di Luca Grandicelli
La Corte di appello di Torino ha disposto la cessazione immediata del
trattenimento di Mohamed Shahin, l’imam di Torino incarcerato il 12 novembre
2024 nel Cpr di Caltanissetta. La magistratura ha infatti accolto le istanze
dell’avvocato della difesa, richiamandosi direttamente alla direttiva europea
che stabilisce come il trattenimento dei richiedenti protezione internazionale
debba rappresentare un’eccezione e non una regola, ed escludendo inoltre la
sussistenza di una concreta e attuale pericolosità. Di fatto, ristabilendo un
principio elementare dello Stato di diritto, ovvero che la privazione della
libertà personale non può fondarsi su presupposti politici, né su valutazioni
generiche o preventive.
L’incarcerazione si è basata infatti sulle motivazioni descritte nel decreto
d’espulsione, che vedevano Shahin come portatore di un’ideologia fondamentalista
e antisemita e come figura di rilievo in ambienti dell’Islam radicale, con
presunti legami con soggetti indagati per terrorismo, accuse da lui sempre
respinte. La Corte d’appello di Torino ha ridimensionato tali elementi,
chiarendo che i contatti richiamati erano sporadici e risalenti nel tempo,
limitati a un’identificazione del 2012 e a una conversazione del 2018 tra terzi,
e che erano stati adeguatamente chiariti dallo stesso Shahin nel corso della
convalida.
Di tutto questo sono state consapevoli migliaia di persone che nelle ultime
settimane si sono riversate nelle piazze, di Torino e non solo, per protestare
contro quello che è parso un palese esercizio strumentale del diritto per fini
puramente politici. Mohamed Shahin, padre di due figli, incensurato, vive da
oltre vent’anni in Italia ed è considerato un punto di riferimento per la
comunità musulmana e per il dialogo interreligioso nella città e provincia di
Torino. Per lui si sono mobilitate non solo persone comuni, i fedeli delle
comunità musulmane italiane, ma anche voci autorevoli (e insospettabili) come il
vescovo Derio Olivero, Presidente della Commissione della Cei per l’Ecumenismo e
il Dialogo, che in un video diffuso sui social ha espresso solidarietà e chiesto
la sua liberazione immediata. E poi associazioni per i diritti umani,
intellettuali e sindacati.
L’episodio conferma dunque, e per ora, come l’Italia sia ancora un paese in cui
i magistrati esercitano il proprio ruolo nella più totale libertà e autonomia,
nonostante i tentativi e piani dell’esecutivo di delegittimarli, controllarli e
indirizzare l’esercizio delle loro funzioni su linee politiche di governo. Vale
la pena dunque ricordare alla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che si
chiede come “si fa a difendere la sicurezza degli italiani se ogni iniziativa
che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici”, che
la magistratura serve proprio a questo scopo: a evitare che il potere esecutivo
eserciti unilateralmente azioni arbitrarie, a garantire che la sicurezza non
diventi un alibi per comprimere diritti fondamentali e a ricordare che, in uno
Stato di diritto, la legge non è uno strumento di repressione del dissenso
politico; che la separazione dei poteri, quello esecutivo da quello giudiziario,
non è un intralcio all’azione di governo, ma la condizione stessa della
democrazia.
Il caso Shahin non è quindi una sconfitta dello Stato, ma una sua
riaffermazione, che trova la sua forza non quando reprime, ma quando accetta di
essere limitato dal diritto. Un concetto, quest’ultimo, che su certi versanti a
destra non è evidentemente di casa o si estende solo “fino a un certo punto”.
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L'articolo Libero l’imam di Torino: alla destra che contesta, ricordo che la
legge non serve a reprimere il dissenso proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Mattarella contro Trump – la mia vignetta per Il Fatto Quotidiano in edicola
oggi
#mattarella #trump #vignette #satira #umorismo #natangelo #ilfattoquotidiano
L'articolo Mattarella contro Trump proviene da Il Fatto Quotidiano.
Nessuno potrà mai capire quale meccanismo induca i politici a dire le bugie, a
stravolgere l’oggettività a proprio uso e consumo, a fornire dati errati per il
semplice piacere di apparire, affermare una differenza, rivendicare un merito.
Sperando di uscirne senza smentite. In questa sagra degli strafalcioni, più o
meno voluti, c’è un terreno – quello della storia delle Olimpiadi – che dovrebbe
essere risparmiato. Basterebbe studiare o soltanto leggere qualche scheda messa
a disposizione da Fondazione Milano Cortina 2026. Il Comitato organizzatore ha
investito, infatti, cifre importanti nell’allestimento del sistema informatico,
al punto da sfidare le procedure di appalto, come hanno testimoniato le
inchieste aperte nel 2024 dalla Procura della Repubblica di Milano, nell’ipotesi
di turbativa d’asta. A parte l’esito di quel filone investigativo, con la parola
che è passata alla Corte Costituzionale, non si può negare che la mole di
notizie sulle caratteristiche presenti, passate e future dei Giochi fornite agli
appassionati sia molto consistente e affidabile.
