
Da Venezia a Taranto, i miei occhi sull’Italia solcata dal Frecciarossa (con un’ora di ritardo)
Il Fatto Quotidiano - Saturday, November 29, 2025di Francesca Carone
Si viaggia in un timido e freddo mattino d’autunno con gli alberi ormai spogli e orfani delle foglie. Si parte dal Nord-Est traghettatore del benessere; dalla città conosciuta dai più come la sorella brutta di Venezia, Mestre: paesone interculturale e intelligente dalla tristezza agghiacciante. Nella stazione tutto sembra normale, a parte le flotte di studenti in uscita didattica che affollano spensierati e sorridenti gli spazi della stazione
Ore 10.38: si parte in orario con il Frecciarossa o “Crocerossa” a seconda dei ritardi inesorabili e infiniti, resi accettabili solo dal parziale rimborso del biglietto. I vagoni sono gremiti, tra i viaggiatori anche qualche inglese che sonnecchia sognando Londra.
Ore 12.45: fermata alla stazione di Bologna per la coincidenza al binario 6, invaso dai numerosi viaggiatori in preda all’ansia “da ritardo” con gli occhi puntati al tabellone delle partenze/arrivi. Qui il sole fa capolinea con un tepore che accarezza l’anima, allontanando la paura dei ritardi. Si attende: il treno è in ritardo di 15 minuti. Inizia pian piano la metamorfosi del Frecciarossa in “Crocerossa”. Così, nell’attesa come una “Sherlock Holmes”, senza Watson, con la mia lente di ingrandimento inizio a scrutare ed osservare un pezzo d’Italia…
Nei paraggi due bambine si esercitano nel ballo più famoso di Michael Jackson, il Moonwalk, celebre in tutto il mondo che consiste nello spostarsi all’indietro dando l’illusione di camminare in avanti. Nulla di male se non fosse che lo fanno lungo la striscia gialla che delimita “l’off limits” per i viaggiatori. E un eventuale passo falso o un movimento fatto male potrebbe diventare fatale. La madre richiama le bambine seduta su una valigia “animalier” con il telefonino all’orecchio e la sigaretta elettronica.
La mia lente si ferma poi su un padre e sua figlia: il papà ha il viso sofferente debilitato da una paresi: sua figlia lo guarda con meravigliosa delicatezza e lo protegge dagli sguardi dei cretini. Gli sorride e ascolta le sue parole con un’espressione filiale di protezione materna. Non posso non orientare la lente verso un fantomatico e pittoresco uomo d’affari che passeggia e “spasseggia” lungo la striscia gialla declinando espressioni e linguaggio presi in prestito da qualche film americano.
Depongo la lente perché il ritardo di un quarto d’ora è passato e intravedo all’orizzonte le luci del mio Frecciarossa. Si parte. Anche qui i vagoni sono pieni, ci sono studenti che tornano a casa e coppie di anziani che si perdono tra il panorama sfuggente dei finestrini e la loro pennichella. Al bar, situato nel vagone centrale del treno, chiedo un caffè lungo e approfitto per fare due passi. A servirlo è Eden (lo leggo dal suo pass identificativo attaccato al camice), un signore che sembra di origine indiana, ma parla bene l’italiano. È preciso e professionale nella preparazione dei caffè e scambia perfino qualche battuta con altri due viaggiatori.
Torno al mio posto, nella speranza che il Frecciarossa non continui la sua metamorfosi trasformandosi nell’incubo dei viaggiatori: un treno in ritardo. Non mi resta che abbandonarmi al destino di quasi tutti i viaggiatori: lo scrollo del telefonino per ammazzare il tempo e il ritardo. Si viaggia e ormai è sera. Le luci accese nei vagoni fanno un po’ “effetto casa”. Il tepore del riscaldamento fa il resto.
Una giovane viaggiatrice si siede di fronte, neanche il tempo di recarmi al bar del simpatico Eden per una bottiglia di acqua, quando, al ritorno, mi rendo conto che la giovane viaggiatrice ha già usurpato il mio spazio, allungando le sue gambe, toccando quasi la mia poltrona. Allungo un po’ anche le mie gambe, senza invadere il suo spazio. Ma la giovane non molla di un millimetro: rimane con le sue gambe che toccano le mie. Rimango in silenzio, indecisa se urlare il mio disprezzo o starmene zitta. Decido per la seconda opzione, anche per essere d’esempio. E vengo ripagata perché la viaggiatrice maleducata lascia il treno, il suo viaggio è terminato.
Ore 18.27: mi abbandono alle luci del paesaggio serale che corre insieme al treno verso il Sud dello Stivale, nella speranza di recuperare i 45 minuti di ritardo, restituendo così al mezzo la dignità di un treno ad alta velocità. Nell’ attesa mi perdo tra le grigie sfumature della sera e il chiaroscuro di un’ Italia sommessa e frastornata.
Ore 20.00: ad una fermata il vagone antistante viene assalito dalle urla vigorose di un giovane che al cellulare si abbandona ad una rabbia furibonda con il suo interlocutore/interlocutrice, con tono e parole che destano tutti i presenti. Inizialmente si pensa ad un litigio, particolarmente acceso, tra due persone. Poi il giovane esce dal treno (ancora in sosta) e continua indisturbato la sua accesa cavalcata oratoria; non posso fare a meno di ascoltare le sue parole in cui rabbia e risentimento si mescolano a vissuti e tragedie del giovane.
La scena è da film: gli spettatori sono i viaggiatori della stazione che assistono al movimentato monologo. L’attore è esso stesso un viaggiatore “arrabbiato” da cui viene fuori la parte umana e animale. Dal treno altri spettatori sbirciano dai finestrini alla pièce teatrale. Noncuranti del fatto che il protagonista li osserva. E dovrà rientrare sul treno. Una volta dentro ognuno lo osserva con la coda dell’occhio o con un libro davanti (magari messo al contrario). È davvero tanto arrabbiato. Ma non parla più al telefono.
Un dubbio mi assale subito dopo: che quella del “viaggiatore arrabbiato” sia stata una messa in scena solo per evitare di farsi beccare senza il biglietto: nessun controllore si sarebbe avvicinato ad una persona così in preda all’ira. Se così fosse il giovane è stato all’altezza della sua parte: incazzato e pericoloso al punto da allontanare tutti, perfino i controllori.
Come nelle migliori tradizioni della commedia all’ italiana, il viaggio si conclude con l’abbraccio solenne e intenso tra una mamma e suo figlio. E così i titoli di coda scorrono alla stazione di arrivo, Taranto, con la scritta “The END”. E quasi un’ora di ritardo!
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