armi si tagliano welfare, servizi pubblici, si negano aumenti, tranne agli evasori fiscali a cui si condona di tutto. Perché sta andando così male? Chi lo poteva pensare anche solo cinque anni fa che la situazione internazionale sarebbe così radicalmente e pericolosamente precipitata? Solo papa Francesco – inascoltato – ammoniva che si stava prefigurando una “terza guerra mondiale a pezzi”, pezzi che ora si stanno tragicamente ricomponendo. Il presidente Usa si fa protagonista di piani di pace per Gaza e per l’Ucraina, ma questi piani stentano a produrre risultati e comunque l’assetto che in quelle martoriate aree di guerra sembra prefigurarsi certamente non appare all’insegna del riconoscimento di pari diritti tra aggressori e aggrediti, tra potenza coloniali e popolo colonizzato ed espropriato di tutto. E non è un caso che ritorni il terrorismo in diverse latitudini, a riprova che se le tensioni non si risolvono, la stabilità e la pace restano chimere. In questo quadro a tinte molto fosche, anche gli assetti politici alle latitudini occidentali sono attraversati da una fase di forte instabilità e di vera e propria regressione democratica. Populismi, sovranismi, nuove forme di autoritarismo, squilibri nei rapporti tra poteri istituzionali degli Stati democratici, pulsioni reazionarie, intolleranza razziale e sessuale, attacco ai diritti civili e sociali, perfino alla magistratura, smantellamento di fondamentali conquiste del welfare del secolo scorso, stanno segnando un tempo in cui le lancette dell’orologio politico cominciano a girare drammaticamente all’indietro. Da dove sorge tutto ciò? Oggi il centro motore dell’ideologia della nuova destra al potere è a Washington, accomodato nello studio ovale, mentre si sparge in tutt’Europa e altrove, ma Trump è solo l’ultimo prodotto scaturito da una lunga gestazione che assume le sue origini in un progetto politico che affonda le radici nel tempo, perché il conservatorismo Usa ha assunto in un lungo periodo, trasformazioni di dimensioni inusitate. Se arriva a far scrivere in un documento ufficiale di strategia nazionale di sicurezza nientemeno che gli Usa puntano su quattro paesi europei, Austria, Italia, Polonia e Ungheria, per scardinare il già faticoso processo di unificazione europeo, cos’altro occorre attendersi? C’è un testo che contribuisce con un’analisi documentata, raffinata, completa del fenomeno che ha condotto all’affermazione dell’ideologia reazionaria negli Usa e che è riuscito a diventare riferimento per tanti altri paesi che sembravano immuni da simili tendenze. Il libro s’intitola Dominio, la guerra invisibile dei potenti contro i sudditi (Feltrinelli), scritto alcuni anni fa da Marco D’Eramo, laureato in fisica, giornalista e scrittore, americanista, già penna di punta del quotidiano il manifesto e di molte altre testate. D’Eramo si confronterà su queste tematiche della crisi internazionale con Nadia Urbinati, politologa della Columbia University e testa pensante della sinistra tra le due sponde dell’oceano, nell’incontro intitolato “Libertà di non essere liberi?”. L’appuntamento, promosso dal Manifesto in rete insieme alla Fondazione Ivano Barberini, si terrà mercoledì 17 dicembre alle ore 17.30 a Bologna in via Mentana 2, ma potrà essere seguito anche in streaming a questo link. L'articolo Si conclude un annus horribilis: un incontro a Bologna tenta di fare il punto sulla crisi internazionale proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Far entrare l’Ucraina nell’Ue segnerà l’inizio della nostra guerra con la Russia