Un capitolo speciale è dedicato, per esempio, a tutte le edizioni, estive e
invernali, che si sono succedute nell’era moderna, a partire da Atene 1896 e da
Chamonix-Mont Blanc 1924, con un corollario di informazioni, a cominciare dalla
successione cronologica delle edizioni. Per questo motivo non possono che
stupire le parole pronunciate dall’ormai ex governatore del Veneto Luca Zaia sul
piazzale del Quirinale, poco dopo l’accensione della fiamma da parte del
presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Rivendicando per l’ennesima volta
l’intuizione della candidatura italiana distribuita sul territorio (Regioni
Lombardia e Veneto, Province autonome del Trentino – Alto Adige) ha detto,
gonfiando il petto: “Nasce tutto da una mia idea candidare Cortina, Trento e
Bolzano. Dicevano che sarebbe stato impossibile, perché Cortina aveva già avuto
le Olimpiadi nel 1956. Oggi posso dire che Cortina è l’unica realtà al mondo che
ha avuto per due volte le Olimpiadi e quindi è un bel risultato. Tre miliardi e
mezzo di cittadini del mondo vedranno le nostre Olimpiadi. L’ultima indagine ci
dice che vale 5,3 miliardi di Pil. Direi che ci sono tutti i presupposti per un
nuovo Rinascimento”.
Trascurando l’eterna giaculatoria dei miliardi di telespettatori che guarderanno
le nostre montagne e dei soldi che nevicheranno sui borghi alpini, colpisce
l’enfasi con cui viene celebrata la doppia Olimpiade che a distanza di
settant’anni sarebbe celebrata nello stesso luogo, unico luogo, Cortina
d’Ampezzo. Un record storico. Una medaglia d’oro che l’ex governatore leghista
del Veneto si è appuntato da solo al petto, ancor prima di essere premiato da
200 mila preferenze nelle regionali di fine novembre.
Peccato si tratti di una balla. È vero che Cortina è sede di due edizioni, nel
1956 (821 atleti, 32 paesi) e nel 2026 (più di tremila atleti e 93 paesi). Ma
non è la sola. Ce ne sono altre quattro ad aver avuto lo stesso privilegio. La
svizzera Sankt Moritz è stata sede dei secondi giochi invernali nel 1928 (464
atleti, 25 nazioni partecipanti) e della quinta edizione nel 1948 (669 atleti,
28 nazioni), la prima dopo l’interruzione dovuta alla Seconda guerra mondiale.
Ma c’è anche la statunitense Lake Placid, sui Monti Adirondack, contea di Essex,
nello Stato di New York: venne scelta nel 1932 (terza edizione, 232 atleti, 17
nazioni) e fece il bis nel 1980 (13. edizione, 1.072 gareggianti e 37 nazioni).
Non manca nemmeno l’Austria, con Innsbruck, la cui pista da bob ha costituito
un’alternativa nel caso Cortina non riuscisse a costruire il proprio impianto:
fu sede nel 1964 (nona edizione, 1.091 atleti, 36 paesi) e nel 1976 (12.
edizione, 1.123 atleti, 37 paesi). C’è infine un quinto caso, la statunitense
Salt Lake City, stato dell’Utah, ospitante nel 2002 (19. edizione, 2.399 atleti,
77 paesi) che è già stata designata per la 26. edizione, nel 2034.
Cortina è già bella di suo, o meglio lo era prima degli stravolgimenti
infrastrutturali provocati dall’infernale macchina organizzativa delle
Olimpiadi. Che bisogno c’era di attribuirle un merito che non ha? Nessuno, anche
perché la citazione errata è immediatamente confutabile e va ascritta a quella
babele di parole che gli amministratori, gonfiando il proprio ego e il consenso
personale, distribuiscono ai cittadini più creduloni o a quelli così
disincantati da non prestarvi nemmeno attenzione.
L'articolo “Cortina è l’unica ad aver avuto due volte le Olimpiadi”. Zaia gonfia
il petto per un primato inesistente proviene da Il Fatto Quotidiano.
di Andrea Boraschi*
Martedì l’Ue deciderà il futuro del settore auto europeo. La revisione della
normativa sulle emissioni di CO₂ delle auto, dunque la decisione di confermare o
meno l’obiettivo di vendere solo veicoli a zero emissioni dal 2035, ci dirà se
l’Europa è davvero intenzionata a competere con Cina e Stati Uniti o se, di
fatto, accetterà una prospettiva in cui il futuro dell’auto non è europeo.
L’industria automobilistica del continente e i suoi alleati politici, nonché le
lobby dell’oil&gas, hanno impegnato tutte le loro forze in questa battaglia. Ciò
che realmente vogliono – oltre il paravento fumoso della “neutralità
tecnologica” – è la possibilità di continuare a vendere auto endotermiche anche
dopo il 2035. E di lasciare maggiore spazio, da qui ad allora, a tecnologie e
carburanti assai lontani – per capacità di riduzione delle emissioni, per
efficienza, maturità tecnologica e sostenibilità – dalle prestazioni dell’auto
elettrica (BEV). Che sarà invece – per stessa ammissione dei carmaker – la
tecnologia dominante nei prossimi anni.
L’industria è molto abile, quando si tratta di addossare la responsabilità della
sua crisi sui regolatori e sulle politiche climatiche. La realtà, però, è che la
crisi dell’auto non ha nulla a che fare col 2035. Le vendite di auto in Europa
sono calate di tre milioni, rispetto al 2019, perché le case automobilistiche
hanno privilegiato margini di profitto più alti a scapito dei volumi. Tra il
2018 e il 2024 il prezzo medio di un’auto di massa è salito del 40%, passando da
22.000 a 30.700 euro. E sono stati anni in cui molti produttori hanno registrato
profitti record.
