Q uando avevo quindici anni credevo che i libri più belli fossero quelli che mi
costringevano ad alzarmi per andare a prendere il dizionario e cercare le parole
che non conoscevo. Infatti perlopiù leggevo altro: i Piccoli brividi, i
thrilleroni di Dan Brown, Faletti, Brad Meltzer e, ovviamente, Harry Potter. Un
giorno però sfilai Così parlò Zarathustra dallo scaffale dei libri di mio padre,
mi incuriosiva il nome del suo autore, che mi pareva impronunciabile ‒ a quanto
pare mio padre l’aveva letto tutto a diciassette anni, anzi per la precisione
aveva letto tutto “Nìch” (era così che lo chiamava, del resto mio padre non è
nato a Gelsenkirchen ma in un paesino del Sud della Calabria). Io leggevo questo
“Nìch” e mi esaltava anche se (anzi dovrei dire proprio perché) non ci capivo
niente. Ricordo che nello stesso periodo ci avevo provato fortissimo ma invano
con una certa Tania di cui era innamorato anche un mio amico. Il mio amico si
chiamava Andrea e lo invidiavo da morire, non tanto perché fosse biondo, quanto
perché quando giocavamo a tennis mi diceva che aveva i battiti a 50 come ce li
hanno solo i veri atleti. Andrea sarà stato anche un vero atleta, però non
leggeva “Nìch” come mio padre, per cui quando provai a spiegargli che mettendo
l’amicizia davanti all’amore avrei tradito la mia “volontà di potenza” decise
comunque di mandarmi a quel paese.
Da allora è passato molto tempo, tra le altre cose mi sono laureato in Lettere
(forse anche un po’ per penitenza), ho finito la saga di Harry Potter (bugia, mi
manca ancora l’ultimo perché quando è uscito nel mio ambiente andavano di moda
Erodoto e Pizzuto), ma non sono diventato un mago. In compenso, oggi tutto
sommato i libri difficili mi piacciono, non sempre li lascio a metà e a volte li
metto persino nella lista dei miei preferiti. Sarà anche per questo che, quando
la redazione me lo ha chiesto, ho accettato di leggere il nuovo romanzo di Gian
Marco Griffi con l’idea di recensirlo. Griffi è il Bolaño italiano, anzi no,
Griffi è il nostro Pynchon, o così almeno ho sentito in giro. Io, a dire il
vero, a questa cosa non ho creduto proprio subito, un po’ perché sono
diffidente, un po’ perché due miei amici e un critico di cui mi fido spesso non
ne hanno parlato così bene. I due miei amici (che poi sono anche loro critici di
cui mi fido) sono Antonio Galetta e Fabrizio Maria Spinelli. Il critico è Matteo
Marchesini.
Ora, bisogna sapere (ma nella cosiddetta “bolla” letteraria ormai lo sanno
tutti; anche fuori, a dire il vero, ci sono molti che lo sanno), bisogna sapere
che nel 2022 Gian Marco Griffi ha pubblicato un romanzo che si chiama Ferrovie
del Messico, la storia di un soldato astigiano che verso la fine della Seconda
guerra mondiale viene spedito senza troppe spiegazioni a cercare una mappa delle
ferrovie messicane (c’è chi dice che in queste ferrovie si nasconda l’arma che
farà vincere la guerra ai tedeschi, ma sarà vero? Sì, sono i tedeschi che lo
mandano), e nel frattempo soffre di un grave mal di denti, ma non se lo cura
perché ha paura dei dentisti (i dentisti hanno un ruolo ragguardevole nella
poetica di Griffi), e si innamora, e incontra un sacco di persone, e tutte
queste persone parlano o come personaggi del Grande Lebowski o come poeti
surrealisti, e al protagonista raccontano storie che sembrano poeticissime ma a
noi le nascondono (“Lui mi parlò di scheletri che camminano tenendosi per mano.
[…] Parlò di onde magnetiche e generali baffuti e marionette monche. Parlò di
apocalissi e diavoli. […] Parlò di donne blu e di uccelli contorti e di mostri
tentacolari. Parlò di aurore chimiche e di strali lucenti magnetici”, ecc.).
Ferrovie del Messico, insomma, è un buon romanzo, non dico di no, un po’
manieristico, forse, sicuramente sopravvalutato, ma ci sono diverse pagine
belle, forse un po’ stucchevoli e ripetitive, e altre divertenti (o almeno a me
fanno sorridere). Certo, la trama è un poco esile (per usare un eufemismo), a
volte sembra un pretesto, a volte sembra persino che l’autore abbia voluto
trovare una scusa per mettere insieme vari incipit e belle pagine che non sapeva
dove mettere (qualunque scrittore, prima di diventare uno scrittore, riempie il
computer di incipit scritti benissimo e brani ispirati ma senza capo né coda),
però, ecco, non me la sento di dire che Ferrovie del Messico non sia un romanzo
al di sopra della media. Non sono nemmeno troppo d’accordo con Antonio Galetta e
Fabrizio Spinelli, secondo i quali il problema principale del romanzo sarebbe
che fa solo finta di essere complesso come tutti dicono (tutti dicono che i
romanzi di Griffi sono complessi, anzi complessissimi), mentre invece è un libro
che accompagna il lettore con molti accorgimenti retorici mirati a non
affaticarlo troppo. Antonio e Fabrizio hanno un’idea più radicale dei compiti
della letteratura rispetto a me, forse dovrei dire anche, per essere onesto, che
credo che sia anche un po’ più aristocratica, a me la difficoltà non è mai parsa
un valore in sé e per sé (ok, sì, a parte quando fingevo di leggere Pizzuto). E
poi bisogna dire che le loro recensioni sono davvero cattivissime, spietate come
devono essere delle vere stroncature, e io li ammiro per questo, perché sono
persone che scrivono quello che pensano come ne rimangono poche, specie in un
mondo come quello dell’editoria italiana dove per farsi dei nemici basta
esistere, e dove per esistere bisogna farsi per forza degli amici.
> Ferrovie del Messico è un buon romanzo, un po’ manieristico, forse,
> sicuramente sopravvalutato, ma ci sono diverse pagine belle, forse un po’
> stucchevoli e ripetitive, e altre divertenti. Certo, la trama è un poco esile
> (per usare un eufemismo), a volte sembra un pretesto.
Io non sono come loro, non sempre dico quello che penso perché ho paura delle
conseguenze, e nel caso specifico di Griffi le conseguenze possono essere
terribili, posso dirlo perché ho assistito coi miei occhi, e i miei occhi
testimoniano che i lettori di Griffi sono degli ossi duri che bisogna
rispettare, è gente che se l’autore fa un post su Facebook per dire di esserci
rimasto male per una recensione negativa non si limita certo a consolarlo, ma
proprio comincia a insultare l’estensore della recensione. Al povero Antonio
Galetta hanno detto per esempio “abbiamo un turbocritico?”, “Siamo nell’apoteosi
del nulla”, ma anche un più diplomatico ‒ e anacolutico ‒ “Si avanzano
perplessità, che però boh”, e altre cose che non posso più recuperare perché
Griffi ha cancellato il post. A Spinelli, se possibile, è andata pure peggio:
“Ma perché quest’altra minchiata dove la mettiamo?”; “Un altro che si sbrodola
inchiostro addosso… nessun motivo per impiastricciarmi fino alla fine della
recensione [emoji di una penna, in allegato un bavaglino]”; “esiste un critico
che non usi toni, possa io esser perdonato ma non mi vengono altre parole, del
cazzo?”; “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per
niente?”; “Mah, io direi che questa recensione si potrebbe anche assolvere con
un compassionevole pat pat di incoraggiamento. […] Perlopiù materia di un
terapeuta.”; et cetera. (Ora che ci penso, forse ho fatto male a dire che
Galetta e Spinelli sono dei miei amici, sarebbe stato meglio prendere le
distanze fin da subito, dire tutt’al più che li conosco, ma non li stimo, che li
ho incrociati una volta soltanto e in un contesto anonimo, che so, a una
presentazione di Recalcati, nei commenti sotto a un post di Zerocalcare sui
fascisti ‒ non mi ero accorto che Recalcati e Zerocalcare avessero due nomi così
simili, sarebbe bello immaginare una collab, chiamarla Zerocalcati, o Recalcare,
“Ce o sai che ’sto Lacà m’aricorda tanto er mio armadillo?”, ma che sto dicendo?
Sono proprio un cretino, ora i lettori di Griffi diranno anche a me che mi
sbrodolo).
Nemmeno a Marchesini sono legato da alcun rapporto di amicizia, se non altro da
quando per sfottermi ha deciso di paragonarmi a Robertino, quello di Ricomincio
da tre, perché nella testa secondo lui non tengo un complesso, “ma tutta
l’orchestra”, come diceva Massimo Troisi. Anche se non siamo amici, però, lo
leggo spesso volentieri, persino quando mi fa innervosire, e nel caso specifico
il suo intervento a Radio Radicale mi è sembrata la cosa più sensata uscita su
Ferrovie del Messico tra quelle che mi è capitato di incontrare. Secondo
Marchesini, il vero problema del romanzo non risiede né nella semplificazione di
moduli stilistici appartenenti ad altre epoche o letterature, né
nell’inconsistenza ideologica del suo protagonista, quanto nella totale assenza
di un vero attrito opposto dal mondo alle sue peripezie: Cesco Magetti non
rischia davvero mai, non tanto sul piano dell’incolumità fisica, che conta fino
a un certo punto, quanto su quello dei valori. In un romanzo che fa di tutto per
apparire stratificato, il protagonista è paradossalmente un uomo che rifugge la
complessità, e rifuggendola ha ragione in modo troppo facile, perché ciò da cui
scappa (l’assurdità della guerra) non merita ai suoi occhi una risposta
articolata. I fascisti e i nazisti (vettori di quel che dovrebbe incarnare il
Male con la maiuscola nell’economia della storia) non sono mai presi sul serio,
ma sempre sottoposti a un trattamento macchiettistico che li rende in definitiva
inoffensivi. Un gioco per molti versi banale, una forma di ammiccamento alle
convinzioni già radicate nel lettore, che può dunque identificarsi senza lo
scomodo rischio di essere messo in discussione, magari per scoprire che il
fascismo di cui tanto ama ridere ha delle radici antropologiche profonde di cui
lui stesso potrebbe essere partecipe (per esempio nel modo, uno stroncatore
cattivo direbbe squadrista, con cui reagisce a una brutta recensione).
> In un romanzo come Ferrovie del Messico, che fa di tutto per apparire
> stratificato, il protagonista è paradossalmente un uomo che rifugge la
> complessità, e rifuggendola ha ragione in modo troppo facile, perché ciò da
> cui scappa (l’assurdità della guerra) non merita ai suoi occhi una risposta
> articolata.
Solo ora mi rendo conto che mi sono perso in una lunga digressione, ho parlato
di tutto fuorché del libro che devo recensire, dev’essere per questa malattia
mimetica che mi porta a imitare tutto ciò che leggo e spesso neanche me ne
accorgo. Il libro si chiama Digressione, è uscito per Einaudi a giugno e, a
parte il titolo che sembra piuttosto quello di un saggio di un narratologo
francese, uno di quei titoli ricattatori fatti per gente che ha studiato, a
parte questo dicevo è un libro che mi ha incuriosito fin da subito: mi sembra
sempre una buona notizia quando un editore grosso decide di pubblicare un
romanzo che non nasconde di essere ambizioso, ambizioso intendo in senso
estetico, perché di romanzi che ambiscono a rapinare il tempo e i soldi dei
lettori ce ne sono già tantissimi, direi più o meno quasi tutti. Anche
Digressione, come me in questo momento, indulge un po’ troppo nel vizio di
andare alla deriva, di girare attorno alle cose invece che dirle come sono, di
perdersi e poi ritornare o di perdersi e basta (del resto l’autore lo dice
chiaramente, intendo l’autore in carne e ossa, quello che va in giro e parla del
libro alle presentazioni. Io stesso l’ho sentito dire a una radio svizzera che i
lettori che si aspettano un romanzo con una storia dove tutto torna rimarranno
delusi, altrimenti non l’avrebbe intitolato, appunto, Digressione). Digressione
insomma è un libro manifesto, un libro concettuale, un romanzo in cui la postura
dell’autore conta molto (“postura” l’ho imparato all’università, significa il
modo in cui un autore si distingue dagli altri e a volte se la tira), la storia,
presa a sé, un po’ meno. Comunque, ecco, una storia ci vuole, se non altro per
il gusto di andarsene via per la tangente e parlare di tutt’altro.
Ecco, anche la storia che racconta Digressione è a suo modo una buona notizia, e
lo è proprio perché è una storia strampalata piena di invenzione, e in un’epoca
in cui quasi tutti pensano che una storia “vera” abbia valore in sé e per sé,
soltanto perché è vera, quando in realtà è proprio il contrario, ecco, se in
un’epoca come questa Einaudi pubblica ancora romanzi folli, surreali o
fantastici innanzitutto c’è da festeggiare (alla lista vanno aggiunti almeno Il
duca, 2022, di Matteo Melchiorre, L’isola e il tempo, 2024, di Claudia Lanteri e
La giusta distanza dal male, 2025, di Giorgia Protti). Al contrario che in
Ferrovie del Messico, in Digressione ci sono molte meno pagine “scritte bene”
nel senso a volte un po’ convenzionale e retorico del romanzo precedente, mentre
si insiste assai di più sull’invenzione sbrigliata sul piano del contenuto. Ne è
un segnale forte il cambiamento di genere: non più un romanzo storico sia pure
pieno di derive ironiche, assurde e parodistiche, ma un’ucronia carica di
elementi magici e fantascientifici, che si lega alla storia di Cesco Magetti
grazie al ritorno di diversi personaggi e situazioni. Protagonista è, in questo
caso, Arturo Saragat, un giovane astigiano che nella prima scena del romanzo
assiste a un episodio di bullismo nei confronti del suo amico Tommaso
Sconocchini senza trovare il coraggio di intervenire per difenderlo. Sarà
proprio Tommaso a consegnargli il libro che gli cambierà la vita, la copia 33 di
quella Historia poética y pintoresca de los ferrocarriles en México alla cui
ricerca si era messo Cesco nel romanzo precedente.
> Digressione indulge un po’ troppo nel vizio di andare alla deriva, di girare
> attorno alle cose invece che dirle come sono, di perdersi e poi ritornare o di
> perdersi e basta.
Sfogliandolo, Arturo si accorge che il volume è passato da parecchie mani per un
periodo molto lungo, e che queste mani hanno partecipato a un gioco inventato a
Villa Diodati da Mary Shelley e i suoi sodali, e che questo gioco si chiama
appunto “Digressione” (o, in tedesco, “Abschweifung”) e consiste
nell’allontanarsi dalla propria vita, aprire una lunga parentesi, far perdere le
proprie tracce e tornare solo dopo molto tempo. Vite digressive attorno un libro
è la corposa sezione del romanzo (la seconda su sette, da p. 49 a p. 519) che
indaga gli eterogenei personaggi che hanno preso parte a questo gioco. Nel
frattempo Arturo, ariostescamente, conosce una certa Angelica e se ne innamora,
ma siccome entrambi stanno digredendo decidono di darsi appuntamento ad Asti una
volta ogni quattro anni, cioè soltanto quando ci sono le elezioni.
La politica, rappresentata di nuovo in termini paradossali o satirici, è ancora
una volta uno dei nuclei tematici attorno a cui la narrazione vortica più
spesso. Una, soprattutto, l’idea portante: Mussolini non è stato giustiziato ma
deportato su un’isola, e poi su un’altra, e poi su un’altra ancora, come in una
sorta di crociera punitiva che lo porterà infine a Pantelleria, dove alleverà
degli “asini sacri” che diventeranno un oggetto di culto per i suoi nostalgici.
Alcune delle scene più riuscite ritraggono questi personaggi con uno stile
macchiettistico forse un po’ facile, alla Fascisti su Marte (Fascisti su Marte
di per sé fallisce come film proprio perché è una gag stiracchiata troppo a
lungo; figuriamoci farne un polpettone lungo mille pagine). Insomma, tornare
indietro, rifare daccapo, darsi una seconda possibilità: è questo che accomuna
l’universo etico dei “Rievocatori littori”, e cioè i pifferai magici dei
neofascisti, e quello di Arturo Saragat, che rivorrebbe indietro, per cambiarlo,
il giorno in cui, nell’anonimo parcheggio di un Carrefour di Asti, ha assistito
ignavo alla tortura di un suo amico.
Da questo rimorso, declinato quasi sempre nella direzione di un delirio
peripatetico e farsesco, deriva il filo esilissimo che tiene insieme la mole
monumentale del romanzo. Saragat si convince che a lui e a Tommaso non sarebbe
accaduto niente di spiacevole se solo quella mattina avesse mangiato la
marmellata di fichi come al solito:
> Io mi sentivo un verme, e mangiavo marmellata di fichi a colazione. Spesso
> avevo sognato che se non avessi mangiato marmellata di fichi a colazione mi
> sarei svegliato nel corpo di un maiale da allevamento. Era certamente
> un’allegoria. Un simbolo. Una rappresentazione metaforica. Non pensavo davvero
> di potermi trasformare in un maiale d’allevamento stipato in un autocarro
> diretto al macello, ma sapevo che se non avessi mangiato marmellata di fichi a
> colazione, qualcosa di orribile sarebbe successo. A me o al mondo. Ma
> soprattutto a me. Pensavo che la mia vita sarebbe stata tormentata da una
> sgualdrina nigeriana mentre un tagliaborse tunisino sfuggiva alla forca per un
> cavillo legale. E che entrambi avrebbero importunato l’autista di un autobus
> che mi avrebbe investito in corso Gabriele D’Annunzio mentre attraversavo la
> strada sulle strisce pedonali ascoltando una canzone dei Sex Pistols con le
> cuffie.
> E qualcosa di orrendo era effettivamente successo, due giorni prima (quella
> mattina ero in ritardo per scuola e avevo sciaguratamente saltato la
> colazione, e quindi non avevo mangiato la marmellata di fichi), nel parcheggio
> del Carrefour abbandonato.
Molta della sua storia nasce da questo spunto idiosincratico e ridicolo, e
Saragat va dapprima alla ricerca vana di un barattolo di marmellata, poi insegue
una vecchia megera-maga che potrebbe forse farlo tornare indietro nel tempo, e
per incontrarla deve aspettare una vita intera che sia lei stessa a presentarsi,
e il luogo in cui si presenterà è un piccolo comune fantasma della provincia di
Reggio Calabria che si chiama Roghudi Vecchio, un luogo oscuro, misterioso e
irraggiungibile che è stato all’origine di una sua peculiare patafisica eponima
che si chiama appunto roghudistica, una disciplina enigmatica studiata da
esperti delle maggiori università del globo. Roghudi Vecchio esiste veramente, è
un paese che è stato abbandonato dopo un’alluvione, ma a Griffi la realtà in
quanto tale interessa fino a un certo punto. In Digressione Roghudi è una
parodia dell’aleph borgesiano, uno scherzo topografico difeso da testardi demoni
burocratici, l’irridente buco nero verso cui tende un romanzo che prende in giro
la possibilità stessa di raccontare una storia, e nel frattempo ti costringe ad
aprire un sacco di volte il dizionario.