di Francesco Valendino C’è qualcosa di davvero commovente nell’ottimismo dei nostri eurocrati. Mentre l’economia tedesca affonda, la Francia è politicamente paralizzata e i governi europei cadono come birilli, a Bruxelles hanno trovato la soluzione a tutto: imbarcare l’Ucraina nell’Unione Europea entro il 1° gennaio 2027. Non un giorno di più. La notizia, spifferata dal Financial Times, svela l’ultima genialata partorita sull’asse Kiev-Bruxelles per ingraziarsi il nuovo padrone, Donald Trump. Il piano è semplice e, come tutte le cose semplici pensate dai complessi burocrati europei, demenziale: offriamo a The Donald una via d’uscita. Lui non deve spendere più un dollaro per Zelensky, e in cambio noi ci accolliamo la ricostruzione, i debiti e la difesa di un Paese in guerra, facendolo entrare nell’Ue a tempo di record. Siamo di fronte al capolavoro dell’ipocrisia. Per decenni, la solenne Commissione Europea ci ha fatto una testa così con il “merito”. La Turchia aspetta dal secolo scorso, i Balcani occidentali sono in sala d’attesa da vent’anni, costretti a misurare la curvatura delle banane e a riformare i codici civili fino all’ultima virgola per aprire mezzo capitolo negoziale. Per l’Ucraina, invece, vale il telepass. Dei 36 capitoli negoziali necessari – che richiedono riforme strutturali ciclopiche in un Paese che, prima dell’invasione russa, Transparency International classificava come il più corrotto d’Europa dopo la Russia – Kiev non ne ha chiuso nemmeno uno. Ma che importa? Quando la geopolitica chiama, lo Stato di diritto risponde: “Obbedisco”. La parte più esilarante, però, è il metodo. Per far passare questa follia serve l’unanimità, e c’è quel guastafeste di Viktor Orban che continua a dire niet. E qui i nostri atlantisti “de sinistra”, quelli che dipingono Trump come il nuovo Hitler, a chi si affidano? A Trump stesso. Il piano prevede che sia il tycoon americano a torcere il braccio all’amico Orban per costringerlo a dire sì. Siamo al cortocircuito: l’Europa “dei valori” prega il mostro arancione di usare metodi da gangster per violare le proprie regole interne. Ma c’è un dettaglio che i nostri strateghi da aperitivo fingono di ignorare. L’articolo 42.7 del Trattato dell’Unione Europea. È la clausola di mutua difesa, che è persino più vincolante dell’articolo 5 della Nato: obbliga gli Stati membri a prestare aiuto “con tutti i mezzi in loro potere” a chi viene aggredito. Traduzione per i non addetti ai lavori: se l’Ucraina entra nell’Ue mentre è in guerra o in una tregua armata, e Putin spara un petardo oltre il confine, l’Italia, la Francia e la Germania sono giuridicamente in guerra con la Russia. Ecco il vero “piano di pace”: trasformare un conflitto locale in una guerra continentale automatica. E tutto questo viene venduto come un compromesso. Mosca, ci dicono, dovrebbe accettare di buon grado. Peccato che al Cremlino sappiano leggere i trattati meglio di Von der Leyen. Offrire alla Russia un’Ucraina nell’Ue ma fuori dalla Nato è come offrire a un diabetico una torta alla panna dicendogli che è senza zucchero perché sopra non c’è la ciliegina. La perseveranza è una virtù, ma l’idiozia è un vizio. E a Bruxelles sembrano averne fatto una dottrina politica. IL BLOG SOSTENITORE OSPITA I POST SCRITTI DAI LETTORI CHE HANNO DECISO DI CONTRIBUIRE ALLA CRESCITA DE ILFATTOQUOTIDIANO.IT, SOTTOSCRIVENDO L’OFFERTA SOSTENITORE E DIVENTANDO COSÌ PARTE ATTIVA DELLA NOSTRA COMMUNITY. TRA I POST INVIATI, PETER GOMEZ E LA REDAZIONE SELEZIONERANNO E PUBBLICHERANNO QUELLI PIÙ INTERESSANTI. QUESTO BLOG NASCE DA UN’IDEA DEI LETTORI, CONTINUATE A RENDERLO IL VOSTRO SPAZIO. DIVENTARE SOSTENITORE SIGNIFICA ANCHE METTERCI LA FACCIA, LA FIRMA O L’IMPEGNO: ADERISCI ALLE NOSTRE CAMPAGNE, PENSATE PERCHÉ TU ABBIA UN RUOLO ATTIVO! SE VUOI PARTECIPARE, AL PREZZO DI “UN CAPPUCCINO ALLA SETTIMANA” POTRAI ANCHE SEGUIRE IN DIRETTA STREAMING LA RIUNIONE DI REDAZIONE DEL GIOVEDÌ – MANDANDOCI IN TEMPO REALE SUGGERIMENTI, NOTIZIE E IDEE – E ACCEDERE AL FORUM RISERVATO DOVE DISCUTERE E INTERAGIRE CON LA REDAZIONE. SCOPRI TUTTI I VANTAGGI! L'articolo Far entrare l’Ucraina nell’Ue segnerà l’inizio della nostra guerra con la Russia proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Jane Austen, eroina ribelle e antiromantica. Per me un modo di essere necessario