Queste decisioni stanno ora producendo effetti concreti. La maggior parte degli
europei non può più permettersi un’auto nuova, mentre in Cina i marchi europei
stanno cedendo mercato sotto la pressione della concorrenza locale sui veicoli
elettrici. Come se ne esce? La “soluzione magica” dei carmaker sarebbe di aprire
le porte ai biocarburanti e agli ibridi plug-in (PHEV) dopo il 2035. Un rimedio
effimero, volto a massimizzare nel breve termine la componente endotermica; e un
grave errore strategico nel medio-lungo termine, che rischia di condurre
l’industria europea in un vicolo cieco. Ecco perché.
La prospettiva industriale – Una prospettiva di decarbonizzazione chiara, dunque
obiettivi trasparenti e stabili, rappresenta la bussola degli investimenti e
della fiducia nel mercato. Indebolire il target del 2035 significherebbe mettere
a rischio centinaia di miliardi già impegnati nella filiera dell’elettrico:
batterie, reti di ricarica, elettronica di potenza e componenti. Non a caso,
oltre 200 CEO e leader del settore hanno scritto alla Commissione europea
esortandola a non toccare questi obiettivi.
La sostenibilità economica – Dietro lo slogan della “neutralità tecnologica” si
nascondono soluzioni costose per i consumatori. Le auto elettriche sono già le
più economiche, nell’intero ciclo di possesso e utilizzo, e presto saranno anche
le più convenienti da acquistare. Al contrario, gli ibridi plug-in costano in
media 15.000 euro in più delle elettriche; se ai costi di acquisto si sommano
quelli di utilizzo, le PHEV possono arrivare a costare fino al 18% in più per
veicoli nuovi, percentuali che salgono ulteriormente (fino al 29%) per l’usato.
Gli e-fuel – altra soluzione propugnata dall’industria – arriverebbero a costare
fino a 6-8 euro al litro. E anche i biocarburanti avanzati, tanto cari
all’Italia, sarebbero un’alternativa costosa a causa della loro scarsa
disponibilità.
L’avanzata dell’elettrico – La corsa globale verso l’elettrico, per contro, è in
atto e non da segni di inversione. Le vendite di veicoli elettrici crescono non
solo in Cina, ma anche in mercati emergenti come Thailandia e Vietnam. E anche
in Europa la transizione sta accelerando.
Lo scorso novembre, i veicoli elettrici hanno raggiunto un nuovo massimo
storico, con 160.000 unità vendute in sette mercati del continente europeo.
Dall’inizio dell’anno si registra una solida crescita del 30%: oggi in Francia
le BEV valgono il 26% del mercato, in Portogallo il 32%; nel Regno Unito
sfiorano il 26,5% e in Germania sono al 22%, massimo storico dopo la fine degli
incentivi nel 2023. In Italia, lo scorso novembre le elettriche hanno
rappresentato il 12% del mercato. Un risultato frutto degli incentivi, certo; ma
anche la dimostrazione ultima che i consumatori non disprezzano affatto l’auto
elettrica, hanno semmai bisogno di politiche di sostegno alla transizione.
Il declino inesorabile dei motori tradizionali – Sul fronte opposto, i motori
tradizionali sono in costante declino. Le vendite di auto a combustione interna
(ICE) non si sono mai riprese dal picco del 2019; da allora a oggi, ICE e ibride
(non plug in), sommate, hanno perso il 10% del mercato (mentre le elettriche ne
hanno conquistato il 15%).
La domanda complessiva di auto è diminuita – tra le altre cose – a causa di
stagnazione economica, inflazione e tassi d’interesse elevati. Ma quando i
clienti torneranno, troveranno un mercato dominato dalle elettriche, non dai
motori tradizionali. Chi scommette ancora sul ritorno dei veicoli a combustione
— biofuel costosi, e-fuel o veicoli ibridi, che fanno ancora in gran parte leva
sulla tecnologia endotermica — semplicemente si illude.
L’Europa è a un bivio – Solo mantenendo fermi gli obiettivi attuali il settore
auto europeo ha una reale possibilità di competere nel mercato globale dei
veicoli elettrici. Indebolirli significherebbe aggrapparsi a rendite di
posizione sempre più esili, e rimanere ancora più indietro in termini di
innovazione. In altre parole: rallentare la transizione non aiuta. Peggiora la
nostra posizione competitiva.
L’industria automobilistica europea si è resa conto tardi di essere indietro
rispetto alla Cina. Ma ogni esitazione, oggi, è un vantaggio ulteriore per
Pechino, che non rallenterà la corsa verso l’elettrico solo perché noi
prolunghiamo la vita dei motori endotermici. Mentre i consumatori europei, nel
frattempo, smetteranno di acquistare una tecnologia di qualità inferiore e già
oggi, in molti Paesi, più costosa. Se l’Ue fa marcia indietro ora, rischia di
perdere il più grande cambiamento industriale di questa generazione,
abbandonando l’ambizione di padroneggiare una delle tecnologie più importanti
del XXI secolo e i vantaggi industriali, economici e sociali che ne derivano.
Ora è il momento di mantenere la rotta e, per i decisori, di mostrare leadership
e visione. Puntare su e-fuel e biofuel, su ibridi e su veicoli a combustione
“efficienti” è la direzione certa per trasformare l’Europa in un museo
dell’auto.
*direttore T&E Italia
L'articolo Auto inquinanti dopo il 2035? Se l’Europa torna indietro
sull’elettrico, se ne avvantaggerà la Cina proviene da Il Fatto Quotidiano.
