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Sopravvivere al collasso
U na massa inarrestabile. Senza volto, senza voce. Avanza a scatti: afferra, dilania, consuma. Non pensa, non decide, non sente. È ovunque. Si può solo cercare di non esserne contagiati. Oggi, questo è il nostro mostro. Non è elegante, né seducente: non ha una storia da raccontare. Lo zombie non è l’affascinante, tragica e ambigua creatura simbolo del male che per secoli ha incarnato desiderio, solitudine e tormento, vale a dire il vampiro. Al centro di molte narrazioni horror contemporanee troviamo un corpo disattivato nella sua soggettività, ma ancora funzionante: non è più luogo di conflitto interiore, ma meccanismo che reagisce, si muove, infetta. È una presenza che agisce senza coscienza, senza desiderio, senza direzione. Tra zombie e vampiri, è il primo ad aver conquistato l’immaginario contemporaneo: non per fascino, ma per necessità. Dove il vampiro rifletteva l’io, lo zombie riflette il noi che si disgrega. Il primo era dramma dell’anima, il secondo è sintomo della fine di una società. In nessun luogo questa transizione è stata più radicale che nel cinema asiatico, dove il genere zombie è esploso con una varietà di forme e significati, mentre il vampiro è rimasto bloccato nel folklore o in variazioni d’autore marginali. La cultura dell’estremo oriente ha trasformato il morto vivente in un linguaggio per raccontare crisi collettive, vulnerabilità sistemiche, tensioni invisibili ma onnipresenti. > Tra zombie e vampiri, è il primo ad aver conquistato l’immaginario > contemporaneo: dove il vampiro rifletteva l’io, lo zombie riflette il noi che > si disgrega. Il primo era dramma dell’anima, il secondo è sintomo della fine > di una società. Non si tratta solo di una moda, ma di una mutazione profonda dell’immaginario. Il vampiro apparteneva a un mondo ossessionato dalla soggettività e dall’interiorità. Lo zombie è il prodotto – e simbolo – di un mondo in cui il soggetto si frantuma dentro la collettività. Un mondo che ha smesso di chiedersi chi siamo, e ha cominciato a temere di essere già diventati qualcosa d’altro. Il corpo come specchio della crisi Per capire il successo dello zombie e il declino del vampiro, bisogna partire dal corpo e il corpo, oggi, è un campo di battaglia. Secondo Dennis Waskul (professore di sociologia alla Minnesota State University di Mankato) che si occupa di interazione simbolica, corporeità, sensorialità, sessualità e fenomeni del soprannaturale) e Phillip Vannini (docente e ricercatore presso la Royal Roads University di Victoria in Canada, che lavora tra sociologia, antropologia ed etnografia visiva, occupandosi soprattutto di semiotica del corpo e interazione simbolica), il corpo umano non può essere ridotto a una semplice entità biologica: è un costrutto sociale e simbolico, modellato dall’interazione, dalla cultura e dai processi di significazione che lo attraversano. Il corpo è un sito in cui si negoziano identità, si riflettono dinamiche di potere e si esprime – anche attraverso il silenzio o la malattia – la condizione del soggetto, scrivono i due studiosi in Body/Embodiment: Symbolic Interaction and the Sociology of the Body (2006). Non possiamo quindi considerare il corpo come un’entità biologica, ma occorre prenderlo in considerazione come punto d’incontro tra significati, relazioni e aspettative sociali. Ogni corpo è, in qualche misura, una biografia vivente: qualcosa che parla anche quando tace, che significa anche quando sembra solo subire. Il vampiro è un corpo riflesso: performa la propria identità in relazione allo sguardo altrui, si costruisce attraverso il desiderio, il giudizio, l’alterità. È, potremmo dire, un corpo-specchio: non riflette direttamente ciò che gli altri pensano, ma si plasma su segnali e aspettative sociali. E, in questo senso, è profondamente moderno: costruisce sé stesso nel conflitto tra ciò che è e ciò che appare. È il corpo dell’individualismo tardo-romantico, dell’interiorità tormentata. Seduce perché mette in scena la soggettività in crisi, il desiderio che non può essere appagato senza colpa. Lo zombie, al contrario, è corpo svuotato. Non ha più agency (cioè la capacità di un soggetto di agire nel mondo in modo intenzionale e consapevole, esercitando scelta e influenza sulla realtà), né riflesso. È un caso di vero fallimento drammaturgico: un corpo che ha smesso di recitare, che non prende più parte al gioco rituale della socialità. Non si limita a essere escluso: è semplicemente caduto fuori. I corpi, normalmente, si costruiscono dentro codici condivisi, attraverso convenzioni culturali e performance quotidiane. Lo zombie, invece, è un’interruzione di quel codice: non rappresenta più nulla, non negozia più nulla, non comunica. Lo zombie è