La sua aristocratica solitudine è il paradigma del genio dorato che ogni scrittore vorrebbe abitare. Jane Austen per chi scrive è uno scandaglio da cui discendere. Un poggio a cui guardare. Una traduzione romantica del mestiere di scrivere. Anche se lei non cercava il sentimento, il suo, dicono i bibliografi e certa critica, era il romanzo della conoscenza. Per altri, l’elemento vacuo, estetico, prevaleva sul contenuto. Ma Jane doveva salvarsi, utilizzando – riferiscono studi accademici – la misura formale. Dunque a metà. Salvarsi da una sensibilità estrema. Malgrado fossero romanzi connotati da un dichiarato antiromanticismo, in lei riscontriamo molto romanticamente piuttosto i tratti di una eroina ribelle, emancipata, proprio come vorremmo immaginarci un’artista del tempo. Una vita quieta, di una pacificità agiata, annoiata sì, con un paio di rinunce e un amore straziato, interrotto da una morte precoce. Basta a rendere la malinconia epica e struggente che la circonda, complice la nostra intenzionalità. Crinoline e miniature di un mondo alto-borghese passato al monocolo: è riuscita a nutrire un sogno corale, la leggerezza della lettura avrebbe permesso al lettore una fuga salvifica, può darsi l’identica fuga che moveva la creatività fervida di una giovane donna, la scrittrice che rifiutò il matrimonio e le banali pratiche quotidiane in luogo di una vita breve, incompiuta, confacente a restituirci una figura perciò leggendaria. Eppure ricordiamo meglio lei, che altre donne femme de lettres, visto che il secolo aveva fornito un tale primato: Eliza Haywood, Fanny Burney. E Jane. Jane pare si fosse ispirata a una frase di un personaggio della Burney per Orgoglio e pregiudizio. Il personaggio era Cecilia: “Tutta questa sfortunata faccenda è stato il risultato di orgoglio e pregiudizio”. Sfortunata faccenda, con quella noia colta, detta superficialità mondana, che in realtà sprofondava in elevatissime certezze: l’amore. Sempre conficcato in una qualche iconica fragilità. Una impossibilità. Una lettera non recapitata. Un ballo mancato. La Austen non amava la mondanità di provincia. Si racconta del deliquio che la colse, quando ancora era una giovinetta, appreso che avrebbe dovuto trasferirsi a Bath, una innocua, tediosissima città termale. Non amava quel luogo, non amava la gretta civettuola socialità. Da lì ne trasse il romanzo Northanger Abbey. Una accusa celata all’universo grasso e fastoso di una mediocre cittadina di provincia. Per me che ho coltivato la scrittura nella identica solitudine, rinuncia e avversione noiosa, la Austen era un modo di essere necessario per raccontare la vita. Romanticamente dicevo, di quel romanticismo, ironico e amaro insieme, o anche del suo esatto contrario. Un antiromanticismo che giocando con la soglia più a buon mercato del sentimento ne enuncia la tragicità segreta. Figure sottili, delicate, eleganti. La Austen ne è il simbolo. Ogni scrittrice, chissà, avrà pensato un po’ anche a lei, lungo la strada di solito erta degli inizi, alla sua giovinezza, tradita dal destino che non si è fermato in tempo a renderla felice, amata di quell’amore necessario a vibrare dentro un’esistenza, finanche vita: che non sia soltanto uno scorrere ordinato e feroce di silenzi o ripetute quotidianità. Così morirà abbastanza presto, in anticipo sullo sfiorire irreparabile. Una grazia in fondo. L'articolo Jane Austen, eroina ribelle e antiromantica. Per me un modo di essere necessario proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Pierina Paganelli, la nipote in Aula e le incongruenze sugli orari: l’alibi per madre e zio è granitico?