Sta per concludersi un 2025 vero annus horribilis. Il primo anno della seconda
presidenza Trump, il quarto della guerra in Ucraina, il terzo del genocidio
palestinese a Gaza, perpetrato dagli israeliani di Netanyahu dopo la strage del
7 ottobre ad opera di Hamas. Vecchie guerre proseguono e nuove “fioriscono” in
Sudan, in Congo, in Myanmar, tra India e Pakistan, e da poco in Venezuela
(mascherata da caccia ai narcotrafficanti) e perfino tra Thailandia e Cambogia
(di cui non è nemmeno chiara l’origine).
Altre annunciate sono in procinto di scoppiare, perfino nel bel suolo d’Europa a
sentire i proclami delle varie triadi nostrane, i volenterosi, i baltici, e
soprattutto gli alemanni, delle cui ultime gesta, insieme alle nostre camicie
nere, portiamo gli indelebili segni della memoria. Non si fa altro che parlare
(e fabbricare) di armamenti, leve obbligatorie, lezioni di strategia militare
nelle scuole, gite nelle caserme e giochi nei carrarmati, mentre l’opinione
pubblica è sempre più disorientata dalla voce greve e biforcuta della bionda
premier che giura “mai un soldato italiano andrà in guerra” dimenticando però di
motivare la cosa con il nostro fondamentale art. 11 della Costituzione che
esplicitamente la ripudia. Il mondo sembra correre cieco sull’orlo dell’abisso e
nel frattempo per spendere in armi si tagliano welfare, servizi pubblici, si
negano aumenti, tranne agli evasori fiscali a cui si condona di tutto.
Perché sta andando così male? Chi lo poteva pensare anche solo cinque anni fa
che la situazione internazionale sarebbe così radicalmente e pericolosamente
precipitata? Solo papa Francesco – inascoltato – ammoniva che si stava
prefigurando una “terza guerra mondiale a pezzi”, pezzi che ora si stanno
tragicamente ricomponendo.
Il presidente Usa si fa protagonista di piani di pace per Gaza e per l’Ucraina,
ma questi piani stentano a produrre risultati e comunque l’assetto che in quelle
martoriate aree di guerra sembra prefigurarsi certamente non appare all’insegna
del riconoscimento di pari diritti tra aggressori e aggrediti, tra potenza
coloniali e popolo colonizzato ed espropriato di tutto. E non è un caso che
ritorni il terrorismo in diverse latitudini, a riprova che se le tensioni non si
risolvono, la stabilità e la pace restano chimere.
In questo quadro a tinte molto fosche, anche gli assetti politici alle
latitudini occidentali sono attraversati da una fase di forte instabilità e di
vera e propria regressione democratica. Populismi, sovranismi, nuove forme di
autoritarismo, squilibri nei rapporti tra poteri istituzionali degli Stati
democratici, pulsioni reazionarie, intolleranza razziale e sessuale, attacco ai
diritti civili e sociali, perfino alla magistratura, smantellamento di
fondamentali conquiste del welfare del secolo scorso, stanno segnando un tempo
in cui le lancette dell’orologio politico cominciano a girare drammaticamente
all’indietro.
Da dove sorge tutto ciò? Oggi il centro motore dell’ideologia della nuova destra
al potere è a Washington, accomodato nello studio ovale, mentre si sparge in
tutt’Europa e altrove, ma Trump è solo l’ultimo prodotto scaturito da una lunga
gestazione che assume le sue origini in un progetto politico che affonda le
radici nel tempo, perché il conservatorismo Usa ha assunto in un lungo periodo,
trasformazioni di dimensioni inusitate. Se arriva a far scrivere in un documento
ufficiale di strategia nazionale di sicurezza nientemeno che gli Usa puntano su
quattro paesi europei, Austria, Italia, Polonia e Ungheria, per scardinare il
già faticoso processo di unificazione europeo, cos’altro occorre attendersi?
C’è un testo che contribuisce con un’analisi documentata, raffinata, completa
del fenomeno che ha condotto all’affermazione dell’ideologia reazionaria negli
Usa e che è riuscito a diventare riferimento per tanti altri paesi che
sembravano immuni da simili tendenze. Il libro s’intitola Dominio, la guerra
invisibile dei potenti contro i sudditi (Feltrinelli), scritto alcuni anni fa da
Marco D’Eramo, laureato in fisica, giornalista e scrittore, americanista, già
penna di punta del quotidiano il manifesto e di molte altre testate. D’Eramo si
confronterà su queste tematiche della crisi internazionale con Nadia Urbinati,
politologa della Columbia University e testa pensante della sinistra tra le due
sponde dell’oceano, nell’incontro intitolato “Libertà di non essere liberi?”.
L’appuntamento, promosso dal Manifesto in rete insieme alla Fondazione Ivano
Barberini, si terrà mercoledì 17 dicembre alle ore 17.30 a Bologna in via
Mentana 2, ma potrà essere seguito anche in streaming a questo link.
L'articolo Si conclude un annus horribilis: un incontro a Bologna tenta di fare
il punto sulla crisi internazionale proviene da Il Fatto Quotidiano.
di Francesco Valendino
C’è qualcosa di davvero commovente nell’ottimismo dei nostri eurocrati. Mentre
l’economia tedesca affonda, la Francia è politicamente paralizzata e i governi
europei cadono come birilli, a Bruxelles hanno trovato la soluzione a tutto:
imbarcare l’Ucraina nell’Unione Europea entro il 1° gennaio 2027. Non un giorno
di più.
