Tempo di ritorno. Una storia di clima e di fantasmi di Ferdinando Cotugno

Il Tascabile - Friday, July 11, 2025

C ome si racconta il cambiamento climatico? Già nel celebre saggio del 2016 La grande cecità, lo scrittore indiano Amitav Ghosh si interrogava sulle responsabilità della letteratura nel mettere adeguatamente in luce le trasformazioni ambientali, psicologiche, culturali e politiche indotte da un fenomeno la cui portata non può che riverberare sui protagonisti di una storia. Questa sfida non è un mero esercizio intellettuale, ma rappresenta uno dei piani fondamentali su cui attivare la risposta collettiva a un problema che ancora oggi tende a essere rimosso dal discorso pubblico. Consideriamo anche soltanto come spesso la questione climatica venga ritratta come un’emergenza puntiforme – si pensi alla metafora della cometa in rotta di collisione col pianeta del popolare Don’t look up del regista Adam McKay ‒ e non come qualcosa in atto da tempo, i cui effetti non sono sempre stati percepiti con la stessa nitidezza da tutte le epoche e latitudini.

Tempo di ritorno. Una storia di clima e di fantasmi (2025), l’ultimo libro del giornalista climatico Ferdinando Cotugno, adotta invece una chiave di lettura efficace grazie a un approccio controintuitivo. Per rendere visibile e comprensibile un fenomeno globale, si concentra sul particolare: la storia della sua famiglia. Tre generazioni (nonni, genitori, figli) che diventano unità di misura del cambiamento climatico.

In statistica, il tempo di ritorno è il tempo medio che corre tra il verificarsi di due eventi di uguale intensità. Il tempo di ritorno è quanto ci mettono a tornare i grandi traumi, o le crisi epilettiche, o gli amori, o gli scudetti, o gli attacchi di panico, o i messaggi che disperatamente aspettiamo, o i temporali, o le ondate di calore, o le alluvioni. Funziona così: immaginate il giorno climaticamente peggiore della vostra vita. Quanto tempo ci vorrà prima vi ricapiti un giorno altrettanto brutto? È questo il tempo di ritorno, regolato dalle leggi del cosmo e della fortuna. La generazione dei miei genitori e quella dei loro genitori ha iniziato ad alterare queste leggi, con la combustione delle fonti fossili di energia.

Lo spunto di partenza è l’imminente trasferimento del padre dell’autore in Brasile per raggiungere la nuova compagna: Cotugno sceglie così di partire da Milano, dove vive, per tornare nel quartiere di Bagnoli, a Napoli, e documentare gli ultimi giorni in cui la famiglia sarà a suo modo riunita.
Per raccontare la crisi climatica Cotugno adotta un approccio controintuitivo ma efficace. Per rendere visibile un fenomeno globale, si concentra sul particolare: la storia della sua famiglia.

Il risultato è un oggetto atipico, un “memoir climatico”, in cui le vicende personali si intrecciano nello spazio e nel tempo con la storia dei combustibili fossili: un nonno operaio all’Italsider, che alla fabbrica ha dato tutto ricevendo poco in cambio; padre e madre a capo di una ditta di trasporti su ruota ormai fallita, testimoni di una fugace ricchezza negli anni Novanta. Carbone e gasolio a scandire le sorti del benessere economico, fisico e psicologico di un microcosmo sociale.
Ogni storia familiare è smisurata e contiene l’intera umanità. Abbiamo una sola opportunità di raccontarla, e non dovremmo sprecarla. Io la mia voglio usarla così, per cercare l’inizio della crisi climatica, l’Antropocene familiare.

Il romanzo si articola in quattro atti: un prologo che si apre nel 1963, con il suggestivo rituale di raccolta dei residui di carbon coke caduti in mare da parte dei giovani nuotatori di Bagnoli; due parti dedicate rispettivamente al padre Luigi e alla madre Giuseppina, che portano inevitabilmente a galla le questioni di genere innescate da quello che Cotugno chiama “petropatriarcato”; un epilogo che tira le fila di un quadro familiare e storico stratificato e contraddittorio. C’è infatti un ulteriore protagonista “onorario” di questa epica territoriale: la città di Napoli, personificazione di una collettività di cui riassume gli umori, le aspirazioni e le disillusioni lungo un processo pluridecennale di industrializzazione.

L’operazione narrativa è molto a fuoco: raccontare di sé e delle generazioni che lo hanno preceduto consente all’autore di connotare emotivamente cause e conseguenze del cambiamento climatico, rendendole più urgenti di quanto la sola restituzione giornalistica o scientifica riescano a fare. Se il problema viene rimosso proprio perché fatichiamo a credere che ci riguardi, è allora attraverso delle storie esemplari a cui molte persone possono facilmente connettersi e riconoscersi che il cambiamento climatico può tornare al centro della nostra attenzione. Tempo di ritorno corrobora la razionalità scientifica lavorando sul percepito umano: ritrae volti e luoghi familiari, rendendo prossima una questione che solitamente finisce per essere distante, o addirittura aliena.

Raccontare di sé e delle generazioni precedenti consente all’autore di connotare emotivamente cause e conseguenze del problema, rendendole più urgenti di quanto la sola restituzione giornalistica o scientifica riescano a fare.