Lunedì si è tenuta la sesta udienza del processo che vede imputato Louis Dassilva per l’omicidio di Pierina Paganelli, la settantottenne trovata cadavere nel sottoscala del condominio in cui abitava a Rimini la mattina del 4 ottobre del 2023. Un’udienza di particolare rilevanza perché in aula ha deposto una testimone cruciale ossia la giovane Giorgia Saponi, nipote della vittima e figlia di Manuela Bianchi e Giuliano Saponi. La ragazza, oggi maggiorenne e che all’epoca dei fatti aveva sedici anni, sentita a sommarie informazioni testimoniali il 6 ottobre 2023 nell’immediatezza del ritrovamento del cadavere della nonna, aveva dichiarato agli inquirenti che la sera dell’omicidio si trovava a casa sua con la madre Manuela e lo zio Loris Bianchi che cenò con loro per seguire in streaming l’adunanza dei testimoni di Geova alla quale Pierina aveva partecipato in presenza. Il padre della ragazza, nonché marito di Manuela, in quel periodo si trovava ancora ricoverato in ospedale in seguito al grave trauma riportato in quello che oggi si ipotizza non sia stato un incidente ma un agguato da parte dello stesso assassino di Pierina mentre Giorgia Saponi non aveva accompagnato come di consueto la nonna all’adunanza perché indisposta. La giovane in quella occasione aveva raccontato con dovizia di particolari che l’adunanza era cominciata alle 20 ed era terminata alle 21.45, tutti elementi riscontrati dagli investigatori che avevano appurato l’effettiva durata dell’evento e le tempistiche che coincidevano perfettamente con il rientro della vittima in auto presso il garage della propria abitazione dove poi purtroppo ebbe ad incontrare il suo carnefice. L’unico punto che aveva inizialmente destato qualche allarme in chi indagava sulla morte della pensionata era l’orario fornito dalla nipote circa l’allontanamento dello zio dalla loro abitazione in quanto la ragazza aveva dichiarato che Loris Bianchi aveva lasciato l’appartamento intorno alle 22.05 ovvero qualche manciata di minuti prima dell’orario della morte di Pierina avvenuto alle 22.13. Giorgia Saponi a sommarie informazioni testimoniali si era detta certa di quel particolare perché lo aveva chiaramente visto sull’orologio presente sulla parete del soggiorno ma in seguito aveva ritrattato dicendo che probabilmente si era confusa perché Manuela Bianchi aveva fornito agli inquirenti alcune foto scattate con il cellulare e recanti l’orario delle 22.45/22.50 che ritraevano Loris Bianchi steso sul pavimento della loro abitazione supino e con le braccia aperte nell’atto di giocare con il loro cane che però, ad onor del vero, non è mai presente negli scatti. In tribunale la giovane ha confermato la seconda versione e nell’udienza durata circa quattro ore ha risposto sia alle domande del pubblico ministero che a quelle degli avvocati di Dassilva. In particolare questi ultimi hanno insistito su alcuni punti e hanno chiesto alla ragazza come avesse passato la serata con la madre e con lo zio e cosa in concreto avessero fatto e di cosa avessero parlato dopo aver assistito all’incontro di preghiera e fino alle 23, ora in cui, stando alla seconda versione fornita dalla ragazza, lo zio sarebbe effettivamente andato via. A queste domande la giovane avrebbe risposto più volte che non ricorda. A mio avviso i molti “non ricordo” stridono con la precisione matematica dell’orario fornito dalla giovane quando fu sentita nella sit e disse di aver visto che le lancette dell’orologio da parete di quel 3 ottobre del 2023 segnavano le 22.05. Un dubbio che non appartiene solo alla sottoscritta ma che è stato sollevato, fra gli altri, anche dall’ex Sostituto Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Milano Antonio Leonardo Tanga per il quale la ritrattazione di una versione fornita dopo qualche giorno dal delitto e che appariva assolutamente genuina è senza dubbio un elemento poco convincente. Alla luce di questi elementi si può affermare con certezza che Giorgia Saponi abbia confermato in modo granitico l’alibi di Loris e Manuela Bianchi? Le prossime tappe del processo per la morte della povera Pierina saranno determinanti per capire se la colpevolezza dell’unico indagato Louis Dassilva verrà provata ogni oltre ragionevole dubbio o se potranno emergere altri scenari. L'articolo Pierina Paganelli, la nipote in Aula e le incongruenze sugli orari: l’alibi per madre e zio è granitico? proviene da Il Fatto Quotidiano.