La notizia, spifferata dal Financial Times, svela l’ultima genialata partorita
sull’asse Kiev-Bruxelles per ingraziarsi il nuovo padrone, Donald Trump. Il
piano è semplice e, come tutte le cose semplici pensate dai complessi burocrati
europei, demenziale: offriamo a The Donald una via d’uscita. Lui non deve
spendere più un dollaro per Zelensky, e in cambio noi ci accolliamo la
ricostruzione, i debiti e la difesa di un Paese in guerra, facendolo entrare
nell’Ue a tempo di record.
Siamo di fronte al capolavoro dell’ipocrisia. Per decenni, la solenne
Commissione Europea ci ha fatto una testa così con il “merito”. La Turchia
aspetta dal secolo scorso, i Balcani occidentali sono in sala d’attesa da
vent’anni, costretti a misurare la curvatura delle banane e a riformare i codici
civili fino all’ultima virgola per aprire mezzo capitolo negoziale. Per
l’Ucraina, invece, vale il telepass. Dei 36 capitoli negoziali necessari – che
richiedono riforme strutturali ciclopiche in un Paese che, prima dell’invasione
russa, Transparency International classificava come il più corrotto d’Europa
dopo la Russia – Kiev non ne ha chiuso nemmeno uno. Ma che importa? Quando la
geopolitica chiama, lo Stato di diritto risponde: “Obbedisco”.
La parte più esilarante, però, è il metodo. Per far passare questa follia serve
l’unanimità, e c’è quel guastafeste di Viktor Orban che continua a dire niet. E
qui i nostri atlantisti “de sinistra”, quelli che dipingono Trump come il nuovo
Hitler, a chi si affidano? A Trump stesso. Il piano prevede che sia il tycoon
americano a torcere il braccio all’amico Orban per costringerlo a dire sì. Siamo
al cortocircuito: l’Europa “dei valori” prega il mostro arancione di usare
metodi da gangster per violare le proprie regole interne.
Ma c’è un dettaglio che i nostri strateghi da aperitivo fingono di ignorare.
L’articolo 42.7 del Trattato dell’Unione Europea. È la clausola di mutua difesa,
che è persino più vincolante dell’articolo 5 della Nato: obbliga gli Stati
membri a prestare aiuto “con tutti i mezzi in loro potere” a chi viene
aggredito. Traduzione per i non addetti ai lavori: se l’Ucraina entra nell’Ue
mentre è in guerra o in una tregua armata, e Putin spara un petardo oltre il
confine, l’Italia, la Francia e la Germania sono giuridicamente in guerra con la
Russia.
Ecco il vero “piano di pace”: trasformare un conflitto locale in una guerra
continentale automatica. E tutto questo viene venduto come un compromesso.
Mosca, ci dicono, dovrebbe accettare di buon grado. Peccato che al Cremlino
sappiano leggere i trattati meglio di Von der Leyen. Offrire alla Russia
un’Ucraina nell’Ue ma fuori dalla Nato è come offrire a un diabetico una torta
alla panna dicendogli che è senza zucchero perché sopra non c’è la ciliegina.
La perseveranza è una virtù, ma l’idiozia è un vizio. E a Bruxelles sembrano
averne fatto una dottrina politica.
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L'articolo Far entrare l’Ucraina nell’Ue segnerà l’inizio della nostra guerra
con la Russia proviene da Il Fatto Quotidiano.
La sua aristocratica solitudine è il paradigma del genio dorato che ogni
scrittore vorrebbe abitare. Jane Austen per chi scrive è uno scandaglio da cui
discendere. Un poggio a cui guardare. Una traduzione romantica del mestiere di
scrivere. Anche se lei non cercava il sentimento, il suo, dicono i bibliografi e
certa critica, era il romanzo della conoscenza. Per altri, l’elemento vacuo,
estetico, prevaleva sul contenuto. Ma Jane doveva salvarsi, utilizzando –
riferiscono studi accademici – la misura formale. Dunque a metà. Salvarsi da una
sensibilità estrema. Malgrado fossero romanzi connotati da un dichiarato
antiromanticismo, in lei riscontriamo molto romanticamente piuttosto i tratti di
una eroina ribelle, emancipata, proprio come vorremmo immaginarci un’artista del
tempo.
Una vita quieta, di una pacificità agiata, annoiata sì, con un paio di rinunce e
un amore straziato, interrotto da una morte precoce. Basta a rendere la
malinconia epica e struggente che la circonda, complice la nostra
intenzionalità. Crinoline e miniature di un mondo alto-borghese passato al
monocolo: è riuscita a nutrire un sogno corale, la leggerezza della lettura
avrebbe permesso al lettore una fuga salvifica, può darsi l’identica fuga che
moveva la creatività fervida di una giovane donna, la scrittrice che rifiutò il
matrimonio e le banali pratiche quotidiane in luogo di una vita breve,
incompiuta, confacente a restituirci una figura perciò leggendaria.
Eppure ricordiamo meglio lei, che altre donne femme de lettres, visto che il
secolo aveva fornito un tale primato: Eliza Haywood, Fanny Burney. E Jane. Jane
pare si fosse ispirata a una frase di un personaggio della Burney per Orgoglio e
pregiudizio. Il personaggio era Cecilia: “Tutta questa sfortunata faccenda è
stato il risultato di orgoglio e pregiudizio”.