> Con Digressione abbiamo un cambiamento di genere: non più un romanzo storico
> sia pure pieno di derive ironiche, assurde e parodistiche, ma un’ucronia
> carica di elementi magici e fantascientifici.
Quindi è bello? All’inizio pensavo di sì, intendo prima di leggerlo. Poi l’ho
letto, e leggendolo mi sono annoiato moltissimo, e mentre lo leggevo mi chiedevo
“ma non sarebbe meglio pubblicare direttamente il dizionario?”, e mentre me lo
chiedevo mi tornava in mente il mantello dell’invisibilità. Come dicevo, io
purtroppo non sono un mago, ma Harry Potter l’ho letto tutto (quasi), ho visto
pure i film più di una volta, ho visto il documentario sui backstage, e di Harry
Potter e la pietra filosofale (2001, regia di Chris Columbus) so a memoria tutte
le battute sia in italiano sia in inglese (ok, forse le sapevo, ora ho la RAM
occupata dall’ipotesi che i reel sull’ADHD siano essi stessi la causa più
diffusa dell’ADHD), insomma in parole povere sono un banalissimo millennial, e
un banalissimo millennial sa bene che quando Harry riceve il mantello
dell’invisibilità da colui che si rivelerà l’amico e padrino Sirius Black, ma
che per ora si limita ad allegare al regalo una lettera anonima, si sente anche
rivolgere una raccomandazione che ciascuno di noi ha imparato a estendere alla
propria vita in generale, appunto come raccomandazione, mai come effettiva messa
in pratica, e che questa raccomandazione è “Fanne buon uso” (in inglese “Use it
well”), una raccomandazione che diventa tanto più autorevole quando nel terzo
film della serie si scopre che a interpretare Sirius Black è Gary Oldman.
“Fanne buon uso”, del resto, è un motto che nell’economia della storia vale per
la magia in generale, ed è evidente che la magia è anche una metafora della
libertà e del talento, e il talento è nel non usarlo mai tutto, come diceva più
o meno Giorgio Agamben in Il fuoco e il racconto (2014). “Fanne buon uso” vale
anche per quel tipo specifico di magia retorica che è la “digressione” che dà il
titolo al libro. Nei romanzi riusciti le digressioni sono spesso tra le parti
più belle, e lo sono proprio perché gli scrittori bravi decidono di staccarsi
dal racconto della vicenda solo quando ne vale davvero la pena, perché hanno
scoperto qualcosa di importante, di prezioso, qualcosa che è una distrazione
fino a un certo punto, perché magari a ben vedere nasconde la sostanza di quel
che intendono dire, e magari era proprio lì che volevano arrivare, e forse
quando hanno cominciato a scrivere neanche lo sapevano. Ma se la digressione
diventa un obiettivo programmatico, se lo scrittore decide fin dall’inizio che
alla digressione lascerà piena libertà di dispiegarsi e spazio, ecco che rischia
di ottenere l’effetto contrario; invece che un romanzo-galassia pieno di orbite
che si attraggono, e da cui solo quando è proprio inevitabile salta fuori un
corpo celeste non autorizzato, il risultato può essere invece un romanzo-soufflé
dove la digressione, proprio perché istituzionalizzata, perde qualunque effetto
disturbante, si normalizza e si sgonfia.
Alberto Casadei ha ragione a inserire la storia di Arturo Saragat nella lunga
tradizione dei romanzi divaganti alla Sterne, ce ne sono tanti che sono
bellissimi, e lo dico persino io che non sono iscritto all’Ordine dei Digressori
di Creta di cui parla Griffi ma a quello dei Babbani Aristotelici. (Noi Babbani
Aristotelici non abbiamo ancora scelto un’isola in cui stabilirci, ma pensiamo
che le storie più belle siano quelle che hanno un inizio, un mezzo e una fine,
una vicenda principale raccontata bene e un tempo e un luogo ben delimitati).
Alberto Casadei è uno studioso coltissimo, lo conosco anche perché insegna
nell’università dove ho studiato, e la sua recensione al romanzo di Griffi è una
guida fatta davvero molto bene. Ma Alberto Casadei, pur facendo bene a inserire
il romanzo in quella lunga tradizione, paragonandolo a Sterne e a Rabelais,
dimentica di dire che Digressione di quei modelli non è molto all’altezza, e non
è all’altezza per motivi innanzitutto tecnici, perché Digressione è a ben vedere
un romanzo scritto male, o almeno così così, e per rendersene conto basta
aprirlo a caso:
> Da diciannove anni il professor Maccabei non può varcare la soglia del suo
> palazzo se prima non ha annaffiato i vasi davanti alla porta della vedova
> Iaccarini: se così non facesse dovrebbe prepararsi a fronteggiare una
> disgrazia di qualche genere, giacché nelle tre circostanze in cui ha mancato
> di innaffiare le piante della vedova Iaccarini gli è sempre successo qualcosa
> di brutto. […] Al bar-teatro dei pupi Charlemagne il professor Maccabei è
> piuttosto allegro. Ordina un cappuccino e un cornetto (rigorosamente privo di
> qualsivoglia ripieno) e siede al terzo tavolo partendo dall’ingresso (se è
> occupato attende pazientemente che si liberi), dove consulta con curiosità il
> quotidiano, badando di leggere con attenzione la pagina degli oroscopi. Ennio
> Maccabei è cancro ascendente cancro, e quella, pensa col sorriso sulle labbra,
> è una grande fortuna, poiché se fosse cancro ascendente toro, per esempio, non
> potrebbe consumare la sua solita colazione, e se fosse cancro ascendente
> ariete dovrebbe attendersi una copiosa fuoriuscita di denaro nelle prossime
> dodici-quarantotto ore. […] Mentre è seduto e affaccendato negli affari suoi,
> solitamente viene trascinato in vacue chiacchiere dal barista e da qualche
> avventore. Soltanto con Arturo Saragat egli conversa di temi piú complessi e
> profondi, con gli altri conversa di bagattelle. Talvolta con Arturo Saragat
> stesso conversa di bagattelle, ma con lui conversa non soltanto di bagattelle,
> con gli altri conversa soltanto di bagattelle.
Si va dalle espressioni pigre e generiche del periodo iniziale (“una disgrazia
di qualche genere”, “qualcosa di brutto”) alle ripetizioni sgraziate di quello
finale (“Talvolta con Arturo Saragat stesso conversa di bagattelle, ma con lui
conversa non soltanto di bagattelle, con gli altri conversa soltanto di
bagattelle.”), aggravate da un uso del corsivo enfatico che serve in questo caso
più che altro da espediente grafico per coprire la mancanza d’inventiva e il
ritmo sciatto della frase. In mezzo soltanto ironia scipita (sul serio, la
parodia degli oroscopi?), dettagli inutili e frasi ridondanti. Va bene, va bene,
è ingeneroso aprire una pagina a caso, è normale che la penna possa sfuggire di
mano ogni tanto, soprattutto in un romanzo di mille pagine. Basta prendere
l’incipit, che in effetti è molto meglio:
> Avevamo deciso di testare i riflessi di Tommi un martedì dopo la scuola.
> Il martedì era un buon giorno per crepare o per testare i riflessi a piccoli
> insignificanti ciccioni gonzi, anche se dopotutto per noi un giorno valeva
> l’altro, e per spassarcela avremmo potuto trovarci di lunedì, o di mercoledì.
> Ma il lunedì è logoro e abusato, frainteso come la morte nei tarocchi, e il
> mercoledì è peloso e verdognolo come il roquefort andato a male, mentre il
> martedì è un giorno senza qualità, di quelli che non nota nessuno, ideale per
> vagabondare e non celebrare niente. E poi, secondo quegli invasati degli
> iscariotici, come la mamma di Viola, il martedì è il giorno dedicato a
> prepararsi alla fine del mondo, e non c’è niente di meglio per prepararsi alla
> fine del mondo che un martedì ad Asti.
> E così ci siamo trovati nel parcheggio del Carrefour abbandonato, verso le
> cinque di pomeriggio; era la prima giornata fredda dell’autunno, di quelle
> fosche e opprimenti, gli alberi erano così ossuti che parevano pietrificati,
> le aiuole soffocavano sommerse da cartacce sparse sul terreno gibboso e
> spoglio, arido, perfino i cespugli erano squallidi e insignificanti,
> spelacchiati, e le strade erano vuote e smarrite. Il mappamondo della
> Vercingetorige, là in fondo, oltre il Borbore, ruotava sopra i tetti fiacco e
> sordo.
Dai, la battuta su Asti e la fine del mondo in effetti è divertente, anche se
non proprio originalissima. E però, perché rendere il linguaggio giovanilistico
in un modo tanto boomer (“gonzi”, “spassarcela”)? Perché le ripetizioni
meccaniche (“testare i riflessi”, due volte in due righe)? Perché la pigrizia
nell’aggettivazione (“insignificanti”, due volte in due paragrafi)? Perché la
ricerca di un lirismo tanto più facile perché ottenuto con accostamenti gratuiti
(“Ma il lunedì è peloso e verdognolo come il roquefort andato a male, e il
mercoledì è logoro e abusato, frainteso come la morte nei tarocchi, mentre il
martedì è un giorno con troppe qualità, di quelli che saltano all’occhio subito,
ideale per stare a casa e celebrare le feste comandate”, ho stravolto gli
accoppiamenti ma non ve ne siete accorti perché è retorica e mielosa uguale)?
Inoltre, e soprattutto, per quale motivo un ragazzino in età scolare dovrebbe
ragionare così? E quanto basse devono essere le aiuole per “soffocare sommerse”
(addirittura) dalle cartacce? Lo so, sto facendo il pedante, stiamo parlando di
una pagina che è comunque al di sopra della media, l’atmosfera funziona, ci sono
cose belle, ecc. Ma è anche una pagina che mi sta invitando a leggere un romanzo
sperimentale di 1003 pagine: non può essere solo al di sopra della media, deve
essere perfetta. E invece si avvertono fin dall’inizio una serie di sciatterie
che col proseguire della lettura, inevitabilmente, si moltiplicano, e che non
rendono giustizia a un’ambizione poderosa, che è quella di scrivere il Grande
Romanzo Italiano.
> Si avvertono fin dall’inizio una serie di sciatterie che col proseguire della
> lettura, inevitabilmente, si moltiplicano, e che non rendono giustizia a
> un’ambizione poderosa, che è quella di scrivere il Grande Romanzo Italiano.
L’idea che si debba ancora scrivere un Grande Romanzo Italiano ha cominciato a
circolare nella bolla letteraria degli ultimi anni soprattutto seguendo
l’esempio di un discorso analogo proveniente dal dibattito letterario
d’oltreoceano. Quello del Grande Romanzo Americano, in effetti, è un concetto
piuttosto dibattuto, la cui pregnanza storiografica è stata spesso messa in
discussione. Philip Roth, per esempio, ha intitolato beffardamente Il Grande
romanzo americano (1973) un suo libro sul baseball, spinto dalla volontà di
irridere un’etichetta abusata e l’ambizione mal riposta che vi è collegata. Era
il 2019 quando la redazione della rivista L’Indiscreto pubblicava un
questionario, rivolto a “66 critici”, una delle cui domande principali
riguardava proprio la possibilità, in Italia, di un Grande Romanzo nazionale
come si trovava in altre letterature:
> Dall’altro lato, non dovrebbe forse un qualunque “grande romanzo” farsi già
> trans-nazionale? (vengono alla mente, come esempi tra i più immediati e
> recenti, coincidenti con altrettanti “grandi romanzi” di autori esteri, I
> detective selvaggi e 2666 di Roberto Bolaño, Europe central di William T.
> Vollmann, Abbacinante di Mircea Cărtărescu, Austerlitz di W.G. Sebald).
Digressione presenta delle caratteristiche che lo accomunano, da una parte, ad
almeno alcuni dei modelli proposti dal questionario, dall’altra alla tradizione
postmoderna in generale: il carattere “transnazionale” della vicenda narrata,
l’adozione di uno stile complesso e variegato, l’intreccio basato sulla quête di
un oggetto o di una persona introvabile, il partito preso dell’ironia e,
soprattutto, la lunghezza colossale (non a caso, i presunti autori di Grandi
Romanzi sono tutti maschi, e il linguaggio che si usa per parlarne contiene
quasi sempre metafore da artificiere ‒ un libro “potente”, un romanzo
“esplosivo” ‒ dai chiari tratti fallici). Il problema è che, per ottenere questa
Lunghezza Fallica™, Griffi ha dovuto allungare il suo vino con moltissima acqua.
L’intero impianto formale di Digressione si può interpretare come il frutto
meccanico e velleitario di una coazione a scrivere tanto. Il paragone con
Ariosto, che il romanzo invoca in più modi, e che è stato avanzato anche da
Casadei, funziona per descrivere l’architettura del libro a livello
macroscopico, ma non regge per l’assenza di una cura davvero attenta, di una
reale raffinatezza della lingua. Come la narrazione di Ariosto, anche lo stile
di Griffi si serve di una serie di dispositivi ritardanti, con la differenza che
leggendo Ariosto non riceviamo mai l’impressione di un’effettiva ridondanza,
mentre in Griffi questo avviene quasi in ogni pagina.
> Il paragone con Ariosto, che il romanzo invoca in più modi funziona per
> descrivere l’architettura del libro a livello macroscopico, ma non regge per
> l’assenza di una cura davvero attenta, di una reale raffinatezza della lingua.
Digressione è perlopiù prolisso, spesso ampolloso, quasi sempre “letterario” in
un modo facile e superficiale. A concorrere a questo esito sono diversi
elementi. Per esempio, il gusto insistito per la correptio irrilevante (“Era
certamente un’allegoria. Un simbolo. Una rappresentazione metaforica.”;
“l’avrebbe riletta almeno cinquanta volte (per la precisione cinquantaquattro)”;
“la Mappamondi Vercingetorige impiega circa millesettecento astigiani, per la
precisione millesettecentoquarantuno”), magari guidato dalla volontà di citare
più parole possibili dalla versione online del Tommaseo-Bellini e così
guadagnarsi una facile aura di preziosità (“Era stata definita in molti modi dai
gretti e sempliciotti contadini del Monferrato: fattucchiera, maga, negromante,
masca, guaritrice o curandera, e nessuno di quelli era completamente inesatto,
pur non essendo neppure completamente esatto”; “e per dimostrarlo mise a
soqquadro mezza casa per trovare un dizionario, un vocabolario, un calepino,
finché in fondo a una cassapanca, sepolto tra cianfrusaglie, vecchie riviste,
statuette del presepio, ciarpame vario, trovò uno Zingarelli, undicesima
edizione, del millenovecentottantatre”; “D’altra parte casa nostra è un continuo
tramenio di cose, un turbine di arnesi e manufatti affastellati alla rinfusa, un
grande deposito di carabattole”). Qui per esempio c’è una pagina di singolare
bruttezza dove troviamo tante serie sinonimiche, quasi tutte di ritmo ternario,
presentate insieme, sempre nel quadro di un generale amore per l’accumulazione
di dettagli inutili che sfiora la poetica dell’elenco telefonico:
> Dirigendoci verso il primo bar abbiamo notato uno scarafaggio, o forse uno
> scarabeo, o una blatta (perdonateci se non siamo molto ferrati sui nomi degli
> insetti, ma l’entomologia ci è del tutto ignota), e per qualche ragione ci
> siamo convinti che dovevamo seguire il suo zampettamento sui sampietrini di
> via dei Cappellai. Una sensazione travolgente e ineffabile. Lo scarafaggio ci
> convocava, ci imponeva di seguirlo nel quartiere a luci nere, un angiporto
> graveolente nel centro di Asti dove stanno, una accanto all’altra,
> innumerevoli botteghe di chiaroveggenti, pizie, sibille, pitonesse (forse il
> termine «bottega» non è appropriato, ma non ce ne viene in mente uno
> migliore). Costoro pretendono di indovinare il futuro leggendo carte e mani e
> qualunque cosa si possa leggere o interpretare, dal respiro al volo delle gru,
> dagli escrementi di gallina ai fondi del caffè, dai dadi ai galli, dai setacci
> appesi ai rami ai germogli di cipolla, dalle chiavi alle formiche, e in fondo
> noi siamo convinti che professino un mare di fandonie buone soltanto a
> ingannare l’altrui dabbenaggine. Crediamo che quasi tutte diffondano soltanto
> menzogne, e che le migliori tra le imbroglione siano quelle dotate di
> immaginazione piú fervida (giacché, dobbiamo pur ammetterlo, il mestiere della
> chiaroveggente poggia su una non comune predisposizione al groviglio, alla
> bugia, all’inventiva, e in ciò le chiaroveggenti non sono dissimili dagli
> scrittori, dagli sceneggiatori, dai pittori, quando inventano situazioni,
> scenari, mondi).
L’ironia spuntata sulle veggenti fa il paio con quella sugli oroscopi. E poi c’è
la ricerca ricattatoria dell’effetto “parete di testo” (che potremmo anche
chiamare “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”), per cui Griffi sceglie di
non andare a capo quasi mai neanche nei dialoghi, separando invece le battute
con la barra obliqua (“Ciao dimmi / sono un uomo anziano, signorina / mi
dispiace molto / date del tu a tutti?”). E il plurilinguismo quasi sempre
superficiale e mimato, che giustappone le lingue anziché porle in attrito,
puntando tutto sulla quantità (ma non importa inserire in un romanzo lo
spagnolo, il francese, l’ebraico, il tedesco, l’arabo, gli ideogrammi, i
dialetti, il latino, se poi non producono uno scarto degno di nota nel sistema
stilistico complessivo). Il citazionismo per stimolare il pathos bibliografico
dei critici-filologi e lo snobismo di massa dei lettori colti. E la ripetizione
usata come figura-passepartout, come un apriporte retorico spacciato per
raffinata ricerca di una “saturazione semantica” che sa tanto di supercazzola:
> Ci piace ripetere le parole finché non perdono il loro significato. Dopo un
> po’ una parola ripetuta piú e piú volte perde il suo significato originario.
> Saturazione. Semantica. Saturazione saturazione saturazione saturazione
> saturazione saturazione saturazione saturazione saturazione saturazione
> saturazione saturazione saturazione saturazione saturazione saturazione
> saturazione saturazione saturazione. Semantica semantica semantica semantica
> semantica semantica semantica semantica semantica semantica semantica
> semantica semantica semantica semantica semantica semantica semantica
> semantica.