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L’Ue è fallita insieme all’intero Occidente: sette motivi per prenderne atto (e da cui ripartire)
Assistiamo a sempre più surreali dibattiti sulla necessità di rilanciare l’Unione Europea rendendola finalmente un protagonista militare all’altezza dei difficili tempi che corrono, ovvero del presunto tradimento statunitense. Tali dibattiti evidenziano una volta di più la pessima qualità del ceto politico e giornalistico italiano, espressione purtroppo veridica di un Paese alla deriva sotto l’egida della pessima Meloni con la sua Armata Brancaleone di incapaci e profittatori, nonché dell’altrettanto pessima finta opposizione piddina che sulle questioni cruciali della pace e della guerra dimostra tutta la sua subalternità alle forze dominanti. Tutti costoro vaneggiano enunciando tesi sconnesse e destituite del benché minimo fondamento, perché si ostinano a negare, come ogni psicopatico che si rispetti, alcune verità del tutto elementari e inconfutabili. Primo. La destabilizzazione tentata undici anni fa in Ucraina dalla Nato contro la Russia e buona parte del popolo ucraino è fallita. Secondo. Tale fallimento rientra nel quadro d’insieme del naufragio storico dell’Occidente coloniale e neocoloniale. E’ definitivamente concluso, per fortuna, il lungo periodo, durato circa 500 anni, dell’egemonia occidentale sul pianeta. Terzo. L’Occidente che sta tramontando definitivamente ha dominato il pianeta in questi cinque secoli avvalendosi di strumenti di morte: guerre di sterminio, genocidi e oppressione di moltitudini in Africa, America Latina, Asia. Non c’è quindi nessun presunto primato in materia di diritti umani e democrazia da rivendicare. La democrazia e lo Stato di diritto vivono attualmente una crisi profonda e tendenzialmente esiziale proprio nel cuore stesso dell’Occidente capitalistico. Quarto. Il genocidio del popolo palestinese, tuttora in atto nonostante la finta tregua di Sharm El Sheik, costituisce un’ulteriore mefitico sussulto del corpaccio agonizzante dell’Occidente. Ne è protagonista lo Stato d’Israele, governato da una compagine di nazisionisti che praticano apartheid, pulizia etnica e massacri in modo non differente da quello che fu all’epoca il Terzo Reich nazista e per tale motivo sono oggi sotto accusa in tutto il mondo, anche in sedi giudiziarie riconosciute come la Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale. Complici del genocidio sono del resto gli Stati occidentali che da sempre finanziano e armano Israele coprendone i crimini, con in testa Stati Uniti, Germania e Italia. Quinto. Consapevole della decadenza occidentale in atto, il presidente statunitense Donald Trump sta tentando una disperata manovra di contenimento all’insegna del cosiddetto “Make America Great Again”. In tale ambito Trump cerca un accordo con la Russia, nell’illusoria convinzione di dividerla dalla Cina e in quella altrettanto demenziale di resuscitare la dottrina Monroe affermando il proprio predominio in America Latina scatenando guerre d’aggressione contro il Venezuela ma anche contro Colombia, Messico, Brasile, Cuba. Si veda al riguardo il recente documento relativo alla Strategia nazionale degli Stati Uniti. Contemporaneamente Trump sta pricedendo alla fascistizzazione dello Stato all’insegna del razzismo contro i migranti. Sesto. In questo quadro gli Stati Uniti, consapevoli – più e meglio degli ottusi europei – della situazione di crisi terminale dell’Occidente, hanno deciso di abbandonare la nave che sta affondando, lasciando gli europei a pagare il conto della guerra in Ucraina e auspicando in sostanza la fine dell’Unione Europea. Settimo. I dementi e corrotti governanti europei stanno scegliendo la via della guerra contro la Russia, sia perché la potente lobby degli armamenti chiede il riarmo, sia perché la militarizzazione della società sembra loro la risposta più adeguata di fronte alla crisi della democrazia europea. Piuttosto che mollare il potere personaggi come Merz, Macron, Stamer e Meloni sono pronti alla catastrofe bellica. Per questo lanciano in continuazione allarmi infondati sulla presunta aggressività russa, spingono fino all’inverosimile l’acceleratore sul riarmo, impoverendo ulteriormente le loro economie e le loro società, ostacolano irresponsabilmente il raggiungimento di una pace definitiva in Ucraina, alimentando le pulsioni revansciste di Zelensky & C., rendendosi in tal modo colpevoli, come lo fu all’epoca Boris Johnson, quando sabotò poco dopo l’invasione russa il raggiungimento di un accordo di pace a Istanbul, della morte di decine di migliaia di giovani ucraini e russi. Prendere atto dei sette postulati appena enunciati costituisce la necessaria operazione di pulizia preliminare per continuare a parlare di Europa. Ciò comporta evidentemente una vera e propria rivoluzione concettuale e politica che veda la rimozione delle attuali sconfitte, decotte e corrotte classi dominanti europee per aprirsi a una prospettiva di pace e cooperazione nell’ambito di un mondo multipolare, mentre la ruota della storia si rimette in moto, nonostante e contro l’Unione Europea in disfacimento. L'articolo L’Ue è fallita insieme all’intero Occidente: sette motivi per prenderne atto (e da cui ripartire) proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Cosa e dove diavolo è la cucina italiana? A guardare ‘4 ristoranti’, non esiste quasi più