Questo senso di urgenza non viene veicolato solo dagli elementi di familiarità del racconto, ma anche dalla sua dimensione cronologica: la vita (e la morte) del nonno e dei suoi coevi scandite dai ritmi della fabbrica; la stessa fabbrica che nel giro di qualche decennio passa, per la gente di Bagnoli, da futuro ineluttabile a relitto di cui disfarsi; i genitori dell’autore, che vivono una altrettanto estemporanea fase di benessere economico grazie a un business a sua volta destinato a diventare obsoleto; un figlio che con il suo lavoro giornalistico finisce per documentare le conseguenze disastrose delle stesse politiche fossili che gli hanno consentito di studiare. Viste con un orizzonte temporale più ampio, le scelte di ogni generazione sembrano implicitamente giudicare quelle della precedente, imponendo di riflettere sulle conseguenze di quell’eredità.
La crisi climatica è una storia che si agisce collettivamente, ma si percepisce individualmente, sulle scale più gestibili del tempo personale e familiare. Nel clima siamo genitori e figli, siamo entrambe le cose, la crisi ha reso sistemico uno dei concetti più privati: l’eredità. Cosa lasciamo? E a chi?

Cotugno mette in chiaro che non è una questione di colpa, quanto di responsabilità: se chi lo ha preceduto conserva l’innocenza di non aver potuto scegliere consapevolmente, coloro che vengono dopo non possono chiudere gli occhi. In questo senso, tutto il memoir può essere letto come un percorso di accettazione della propria compromissione individuale, punto di partenza ineludibile per opporsi al collasso. Farlo in prima persona, mettendo in gioco sentimenti e vicende personali, finisce per incoraggiare questo processo in chi legge, senza mai mettersi su un piedistallo morale inevitabilmente respingente.
All’ambientalismo serve una storia nuova, che non sia più una storia dell’ambientalismo, che non si chiami nemmeno più ambientalismo, che vada bene anche per Luigi e Ferdinando, che tenga conto della storia contenuta dentro la vecchia patente di guida di mio padre e sappia congedarsene in modo ordinato, che faccia sentire le persone, tutte le persone, viste. Chi non si sente visto, in politica, si ribella, anche se si sta ribellando contro se stesso e il proprio futuro.

Trovare nell’empatia una lingua comune per parlare con chi si sente escluso dal dibattito politico consente di tracciare nuovi orizzonti di cambiamento nella società. La testimonianza personale viene così usata per disinnescare il sortilegio del capitalismo: reinventarsi continuamente con la promessa di futuri inevitabili e risorse inesauribili portando molte persone a credere che la Terra fosse un buffet All you can eat (“Anche da quelli a un certo punto ti cacciano”). Esattamente ciò che aveva rappresentato nel dopoguerra l’ex ILVA/Italsider per l’area di Bagnoli, oggi un relitto a testimonianza di un capitalismo che fa in fretta a costruire, ma che non sa poi prendersi cura delle cose e si rifiuta di smantellarle, una volta consumate.
Non è una questione di colpa, quanto di responsabilità: se chi ci ha preceduto conserva l’innocenza di non aver potuto scegliere consapevolmente, quelli che vengono dopo non possono chiudere gli occhi.

Ho accennato poco sopra alla questione di genere: restituire i punti di vista di entrambi i genitori è un altro dei dispositivi che il racconto utilizza per arricchire lo sguardo sulle dinamiche capitaliste. Se il capitolo dedicato al padre Luigi è un denso susseguirsi di fatti, ricostruiti faticosamente dall’autore sulla base delle informazioni che il taciturno genitore gli mette a disposizione e con l’aiuto di un’amica di famiglia, la madre Giuseppina esordisce con un racconto in prima persona, che rivela più consapevolezza di quello che è successo alla famiglia ‒ o quantomeno più desiderio di condividerlo. Da un lato l’accettazione supina, dall’altro l’embrione della ribellione. Per il padre il sistema è un dato di fatto, che non mette in discussione finché gli consente di ottenere ciò che vuole; la madre disvela invece il sottaciuto, fin dal suo ruolo decisivo, e non marginale, nelle sorti dell’attività di famiglia, verbalizzando come il momento di maggiore ricchezza sia coinciso con l’apice della sua crisi esistenziale. Il cambiamento climatico è anche una questione di salute mentale.

Sicuramente appartenere alla stessa generazione di Cotugno mi ha aiutato a entrare più facilmente nella sua visione delle cose: quella di chi è nato nei primi anni Ottanta e ha dovuto fare i conti tutta la vita con più di una transizione, in un perenne stato agnostico sospeso tra i ricatti della nostalgia e le illusioni del futuro, rifuggendo consapevolmente da entrambi e in continua ricerca di un’alternativa al proprio modo di vivere che fosse davvero migliorativa. Cambiamento climatico, capitalismo, coscienza di classe, genitorialità, benessere individuale ed eredità collettiva: l’esperimento memoir riesce, e le sue diverse stratificazioni si amalgamano in modo funzionale, senza mai andare a discapito del valore letterario dell’operazione.

Tempo di ritorno recupera vecchie storie per affrontarle con una prospettiva attuale. Raccoglie la sfida di Ghosh ribadendo l’urgenza di pensare a nuove narrazioni, ma dice anche che prima dobbiamo decostruire i criteri sulla base dei quali abbiamo valutato il funzionamento del nostro mondo: la ricchezza anteposta alla felicità, la novità anteposta alla cura. Il lavoro di Cotugno non è il punto di arrivo, ma uno dei tanti validi nuovi punti di partenza che si affacciano sull’orizzonte letterario per provare a immaginare il futuro della nostra società attraverso il potere della narrativa.

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