E gli stereotipi orientalisti alla Benvenuti al Sud (l’impiegata del comune che
dice: “Buongiorno, […] mi chiamo Costantina Papagianni, questa è l’unica frase
che so dire in italiano corrente, e sono l’unica impiegata dell’Ufficio
redenzioni del comune di Roghudi, come posso esserle utile?”). E il fascismo
sottoposto al trattamento Propaganda Live, e cioè liquidato e sfottuto, trattato
come un jingle o una barzelletta (possibile che non riusciamo a raccontarlo in
modo serio e problematico, ma dobbiamo per forza o ridicolizzarlo o mitizzarlo?
Non è che Griffi è l’altra faccia di Scurati?). E l’amnesia selettiva che fa
dimenticare all’autore che esistono i pronomi e i soggetti sottintesi, specie se
ci sono nomi che è “poetico” ripetere perché sono, appunto, esotici:
> Don Hipólito prese un sigaro, lo annusò passandoselo sotto il naso, lo spuntò
> col tagliasigari e usando un fiammifero lo accese. Domandò a Guillermo se gli
> desse fastidio il fumo. Guillermo disse di no, Don Hipólito atteggiò le labbra
> a un mezzo sorriso e gli domandò se fosse stato lui a rubare la Historia
> poética. Guillermo fece no con la testa, e disse che non sapeva chi lo avesse
> rubato. Don Hipólito gli disse che detestava i bugiardi, ma che ciò non gli
> aveva mai impedito di farci affari.
e così via, per pagine e pagine, e ancora altre pagine, e mi rendo conto che lo
faceva anche Bolaño, ma a parte che Bolaño (ripeto) andava a capo con una
frequenza ragionevole, Bolaño (ripeto) si preoccupava anche di far dire ai
propri personaggi cose originali o interessanti, non usava la ripetizione per
narcotizzare, e soprattutto Bolaño (ripeto) ambientava i romanzi in Messico
perché ci aveva vissuto, non perché suonasse bene, e del Messico gli
interessavano i poeti scapigliati ma anche le donne ammazzate nel deserto, e la
sua ironia funzionava perché era l’altra parte di un dolore e di una violenza
che per essere dicibili assumevano spesso il tono freddo del rapporto clinico.
Griffi al contrario ci mostra che l’abuso di ironia può provocare danni al
sistema poetico (“Dopotutto è la dose che fa il veleno, no?”, dice lui stesso a
un certo punto), e non basta una frase da bacio perugina ripetuta allo
sfinimento (“Non possiamo essere gentili in questo mondo oscuro”) a conferire i
crismi della serietà a un divertissement virtuosistico, a un romanzo in
definitiva pretestuoso e qualunquista.
Insomma, il libro che si vorrebbe un fiume ingordo capace di raccontare tutto e
il suo contrario, la realtà attraverso l’irrealtà, la quantistica e la Storia, è
forse invece il letto secco di un rigagnolo esausto dal caldo? E, se il Grande
Romanzo Italiano è questo, ne abbiamo poi davvero un gran bisogno? Talvolta il
Grande Romanzo conversa di bagattelle, ma altrove conversa non soltanto di
bagattelle, in Italia conversa soltanto di bagattelle.
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Tag - letteratura italiana
S e fossi Pier Vittorio Tondelli, oggi, a trentasei anni, sarei morto. Tra le
mie morti preferite quella di Sylvia Plath, che a trent’anni, ad appena un mese
dalla pubblicazione del suo celebre testo La campana di vetro (1963), decide di
infilare la testa nel forno a gas (si dice che non avesse davvero intenzione di
uccidersi, ma che questa fosse un’estrema richiesta d’aiuto), e di Virginia
Woolf, che a cinquantanove anni si riempie le tasche di sassi per gettarsi nel
fiume Ouse, non prima di aver lasciato una delle lettere più dolorose della
letteratura internazionale che comincia con “Dearest, I feel certain that I am
going mad again”. O ancora Aldo Palazzeschi, che muore a quasi novant’anni
nell’orrida Roma per le complicazioni dovute a un ascesso dentario trascurato.
La morte di Pier Vittorio Tondelli però ha un aspetto particolare e assume un
ruolo centrale: il 16 dicembre 1991 lo scrittore di Correggio, a soli trentasei
anni, muore di AIDS. Morire di AIDS nei primi anni Novanta significava, nella
maggior parte dei casi, essere o omosessuali o tossicodipendenti. E,
soprattutto, significava morire in solitudine, circondati da pregiudizio,
sospetto e stigmatizzazione sociale. Tondelli affronta gli ultimi momenti della
sua vita nella sua casa d’infanzia, la stessa in cui aveva scritto Altri
libertini, il suo esordio del 1980 per Feltrinelli. Nei giorni precedenti era
stato ricoverato nel reparto malattie infettive dell’ospedale Santa Maria di
Reggio Emilia, dopo aver smesso di rispondere al telefono di Milano. Il mattino
successivo alla sua morte diversi quotidiani lo ricordano. A modo loro.
Su La Stampa del 17 dicembre 1991, in un pezzo firmato da Nico Orengo, si legge
che Tondelli aveva rinunciato, diversamente da me, “alle notti in discoteca”,
“ai viaggi berlinesi”, “a quella vita generosa e sbandata abbastanza da
permettergli di cogliere il mood di una generazione senza utopie e con poche
certezze”. La ricostruzione giornalistica si intreccia a un’immagine privata e
parziale, che sembra voler restituire un profilo dello scrittore in qualche modo
rassicurante, in contrasto con la sua opera. Nello stesso numero del quotidiano,
un riquadro dal titolo “Vittima dell’AIDS?”, con tanto di punto interrogativo,
mette in discussione la causa reale della morte, aggiungendo un sottotitolo
eloquente: “La madre smentisce”. Marta, figura materna che per consuetudine
incarna protezione e cura, nega infatti l’AIDS, sostenendo che la morte sia
sopraggiunta per un collasso cardio-circolatorio in seguito a una polmonite
bilaterale. È facile immaginare quanto fosse difficile, nelle vie appartate di
Correggio, ammettere una simile realtà, e altrettanto facile comprendere il
bisogno di negare uno stigma così pesante. Ciò che colpisce, tuttavia, è che
questa versione continui ancora oggi a essere oggetto di discussione. Anche
altri quotidiani affrontano la notizia con prudenza e ambiguità. Sul Corriere
della Sera, Fernanda Pivano firma l’articolo “Tondelli, un giovane scrittore
alla scoperta dei giovani”: la parola AIDS non compare mai, sostituita
dall’allusiva formula “la terribile insidia”. Pivano scrive di una scomparsa
prematura, senza nominarne apertamente le cause, e aggiunge che “voleva
ritornare in famiglia”. Un ritorno che, nella lettura di molti tra cui Fulvio
Panzeri e il fratello Giulio significava ravvedimento, un riavvicinamento ai
valori religiosi della sua famiglia cattolica.
> Alla morte di Tondelli la ricostruzione giornalistica si intreccia a
> un’immagine privata e parziale, che sembra voler restituire un profilo dello
> scrittore in qualche modo rassicurante, in contrasto con la sua opera.
Ma è la stessa madre, in passato, ad aver predetto che Altri libertini, con i
suoi contenuti ritenuti scandalosi, avrebbe condotto Pier Vittorio a una fine
violenta, come era accaduto a Pasolini. Repubblica, nella stessa giornata,
pubblica “Breve storia di un libertino” a firma di Paolo Mauri. Qui si legge che
Tondelli è morto “probabilmente di AIDS, come precisa l’Arci-gay”, ma si
sottolinea il riserbo mantenuto dall’ospedale e l’insistenza dei genitori sul
referto medico che attribuiva la morte a una broncopolmonite bilaterale. Anche
su L’Unità, nell’articolo “Quel ragazzo del Settanta” di Ottavio Cecchi, si fa
riferimento alla nota dell’Arci-gay che parla di AIDS come causa presunta del
decesso, subito seguita dalla smentita della famiglia. Solo il collega Stefano
Morselli, nel pezzo accostato, abbandona le cautele lessicali e indica
chiaramente l’AIDS come la malattia che lo aveva colpito da mesi, raccontando i
suoi ripetuti ricoveri a Reggio Emilia e l’uscita dall’ospedale poco prima della
morte.
Se fosse ancora vivo, quest’anno Tondelli avrebbe compiuto settant’anni, insieme
a scrittori come Michele Mari, Francesca Marciano e Giorgio van Straten. La
domanda che resta aperta è cosa avrebbe ancora da raccontare: quale sguardo
rivolgerebbe oggi alle sue opere scritte in un arco così breve, quale rilettura
offrirebbe di Camere separate (1989), ora incluso nei Classici contemporanei
Bompiani, o di Altri libertini, che continua a essere letto e consumato con
passione, baluardo di una generazione scomparsa ma capace di sedurre ancora. Un
classico, scriveva Calvino, è un libro che non ha mai finito di dire ciò che ha
da dire. Ed è forse questa la ragione per cui Tondelli resta vivo: perché i suoi
testi, anche a distanza di decenni, conservano la forza di parlarci come se li
conoscessimo da sempre, mettendoci in contatto con un passato che non smette di
restare presente.
La storia di Thomas e Leo è, innanzitutto, una storia d’amore. Davanti alla
morte della persona amata, tutti sperimentano lo stesso dolore: il senso di
inadeguatezza, la sensazione di non aver fatto o detto abbastanza. Nella loro
relazione si intrecciano due mondi che si attraggono e si respingono, i corpi si
esplorano e si conoscono, cercando di liberarsi dai pregiudizi e dagli schemi
sociali. L’eros appare come esperienza comune, capace di svelare passioni e
dolori, di frantumare e ricomporre l’interiorità. Con Camere separate Tondelli
riflette sulla condizione omosessuale, sull’esistenza di una coppia dello stesso
sesso, sulla possibilità di convivenza e riconoscimento sociale: interrogativi
che restano attuali anche nei primi decenni del nuovo millennio. A differenza di
Altri libertini e Pao Pao qui l’amore omosessuale è raccontato senza
eccentricità. L’eros non è più provocazione ma scoperta reciproca, un tentativo
di sottrarsi ai condizionamenti e di vivere la quotidianità. Una scelta
narrativa che restituisce verità e normalità ai sentimenti.
> Con Camere separate Tondelli riflette sulla condizione omosessuale,
> sull’esistenza di una coppia dello stesso sesso, sulla possibilità di
> convivenza e riconoscimento sociale: interrogativi che restano attuali anche
> nei primi decenni del nuovo millennio.
Nell’epilogo del romanzo il destino di Leo si sovrappone a quello di Thomas:
anche lui morirà dello stesso male, in solitudine. Ma qual è questo male? La
malattia di Thomas resta un’ombra costante, una presenza non detta che amplifica
il senso di precarietà. Camere separate è stato definito l’unico vero “AIDS
novel” italiano, benché la malattia non venga mai nominata. Questa reticenza
riflette il clima degli anni Ottanta, segnati da paura, stigma e silenzio:
alcuni hanno ipotizzato tumori o altre cause per la morte di Thomas, ma il
pudore con cui Tondelli sfiora la malattia sembra suggerire il contrario, perché
infatti omettere una malattia “normale”? Se fosse stato un cancro, perché non
nominarlo? L’ambiguità, più che chiarire, confonde, alimentando il sospetto di
un male innominabile, com’era l’AIDS.
Il decorso narrato della malattia di Thomas corrisponde a quello dell’AIDS: un
giovane che in poco tempo si consuma, i sintomi che compaiono due anni prima
della morte, l’assenza di terapie efficaci. Thomas, a ventitré anni, sembra in
salute ma dopo l’estate il corpo comincia a cedere e in poche settimane il
crollo è completo. Leo assiste impotente: “Thomas sta morendo. A venticinque
anni”. Il romanzo mostra come eros e malattia si intreccino: in una scena Leo
vive un’esperienza erotica mentre pensa a Thomas che muore. Negli anni Ottanta
il legame fra sesso, malattia e morte coincideva con l’AIDS, la strage di
giovani che muoiono a ventisette, trenta, trentadue anni. La biografia
dell’autore si intreccia inevitabilmente con il testo: Tondelli scrive
consapevole di essere sieropositivo, in un doloroso congedo dal mondo. Leo porta
i suoi tratti, i dettagli autobiografici disseminati nel romanzo lo confermano e
la malattia viene raccontata non in modo spettacolare, ma come esperienza
intima, concentrata sul dolore interiore.
> La narrativa di Tondelli sembra abitata da figure che portano su di sé i segni
> della molteplicità e che rifiutano una definizione chiusa e definitiva, con
> particolare intensità in Pao Pao in cui il corpo, nella sua pluralità e nelle
> sue infinite possibilità, diventa uno dei principali protagonisti.
Questioni come la ricerca dell’identità, la scissione dell’io in frammenti
molteplici, l’impossibilità di racchiudere l’esperienza individuale entro un
modello unitario e valido per tutti, attraversano costantemente la scrittura di
Pier Vittorio Tondelli. La sua narrativa sembra abitata da figure che portano su
di sé i segni della molteplicità e che rifiutano una definizione chiusa e
definitiva. Questa condizione si manifesta con particolare intensità in Pao Pao,
il secondo romanzo dell’autore, uscito nel 1982, in cui il corpo, nella sua
pluralità e nelle sue infinite possibilità, diventa uno dei principali
protagonisti. In Tondelli la frattura interiore assume una forma più ampia e
condivisa: i giovani militari, costretti a convivere nello stesso spazio della
caserma, finiscono per rappresentare i molteplici aspetti di una medesima
figura, quasi come fossero le tante facce di un unico individuo in continua
trasformazione. In questo universo, i desideri e gli impulsi non si organizzano
in traiettorie lineari e coerenti, si accavallano, si scontrano e si disperdono
in un flusso instabile che rifiuta definizioni precise.
È una corrente fatta di spinte contraddittorie che non trovano mai un punto
fermo e che, proprio per questo, aprono la possibilità di inventare nuove forme
di relazione e di socialità. L’energia che emerge tenta di prendere le distanze
da un ordine collettivo ormai logoro dando spazio al privato, all’individuale,
al soggetto che si oppone alla norma e alla conformità. La caserma, luogo per
eccellenza della mascolinità istituzionalizzata e disciplinata, viene ribaltata
e descritta da Tondelli come un ambiente multiforme, in cui le storie personali
si intrecciano e si confondono, costruendo un modello alternativo di normalità.
È proprio qui che si forma un nuovo tipo di corpo maschile: non più il corpo
imposto dal paradigma virile dominante, ma una corporeità diversa, plurale,
sfuggente, capace di sottrarsi all’egemonia e di rivelare possibilità inedite.
> Tondelli ci invita a guardare la realtà come un intreccio caleidoscopico, dove
> ogni tentativo di incasellare e definire si infrange nella vitalità di una
> confusione che non è mancanza, ma ricchezza.
Queste figure ibride e difficilmente collocabili possono essere collegate a
quella schiera di personaggi marginali e irregolari che, in Altri libertini,
trovano il loro culmine in una rappresentazione esasperata e spinta fino al
grottesco. Nel suo esordio, infatti, Tondelli porta alla luce l’aspetto più
estremo e deformato dell’essere umano e in particolare dell’essere donna,
mostrando identità che si pongono ai limiti della convenzione. Nel racconto Mimi
e istrioni, al centro non c’è un singolo protagonista, ma la teatralizzazione
stessa dell’esistenza: la vita viene trasformata in un carnevale continuo, in
una mascherata che diventa linguaggio di libertà. Attraverso il gesto
trasgressivo i personaggi scardinano i vincoli imposti, liberano la coscienza e
la esprimono nella sua dimensione più profonda e autentica. La paura e il senso
di reverenza verso l’ordine sociale sono assenti: i protagonisti guardano al
reale con uno sguardo nuovo, capace non di annientare ma di amplificare, di
moltiplicare le possibilità di vita. È il corpo carnevalesco, con la sua forza
dirompente, a incarnare la natura queer, storta, dell’interiorità, portandola
all’esterno e rendendola visibile. Questo corpo, liberato dai legami imposti
dalla società, diventa un punto d’incontro tra il bisogno individuale e
l’aspettativa collettiva. Nella mescolanza di travestimenti, di fisicità
alterate e di interiorità esposte senza pudore, si incrinano non soltanto le
categorie tradizionali di maschile e femminile, ma la stessa idea che possano
esistere confini fissi e rigidi.
Viene spontaneo domandarsi, allora, quale sia oggi il destino della lezione
tondelliana: un insegnamento che negli ultimi anni sembra riemergere con forza,
ma che raramente appare davvero assimilato. La sua capacità di far deflagrare le
identità, di mostrarne la natura molteplice e irriducibile, resta un monito
ancora attuale, mette in crisi le certezze dell’ordine binario e ci invita a
guardare la realtà come un intreccio caleidoscopico, dove ogni tentativo di
incasellare e definire si infrange nella vitalità di una confusione che non è
mancanza, ma ricchezza.
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F ingere è il primo passo. Per cosa? Be’, per tutto. Per diventare ricchi ad
esempio. È il consiglio (non richiesto) che mi arriva da un imprenditore
abbronzato, uno di quei tizi che imperversano sui social network per vendere
corsi su come fare i soldi, ma che qualche dritta sono disposti a darla gratis
in reel che, nelle mie sessioni di scrolling, puntualmente spuntano contro la
mia volontà (ma con, temo, la mia complicità: come tutti sono curioso verso ciò
che mi ripugna e su quei reel finisco per soffermarmi un po’ troppo; l’algoritmo
conosce questa mia debolezza e colpisce). A questo giro il trucco che il guru
del business ha voglia di condividere è di non aspettare di aver fatto i soldi
per vivere da ricco (lui dice “per upgradare la tua vita”): vola in prima
classe, mangia in ristoranti stellati, vai a vivere dove vuoi senza badare
all’affitto, in questo modo ingannerai il tuo cervello, lo “setterai” sulla
ricchezza e lavorerà meglio per farti diventare ricco davvero. “Sembra più un
trucco per diventare molto poveri”, scrive qualcuno di poca fede nei commenti.
Facile fare ironia su questa filosofia cialtronesca da social, ma in fondo non è
che una estremizzazione fino al ridicolo del sottotesto di tante storie di
successo che ci piace sentir raccontare: prima di tutto c’è un sogno, una
illusione da coltivare, poi arriva la realizzazione. Nel frattempo meglio
rimuovere o tenere ai margini il pensiero di quanto potrebbe essere doloroso il
risveglio. In alcuni contesti illudere sé stessi e gli altri pare essere il
requisito necessario anche solo per sedersi al tavolo e provare a vincere
qualcosa. In L’ultima acqua (2025) di Chiara Barzini c’è questo momento in cui
l’autrice fa tappa a New York prima di andare a Los Angeles per cominciare una
indagine per un libro – lo stesso che stiamo leggendo – intorno al sistema
idrico della città. Va a cena con lo scrittore e leggenda del New journalism Guy
Telese che per lei ha un solo consiglio su come fare ricerche in California:
“Non affittare mai macchine di merda. Scegli sempre l’auto più costosa,
soprattutto se non te la puoi permettere”. Il possibile successo futuro dipende
dalla capacità di fingere un successo già presente. Soprattutto in California.