L’Unesco ovviamente non lo sa, ma indirettamente mi ha premiato quando nei giorni scorsi ha riconosciuto la cucina italiana come patrimonio culturale immateriale globale. A dire il vero non so esattamente cosa questo significhi, ma, dato che io sono italiano, dato che amo cucinare, e che cucino quasi tutti i giorni, questo riconoscimento mi inorgoglisce un po’. Secondo la decisione, la cucina italiana è una “miscela culturale e sociale di tradizioni culinarie”, “un modo per prendersi cura di sé stessi e degli altri, esprimere amore e riscoprire le proprie radici culturali, offrendo alle comunità uno sbocco per condividere la loro storia e descrivere il mondo che li circonda”. Accidenti, non capisco neanche questo esattamente cosa significhi, ma mi sembra di ritrovarmici: mescolo cucina ligure e piemontese, mi ricordo mamma quando preparava i vari tipi di pasta ed io la osservavo curioso, e la cucina era un modo per esprimere gioia, condivisione, rispetto. Ma, detto questo un po’ scherzosamente, mi domando: ma cosa e dove diavolo è oggi la cucina italiana? Devi cercarla con la lanterna di Diogene, perché chi è che ha più tempo e voglia di cucinare in casa secondo tradizione? E quante sono, fuori dalle mura domestiche, le trattorie tradizionali? Se guardiamo i 4 ristoranti di Alessandro Borghese, essa non esiste quasi più, o, se esiste, è contaminata, o meglio è “rivisitata in chiave moderna”: tradotto: quella originale, alla Sora Lella per intenderci, è scomparsa. In compenso siamo subissati di piatti ultraprocessati, piatti pronti e quant’altro. La cucina italiana sembra diventata come i presidi slow food: qualcosa da tutelare perché altrimenti scompare. Ma poi, fatemi capire, quali sono gli ingredienti di questa benedetta cucina italiana? Le verdure che provengono dall’agricoltura intensiva? La carne che proviene dagli allevamenti anch’essi intensivi? Il pesce allevato, che supera di gran lunga quello pescato? Insomma, esiste ancora la cucina italiana con ingredienti naturali, che un tempo effettivamente allietava le nostre tavole? E quindi ha un senso il termine “sostenibilità” con cui è stato accompagnato il riconoscimento o è del tutto fuori luogo? Ma voglio andare oltre, e nel farlo, mi inorgoglisco sempre meno di essere stato indirettamente premiato. Intanto, vedo (ma già lo sapevo) che la dieta mediterranea, in generale, aveva ottenuto il riconoscimento nel 2010. Ma allora perché anche la cucina italiana, che ne fa parte? E dieci anni dopo, nel 2020, ecco il riconoscimento ottenuto dal pasto gastronomico francese. E poi ancora, la cucina tradizionale messicana, e ovviamente il pasto tradizionale giapponese. Per non parlare del riconoscimento di singoli prodotti, come la baguette francese o la vite ad alberello di Pantelleria. E la pizza napoletana no? Ma certo, non la pizza in sé ma l’arte del fare la pizza. E comunque fanno sedici; tanti sono i riconoscimenti Unesco immateriali che colleziona l’Italia da sola o con altre nazioni. C’è persino l’alpinismo (e anche qui, non sapevo di praticare un’eccellenza mondiale…). Insomma, sembra proprio che un riconoscimento non si neghi a nessuno, e a nessuna “cosa”: se ne facciano una ragione i nostri governanti, dalla Meloni a suo cognato, da Giuli alla Santanché all’onnipresente Tajani (“uno straordinario volano di crescita e prosperità” scusate ma quando parla Tajani mi scappa da ridere!). Del resto, se sempre in Italia hanno conferito il riconoscimento di Patrimonio Mondiale come paesaggio culturale a quell’azzeramento di biodiversità ed enorme distesa di vigneti irrorati da pesticidi che sono le Colline del Prosecco, talmente inquinate che i residui si trovano persino nel vino, beh, allora, ci sta proprio tutto. Concludo con una domanda che mi sorge spontanea dopo tutto questo sproloquiare: a quando il riconoscimento di patrimonio immateriale al junk food statunitense? L'articolo Cosa e dove diavolo è la cucina italiana? A guardare ‘4 ristoranti’, non esiste quasi più proviene da Il Fatto Quotidiano.
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