Sfortunata faccenda, con quella noia colta, detta superficialità mondana, che in
realtà sprofondava in elevatissime certezze: l’amore. Sempre conficcato in una
qualche iconica fragilità. Una impossibilità. Una lettera non recapitata. Un
ballo mancato.
La Austen non amava la mondanità di provincia. Si racconta del deliquio che la
colse, quando ancora era una giovinetta, appreso che avrebbe dovuto trasferirsi
a Bath, una innocua, tediosissima città termale. Non amava quel luogo, non amava
la gretta civettuola socialità. Da lì ne trasse il romanzo Northanger Abbey. Una
accusa celata all’universo grasso e fastoso di una mediocre cittadina di
provincia.
Per me che ho coltivato la scrittura nella identica solitudine, rinuncia e
avversione noiosa, la Austen era un modo di essere necessario per raccontare la
vita. Romanticamente dicevo, di quel romanticismo, ironico e amaro insieme, o
anche del suo esatto contrario. Un antiromanticismo che giocando con la soglia
più a buon mercato del sentimento ne enuncia la tragicità segreta.
Figure sottili, delicate, eleganti. La Austen ne è il simbolo. Ogni scrittrice,
chissà, avrà pensato un po’ anche a lei, lungo la strada di solito erta degli
inizi, alla sua giovinezza, tradita dal destino che non si è fermato in tempo a
renderla felice, amata di quell’amore necessario a vibrare dentro un’esistenza,
finanche vita: che non sia soltanto uno scorrere ordinato e feroce di silenzi o
ripetute quotidianità.
Così morirà abbastanza presto, in anticipo sullo sfiorire irreparabile. Una
grazia in fondo.
L'articolo Jane Austen, eroina ribelle e antiromantica. Per me un modo di essere
necessario proviene da Il Fatto Quotidiano.
Lunedì si è tenuta la sesta udienza del processo che vede imputato Louis
Dassilva per l’omicidio di Pierina Paganelli, la settantottenne trovata cadavere
nel sottoscala del condominio in cui abitava a Rimini la mattina del 4 ottobre
del 2023. Un’udienza di particolare rilevanza perché in aula ha deposto una
testimone cruciale ossia la giovane Giorgia Saponi, nipote della vittima e
figlia di Manuela Bianchi e Giuliano Saponi.
La ragazza, oggi maggiorenne e che all’epoca dei fatti aveva sedici anni,
sentita a sommarie informazioni testimoniali il 6 ottobre 2023 nell’immediatezza
del ritrovamento del cadavere della nonna, aveva dichiarato agli inquirenti che
la sera dell’omicidio si trovava a casa sua con la madre Manuela e lo zio Loris
Bianchi che cenò con loro per seguire in streaming l’adunanza dei testimoni di
Geova alla quale Pierina aveva partecipato in presenza. Il padre della ragazza,
nonché marito di Manuela, in quel periodo si trovava ancora ricoverato in
ospedale in seguito al grave trauma riportato in quello che oggi si ipotizza non
sia stato un incidente ma un agguato da parte dello stesso assassino di Pierina
mentre Giorgia Saponi non aveva accompagnato come di consueto la nonna
all’adunanza perché indisposta.
La giovane in quella occasione aveva raccontato con dovizia di particolari che
l’adunanza era cominciata alle 20 ed era terminata alle 21.45, tutti elementi
riscontrati dagli investigatori che avevano appurato l’effettiva durata
dell’evento e le tempistiche che coincidevano perfettamente con il rientro della
vittima in auto presso il garage della propria abitazione dove poi purtroppo
ebbe ad incontrare il suo carnefice.
L’unico punto che aveva inizialmente destato qualche allarme in chi indagava
sulla morte della pensionata era l’orario fornito dalla nipote circa
l’allontanamento dello zio dalla loro abitazione in quanto la ragazza aveva
dichiarato che Loris Bianchi aveva lasciato l’appartamento intorno alle 22.05
ovvero qualche manciata di minuti prima dell’orario della morte di Pierina
avvenuto alle 22.13.
Giorgia Saponi a sommarie informazioni testimoniali si era detta certa di quel
particolare perché lo aveva chiaramente visto sull’orologio presente sulla
parete del soggiorno ma in seguito aveva ritrattato dicendo che probabilmente si
era confusa perché Manuela Bianchi aveva fornito agli inquirenti alcune foto
scattate con il cellulare e recanti l’orario delle 22.45/22.50 che ritraevano
Loris Bianchi steso sul pavimento della loro abitazione supino e con le braccia
aperte nell’atto di giocare con il loro cane che però, ad onor del vero, non è
mai presente negli scatti.
In tribunale la giovane ha confermato la seconda versione e nell’udienza durata
circa quattro ore ha risposto sia alle domande del pubblico ministero che a
quelle degli avvocati di Dassilva. In particolare questi ultimi hanno insistito
su alcuni punti e hanno chiesto alla ragazza come avesse passato la serata con
la madre e con lo zio e cosa in concreto avessero fatto e di cosa avessero
parlato dopo aver assistito all’incontro di preghiera e fino alle 23, ora in
cui, stando alla seconda versione fornita dalla ragazza, lo zio sarebbe
effettivamente andato via. A queste domande la giovane avrebbe risposto più
volte che non ricorda.