Soprattutto a Los Angeles: città, chiosa Barzini, in cui per lavorare bene
“bisogna vivere nel miraggio della grandezza, nell’illusione del controllo”.
L’ultima acqua è un libro su Los Angeles e sulla California, ma è anche una
riflessione su quanto nelle nostre vite e nella nostra società si fonda su
illusioni sempre più difficili da tenere in piedi, ed è anche la rielaborazione
personale di un proprio disincantamento, del lavoro che bisogna fare per
ritrovare un equilibrio quando il miraggio svanisce. Il libro di Chiara Barzini,
infatti, è un saggio pienamente letterario, e in quanto tale ha al suo centro
l’indagine su un oggetto molto concreto e definito (l’acquedotto di Los Angeles,
progettato da William Mulholland e inaugurato nel 1913, che trasformò la città
degli angeli e le permise di prosperare), usato come perno intorno a cui si
dispiega la libertà concessa dal genere dell’essai per muoversi in direzioni
diverse.
> L’ultima acqua è un libro su Los Angeles e sulla California, ma è anche una
> riflessione su quanto nelle nostre vite e nella nostra società si fonda su
> illusioni sempre più difficili da tenere in piedi, ed è anche la
> rielaborazione personale di un proprio disincantamento.
Sfruttando questa libertà l’autrice costruisce sostanzialmente tre livelli di
discorso che si alternano e si integrano a vicenda. C’è un livello informativo:
la storia dell’impresa di Mulholland e della sua vita, la spiegazione di come
funziona l’acquedotto e soprattutto della sua importanza per l’esistenza della
Los Angeles che conosciamo. Questa parte è innescata da un vecchio libro
ricevuto in regalo – un dettagliato dossier sulla costruzione dell’acquedotto
firmato dallo stesso Mulholland – e si sviluppa come la cronaca di un viaggio
lungo l’immensa infrastruttura, con qualche deviazione in luoghi direttamente o
anche solo tematicamente legati a essa, dove il libro spesso e volentieri prende
l’andamento del reportage narrativo.
C’è poi un livello puramente autobiografico: una sottotrama del libro riguarda
il progetto di un film tratto da un romanzo dell’autrice e da lei stessa
sceneggiato che dovrebbe venire diretto da un grande regista hollywoodiano (che
nelle pagine del libro è chiamato semplicemente “il Regista”), ma sulla cui
effettiva realizzazione iniziano ad allungarsi dei dubbi. Un terzo livello lo
potremmo definire metaforico, perché è dove l’acqua di Los Angeles diventa
simbolo di qualcosa di più grande: un’illusione di abbondanza illimitata che
nasconde le contraddizioni su cui si fonda. In una catena di sineddochi, si
parla dell’acquedotto di Mulholland per parlare di Los Angeles, per parlare
degli Stati Uniti, per parlare di un Occidente che fa sempre più fatica a
procrastinare il momento in cui dovrà fare i conti con il venir meno dei miraggi
su cui per decenni ha fondato la propria tranquillità (la presa di coscienza di
una “Era delle grandi speranze” che si capovolge in una “Era dei grandi limiti”
– citando lo scrittore e ambientalista Marc Reisner – è uno dei refrain del
libro).
Ma finché si constata che un saggio letterario è composto da materiali e
discorsi eterogenei, si resta nell’ovvio. La vera arte saggistica sta tutta nel
come si combinano e si mescolano insieme i livelli diversi, andando a creare una
coerenza e una unità che, per quanto sia arbitraria nei fatti (si può parlare
dell’acquedotto di Los Angeles senza accompagnare riflessioni sui miraggi
dell’Occidente, e certamente senza fare autobiografia), appare necessaria
nell’ecosistema costruito dal saggio. Barzini si dimostra molto abile nel
padroneggiare questo gioco di prestigio che è il cuore della scrittura
saggistica. Interessante, quindi, è provare ad analizzare come il gioco funziona
in L’ultima acqua, con quali strategie i diversi livelli che dicevamo vengono
fatti collidere e sovrapporre fino a diventare inseparabili.
> In una catena di sineddochi, si parla dell’acquedotto di Mulholland per
> parlare di Los Angeles, per parlare degli Stati Uniti, per parlare di un
> Occidente che fa sempre più fatica a procrastinare il momento in cui dovrà
> fare i conti con il venir meno dei miraggi su cui ha fondato la propria
> tranquillità.
Poco fa parlavamo della sineddoche come una delle modalità che lega insieme
diversi piani del libro. Ora, la sineddoche è una figura di pensiero molto
efficace nell’ottica di un saggio, ma anche pericolosa da maneggiare, perché
sempre sospettabile di eccessiva arbitrarietà: come mai parlare proprio di
quella parte per parlare di quel tutto? Come mai parlare proprio di Los Angeles
per parlare delle illusioni di un’intera civiltà? La risposta è tanto più
convincente in quanto non è mai data esplicitamente, ma lasciata solo affiorare.
Intanto perché Los Angeles è anche Hollywood, la più grande fabbrica di
illusioni a uso e consumo del mondo occidentale. Ed è anche il luogo in cui si
rivela il vero tema del libro, cioè il negativo delle illusioni, l’aridità che
c’è dietro il miraggio. Perché Hollywood non è solo la “fabbrica dei sogni”, ma
anche – come scrive Jerry Stahl – la “manifattura della frustrazione”. Il mondo
del cinema crea attorno a sé anche una distesa di aspirazioni fallimentari:
dietro ai sogni abbaglianti venduti da chi ce l’ha fatta c’è l’interminabile
striscia di sconfitte e amarezze di chi da quelle fantasie è stato sedotto ma
non è riuscito a realizzarle. Non per nulla la parabola di speranza e disincanto
della parte autobiografica del libro ruota intorno a un film che forse non si
farà.
Ma Los Angeles è per eccellenza una città fondata sui miraggi anche e
soprattutto per la sua paradossale natura di metropoli in mezzo al deserto.
L’autrice se ne rende conto durante l’adolescenza (e torniamo di nuovo al
livello autobiografico) trascorsa appunto a Los Angeles:
> “Deserto” era la parola che usava mio padre per spiegare perché le bollette
> della luce erano così alte, perché la pelle ci diventava così secca, perché
> faceva caldo di giorno e freddo di notte, perché gli irrigatori si attivavano
> in continuazione. Il deserto era una condizione preesistente, qualcosa che non
> sarebbe mai andato via. Il deserto era un dato di fatto. Ti faceva svenire, ti
> rendeva debole, era il rumore implacabile di uno spazio vuoto che era stato
> erroneamente riempito di mille cose fuori luogo.
Il deserto è la realtà, il dato “preesistente” che la città con le sue “mille
cose fuori luogo” e le sue illusioni tende a rimuovere, a seppellire, a spingere
ad un livello subliminale. E che pure resta lì e continua a segnalare la sua
irriducibile esistenza nelle bollette, negli svenimenti, negli irrigatori che
non si possono fermare altrimenti il miraggio non potrebbe durare.
> Los Angeles è anche Hollywood, la più grande fabbrica di illusioni a uso e
> consumo del mondo occidentale. Ed è anche il luogo in cui si rivela il vero
> tema del libro, cioè il negativo delle illusioni, l’aridità che c’è dietro il
> miraggio.
Sì, perché la forza magica che alimenta l’illusione che quel deserto sia un
luogo abitabile e addirittura confortevole per milioni di persone è l’acqua,
l’abbondanza d’acqua resa disponibile dall’acquedotto progettato William
Mulholland. Per come è raccontata nel libro l’impresa di Mulholland,
l’acquedotto lungo 360 chilometri che trasporta l’acqua dalla Owens Valley nella
Sierra Nevada fino a Los Angeles, è un capolavoro ingegneristico ma anche un
incantesimo. Un miracolo che Mulholland (come rivela il manuale sulla
costruzione dell’acquedotto ricevuto in regalo dall’autrice) rende possibile
soprattutto grazie alla fede nel suo sogno, pensando a quell’acqua che doveva
essere portata come se ci fosse già (“A pagina 20 si parlava dell’arrivo
dell’acqua a Los Angeles come se fosse già accaduto”), e che realizzandolo
trasmette quel modo di pensare e di desiderare a tutta la città:
> Il sistema di trasporto idrico più lungo del mondo è completo. Scompare
> l’inquietudine, scompare la povertà, scompare il deserto. Una soprano intona
> un’ode Hail the Water, e Los Angeles cade in un maestoso incantesimo che si
> protrae per decenni. Mullholland, con il volto scavato e gli occhi spiritati,
> è riuscito a creare l’illusione più grande e potente di tutte. Ecco a tutti
> una città magica in cui si può far apparire tutto ciò che si desidera.
> L’incantesimo è un clic di tastiera ante litteram, il germe seduttivo del
> capitalismo più sfrenato.
Ma le illusioni, dicevamo, hanno sempre un negativo. Se l’opera di Mulholland da
un lato è un miracolo, dall’altro non può che essere un patto col diavolo, con
tutte le clausole nascoste del caso:
> Pronunciando il suo incantesimo, ha stretto un patto pericoloso. Qualcosa di
> diabolico si stava insinuando nella città degli angeli. La terra arida stava
> per essere fecondata da un seme che l’avrebbe trasformata per sempre. Di lì a
> poco sarebbe nato un bambino meticcio, un po’ angelo, un po’ diavolo. Il
> “magnifico specchio d’acqua” che aveva inondato la piattaforma di Mulholland
> era lo stesso che sarebbe stato sacrificato ai posteri. Da quel giorno ci
> sarebbero stati sogni, ma anche la distruzione dei sogni, miracoli ma anche
> miserie. L’unità tra popoli avrebbe convissuto con la segregazione, la magia
> con la realtà brutale, la ricchezza coi debiti, la determinazione a
> sopravvivere con la volontà di morire.
Ma la magia è frutto anche di una volontaria ignoranza. Così come il miraggio
delle “mille cose fuori luogo” fa apparentemente sparire il deserto, l’illusione
che l’acqua sia semplicemente lì, abbondante e disponibile, come se apparisse
dal nulla (quello stesso abbaglio per cui le cose possano esserci e basta,
ignorando i processi e le esternalità implicate, che sta alla base di tutto il
consumismo capitalista), occulta come e da dove concretamente l’acqua arriva. A
svelare il miraggio come tale, dunque, può essere solo la conoscenza
dell’infrastruttura che lo rende possibile.
Pensare alle infrastrutture è il vaccino alle illusioni. Una grande capacità di
cogliere le infrastrutture delle cose (persino delle relazioni ed emozioni
umane) era propria di uno dei numi letterari di questo libro: Joan Didion.
L’atteggiamento anti-miraggio è quello perfettamente descritto da Didion nelle
prime righe di Acqua santa, un breve saggio dedicato proprio all’acquedotto di
Los Angeles:
> L’acqua che farò scorrere domani dal mio rubinetto a Malibu oggi sta
> attraversando il deserto del Mojave dal fiume Colorado. L’acqua che berrò
> stasera in un ristorante di Hollywood, a questo punto è già scesa
> nell’acquedotto di Los Angeles, e penso dov’è esattamente anche quell’acqua:
> in particolare mi piace immaginarla mentre scende a cascata sui gradini di
> pietra a 45 gradi che arieggiano l’acqua dell’Owens dopo il suo passaggio
> asfittico attraverso i tubi e i sifoni della montagna.
È chiaro che nulla guarisce dalla convinzione che l’acqua sia lì e basta o
appaia magicamente quanto pensare a dove fisicamente stia l’acqua, al percorso
che farà o sta facendo quella che berrò domani o stasera. Per farlo, ovviamente,
bisogna conoscere precisamente “i tubi e i sifoni” che ce la portano. È grazie a
questo atteggiamento – che è conoscitivo ma anche etico – che Didion, annota
Barzini, “è sempre riuscita a non farsi bruciare dai sogni”.
E così per l’autrice, se un’immagine della spensieratezza giovanile e
probabilmente di un quieto abbandono all’illusione è il ricordo delle visite con
le amiche ai “bagni olistici di Kiva”, dove galleggiare in vasche di acqua calda
senza farsi domande (“Non ci siamo mai chieste da dove venissero quelle acque o
dove andassero a finire”), la presa di consapevolezza matura che può salvare dal
rimanere troppo invischiati nei sogni – oltretutto proprio alla vigilia di
quello che potrebbe essere un doloroso risveglio: l’incontro con il Regista che
stabilirà definitivamente se il film si farà o meno – è un viaggio (in compagnia
di quelle stesse amiche, peraltro) per vedere i tubi e sifoni su cui meditava
Didion, andare a toccare le infrastrutture da cui sgorgano i miraggi.
La parte on the road del libro va a toccare anche luoghi che non sono
direttamente legati all’acquedotto di Los Angeles, ma partecipano allo stesso
discorso sul negativo delle illusioni. Prima del viaggio vero e proprio, ad
esempio, c’è una lunga parentesi sul Salton Sea, un immenso lago salato
endoreico (cioè senza emissari) nato all’inizio del Novecento in seguito a una
inondazione del Colorado. Dopo un periodo come località turistica alla moda tra
gli anni Cinquanta e Settanta, il lago ha iniziato a ritirarsi gettando tutta
l’area intorno in uno stato di penosa decadenza. Altra deviazione è a California
City, una città che “venne acquistata ancora prima di esistere”. Progettata
negli anni Cinquanta dal visionario sociologo Nat Mendelsohn, si risolse in una
colossale truffa immobiliare: la città, proprio per colpa della mancanza
d’acqua, non sorse mai e tutto ciò che rimane è poco più di uno scheletro di
strade che dividono lotti di terreno mai edificati.
> La parte on the road del libro va a toccare anche luoghi che non sono
> direttamente legati all’acquedotto di Los Angeles, ma partecipano allo stesso
> discorso sul negativo delle illusioni.
Si arriva poi, effettivamente, ai luoghi che riguardano direttamente
l’acquedotto di Los Angeles, a partire dalla Owens Valley: la principale vittima
dell’impresa di Mulholland, ormai quasi completamente svuotata dalle sue acque e
funestata da siccità e polveri tossiche. Infine, il viaggio si conclude nel
canyon di San Francisquito, dove si consumò il più catastrofico fallimento di
Mulholland: per creare un nuovo bacino idrico per Los Angeles fece costruire nel
1925 una immensa diga destinata a crollare pochi anni dopo. Un disastro che
spazzò via paesi e causò, si stima, circa 600 morti. L’episodio segnò anche la
fine della carriera di Mulholland, la cui vita, che all’apice era stata il
paradigma della storia di successo da film hollywoodiano (l’outsider ambizioso
che credendoci fino in fondo realizza il suo sogno impossibile), verso la fine
si ribalta in una parabola di hybris punita.
Ciascuna delle tappe rappresenta un lato nascosto delle illusioni: Salton Sea è
ciò che rimane dopo che il miraggio svanisce; California City è dove le promesse
illusorie non sono mai state mantenute; la Owens Valley è dove il prezzo del
miraggio viene pagato; infine, il canyon di San Francisquito è l’esito
catastrofico che può accadere quando, per tenere in vita le illusioni, si tira
troppo la corda. Tutti risvolti che vengono accuratamente rimossi o tenuti ai
margini della coscienza per permettere al sogno di continuare. Il caso più
emblematico, da questo punto di vista, è il crollo della diga di San Francis:
“la seconda catastrofe naturale più grande della storia della California dopo il
terremoto di San Francisco nel 1906 e uno dei più grandi disastri di ingegneria
civile del XX secolo”, di cui nessuno parla più, come se fosse stata dimenticata
o cancellata dalla storia.
Ma fino a quando può durare la rimozione? Questo libro sull’acqua si apre con
una introduzione che parla del fuoco, ovvero degli ultimi devastanti incendi che
hanno devastato Los Angeles all’inizio di quest’anno. Frutto della siccità, gli
incendi sono un’altra manifestazione di quel negativo rimosso che circonda
l’illusione di abbondanza senza fine. Un rimosso che è sempre più difficile da
ignorare, che riemerge mettendo sotto assedio la città e le sue pretese di
continuare a sognare.
L'articolo Infrastrutture e miraggi proviene da Il Tascabile.
L’ Italia ha trasformato radicalmente negli ultimi trent’anni il proprio
rapporto con il crimine organizzato. Si è infatti passati da una forma di totale
rimozione, di omertà, a una forma di narrazione estesa, frutto certamente del
coraggio di chi ha saputo raccontare la mafia andando oltre la stretta cronaca,
definendone i confini sociali e antropologici, ma anche dei mutamenti generati
dalle stragi di Capaci e di Via d’Amelio a Palermo. Quelle stragi, figlie di una
strategia inedita da parte della mafia, hanno prodotto una reazione civile, ma
soprattutto un mutamento emotivo nella società.
La mafia, la camorra e il crimine organizzato in generale riflettono infatti un
carattere più ampio da cui nessuno si può sentire realmente escluso. Non si
tratta più solo del fare crimine, ma di una visione della società e di una
cultura nazionale da cui nessun camorrista o mafioso è estraneo, ma di cui anzi
è parte fondante nel concepire la propria struttura gerarchica, la propria
famiglia, ma anche nell’essere parte dell’elaborazione di quella idea di società
civile che coinvolge evidentemente ogni cittadino.
> In Donnaregina la pratica è quella di una poetica romanzesca con cui Ciabatti
> scioglie una biografia in un’autobiografia, esaltando le contraddizioni del
> criminale e affiancandole alla complessità narcisistica e tormentata
> dell’autrice.
Il crimine organizzato non è una struttura separata e autarchica, ma è una
ramificazione che arriva idealmente a toccare ognuno di noi stringendoci in un
legame di comune ‒ per quanto rada e ovviamente riluttante ‒appartenenza. Ed è
tentando di coniugare un’idea di scrittura con un’idea di sé stessa che Teresa
Ciabatti accetta di raccontare la vita di uno dei più temibili boss della
camorra napoletana, Giuseppe Misso e lo fa costruendo una vera e propria
inchiesta giornalistica fatta di continui colloqui con il boss e di ricerche sul
passato, a partire da una scoperta di Napoli da lei mai visitata prima. Questa
almeno è l’apparenza con cui si presenta il romanzo Donnaregina (2025), in
realtà la pratica è quella di una poetica romanzesca con cui Teresa Ciabatti,
come pochi, scioglie una biografia in un’autobiografia, esaltando le
contraddizioni del criminale e affiancandole alla complessità narcisistica e
tormentata dell’autrice.