A mio avviso i molti “non ricordo” stridono con la precisione matematica
dell’orario fornito dalla giovane quando fu sentita nella sit e disse di aver
visto che le lancette dell’orologio da parete di quel 3 ottobre del 2023
segnavano le 22.05. Un dubbio che non appartiene solo alla sottoscritta ma che è
stato sollevato, fra gli altri, anche dall’ex Sostituto Procuratore Generale
presso la Corte d’Appello di Milano Antonio Leonardo Tanga per il quale la
ritrattazione di una versione fornita dopo qualche giorno dal delitto e che
appariva assolutamente genuina è senza dubbio un elemento poco convincente.
Alla luce di questi elementi si può affermare con certezza che Giorgia Saponi
abbia confermato in modo granitico l’alibi di Loris e Manuela Bianchi? Le
prossime tappe del processo per la morte della povera Pierina saranno
determinanti per capire se la colpevolezza dell’unico indagato Louis Dassilva
verrà provata ogni oltre ragionevole dubbio o se potranno emergere altri
scenari.
L'articolo Pierina Paganelli, la nipote in Aula e le incongruenze sugli orari:
l’alibi per madre e zio è granitico? proviene da Il Fatto Quotidiano.
Assistiamo a sempre più surreali dibattiti sulla necessità di rilanciare
l’Unione Europea rendendola finalmente un protagonista militare all’altezza dei
difficili tempi che corrono, ovvero del presunto tradimento statunitense. Tali
dibattiti evidenziano una volta di più la pessima qualità del ceto politico e
giornalistico italiano, espressione purtroppo veridica di un Paese alla deriva
sotto l’egida della pessima Meloni con la sua Armata Brancaleone di incapaci e
profittatori, nonché dell’altrettanto pessima finta opposizione piddina che
sulle questioni cruciali della pace e della guerra dimostra tutta la sua
subalternità alle forze dominanti.
Tutti costoro vaneggiano enunciando tesi sconnesse e destituite del benché
minimo fondamento, perché si ostinano a negare, come ogni psicopatico che si
rispetti, alcune verità del tutto elementari e inconfutabili.
Primo. La destabilizzazione tentata undici anni fa in Ucraina dalla Nato contro
la Russia e buona parte del popolo ucraino è fallita.
Secondo. Tale fallimento rientra nel quadro d’insieme del naufragio storico
dell’Occidente coloniale e neocoloniale. E’ definitivamente concluso, per
fortuna, il lungo periodo, durato circa 500 anni, dell’egemonia occidentale sul
pianeta.
Terzo. L’Occidente che sta tramontando definitivamente ha dominato il pianeta in
questi cinque secoli avvalendosi di strumenti di morte: guerre di sterminio,
genocidi e oppressione di moltitudini in Africa, America Latina, Asia. Non c’è
quindi nessun presunto primato in materia di diritti umani e democrazia da
rivendicare. La democrazia e lo Stato di diritto vivono attualmente una crisi
profonda e tendenzialmente esiziale proprio nel cuore stesso dell’Occidente
capitalistico.
Quarto. Il genocidio del popolo palestinese, tuttora in atto nonostante la finta
tregua di Sharm El Sheik, costituisce un’ulteriore mefitico sussulto del
corpaccio agonizzante dell’Occidente. Ne è protagonista lo Stato d’Israele,
governato da una compagine di nazisionisti che praticano apartheid, pulizia
etnica e massacri in modo non differente da quello che fu all’epoca il Terzo
Reich nazista e per tale motivo sono oggi sotto accusa in tutto il mondo, anche
in sedi giudiziarie riconosciute come la Corte internazionale di giustizia e la
Corte penale internazionale. Complici del genocidio sono del resto gli Stati
occidentali che da sempre finanziano e armano Israele coprendone i crimini, con
in testa Stati Uniti, Germania e Italia.
Quinto. Consapevole della decadenza occidentale in atto, il presidente
statunitense Donald Trump sta tentando una disperata manovra di contenimento
all’insegna del cosiddetto “Make America Great Again”. In tale ambito Trump
cerca un accordo con la Russia, nell’illusoria convinzione di dividerla dalla
Cina e in quella altrettanto demenziale di resuscitare la dottrina Monroe
affermando il proprio predominio in America Latina scatenando guerre
d’aggressione contro il Venezuela ma anche contro Colombia, Messico, Brasile,
Cuba. Si veda al riguardo il recente documento relativo alla Strategia nazionale
degli Stati Uniti. Contemporaneamente Trump sta pricedendo alla fascistizzazione
dello Stato all’insegna del razzismo contro i migranti.
Sesto. In questo quadro gli Stati Uniti, consapevoli – più e meglio degli ottusi
europei – della situazione di crisi terminale dell’Occidente, hanno deciso di
abbandonare la nave che sta affondando, lasciando gli europei a pagare il conto
della guerra in Ucraina e auspicando in sostanza la fine dell’Unione Europea.
Settimo. I dementi e corrotti governanti europei stanno scegliendo la via della
guerra contro la Russia, sia perché la potente lobby degli armamenti chiede il
riarmo, sia perché la militarizzazione della società sembra loro la risposta più
adeguata di fronte alla crisi della democrazia europea. Piuttosto che mollare il
potere personaggi come Merz, Macron, Stamer e Meloni sono pronti alla catastrofe
bellica. Per questo lanciano in continuazione allarmi infondati sulla presunta
aggressività russa, spingono fino all’inverosimile l’acceleratore sul riarmo,
impoverendo ulteriormente le loro economie e le loro società, ostacolano
irresponsabilmente il raggiungimento di una pace definitiva in Ucraina,
alimentando le pulsioni revansciste di Zelensky & C., rendendosi in tal modo
colpevoli, come lo fu all’epoca Boris Johnson, quando sabotò poco dopo
l’invasione russa il raggiungimento di un accordo di pace a Istanbul, della
morte di decine di migliaia di giovani ucraini e russi.