“Che senso ha ricostruire un’epopea attraverso un unico sguardo? Cosa ne esce se
non una contraffazione di seconda mano? Va bene ‒ rifletto ‒ fra noi si è
ingaggiata una lotta di rappresentazione, io che tento di portare Misso a me,
Misso che pretende di essere raccontato a modo suo, io che forzo da una parte,
lui dall’altra. Il ritratto finale sarà il risultato delle due spinte”. In
realtà non c’è mai partita, perché le due spinte sono afferenti entrambe alla
medesima visione di Ciabatti. Ogni tentativo di Misso di riportare il discorso
all’interno anche di una ‒ per quanto critica ‒ mitologia criminale, decade di
fronte allo sguardo dell’autrice la cui forza immaginativa è potentemente
superiore e in grado di assorbire anche l’eccezionalità tragica e violenta di
cui è fatta la vita del boss napoletano. La lotta, per Teresa Ciabatti, è sempre
tra sé e sé, tra la propria volontà e l’accettazione della medesima.
La domanda che sottende tutto il romanzo è dunque: “Sarò in grado?”. Una messa
in discussione di sé continua e ossessiva che porta il lettore all’interno di
una doppia narrazione, in cui la vita del camorrista diviene strumentale:
all’esperienza del raccontarla, al corpo di una scrittrice e di una madre in
crisi, e dunque sull’orlo di un fallimento eclatante, come di una salvezza però
sempre resa possibile pagina dopo pagina. Teresa Ciabatti muove la propria
narrazione con frenetica inquietudine, ma più offre incertezza, più riesce a
convincere il lettore proiettandolo all’interno di una vicenda che assume con
straordinaria leggerezza i toni della commedia come della tragedia.
Donnaregina ha la sua forza nell’opporre a una vita da raccontare che si presume
violenta ed eccezionale, seducente e criminale, una vita nel suo svolgersi che
coinvolge la narratrice e le sue amiche e in particolare sua figlia, una giovane
adolescente in crisi. L’autrice è così combattuta tra l’incapacità di saper
scrivere di camorra e l’incapacità di essere una buona madre, oltre al sempre
eterno complesso (di un’intera generazione) di essere una figlia incapace.
Quest’ultimo punto di crisi vede l’autrice in perenne conflitto con il fratello
per la casa di famiglia di Orbetello, ormai disabitata e dai costi di gestione
insostenibili per entrambi: “Malgrado lui taccia, immagino i pensieri, o
comunque gli attribuisco dei pensieri precisi: mio marito e mia figlia non mi
sopportano, mio marito appena può parte, mia figlia…”.
> Ciabatti muove la propria narrazione con frenetica inquietudine, ma più offre
> incertezza, più riesce a convincere il lettore proiettandolo all’interno di
> una vicenda che assume con straordinaria leggerezza i toni della commedia come
> della tragedia.
Ciabatti utilizza questo caos emotivo che scivola e s’intreccia per offrire ai
lettori una drammaturgia del contemporaneo efficacissima in cui anche un boss di
camorra appare destrutturato e privo di quell’aura criminale e di quella
solidità che la categoria sociale di boss dovrebbe garantirgli. Quella di
Ciabatti è una vera e propria traversata del deserto da cui non si punta a
uscire migliori di prima, ma più semplicemente ancora vivi e soprattutto ancora
capaci di fidarsi di sé e delle proprie scelte. Attorno è vivida la figura di M
(presumibilmente Michela Murgia) che consiglia da una distanza emotiva
rassicurante e al tempo stesso trasgressiva, invitando l’autrice a osare,
fidandosi finalmente e subito dei propri desideri.
Donnaregina in poco più di duecento pagine è effettivamente la biografia del
boss Giuseppe Misso e del rapporto con il figlio omosessuale, dato che contiene
una doppia trasgressione all’interno delle regole dei clan criminali (e non), ma
è anche soprattutto la storia di una scrittrice e del suo senso d’inadeguatezza.
Un sentimento che può essere annichilente, ma che Ciabatti utilizza per
esplorare ogni aspetto della propria vita, a partire dalla relazione con la
figlia, ma anche quella con il marito, il fratello e dunque con il padre e la
madre. Ciabatti prende in mano queste pietre sparse lucidandole una a una, fino
a ritrovarne quel valore per lei inestimabile.
Un romanzo e una biografia, che contiene anche un saggio di scrittura, che
diviene inevitabilmente il racconto di una rinascita: quello di una figlia e di
una madre che decide finalmente di fare come crede e come testa comanda: “Il
padre mi ripassa il telefono, ci salutiamo, buonanotte, cerca di dormire ‒ siamo
ossessionati dal sonno di nostra figlia, quando dorme non può succedere niente.
In questo tempo di attesa non scrivo. Lo chiamo tempo di attesa, mai di dolore”.
Uno spazio necessario alla rivoluzione, a un pensiero che si fa pratica e dunque
liberazione.
> Ciabatti offre ai lettori una drammaturgia del contemporaneo efficacissima in
> cui anche un boss di camorra appare destrutturato e privo di quell’aura
> criminale e di quella solidità che la categoria sociale di boss dovrebbe
> garantirgli.
Donnaregina corre pagina dopo pagina, denso di una leggerezza davvero calviniana
perché estremamente precisa, esatta e pulita. Una narrazione che offre una
facilità di lettura, ma senza nasconderne la complessità, che anzi è discussa
nelle medesime pagine. Scrivere e vivere, vivere e morire, uccidere e tornare a
vivere. Ciabatti affronta evidentemente nodi cruciali, ma lo fa senza scegliere
le scorciatoie di un genere o di un testo che sfugga a una sincera appartenenza.
L’autrice mette a fuoco ogni cosa, sia nel senso di bruciare tutto quanto le
finisce tra le mani, sia nel senso di focalizzare con precisione paura e
coraggio. Perché di questo infine racconta il romanzo, non tanto di chi vorremmo
essere e di come si è tragicamente lontani dall’esserlo, ma di chi si è e della
paura che fa saperlo, così come del coraggio che serve ogni giorno per essere sé
stessi fino in fondo.
L'articolo Donnaregina di Teresa Ciabatti proviene da Il Tascabile.
N on tutti ricordano che Giacomo Leopardi era affascinato da un tipo particolare
di macchine: quelle che simulano la vita. Nella Dissertazione sopra l’anima
delle bestie (1811) si trovano rievocati con entusiasmo alcuni celebri automi
(l’“aquila, e la mosca volante di Regiomontano, il capo di creta di Alberto
Magno, l’automa ambulante del prigione di Marocco”) non solo in virtù dei loro
movimenti, ma pure per la loro capacità di riprodurre “alcuni segni o di dolore,
o di piacere, o di allegrezza o di mestizia” così tipici dell’uomo. Anche nello
Zibaldone Leopardi ritorna spesso sul tema della macchina: a volte come metafora
del potere (il mondo moderno ormai funziona come “quelle macchine che si muovono
per molle occulte”), a volte come paragone con la guerra, la natura o gli
animali (che “se non fossero liberi sarebbono macchine pure”).
Fra i passaggi più interessanti in tal senso spiccano quello del 23 maggio 1821,
dove gli “inconvenienti accidentali nell’immenso e complicatissimo sistema della
natura” vengono paragonati ai guasti di una macchina che, pur “bene e
studiosamente fabbricata”, a un certo punto smette di funzionare, e quello del 4
ottobre 1821, quando per parlare del bello (anzi, del “meccanismo del bello”)
Leopardi sembrerebbe citare una pagina dell’Homme-machine (1747) di La Mettrie.
Scrive, infatti: “Scomponete una macchina complicatissima, toglietele una gran
parte delle sue ruote, e ponetele da parte senza pensarvi più”; poi “ricomponete
la macchina, e mettetevi a ragionare sopra le sue proprietà, i suoi mezzi, i
suoi effetti”: vi renderete conto, dice, che, senza le sue ruote, anche se “vi
sforzate di spiegare gli effetti della macchina dimezzata, come s’ella fosse
intera”, semplicemente “la macchina non è più quella”.
> Leopardi nello Zibaldone paragona gli “inconvenienti accidentali nell’immenso
> e complicatissimo sistema della natura” ai guasti di una macchina che, pur
> “bene e studiosamente fabbricata”, a un certo punto smette di funzionare.
Altri due brani però sono ancora più rivelatori: sono due lettere indirizzate al
padre Monaldo (24 dicembre 1827) e alla sorella Paolina (6 maggio 1833). Nella
prima, Leopardi definisce sé stesso come una “macchina” che, si potrebbe dire,
rischia di andare in tilt:
> Il continuo esercizio de’ nervi e muscoli del capo, senza il corrispondente
> esercizio di quelli delle altre parti del corpo, produce quello squilibrio
> totale nella macchina, che è la rovina infallibile degli studiosi, come io ho
> veduto in me per così lunga esperienza.
La seconda, invece, rovescia la tragedia in beffa:
> Care mie anime, vede Iddio ch’io non posso, non posso scrivere: ma siate
> tranquillissimi: io non posso morire: la mia macchina (così dice anche il mio
> eccellente medico) non ha vita bastante a concepire una malattia mortale.
Macchina sì, ma bloccata. Vivente, impazzita, ma senza la forza di guastarsi del
tutto. Una condanna: funzionare a vuoto.
Anche Lo sbilico (2025), l’ultimo libro di Alcide Pierantozzi, racconta il
cedimento di una macchina. Il corpo del personaggio-autore è infatti descritto
ora come un dispositivo medico (le diagnosi lo risignificano continuamente), ora
come un oggetto residuale, desueto, in cui le funzioni vitali vengono narrate
come semplici leve, pulsanti, e l’organismo è retto da un insieme di forze
meccaniche che non procedono più in armonia.
> Mi sdraio sul letto e rimango da solo nella stanza. Tra i rumori
> illocalizzabili del mio corpo comincio a sentire un cigolio di pulegge. Devono
> essere pulegge, a meno che non mi fischino le ossa. Sono i paranchi delle mie
> corde vocali che accompagnano un piccolo ascensore lungo il tubo dell’esofago
> (pp. 23-24).
Tra allucinazioni zoomorfe e metafore organiche grottesche (“Il corpo mi prude
perché dei microscopici conigli mi camminano addosso”; “A volte […] ho proprio
l’impressione di avere un cavolo cappuccio marcio avvitato nella scatola
cranica”; “Mi sembrava di avere un mattatoio in bocca”), è in effetti ancora di
più l’occhio meccanicistico sulle proprie pulegge interiori e gangheri cerebrali
da oliare, “tra le sfasature del mio ritmo sistolico che produce schiocchi
spugnosi” e i movimenti ripetitivi tipici dello spettro autistico (“stimming”),
a restituire la grammatica di questo romanzo-macchina (e i sintomi
sprogrammatici del suo corpo centrale). Del resto, anche le cantilene e le
allucinazioni, così come le paure delle malattie in corrispondenza dei programmi
in TV (sempre gli stessi con la stessa frequenza: cfr. Il palinsesto delle
fisse), seguono un preciso “meccanismo”: isolabile, potenzialmente replicabile
all’infinito.
“Quel giorno sono andato in tilt”, confessa all’inizio del suo testo l’autore,
ed è la prima di molte occorrenze della paura “leopardiana” di cui si è parlato,
e che procede cronicamente ‒ e struttura il libro stesso ‒ nella forma di una
spirale infetta: quella di un helicobacter. Esteriorizzata e rimodulata poi
narrativamente in quel tentativo di mandare in tilt l’impianto di
climatizzazione della palestra in cui Pierantozzi osserva il proprio corpo
procedere o incepparsi, affermarsi o scomparire, l’immagine della macchina
impazzita attraversa infatti tutto il libro come la risposta plastica
(disumanizzante: un alibi?) di fronte a un uomo, un figlio, un paziente, un
omosessuale, uno scrittore, che per quanto studiosamente fabbricato (diceva
Leopardi) non sa funzionare a dovere.
> Il corpo del personaggio-autore è descritto ora come un dispositivo medico,
> ora come un oggetto residuale, desueto, in cui le funzioni vitali vengono
> narrate come semplici leve, pulsanti, e l’organismo è retto da un insieme di
> forze meccaniche che non procedono più in armonia.
Come quando il protagonista avvia un film porno per un gesto rituale e
automatizzato e, però, qualcosa si inceppa: il ricordo della sua vecchia vita
sessuale non gli procura ormai alcuna eccitazione e, anzi, si cristallizza in
un’immagine che è claustrofobica e meccanica insieme: è una “spia della benzina
che sfolgora sul cruscotto”, perché il personaggio-Pierantozzi è in difetto, in
riserva, e ha una paglietta di lana d’acciaio che gli raspa nella testa. Sarà
per questo che quando prova a muoverli, tutti i “657 muscoli coinvolti in un
rapporto sessuale”, il protagonista (rivelandosi in questo un perfetto
discendente di Zeno Cosini), li avverte “come paralizzati, sospesi in un misto
di trauma e frustrazione” e preferisce tentare con un sex toy. O come quando il
corpo diviene “un involucro che non riesco a radiocomandare”, confessa, e “il
ticche e tacche dei pensieri” non appartiene più a un homme-machine sintonizzato
con l’orologio del resto del mondo.
“E lì saltò il turacciolo”. Più che singoli cortocircuiti, il testo descrive
allora uno squilibrio totale nella macchina, come si legge ancora nella lettera
di Leopardi al padre. Il corpo di Pierantozzi, nel suo sforzo di
autosostentarsi, diventa il centro propulsore di una “prospettiva distorta del
mondo” ancora più che di una “grave forma di bipolarismo anancastico”; di un
tragicomico e pervasivo culto del controllo in controluce del vetrino-feticcio
della (propria) vita: dal cuore alla sudorazione notturna, dalla digestione alla
concentrazione plasmatica, dove spesso è il pensiero stesso che produce il
corpo, e non viceversa. “Forse l’inganno sarà stato credere di avere avuto un
cervello malmesso, quando invece sono stati i miei pensieri a inventarsi il mio
corpo”.
Uno degli aspetti più interessanti della resa biomeccanica del personaggio
Pierantozzi è in effetti proprio questo: che il corto circuito si verifica non
tanto nel funzionamento dei muscoli, degli arti, delle ossa, ma del cervello.
Non solo perché è il pensiero che genera la paura ipocondriaca prima e l’idea
fissa dopo (“Non sanno che quasi sempre è per una sovrabbondanza di logica che
vado in tilt: in questi casi provare a convincermi di una cosa anche
semplicissima può diventare un’impresa”), ma perché è proprio di quel lavorìo
instancabile, meccanico e ingestibile (“Quando i troppi pensieri entrano in
collisione, ciascuno con la propria risonanza lirica”), che si nutre lo sbilico.
> Quando qualcosa sparisce, il mio cervello va in tilt. Quando ho mal di gola,
> il mio cervello non prevede la guarigione, non vede oltre lo stato presente.
> Se una giornata finisce, non riesco a capire che ne comincerà un’altra. Vivo
> lo sbilico e nello sbilico delle cose (p. 112-113).
Ecco perché il testo torna più volte sulla fantasia transumanista di “un
up-loading della mia mente. Un giorno potrò riversare su un hard disk tutti i
libri letti e tutte le persone incontrate, e passarli in un nuovo corpo dal
cervello sano”. Ed ecco anche perché fin dalle primissime pagine il
protagonista-autore ha bisogno di uno sguardo fortemente materico che di pagina
in pagina si opponga alle numerose fughe visionarie che lo assediano; di un
corpo su cui far reagire l’incertezza e l’ansia riguardo allo spazio che il
proprio, di corpo, occupa nel mondo. In effetti, il testo è pieno di conteggi,
date, numeri e oggetti a cui ancorarsi durante gli episodi di sconfinamento
allucinatorio, e soprattutto all’inizio della narrazione c’è una costante
tensione deittica e un uso frequente dell’“Eccomi qui” e varianti. Ma è
soprattutto la madre, con il suo tumore da cui tutto parte (feticizzato come una
reliquia in vetrino), a spadroneggiare nella vita del protagonista: “A
trentanove anni per tacitare i pensieri ho bisogno della mamma”. Il suo corpo a
sua volta malato, ma di una malattia tangibile, agisce dunque su due livelli:
come argine fisico, ma anche come contrasto lessicale nei confronti della
malattia psichica del figlio, così immateriale.
“Io sono un dente nella bocca di mia madre”, scrive Pierantozzi. Ma se lui è (o
vorrebbe ‒ nuovamente ‒ essere) dentro sua madre, come un anti-Pinocchio dentro
una balena (potrebbe uscirne ma non sa e non vuole farlo), chi e cosa è la sua
colpa per esserci finito?
> Il senso di colpa verso mia madre mi spreme, m’inzuppa […]. Per me il senso di
> colpa è tutto, e sarà il traguardo della mia malattia. Forse quel giorno
> sparirà la sensazione che ogni cosa della mia vita sia avvenuta per finta. Si
> farà strada la certezza che l’unica esperienza falsa è stata quella della
> malattia. Sentirò di meritarmi, finalmente, la visione di questi scogli rugosi
> e gonfi di patelle, sentirò di meritarmi questa luce accarezzante che aumenta
> e magari farò un tuffo, una schizzata, un urlo di sollievo. […] Le brevi
> transizioni fra un dolore e l’altro avranno una qualità accresciuta. Già le
> conosco, queste pause. Rappresentano un grande mistero. Sono momenti
> brevissimi e casuali, come i minuti di recupero tra una serie di esercizi e
> l’altra in palestra. Sembrano un sistema collaudato dal corpo, che senza
> questi cedimenti morirebbe subito (p. 159).
Inizialmente pare che la colpa sentita dal protagonista sia quella di essere
identico al profilo spigoloso del Negazionista (il padre, chiamato così perché
nega la malattia del figlio e ha abbandonato la madre). Ma non basta. Anche
perché la madre non si limita a confinare, proteggere la colatura dell’io del
protagonista: ne è anche una rigida carceriera. Da piccolo lo picchiava, lo
obbligava a dormire giornate intere, a rassegnarsi all’oblio. “Perché sei qui?”,
sembra dirgli ancora oggi ogni volta che lo guarda, ma anche ogni volta che si
prende cura di lui ordinandogli i medicinali in farmacia. “Se la tua macchina
funziona così male, perché non scompari e basta?”. E se molto più avanti la
madre “Si lamenta per il chiodo in titanio che le hanno messo nel ginocchio. Ma
sono io il chiodo fisso nella sua testa”, è evidente che anche tra i pensieri
schiodati del protagonista una cosa è chiara: il loro rapporto mima una dinamica
rassicurante ma al tempo stesso anche persecutoria e perturbante. Tanto che, a
un certo punto, alle soglie di un atto mancato, la madre sbaglia i dosaggi delle
medicine del figlio.
> Tra i pensieri schiodati del protagonista una cosa è chiara: il rapporto con
> la madre mima una dinamica rassicurante ma al tempo stesso anche persecutoria
> e perturbante.
Tornando in effetti a Leopardi, c’è un altro testo a cui è utile far riferimento
per comprendere al meglio Lo sbilico, ed è l’Operetta morale del 22-25 febbraio
1824, intitolata Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi. Se è
vero, infatti, dice Leopardi, che “gli uomini di oggidì […] vivono forse più
meccanicamente di tutti i passati”, e vista anche la gran quantità di strumenti
meccanici inventati e diffusi (qui si rimanda ancora una volta in maniera
esplicita agli automi settecenteschi di Jacques de Vaucanson e al Turco di
Wolfgang von Kempelen), “allora il nostro tempo”, continua, può essere a buon
diritto definito “l’età delle macchine”. Tanto che si potrebbero immaginare
delle macchine che progressivamente sostituiscano gli uomini. A questo scopo,
anzi, l’Accademia dei Sillografi propone dei premi a chi realizzi tre macchine
nello specifico: la prima dovrà rivestire “le parti e la persona di un amico”,
la seconda quelle di “un uomo artificiale a vapore, atto e ordinato a fare opere
virtuose e magnanime”, la terza dovrà “essere disposta a fare gli uffici di una
donna” perfetta, come quella immaginata da Baldassarre Castiglione.
Mi sono da poco addottorata all’Università di Siena con una tesi sui personaggi
femminili artificiali nella letteratura e nel cinema del Novecento italiano, e
uno dei topoi più ricorrenti è proprio quello evidenziato da questa Operetta:
gli automi letterari (i personaggi fabbricati all’interno di un testo e/o
raccontati attraverso insistite metafore meccaniche) sono sostituti di qualcosa
o di qualcuno. Non che siano necessariamente sempre loro copie (a volte sono
anche ideali che la forma robotica, più o meno tecnologica, prova a incarnare),
ma rappresentano ogni volta lo sforzo più o meno consapevole di sostituire,
cristallizzandolo in un corpo meccanico, un lavoro e/o un’istanza particolare.
> Pierantozzi, come Leopardi, sa che il danno alla macchina non è solo fisico,
> ma anche semantico. Se l’uomo è macchina, allora anche il romanzo lo è. E
> quando il romanzo va in panne, resta solo la voce (la parola, il sinonimo) e
> la sua dichiarazione di impotenza.
Come nei progetti fantastici dell’Accademia dei Sillografi di Leopardi, anche in
Pierantozzi la macchina non è solo corpo rotto, ma anche surrogato: del figlio
sano, dello scrittore anzi del romanziere, dell’uomo stabile che avrebbe dovuto
rassicurare il mondo (o, almeno, i propri genitori) e invece non ci è riuscito,
non ha funzionato bene. Ma, soprattutto, del fratellino morto a causa di
numerose e indecifrabili malformazioni: è suo il corpo addormentato che la madre
vorrebbe che il protagonista sostituisse.
> Quel sonno imposto, che all’inizio credevo fosse solo una scusa per
> allontanarmi, in realtà era compensatorio della mia morte: mamma mi voleva
> addormentato per sempre, tanto che io sospettavo una coincidenza sinistra tra
> il mio corpo e quello morto del mio fratellino, andavo in sovrimpressione con
> lui immaginando di dormire nel primo loculo in alto a destra, piccolo perché
> nella parte del cimitero riservata ai bambini. Anche io avrei potuto avere un
> nome qualunque inciso sulla lapide, con la data di nascita e di decesso
> distanti appena due giorni (p. 115-116).
In un certo senso, è lui il vero (s)oggetto a cui conduce tutto lo sforzo
dentellato della narrazione: è il corpo mostruoso del fratellino, e non il
proprio, quello che il narratore-Dottor Frankenstein cerca di ricucire parola
per parola in questo libro (“Chissà come farò a trovare quelle che mi servono
per ricucire mio fratello dopo quarant’anni”), diagnosi dopo diagnosi (“Le
parole dei medici sono un disastro”), in un tentativo disperato di sostituirlo.
> Per riparare con le parole mio fratello sto già ordinando gli attrezzi su
> Amazon. Sono sorprendentemente economici. […] Devo stare attento a molte cose:
> a non legare troppo stretto, né troppo leggero. Per la testa meglio fare
> cuciture a sutura continua, […] che trattengano il cervello nei piani
> profondi, poi andrà usato il mastice per rinsaldare le ossa craniche segate.
> Dovrò ricucire anche le parti interne: il cuoricino, il fegato, i polmoni – e
> usare, per questi organi, un rocchetto di filo colorato. […] Io sono qui per
> riparare un ricordo (pp. 206-208).
Questa meravigliosa scena (“questa ricomposizione al quadrato, […] questa
riparazione su scala fantastica”) ci mostra dunque un corpo mostruoso da
rianimare con fili gialli e verdi (“un piccolo corpo enfiato, arrossato,
ingrommato, sudato, tagliato, smembrato, impollinato, insanguinato,
incadaverito”), ma anche un’identità che si costruisce nel momento stesso in cui
si tenta di rattoppare l’altra: ricucire il fratello significa infatti per
Pierantozzi definire anche sé stesso. Non solo per contrasto, ma anche come
autore. Che sia la scrittura ‒ e proprio nella sua forma più meccanica, guasta,
soggetta a corto circuito ‒ a occuparsi di questo atto chirurgico non è casuale.
Anche la scrittura di Pierantozzi, come il fratello, è un organismo zoppo:
parte, si blocca, perde senso. Come si legge fin dalle primissime pagine:
> Avevo ventisette anni, qualche disturbo psichico ancora gestibile e un libro,
> il mio terzo, a poche settimane dall’uscita. Il mondo, però, si era
> circoscritto intorno a mia madre e al suo seno, al punto che il romanzo è
> scomparso dai miei pensieri: ho sentito un’inaspettata urgenza di materialità,
> di tangibile, di corporeo (p. 4).
Oppure, ancora più chiaramente dopo:
> Non saprò mai che significa vedere il mondo nei suoi nessi di causa ed effetto
> e non per immagini isolate. Tradurre in parole ciò che vedo e ciò che ricordo,
> anche quando scrivo, è difficilissimo. Le immagini per me sono veli di cipolla
> sparsi su un tavolo, sotto una lampada, separati tra loro. Sottilissimi, fatti
> con una carta velina prossima all’invisibilità, membrane d’aria che osservo
> una alla volta e di cui assorbo ogni dettaglio e venatura. Non riesco a vedere
> la cipolla per intero (p. 112).
Vivere così significa non poter fare un romanzo (accedere a “una specie di
supercoscienza in grado di discernere tutto”), ma anche essere curati con gli
antipsicotici lo rende a sua volta impossibile: del resto, se “parlare, e
scrivere, sono solo uno stupido meccanismo”, e un meccanismo un po’ inceppato
che non sa più ricucire davvero, allora non resta che tuffarsi a capofitto nello
sbilico, nel romanzo in tilt. Pierantozzi insomma, come Leopardi, sa che il
danno alla macchina non è solo fisico, ma anche semantico. Se l’uomo è macchina,
allora anche il romanzo lo è. E quando il romanzo va in panne, resta solo la
voce (la parola, il sinonimo) e la sua dichiarazione di impotenza. Proprio come
Leopardi, insomma, anche il personaggio Pierantozzi non può né scrivere né
morire (ma forse nemmeno vivere).
Tuttavia, se da una parte è innegabile che Lo sbilico sia, come avrebbe detto
Leopardi, una macchina bene e studiosamente fabbricata che, a un certo punto, ha
smesso di funzionare, è anche vero che pezzo dopo pezzo, tic dopo tac,
Pierantozzi ci prova. C’è bisogno di molte pagine, ruminazioni, dati e
medicinali, cioè di molte “parole medicamentose”, perché il testo dello Sbilico
riesca a forzarsi in questa operazione di ricucitura plastica e metaforica
insieme: insomma, romanzesca. Il libro sul tentativo di ricucire a parole il
fratello che Pierantozzi stenta a definire romanzo è allora in realtà un romanzo
al quadrato che ha ingannato la malattia per qualche ora: un metaromanzo, dove
il corpo mostruoso da resuscitare faticosamente, con fili gialli e verdi e
sinonimi accurati, è proprio quello della letteratura finzionale. Anche gli
ingranaggi rotti, se ascoltati con attenzione, sanno ancora fare rumore (o,
almeno, sanno perseguitare).
> Non appena avrò fatto rientrare nel corpo di mio fratello ciò che faceva
> ernia, che faceva appendice, sentirò di averlo riscritto tutto. Allora il mio
> sistema nervoso sarà ingannato crudelmente dalle allucinazioni, non ricorderò
> cosa ho fatto e se l’ho fatto davvero, e della verità maledetta non resterà
> nemmeno una traccia (p. 208).
L'articolo Anche i romanzi vanno in tilt proviene da Il Tascabile.
C ome si racconta il cambiamento climatico? Già nel celebre saggio del 2016 La
grande cecità, lo scrittore indiano Amitav Ghosh si interrogava sulle
responsabilità della letteratura nel mettere adeguatamente in luce le
trasformazioni ambientali, psicologiche, culturali e politiche indotte da un
fenomeno la cui portata non può che riverberare sui protagonisti di una storia.
Questa sfida non è un mero esercizio intellettuale, ma rappresenta uno dei piani
fondamentali su cui attivare la risposta collettiva a un problema che ancora
oggi tende a essere rimosso dal discorso pubblico. Consideriamo anche soltanto
come spesso la questione climatica venga ritratta come un’emergenza puntiforme –
si pensi alla metafora della cometa in rotta di collisione col pianeta del
popolare Don’t look up del regista Adam McKay ‒ e non come qualcosa in atto da
tempo, i cui effetti non sono sempre stati percepiti con la stessa nitidezza da
tutte le epoche e latitudini.
Tempo di ritorno. Una storia di clima e di fantasmi (2025), l’ultimo libro del
giornalista climatico Ferdinando Cotugno, adotta invece una chiave di lettura
efficace grazie a un approccio controintuitivo. Per rendere visibile e
comprensibile un fenomeno globale, si concentra sul particolare: la storia della
sua famiglia. Tre generazioni (nonni, genitori, figli) che diventano unità di
misura del cambiamento climatico.
> In statistica, il tempo di ritorno è il tempo medio che corre tra il
> verificarsi di due eventi di uguale intensità. Il tempo di ritorno è quanto ci
> mettono a tornare i grandi traumi, o le crisi epilettiche, o gli amori, o gli
> scudetti, o gli attacchi di panico, o i messaggi che disperatamente
> aspettiamo, o i temporali, o le ondate di calore, o le alluvioni. Funziona
> così: immaginate il giorno climaticamente peggiore della vostra vita. Quanto
> tempo ci vorrà prima vi ricapiti un giorno altrettanto brutto? È questo il
> tempo di ritorno, regolato dalle leggi del cosmo e della fortuna. La
> generazione dei miei genitori e quella dei loro genitori ha iniziato ad
> alterare queste leggi, con la combustione delle fonti fossili di energia.
Lo spunto di partenza è l’imminente trasferimento del padre dell’autore in
Brasile per raggiungere la nuova compagna: Cotugno sceglie così di partire da
Milano, dove vive, per tornare nel quartiere di Bagnoli, a Napoli, e documentare
gli ultimi giorni in cui la famiglia sarà a suo modo riunita.
> Per raccontare la crisi climatica Cotugno adotta un approccio controintuitivo
> ma efficace. Per rendere visibile un fenomeno globale, si concentra sul
> particolare: la storia della sua famiglia.
Il risultato è un oggetto atipico, un “memoir climatico”, in cui le vicende
personali si intrecciano nello spazio e nel tempo con la storia dei combustibili
fossili: un nonno operaio all’Italsider, che alla fabbrica ha dato tutto
ricevendo poco in cambio; padre e madre a capo di una ditta di trasporti su
ruota ormai fallita, testimoni di una fugace ricchezza negli anni Novanta.
Carbone e gasolio a scandire le sorti del benessere economico, fisico e
psicologico di un microcosmo sociale.
> Ogni storia familiare è smisurata e contiene l’intera umanità. Abbiamo una
> sola opportunità di raccontarla, e non dovremmo sprecarla. Io la mia voglio
> usarla così, per cercare l’inizio della crisi climatica, l’Antropocene
> familiare.
Il romanzo si articola in quattro atti: un prologo che si apre nel 1963, con il
suggestivo rituale di raccolta dei residui di carbon coke caduti in mare da
parte dei giovani nuotatori di Bagnoli; due parti dedicate rispettivamente al
padre Luigi e alla madre Giuseppina, che portano inevitabilmente a galla le
questioni di genere innescate da quello che Cotugno chiama “petropatriarcato”;
un epilogo che tira le fila di un quadro familiare e storico stratificato e
contraddittorio. C’è infatti un ulteriore protagonista “onorario” di questa
epica territoriale: la città di Napoli, personificazione di una collettività di
cui riassume gli umori, le aspirazioni e le disillusioni lungo un processo
pluridecennale di industrializzazione.
L’operazione narrativa è molto a fuoco: raccontare di sé e delle generazioni che
lo hanno preceduto consente all’autore di connotare emotivamente cause e
conseguenze del cambiamento climatico, rendendole più urgenti di quanto la sola
restituzione giornalistica o scientifica riescano a fare. Se il problema viene
rimosso proprio perché fatichiamo a credere che ci riguardi, è allora attraverso
delle storie esemplari a cui molte persone possono facilmente connettersi e
riconoscersi che il cambiamento climatico può tornare al centro della nostra
attenzione. Tempo di ritorno corrobora la razionalità scientifica lavorando sul
percepito umano: ritrae volti e luoghi familiari, rendendo prossima una
questione che solitamente finisce per essere distante, o addirittura aliena.
> Raccontare di sé e delle generazioni precedenti consente all’autore di
> connotare emotivamente cause e conseguenze del problema, rendendole più
> urgenti di quanto la sola restituzione giornalistica o scientifica riescano a
> fare.
Questo senso di urgenza non viene veicolato solo dagli elementi di familiarità
del racconto, ma anche dalla sua dimensione cronologica: la vita (e la morte)
del nonno e dei suoi coevi scandite dai ritmi della fabbrica; la stessa fabbrica
che nel giro di qualche decennio passa, per la gente di Bagnoli, da futuro
ineluttabile a relitto di cui disfarsi; i genitori dell’autore, che vivono una
altrettanto estemporanea fase di benessere economico grazie a un business a sua
volta destinato a diventare obsoleto; un figlio che con il suo lavoro
giornalistico finisce per documentare le conseguenze disastrose delle stesse
politiche fossili che gli hanno consentito di studiare. Viste con un orizzonte
temporale più ampio, le scelte di ogni generazione sembrano implicitamente
giudicare quelle della precedente, imponendo di riflettere sulle conseguenze di
quell’eredità.
> La crisi climatica è una storia che si agisce collettivamente, ma si
> percepisce individualmente, sulle scale più gestibili del tempo personale e
> familiare. Nel clima siamo genitori e figli, siamo entrambe le cose, la crisi
> ha reso sistemico uno dei concetti più privati: l’eredità. Cosa lasciamo? E a
> chi?
Cotugno mette in chiaro che non è una questione di colpa, quanto di
responsabilità: se chi lo ha preceduto conserva l’innocenza di non aver potuto
scegliere consapevolmente, coloro che vengono dopo non possono chiudere gli
occhi. In questo senso, tutto il memoir può essere letto come un percorso di
accettazione della propria compromissione individuale, punto di partenza
ineludibile per opporsi al collasso. Farlo in prima persona, mettendo in gioco
sentimenti e vicende personali, finisce per incoraggiare questo processo in chi
legge, senza mai mettersi su un piedistallo morale inevitabilmente respingente.
> All’ambientalismo serve una storia nuova, che non sia più una storia
> dell’ambientalismo, che non si chiami nemmeno più ambientalismo, che vada bene
> anche per Luigi e Ferdinando, che tenga conto della storia contenuta dentro la
> vecchia patente di guida di mio padre e sappia congedarsene in modo ordinato,
> che faccia sentire le persone, tutte le persone, viste. Chi non si sente
> visto, in politica, si ribella, anche se si sta ribellando contro se stesso e
> il proprio futuro.
Trovare nell’empatia una lingua comune per parlare con chi si sente escluso dal
dibattito politico consente di tracciare nuovi orizzonti di cambiamento nella
società. La testimonianza personale viene così usata per disinnescare il
sortilegio del capitalismo: reinventarsi continuamente con la promessa di futuri
inevitabili e risorse inesauribili portando molte persone a credere che la Terra
fosse un buffet All you can eat (“Anche da quelli a un certo punto ti
cacciano”). Esattamente ciò che aveva rappresentato nel dopoguerra l’ex
ILVA/Italsider per l’area di Bagnoli, oggi un relitto a testimonianza di un
capitalismo che fa in fretta a costruire, ma che non sa poi prendersi cura delle
cose e si rifiuta di smantellarle, una volta consumate.
> Non è una questione di colpa, quanto di responsabilità: se chi ci ha preceduto
> conserva l’innocenza di non aver potuto scegliere consapevolmente, quelli che
> vengono dopo non possono chiudere gli occhi.
Ho accennato poco sopra alla questione di genere: restituire i punti di vista di
entrambi i genitori è un altro dei dispositivi che il racconto utilizza per
arricchire lo sguardo sulle dinamiche capitaliste. Se il capitolo dedicato al
padre Luigi è un denso susseguirsi di fatti, ricostruiti faticosamente
dall’autore sulla base delle informazioni che il taciturno genitore gli mette a
disposizione e con l’aiuto di un’amica di famiglia, la madre Giuseppina
esordisce con un racconto in prima persona, che rivela più consapevolezza di
quello che è successo alla famiglia ‒ o quantomeno più desiderio di
condividerlo. Da un lato l’accettazione supina, dall’altro l’embrione della
ribellione. Per il padre il sistema è un dato di fatto, che non mette in
discussione finché gli consente di ottenere ciò che vuole; la madre disvela
invece il sottaciuto, fin dal suo ruolo decisivo, e non marginale, nelle sorti
dell’attività di famiglia, verbalizzando come il momento di maggiore ricchezza
sia coinciso con l’apice della sua crisi esistenziale. Il cambiamento climatico
è anche una questione di salute mentale.
Sicuramente appartenere alla stessa generazione di Cotugno mi ha aiutato a
entrare più facilmente nella sua visione delle cose: quella di chi è nato nei
primi anni Ottanta e ha dovuto fare i conti tutta la vita con più di una
transizione, in un perenne stato agnostico sospeso tra i ricatti della nostalgia
e le illusioni del futuro, rifuggendo consapevolmente da entrambi e in continua
ricerca di un’alternativa al proprio modo di vivere che fosse davvero
migliorativa. Cambiamento climatico, capitalismo, coscienza di classe,
genitorialità, benessere individuale ed eredità collettiva: l’esperimento memoir
riesce, e le sue diverse stratificazioni si amalgamano in modo funzionale, senza
mai andare a discapito del valore letterario dell’operazione.
Tempo di ritorno recupera vecchie storie per affrontarle con una prospettiva
attuale. Raccoglie la sfida di Ghosh ribadendo l’urgenza di pensare a nuove
narrazioni, ma dice anche che prima dobbiamo decostruire i criteri sulla base
dei quali abbiamo valutato il funzionamento del nostro mondo: la ricchezza
anteposta alla felicità, la novità anteposta alla cura. Il lavoro di Cotugno non
è il punto di arrivo, ma uno dei tanti validi nuovi punti di partenza che si
affacciano sull’orizzonte letterario per provare a immaginare il futuro della
nostra società attraverso il potere della narrativa.