Prendere atto dei sette postulati appena enunciati costituisce la necessaria
operazione di pulizia preliminare per continuare a parlare di Europa. Ciò
comporta evidentemente una vera e propria rivoluzione concettuale e politica che
veda la rimozione delle attuali sconfitte, decotte e corrotte classi dominanti
europee per aprirsi a una prospettiva di pace e cooperazione nell’ambito di un
mondo multipolare, mentre la ruota della storia si rimette in moto, nonostante e
contro l’Unione Europea in disfacimento.
L'articolo L’Ue è fallita insieme all’intero Occidente: sette motivi per
prenderne atto (e da cui ripartire) proviene da Il Fatto Quotidiano.
L’Unesco ovviamente non lo sa, ma indirettamente mi ha premiato quando nei
giorni scorsi ha riconosciuto la cucina italiana come patrimonio culturale
immateriale globale. A dire il vero non so esattamente cosa questo significhi,
ma, dato che io sono italiano, dato che amo cucinare, e che cucino quasi tutti i
giorni, questo riconoscimento mi inorgoglisce un po’. Secondo la decisione, la
cucina italiana è una “miscela culturale e sociale di tradizioni culinarie”, “un
modo per prendersi cura di sé stessi e degli altri, esprimere amore e riscoprire
le proprie radici culturali, offrendo alle comunità uno sbocco per condividere
la loro storia e descrivere il mondo che li circonda”.
Accidenti, non capisco neanche questo esattamente cosa significhi, ma mi sembra
di ritrovarmici: mescolo cucina ligure e piemontese, mi ricordo mamma quando
preparava i vari tipi di pasta ed io la osservavo curioso, e la cucina era un
modo per esprimere gioia, condivisione, rispetto. Ma, detto questo un po’
scherzosamente, mi domando: ma cosa e dove diavolo è oggi la cucina italiana?
Devi cercarla con la lanterna di Diogene, perché chi è che ha più tempo e voglia
di cucinare in casa secondo tradizione? E quante sono, fuori dalle mura
domestiche, le trattorie tradizionali? Se guardiamo i 4 ristoranti di Alessandro
Borghese, essa non esiste quasi più, o, se esiste, è contaminata, o meglio è
“rivisitata in chiave moderna”: tradotto: quella originale, alla Sora Lella per
intenderci, è scomparsa. In compenso siamo subissati di piatti ultraprocessati,
piatti pronti e quant’altro. La cucina italiana sembra diventata come i presidi
slow food: qualcosa da tutelare perché altrimenti scompare.
Ma poi, fatemi capire, quali sono gli ingredienti di questa benedetta cucina
italiana? Le verdure che provengono dall’agricoltura intensiva? La carne che
proviene dagli allevamenti anch’essi intensivi? Il pesce allevato, che supera di
gran lunga quello pescato? Insomma, esiste ancora la cucina italiana con
ingredienti naturali, che un tempo effettivamente allietava le nostre tavole? E
quindi ha un senso il termine “sostenibilità” con cui è stato accompagnato il
riconoscimento o è del tutto fuori luogo?
Ma voglio andare oltre, e nel farlo, mi inorgoglisco sempre meno di essere stato
indirettamente premiato. Intanto, vedo (ma già lo sapevo) che la dieta
mediterranea, in generale, aveva ottenuto il riconoscimento nel 2010. Ma allora
perché anche la cucina italiana, che ne fa parte? E dieci anni dopo, nel 2020,
ecco il riconoscimento ottenuto dal pasto gastronomico francese. E poi ancora,
la cucina tradizionale messicana, e ovviamente il pasto tradizionale giapponese.
Per non parlare del riconoscimento di singoli prodotti, come la baguette
francese o la vite ad alberello di Pantelleria. E la pizza napoletana no? Ma
certo, non la pizza in sé ma l’arte del fare la pizza. E comunque fanno sedici;
tanti sono i riconoscimenti Unesco immateriali che colleziona l’Italia da sola o
con altre nazioni. C’è persino l’alpinismo (e anche qui, non sapevo di praticare
un’eccellenza mondiale…).
Insomma, sembra proprio che un riconoscimento non si neghi a nessuno, e a
nessuna “cosa”: se ne facciano una ragione i nostri governanti, dalla Meloni a
suo cognato, da Giuli alla Santanché all’onnipresente Tajani (“uno straordinario
volano di crescita e prosperità” scusate ma quando parla Tajani mi scappa da
ridere!). Del resto, se sempre in Italia hanno conferito il riconoscimento di
Patrimonio Mondiale come paesaggio culturale a quell’azzeramento di biodiversità
ed enorme distesa di vigneti irrorati da pesticidi che sono le Colline del
Prosecco, talmente inquinate che i residui si trovano persino nel vino, beh,
allora, ci sta proprio tutto.
Concludo con una domanda che mi sorge spontanea dopo tutto questo sproloquiare:
a quando il riconoscimento di patrimonio immateriale al junk food statunitense?
L'articolo Cosa e dove diavolo è la cucina italiana? A guardare ‘4 ristoranti’,
non esiste quasi più proviene da Il Fatto Quotidiano.