L'articolo Tempo di ritorno. Una storia di clima e di fantasmi di Ferdinando
Cotugno proviene da Il Tascabile.
a llora, l’altro giorno stavo con due amici alla street contro il decreto
sicurezza a Roma, no? (carri-murodicasse, 30 gradi, facce rotte, tekno dritta,
la A cerchiata sugli striscioni), in corpo un’acquetta leggera di 5-MAPB, giusto
il necessario per indurre uno sparlio più avvincente ed empatico, che ha però
l’effetto di farmi diventare sonnambula. Nel senso, camminiamo camminiamo e
arriva notte – forse montano alla Caffarella; ma ‘sta musica è cringe; siga;
forse agli Acquedotti; nah, troppo lontano; che gelo senza felpa; siga;
birrino?; il notturno per Termini perso; tipo come Jean Genet; pizzetta?; quando
avevo sedici anni; siga; fratello una monetina?; era tutta piena di sangue;
siga; oh, ripassa la metro; last birrina? – e mi sento l’NPC di una raver,
intrappolata nell’inseguimento videoludico di una sottocultura già esausta nel
setting di una Roma ripulita dal giubileo. Come un’intelligenza artificiale che
aggrega gesti e parole in termini probabilistici, senza comprenderne davvero
l’ontologia. Come Martino, la voce narrante di Il detective sonnambulo (2025),
l’ultimo romanzo di Vanni Santoni.
Martino è uno spatriato in Francia, artistoide inconcludente che, nella prima
parte del libro, vaga per una Parigi scarica, la poesia degli scapigliati
otto-novecenteschi svanita nei gesti ripetitivi di mediocri simulacri della
jeunesse bohémien che paiono anche loro più NPC (Non Player Character) di un
videogame che la rappresentazione di una nuova scena tardo-decadentista alla
Tropico del Cancro o alla Rayuela. Tra questi c’è la – chiamiamola – manic pixie
dream girl Johanna, di cui Martino è innamorato e che, ovviamente di natura
raminga, dopo qualche tempo, non può far altro che sparire. Le ricerche
disperatissime di Martino per la città, in un rigurgito morente del flâneuring
epifanico alla Pynchon dell’Incanto del Lotto 49, gli fanno incontrare a un
certo punto un cartellone per strada che lo porta a mettersi in contatto con la
militante anarchica Tanya.
Insieme decidono di cercare tal Manfredi Contini Della Torre – cryptoguru
diventato miliardario in un mix di ingenio e fortuna investendo nella prima wave
di bitcoin – che compare nella foto sul cartellone in compagnia di Johanna, e
che ha fatto una misteriosa donazione all’organizzazione antispecista di Tanya.
Da quel momento il libro si distacca totalmente dall’ideale romantico
dell’artiste maudit (che appunto è portato fin da principio come un insieme di
gesti grotteschi e morenti) andandosene nella molto meno poetica Davos (capitale
finanziaria svizzera) perché ormai l’ideale è marcescente e non ha più nulla da
raccontare, al di là forse di una nostalgia masturbatoria che finisce sempre e
solo con una fiacca mano sfibrata nel buio. Questo il primo consapevolissimo
movimento: il rito funebre del romanzo novecentesco, anche per questo il rimando
a I detective selvaggi di Bolaño nel titolo (che guarda caso esce a solo due
anni dalla fine del secolo).
> Martino è uno spatriato in Francia, artistoide inconcludente che, nella prima
> parte del libro, vaga per una Parigi scarica, la poesia degli scapigliati
> otto-novecenteschi svanita nei gesti ripetitivi di mediocri simulacri della
> jeunesse bohémien.
Quindi, c’è Manfredi, prima solo uno dei tanti nerd impegnati a smerciare carte
pokèmon rare online, che d’improvviso si ritrova con un sacco di soldi, ma ha
abbastanza cognizione di causa da capire che ci deve fare qualcosa di buono per
non farsene completamente avvelenare. Allora ai viaggi in yacht e
all’appagamento di innumerevoli sfizi e gadgettistica nerd ci affianca la
filantropia, elargendo appunto donazioni massicce a fondazioni tra le più
disparate:
> Sai quante ne ho finanziate, delle tue “realtà”? Dai consorzi indigeni della
> Bolivia alle critical mass, sai quelli con le bici?, agli hacker a Bilbao,
> dagli squat di Lubiana a Extinction Rebellion a Londra… Ho dato soldi pure ai
> Valdesi, fai tu. Con la Pomegranate Foundation, un’altra struttura che avevo
> messo su con dei cryptomillionaire che per un po’ mi erano sembrati idealisti
> veri, ho spinto persino delle comunità spirituali a sfondo psichedelico.
> Risultati, pochissimi.
Ma la disillusione, come racconta nel libro, si inerpica molto presto in
Manfredi, allora chiede aiuto a Johanna (che da manic pixie dream stereotipata
si rivela essere il più stratificato personaggio di una promettente e
tentacolare artista visiva) per dare vita a un progetto in cui il filantropo
nell’ombra può mutare in demiurgo, diventare protagonista della rivoluzione. Ci
si sposta a Berlino, dove Manfredi e Johanna stanno ultimando la costruzione
dello Schloss: un castello tripartito in residenza artistica, cellula
anarcoattivista, e acceleratore di crypto. Un ente benefico che però nella sua
architettura chiusa e gerarchica pare assumere delle sfumature settarie in cui
Manfredi non riesce a non posizionarsi come guru. Anche Tanya e Martino vengono
invitati a prenderne parte: la prima in quanto curatrice dei contatti con gli
squatter militanti, il secondo più come una sorta di dama di compagnia di
Manfredi stesso, compare di giochi che al posto di un ventaglio sventola carte
di Magic. Perché Martino è sonnambulo in quanto privo di una direzione – o
ideologia propria – destinato ad assistere e testimoniare le gesta straordinarie
degli altri personaggi. Per questo è voce narrante ma anche motore di molte
delle imprese dei protagonisti, allo stesso modo in cui siamo spinti a
comportarci nei modi più singolari quando siamo ripresi da una videocamera.
Anche il più strutturato progetto dello Schloss, però, lascerà infine Manfredi
profondamente insoddisfatto poiché i grandi cambiamenti del mondo non si
articolano attraverso quella scienza psicostorica teorizzata da Asimov nel Ciclo
delle Fondazioni – la rivoluzione non si può sintetizzare in vitro – ma anche e
soprattutto attraverso i nessi acausali della sincronicità junghiana di cui
infatti il romanzo è gremito (lo conferma Santoni in un’intervista su
Azione.ch). Ma prima di analizzare più a fondo le velleità demiurgiche di
Manfredi, e capire che ne sarà di lui e del suo “guruismo”, dobbiamo tornare
indietro. A quel passaggio del libro sui primi filantropismi del “cryptobro” e
ancora più indietro, al precedente romanzo di Santoni.
> Santoni da buon amante degli ipertesti e della cultura fantasy/otaku, negli
> anni ha costruito un universo narrativo in cui i personaggi dei suoi libri si
> incrociano, si attorcigliano e riprendono nuova vita.
La Pomegranate Foundation di Manfredi aveva finanziato anche una comunità
spirituale a sfondo psichedelico, si diceva prima: Santoni da buon amante degli
ipertesti e della cultura fantasy/otaku (consiglio anche la lettura
dell’articolo Il pesce che increspa la superficie dell’acqua di Giovanni Padua
sull’influenza esercitata dal manga Berserk sul Detective sonnambulo) negli anni
ha costruito un universo narrativo in cui i personaggi dei suoi libri si
incrociano, si attorcigliano e riprendono nuova vita. Come Cleopatra Mancini che
nasce nel saggio narrativo Muro di casse (2015), si sviluppa nel racconto Emma &
Cleo e culmina come protagonista del romanzo La verità su tutto (2025). E
proprio nella Verità su tutto che la misteriosa Pomegranate Foundation viene
citata per la prima volta, in quanto dona quattrocento bitcoin (dodici milioni
di euro) alla fondazione spirituale psichedelica Shakti di Cleo (diventata la
santona Shakti Devi) e alla sua partner Kumari Devi.
Sebbene il legante tra universi narrativi tra La verità su tutto e Il detective
sonnambulo sia più flebile rispetto ad altri libri di Santoni, quello simbolico
è invece potentissimo. In entrambi i romanzi i protagonisti diventano guru di
organizzazioni chiuse che partono dalla volontà di fare del bene, ma che poi
inevitabilmente assumono dei tratti da setta, attorno ai quali si accentra
appunto un conglomerato di devoti. La differenza tra Cleo/Shakti Devi e Manfredi
è che la prima diventa leader spirituale suo malgrado, dopo aver inseguito per
anni la morte dell’ego attraverso la psichedelia e la meditazione, mentre il
secondo costruisce consapevolmente lo Schloss e se ne elegge, di fatto, demiurgo
e re (nonostante anche lui sia un gran bel psiconauta).
Vanni Santoni è un nomen omen così potente che sottolinearlo sembra pleonastico,
come un meme del 2010 rigurgitato su una pagina Facebook per boomer, ma in
effetti su di lui nel corso degli anni si è sviluppato un vero e proprio culto.
Per questo ora farò quell’operazione che spesso è mero veleno dell’industria
dell’arte: ovvero, vestire i panni della detective paparazzo e indagare lo
scrittore dietro alla scrittura, comprendere quali sono i punti di collisione
fra la vita e la fiction. Non in un’ottica voyeuristica ma olistica – o, se
vogliamo, sincronica.
Vanni Santoni: lo scrittore anarchico che per più di vent’anni ha bazzicato
nella scena dei free party, il mangia-cartoni che pubblica con Mondadori e alle
presentazioni ci va ancora con le Globe, quello che ha scritto il trittico di
saggi narrativi sulle sottoculture, uno dei maggiori rappresentanti del
rinascimento psichedelico, il toscanaccio che ha reso celebre Mircea Cărtărescu
in Italia, quello che presenta scrittrici e scrittori internazionali al Salone
del libro ma poi presta la voce per il docufilm Antirave (2024), proiettato
negli squat, quello che se sei un esordiente e gli chiedi una mano manda due
mail e ci prova ad aiutarti a svoltare. Chiaro? Quello che “letteralmente nostro
padre” (meme tanto abusato quanto accurato in real life), dove il noi
rappresenta tuttə quellə giovani artistə che si sono formatə a suon di
sottoculture, libertarismo e cassa drittissima.
> Sia in La verità su tutto sia in Il detective sonnambulo i protagonisti
> diventano guru di organizzazioni chiuse che partono dalla volontà di fare del
> bene, ma che poi inevitabilmente assumono dei tratti da setta, attorno ai
> quali si accentra appunto un conglomerato di devoti.
“Tutti i poeti, persino quelli più avanguardistici, hanno bisogno di un padre”
pensa infatti lo stridentista Manuel Maples Arce nei Detective selvaggi di
Bolaño, dopo che il giovane Arturo Belano si reca da lui per un’intervista (“le
tipiche domande di un giovane entusiasta e ignorante”, pensa Arce mentre le
legge). Ma nel libro il poeta, di fatto, da quell’intimità rifugge incaricando
la sua cameriera di consegnare le risposte messe per iscritto a Belano senza più
mostrarsi a lui: rifiuto di paternità o l’isolamento borghese di un artista
arrivato alla gloria? Diamo in questo caso per buona la prima ipotesi: in La
verità su tutto, quando la fondazione Shakti ha ormai raggiunto fama
internazionale, una folla adorante si raduna nel cortile principale,
costringendo Cleo/Shakti Devi a ricoprire la figura della guru:
> Quando uscii ci fu un “Oooh!” generale e si avvicinarono. Quando uscì Kumari
> partì un “Oooh!” anche più forte e qualcuno si buttò in ginocchio.
> Non mi piace, ti dico che non mi piace, dissi volta verso di lei.
> Ma se sono qui tutti i giorni.
> Prima non avevano poster con le nostre facce. E non erano così tanti.
> Nell’ingenuità risiede la purezza.
> Non raccontare ‘ste cose a me, Kumari, ti prego… ti dico che oggi sono
> diversi, è come se fosse stata passata una linea…
> Dalla folla si staccò un gruppo più piccolo, come uscito da un’oscura fantasia
> medievale: le donne scarmigliate si lamentavano, gli uomini si battevano la
> fronte, e al centro, in mezzo a quella angosciosa simmetria di supplicanti,
> c’era una donna che teneva in braccio una bambina che si sarebbe potuta dire
> viva solo per i piccoli spasmi che a tratti ne scuotevano il corpo pallido,
> con le labbra blu come quelle di un’annegata e delle occhiaie che erano le
> orbite di un teschio.
> La tocchi! La tocchi!
> Gridavano questo. Dicevano a me.
> Pietà, Shakti Devi, la tocchi!
> Pietà? Ma…
> La tocchi, la tocchi!
> … Toccala, su, mi disse Kumari mettendomi la mano sulla spalla mentre quella
> gente invitava anche lei a toccarla. Non avere paura.
> Non ho paura, le dissi nell’orecchio. Solo, a differenza di te, non sento la
> seduzione di simili scene.
> Che vuoi farci. Il mondo sta andando come sta andando. Toccala, su.
> Dagli quel che vogliono, Shakti Devi. Se morirà, vorrà dire che doveva andare
> così.
> Non ho paura che muoia, Kumari, ho paura che guarisca.
Il Manuel Maples Arce di Bolaňo, similmente a Cleo/Shakti Devi, non vuole
toccare il giovane poeta; inversa la vitalità esuberante di Arturo Belano
rispetto a quella della bimba malata della Verità su tutto, ma entrambi
bisognosi di una madre o di un padre spirituale che gli donino guarigione o
saggezza; Shakti e Arce alla chiamata si sottraggono per paura. “Ho paura che
guarisca”, ho paura di scoprire il mio potere di demiurgo sul mondo, di creare
qualcosa che sfugga al mio controllo e prenda strade impervie, come nel mito del
Golem, e allo stesso tempo che la mia forza divina trasformi imperviamente. Ma
anche nel rifiuto di toccare l’altro si instaura una gerarchia.
Durante la tappa romana del tour di presentazione di Il detective sonnambulo,
alla Libreria AltroQuando, si riunì come di rito una piccola coorte attorno a
Santoni. Oltre ad amiche, amici, artiste ed artisti affermati, detective
sonnambuli come Martino che tentano la metamorfosi in detective selvaggi
all’Arturo Belano. Una fumettista underground; una guida psichedelica; una mezza
scrittrice (che poi sarei io). Tutte flesse nello strillo interiore “Pietà,
Shakti Devi, la tocchi!”. Perché, per quanto possa essere umiliante flettersi in
una posizione di subalternità, “tutti i poeti hanno bisogno di un padre”; e se,
come continuava Arce, alcuni poeti sono “orfani per vocazione” e come Belano non
tornano più, in realtà è solo perché hanno annusato l’austerità di un padre che
per il timore di sporcarsi nella melma altrui e viceversa, diventa anaffettivo
(Santoni, in ogni caso, la subalternità proprio cerca di obliterarla, del resto,
appunto siamo tuttə libertarə). “L’uomo più insignificante è in grado di
prendere decisioni che spettano soltanto ai re” scrive Bernhard in Gelo, e
continua poi, attraverso la voce di un pittore ritirato fra i monti in preda a
un male dell’animo: “Attorno a me s’era riunita un’intera generazione
d’usurpatori formata da tre quattro cinque sei persone in cerca, come me, di ciò
che è straordinario, che erano precipitate nell’indigenza dei loro sentimenti”.
Anche attorno a Santoni si è riunita questa generazione di “usurpatori”
sonnambuli alla ricerca di ciò che è straordinario, ma lui decide di non seguire
l’esempio di Arce: non rifugge dal tocco, perché il rifiuto innesta una
gerarchia e allora, come Shakti Devi, “prende in braccio la bimba, le mette una
mano sulla fronte e sillaba un mantra adatto alla situazione”, così si trasforma
in un Manfredi Contini Della Torre in potenza, che le sue fortune non se le
tiene strette covandole come un dragone, ma le condivide, le investe in
filantropismo. Ma anche l’aiuto innesta una gerarchia e quindi se, parafrasando
Cortázar, fare letteratura significa scrivere attorno a una domanda, nel senso
più tormentoso del termine, la domanda di Santoni è forse: quando hai un potere,
come usarlo per il mutuo soccorso? Come abolire le gerarchie? Come non
sprofondare nei deliri di onnipotenza di demiurghi e demagoghi? Domanda
riassunta perfettamente nel titolo di una canzone dei La Quiete, Cosa sei
disposto a perdere?
> Se fare letteratura significa scrivere attorno a una domanda, nel senso più
> tormentoso del termine, la domanda di Santoni è forse: quando hai un potere,
> come usarlo per il mutuo soccorso? Come abolire le gerarchie? Come non
> sprofondare nei deliri di onnipotenza di demiurghi e demagoghi?
Manfredi proprio buttandosi nell’investimento più elefantiaco cede del tutto
alla pulsione di onnipotenza e non può fare a meno che proclamarsi re dello
Schloss. E allora, come il pittore di Gelo, vede “tentativi di migliaia di
ideali restare impigliati fra i vetri delle mie finestre mentre il fumo delle
sigaretta saliva in alto”, dunque giunge l’orrore: “tutto era fantasmatico anche
perché l’irraggiungibile poteva venir soffocato con tanta facilità”. Investito
dalla sconfortante epifania di essere un demiurgo fallimentare (nonostante tutte
le vasche di deprivazione sensoriale e tutti gli psichedelici, la dissoluzione
dell’ego non è mai totalitaria, l’abolizione delle gerarchie di matrice
anarchica non è mai assoluta), si trasforma in un Nerone che della sua fortezza
infine vuole solo diventare il distruttore. Perché non è mai stato demiurgo. Di
fatto, Manfredi, era solo demagogo. La richiesta muta e disperata di Manfredi,
la troviamo in un altro libro sulla fondazione di un culto (quello del
Caso/Caos) L’uomo dei dadi (2017), di Luke Rhinehart: “lei mi deve aiutare a
soddisfare un io in modo tale che gli altri sentano in qualche modo di essere
stati tenuti in considerazione. […] Lei deve aiutarmi a riprendermi e a
smetterla di disperdermi in questo maledetto universo senza mai concludere
niente”.
Santoni non è Shakti Devi, e non è Manfredi Contini Della Torre. Come i
personaggi creati dai romanzieri non sono mai i romanzieri stessi, ma degli
oggetti magici da incantare e in cui inscrivere le proprie paure (interessante a
questo proposito la riflessione sulla magia alchemica vs autotrascendente nella
scrittura nell’articolo Santoni come educatore – Logomachia postmoderna tra
Zandomeneghi e Santoni intorno a Dilaga ovunque.) Ma Santoni, si diceva, è una
figura di riferimento. E non credo nel corso degli anni di essere stata l’unica
a interrogarlo – un po’ alticcia, un po’ disperata – sui compromessi fra
anarchia, lavoro culturale e arte. Cosa sei disposto a perdere? Non c’è nulla di
più pericoloso, del resto, che perseguire la strada del bene. Che più che di
bene di per sé, poi, si tratta sempre di morale autonoma. Da “anarcobomber” come
Alfredo Cospito, Francisco Solara, Theodore Kaczynski – per il bene, il
compromesso della violenza, della reclusione – passando per il neoculto di Luigi
Mangione; fino ad arrivare alla comune Rajneeshpuram di Osho e alla setta della
Manson Family. Cosa sei disposto a perdere?
> Santoni è una figura di riferimento. E non credo nel corso degli anni di
> essere stata l’unica a interrogarlo sui compromessi fra anarchia, lavoro
> culturale e arte. Cosa sei disposto a perdere? Non c’è nulla di più
> pericoloso, del resto, che perseguire la strada del bene.
Per tornare quindi al sonnambulismo, abbiamo da una parte la condizione di
artistoide fuori tempo massimo di Martino (il seguace del culto), che in assenza
di nuovi valori si appoggia alla nostalgia di una poetica morta, e a figure
carismatiche a cui assoggettarsi; e dall’altra quella di Manfredi. Anche lui
detective sonnambulo prima di tutto nella ricerca di un senso più grande, di
grandi gesti psicostorici che possano mutare il mondo, a cui però si rapporta
più come intelligenza artificiale che come essere umano. Simula una coscienza ma
in realtà sta solo agendo in termini probabilistici, appiccicando
sequenzialmente la parola o il gesto che statisticamente sembrerebbe aderire
meglio attraverso, appunto, i classificatori probabilistici Naïve Bayes. Le
stesse intelligenze artificiali che, fra le altre cose, hanno in parte
sostituito gli investitori nei trading di crypto; questione spiegata molto bene
in un passaggio verso la metà del romanzo.
> Ricordi quando Elon comprò Twitter e mise le “spunte blu”, ovvero
> l’autenticazione degli account, a pagamento invece che fondate sulla
> reputazione effettiva? A un certo punto la gente cominciò a creare falsi
> account di multinazionali, a verificarli con cinque dollari, e a condizionare
> il mercato… Uno di questi adorabili pirati creò l’account della Eli Lilly
> Pharmaceuticals e scrisse che di lì in poi l’insulina negli Stati Uniti
> sarebbe stata gratuita, e woom, ventidue miliardi di dollari bruciati in un
> attimo. Ti dirai, ma quale investor può essere tanto scemo da credere a un
> tweet così chiaramente fasullo? La risposta è: nessuno. Il tweet era stato
> processato dalle intelligenze artificiali, che ormai investono da sole:
> vedendo la spunta blu, e non conoscendo ancora l’ironia, il paradosso lo hanno
> preso per buono, del resto alimentano il sogno con frammenti di realtà già
> spuri, privi di una loro coerenza… La creazione è un’altra cosa, è tutt’altro
> potere.
Poi Manfredi è sonnambulo anche nella letargia che nel corso del libro si fa
parassiticamente strada in lui: quella di un uomo che si avvicina al divino (il
creatore del culto): monologava lo schiavo Lucky in Aspettando Godot che Dio si
riconosce per la sua divina apatia, per la sua divina atambia, per la sua divina
afasia. Ok, primo motore immobile. L’apoteosi del potere si consacra in quella
consapevolezza da pachidermi che, sì, battere una zampa per terra ribalta un
microcosmo, ma nello smisurato frattale cosmico l’ordine rimane invariato.
> Il romanzo diventa l’autopsia del sonnambulismo, una tassonomia della disfatta
> perché, insomma, non è che si deve affrontare l’esistenza come una guerra, ma
> sempre meglio conoscere il proprio nemico.
Quindi tutto ‘sto giro per tornare solo a un posticciume leopardiano? Mi si
potrebbe giustamente dire. Kind of. Perché è questo sonnambulismo letargico di
Manfredi che alla fine lo distrugge. Ma se la domanda attorno a cui gira la
scrittura nel Detective sonnambulo, dicevamo prima, è: come non crollare come
Manfredi? Ma anche: come non impaludarsi come Martino? Allora ok. Il romanzo
diventa l’autopsia del sonnambulismo, una tassonomia della disfatta perché,
insomma, non è che si deve affrontare l’esistenza come una guerra, ma sempre
meglio conoscere il proprio nemico.
e allora torniamo alla street, la tekno, la notte, al mio sentirmi emulazione
sonnambula di una sottocultura morente, alla costante ricerca di spettri da
mettere sotto resina. Sicuramente più Martino, ma anche un poco Manfredi nel suo
essere talvolta più algoritmo che umano, e perché ricordo quel senso di
scottatura gassosa nel retro della nuca quando lessi Il ciclo delle Fondazioni
di Asimov e pensai che non ci fosse nulla di più sensato e rassicurante della
psicostoria, e ricordo il senso di sbenedicenza marcescente quando scoprii che
era tutta una grossa cazzata. Ma ricordo ancora meglio una grossa piazza nel
centro di Roma infestata da carrozzoni-murodicasse, centinaia di facce rotte a
ballare e di fronte a noi una piramide che in realtà non guarda quasi più
nessuno: il monumento funebre a una gerarchia estinta, dimostrazione che molte
altre ancora se ne possono ribaltare, abolendo le dicotomie, le tripartizioni,
spandendosi capillarmente nell’orizzonte. E la musica che riverbera anche quando
l’impianto è spento e la 5-MAPB è scesa, beviamo due, tre, cinque birre, senza
dire niente, solo bevendo e guardandoci a vicenda, finché dal sonnambulismo
siamo già stati, di nuovo, risucchiati.
L'articolo Il detective sonnambulo e il culto Santoni proviene da Il Tascabile.
S uperato da poco il trentennale della sua prima pubblicazione – e il decennale
dalla riedizione, insieme a Un dolore normale (1999) e Troppi paradisi (2006)
col titolo Il dio impossibile (2014) –, Scuola di nudo (1994) di Walter Siti
appare ancora come uno tra i testi più rilevanti della letteratura italiana
contemporanea: il rapporto tra finzione, autobiografia e autofiction, le diverse
manifestazioni del desiderio e la dimensione del lavoro culturale occupano
tuttora uno spazio centrale nel dibattito e nella produzione letteraria,
influenzando voci talvolta anche molto distanti dallo scrittore modenese. È
questo il caso di Lavinia Mannelli, che dopo l’esordio con L’amore è un atto
senza importanza (2023) torna con un nuovo romanzo d’ambientazione accademica e
pisana dal titolo Storia dei miei peli (2025), raccontato in prima persona da
una protagonista con cui condivide, oltre al nome e al cognome, più di un
particolare autobiografico.
A contraddistinguere l’autrice è soprattutto il gusto per la sperimentazione
sull’io narrante: se nel suo nuovo lavoro ha scelto di virare con decisione
verso l’autofinzione, fino a ora aveva preferito adottare punti di vista
lontanissimi dal proprio, tentando di immedesimarsi – e di far immedesimare
lettori e lettrici ideali – in soggettività appartenenti al mondo animale come
in Pasta madre. Un pranzo di Natale (2023), pubblicato su Snaporaz, o
dedicandosi alla riscrittura della figura dell’automa e del burattino, come in
Stampino, inserito nel volume Il tempo è un altro. Dialoghi con Anna Maria
Ortese (2025), oltre che nel suo romanzo d’esordio. Pur mantenendo per tutta la
narrazione l’uso della terza persona, in L’amore è un atto senza importanza si
dà infatti ampio spazio alla voce interiore della sex-doll Tamara, che osserva
con tragicomica ingenuità il mondo degli umani, in particolare quello della
coppia che l’ha acquistata, dal cui appartamento Ikea prova a ricostruire il
funzionamento delle dinamiche relazionali contemporanee, aiutata soltanto dalle
analisi proposte da Maria De Filippi nei suoi programmi televisivi, arrivando a
desiderare di diventare una tronista di Uomini e donne.
> A contraddistinguere l’autrice è soprattutto il gusto per la sperimentazione
> sull’io narrante: se nel suo nuovo lavoro ha scelto di virare con decisione
> verso l’autofinzione, fino a ora aveva preferito adottare punti di vista
> lontanissimi dal proprio.
Nel dar voce alla bambola, l’autrice non si limita però a mettere in scena una
mera rivisitazione della figura dell’automa — un topos che nel corso dei secoli
ha suscitato stupori positivi così come negativi, ma che il filtro romantico ha
finito per tramandare come inevitabilmente legato al perturbante — ma,
suggerendo che Tamara sia in realtà un problema per la coppia, riesce a
costruire una peculiare forma di narrazione in cui lo sguardo rappresentato non
appartiene a uno dei personaggi o a un soggetto del tutto esterno alla storia,
ma al motore stesso della trama. Mentre il primo romanzo sembra così inscriversi
nella schiera di quelle narrazioni che, nel corso dell’ultimo quindicennio,
hanno rinnovato il fantastico italiano, ora inserendosi nel solco della sua
tradizione, come nei romanzi di Veronica Galletta (Malotempo, 2025), ora
provando a importare categorie e modelli letterari anglofoni, come nel Southern
Gothic adattato al contesto meridionale da Orazio Labbate (Cravuni, 2025), le
premesse autofinzionali di Storia dei miei peli sembrerebbero collocarlo fra le
variegate declinazioni delle letterature del lavoro, un altro filone che negli
ultimi anni ha avuto fortuna tanto sul piano critico quanto su quello
editoriale.
La Lavinia Mannelli protagonista è infatti una dottoranda senza borsa che per
mantenersi nei tre anni di lavoro non pagato decide, pur facendo parte di un
collettivo femminista contrario alla depilazione, di iniziare a vendere i suoi
peli al misterioso Daniel85; il desiderio, che da Siti in poi si è guadagnato il
posto di tema ricorrente nei romanzi accademici italiani, da istanza puramente
liberatoria e salvifica rispetto all’alienazione del lavoro di ricerca, assume
così un valore più ambiguo in quanto comunque soggetto alle dinamiche oppressive
dell’economia neoliberista, in cui una ricercatrice non pagata non conta né più
né meno di un pelo incarnito in attesa d’essere estratto:
> L’università è una coperta e la coperta, si sa, è sempre troppo corta.
> L’università è una seconda pelle, ma il dottorando medio è un pelo incarnito:
> preme, preme, si gonfia, si infetta – e spera. Soprattutto se si occupa di
> discipline umanistiche, sperare è l’unica cosa che gli resta. […] E se non ce
> la fa? Se non ce la fa significa che non aveva la coperta giusta sopra di sé,
> e allora l’università lo assorbe, lo espelle, se lo mastica e se lo dimentica.
> Si assottiglia, sbiadisce, smette persino di salutarlo.
Se le responsabilità principali delle sventure della protagonista sono così
attribuite, come anche nei romanzi di ambientazione universitaria di Raffaele
Donnarumma (La vita nascosta, 2022) e Dario Ferrari (La ricreazione è finita,
2023), all’organizzazione generale del sistema socioeconomico, l’autrice non
manca di sottolineare il peso che le azioni individuali possono esercitare nel
quotidiano, focalizzando la narrazione ancora una volta sui possibili motivi di
scontro all’interno un contesto apparentemente confortevole. Rispetto ad altre
autrici che, dedicandosi all’adattamento del campus novel al mondo universitario
italiano, hanno comunque scelto una voce narrante maschile – come Silvana La
Spina in Morte a Palermo (1987) o Laura Benedetti in Secondo piano (2017) – o,
come Cecilia Ghidotti in Il pieno di felicità (2019), non hanno dedicato
particolare spazio alla questione di genere, Mannelli non soltanto pone il
dibattito femminista al centro della narrazione, ma soprattutto, a differenza di
quanto accade in Sotto (2013) di Gilda Policastro, in cui si racconta il
passaggio dalla rivalità alla solidarietà femminile in un contesto in cui vige
un potere vistosamente patriarcale, ne scandaglia le contraddizioni e gli
inevitabili conflitti interni, incarnati dal rapporto con la saccente amica
Valeria.
Certo, i personaggi maschili assumono un ruolo perlopiù negativo nell’evolversi
della trama, ma a condurre la protagonista verso l’isolamento è soprattutto la
consapevolezza che, al netto dell’ostentata empatia, confidandosi con le
compagne del collettivo, non troverebbe altro che un moralismo non meno
asfissiante di quello esercitato dal sistema patriarcale, che pure si manifesta
in tutta la sua violenza in uno degli snodi finali del romanzo. È anche per
questo che Lavinia finisce per rinnegare la sua formazione un libro alla volta,
usando i testi della sua biblioteca femminista per confezionare i peli da
inviare a Daniel85.
> Mannelli non soltanto pone il dibattito femminista al centro della narrazione,
> ma soprattutto ne scandaglia le contraddizioni e gli inevitabili conflitti
> interni.
Nuovi e vecchi classici del femminismo italiano – i cui titoli vengono citati
con precisione e con tanto di indicazioni bibliografiche e note a piè pagina, in
una prosa dal ritmo incessante che ricorda i primi lavori di Tondelli (Altri
libertini, 1980) e dei cosiddetti cannibali, dal Brizzi di Jack Frusciante è
uscito dal gruppo (1994) ai racconti di Silvia Ballestra (Gli orsi, 1996) –
vengono così fatti a brandelli e rimpastati per creare dei bizzarri pacchi
regalo: “Ho sbudellato Lea Melandri, macerato Jennifer Guerra e Silvia Federici.
Mischiato Murgia, Lonzi, Butler e Despentes. […] Forse non sono stata brava come
il dottor Frankenstein; forse non ho scelto bene i pezzi e questi libri non
erano davvero cadaveri, ma corpi ancora vivi. Dove finisce il rito e inizia la
profanazione?”
Il riferimento allo scienziato inventato da Mary Shelley non deve stupire:
accanto alla saggistica femminista e ai romanzi sulla Resistenza studiati dalla
giovane ricercatrice per la sua tesi sulla rappresentazione delle partigiane,
tra le opere letterarie citate figurano anche Dr Jekyll e Mr Hyde di Stevenson e
soprattutto La metamorfosi di Kafka, indizio principale sull’imprevedibile
finale insieme alla dimensiona quasi di possessione che caratterizza il rapporto
con Daniel85, all’atmosfera oscura, dai tratti gotici, che connota le
descrizioni degli interni e in particolar modo della stanza in cui Lavinia può
dedicarsi a tempo pieno agli scambi virtuali e ai suoi esperimenti, rifugio da
una dimensione pubblica con cui la dottoranda evita il più possibile di fare i
conti.
Non trovando alcuna via d’uscita dalle sue ansie negli scritti delle sue maestre
né nelle mediazioni col conformismo scelte dalla ex radicale Valeria, a Lavinia
non resta che diventare, come Gregor Samsa, qualcosa di completamente altro: un
essere interamente ricoperto di peli, irriconoscibile ma proprio per questo
libero da qualsivoglia aspettativa, che provenga da voci interiori o da
pressioni esterne. Sul finale, Mannelli torna quindi ai toni perturbanti
presenti nei racconti e nel primo romanzo, avvicinandosi così ad altri autori
che hanno giocato con gli stilemi del fantastico e in particolare del gotico
nelle loro narrazioni accademiche, come Gianfranco Manfredi in Magia rossa
(1983) e Cromantica (1985), Anna Maria Ortese in Alonso e i visionari (1996) e,
più di recente, Marco Malvestio con il romanzo La scrittrice nel buio (2024) o
nel racconto Il rito (2025), in cui sex-work e lavoro di ricerca tornano a
intrecciarsi, seguendo però il punto di vista del consumatore invece che quello
del performer.
> Sul finale, Mannelli torna ai toni perturbanti presenti nei racconti e nel
> primo romanzo, avvicinandosi così ad altri autori che hanno giocato con gli
> stilemi del fantastico e in particolare del gotico nelle loro narrazioni
> accademiche.
È difficile dire se l’epilogo del romanzo vada letto in senso positivo,
accettando che il mutamento abbia un valore in sé, oppure come un’ulteriore
caduta nel baratro in cui la protagonista è precipitata: la libertà dalle
incombenze relazionali e lavorative, la possibilità di rinunciare a quell’io
che, citando El especialista de Barcelona (2012) di Aldo Busi, viene definito
“solo un colabrodo, utile per capire a che punto della tua vita sei se provi a
setacciare una zuppa pronta andata a male”, si scoprono infine controbilanciate
dall’esposizione di Lavinia nello zoo di Pistoia, dove può venire additata come
cattivo esempio da anziane nonnine in visita coi nipoti. Del resto, ad animare
il romanzo – e più in generale la produzione narrativa della scrittrice –
sembra essere, più che una qualche morale tratta dall’ampia bibliografia
militante e accademica citata, una forte volontà di scalfire il peso che, se
divorata senza avere il tempo di costruire ed esercitare il proprio spirito
critico, questa può assumere sul piano personale oltre che letterario e
politico, come conferma la stessa autrice:
Ho iniziato la stesura di questo romanzo su suggestione dell’editor del mio
primo libro, Alessandro Gazoia. Lui pensava che avrei potuto scrivere bene una
specie di personal essay a tema libero per una nuova collana della casa editrice
66thand2nd (Astratto / Concreto), io volevo fare la femminista pop incazzata e
parlare dei peli delle donne. Quando ho iniziato a buttare giù le prime pagine
ho capito però che la dimensione saggistica mi suonava falsa. Così, un po’
paradossalmente, i peli si sono intrecciati al romanzo e all’autofiction: quindi
potrei dire che hanno incontrato per caso il campus novel.
All’inizio il testo era esplicitamente monolitico e saggistico. Poi è stato
soprattutto perché mi è venuta voglia (ho sentito il bisogno) di fare del male a
quel monolite: scheggiarlo, graffiarlo, frantumarlo mi è sembrato l’unico modo
intelligente e interessante per parlare del mio bisogno di essere intelligente e
interessante a tutti i costi. Esibire delle note bibliografiche e narrative
all’interno di un testo finzionale frenetico è il modo che ho trovato per
raccontare (per fare e disfare) la mia ansia di aver letto tutto, di citare
sempre il libro giusto, di essere sempre “brava” se non “bravissima” perché
altrimenti esistere non ha alcun senso.
Un’ansia che un certo modo di vivere l’accademia certamente incoraggia (ai fini
concorsuali pubblicare numerosi articoli premia mediamente più che dire cose
nuove e appassionate), e che si insinua dovunque, persino tra i sogni che in
realtà sono incubi, persino tra quelle logiche di sorellanza che diventano
allora vettore di infiniti sensi di colpa e fantasie di persecuzione. Così,
almeno, capita a Lavinia Mannelli.
L'articolo Il perturbante, il femminismo, l’io e tutto il resto proviene da Il
Tascabile.