ciò che resta quando tutto questo si interrompe. > Il vampiro è un corpo riflesso: performa la propria identità in relazione allo > sguardo altrui, si costruisce attraverso il desiderio, il giudizio, > l’alterità. È un corpo-specchio che si plasma su segnali e aspettative > sociali. Nel mondo contemporaneo, segnato dalla perdita di certezze, dal collasso delle narrazioni collettive e dalla crisi dell’identità, il corpo zombificato diventa una metafora potente. È il corpo che ha perso la capacità di costruire senso, che si muove senza meta in uno spazio disordinato, dove i codici sociali sono collassati. Come ha osservato Stefano Vernamonti nel suo articolo “Staccando la coscienza da terra”, la contemporaneità immagina sempre più spesso una coscienza astratta, disincarnata – separabile dal corpo, caricabile su server o algoritmi. È l’orizzonte della mente digitalizzata, della soggettività algoritmica, dell’identità smaterializzata. In questo scenario, lo zombie sembra una figura fuori tempo, residuale. E invece è proprio qui che diventa interessante. Lo zombie rappresenta l’opposto esatto di quella visione disincarnata: un corpo che continua ad agire senza coscienza, svuotato di soggettività ma ancora vincolato al mondo, un resto muto della coscienza – non più pensante, ma ancora pulsante. È il simbolo di ciò che resta quando la coscienza se n’è andata ma il corpo non può smettere di muoversi. Lo zombie, con la sua passività attiva, la sua esistenza senza soggetto, riesce a restituirci con spietata precisione la condizione contemporanea: quella di un’umanità che agisce per inerzia, lavora senza scopo, comunica senza ascolto, vive senza presenza. Nel cinema asiatico questo corpo senza soggetto è diventato il simbolo perfetto della crisi. Train to Busan (2016), diretto da Yeon Sang-ho, non è solo un film di zombie: è una radiografia della Corea del Sud contemporanea. Il treno che corre verso la catastrofe è metafora di una modernità che ha perso controllo, umanità, direzione. I personaggi sono tipologie sociali: il manager egoista, la madre incinta, il senzatetto. E il virus è l’evento che li costringe a mostrarsi per ciò che sono, senza maschere, senza ruolo, senza protezioni. Come osserva Seoulbeats, il film ha raccolto le paure post-trauma del disastro del traghetto Sewol e le ha trasformate in narrazione collettiva. Il treno diventa allora una capsula sociale, una metafora accelerata della nazione, un dispositivo narrativo che comprime tensioni familiari, economiche e morali. In The Sadness (2021), diretto da Rob Jabbaz e ambientato a Taipei, l’orrore si radicalizza: il virus non uccide, ma libera gli istinti peggiori. Gli infetti restano coscienti, ma si trasformano in sadici. Non è solo la società che crolla, ma anche il codice morale. Il film è una parabola estrema sul potere della repressione sociale e sull’ipocrisia dell’ordine pubblico. è un’opera che, nella sua grottesca esagerazione, rivela l’instabilità dell’intero sistema culturale asiatico contemporaneo. Il corpo infetto non è più solo mostruoso: è sociale. È trauma puro, incarnazione dell’assenza di senso e specchio fedele di una società in cui la promessa di coesione sociale si è dissolta nella competizione feroce e nella solitudine di massa. > Lo zombie rappresenta un corpo che continua ad agire senza coscienza, svuotato > di soggettività ma ancora vincolato al mondo, un resto muto della coscienza – > non più pensante, ma ancora pulsante. Se lo zombie è diventato il corpo collettivo dell’esclusione, il vampiro, al contrario, rimane una figura centrata sul sé, sul desiderio, sull’autonomia (qualità che appaiono dissonanti in molte narrazioni asiatiche contemporanee). In un immaginario dominato dalla pressione del conformismo sociale e dall’instabilità delle strutture istituzionali, il vampiro non trova un ecosistema culturale favorevole. Certo, esistono eccezioni significative. Thirst (2009) di Park Chan-wook, per esempio, è un film straordinario. Il protagonista, un prete cattolico trasformato in vampiro da una trasfusione sperimentale, è l’incarnazione vivente del paradosso tra purezza e desiderio. La pellicola fonde erotismo e senso di colpa, trascendenza e istinto. Ma il suo vampiro è tutt’altro che collettivo: è un individuo scisso, tragicamente solitario. Come nota una recensione su Booker Horror, Thirst opera come dramma metafisico più che come horror di consumo. È un film che riflette sulle dinamiche del desiderio e della fede, ma non riesce a diventare specchio della società nel suo complesso. Non sorprende che non abbia generato imitatori. Al contrario, le apparizioni del jiangshi (il “vampiro saltellante” della tradizione cinese) appartengono a un registro più folklorico e comico. Questi esseri, rigidi e quasi caricaturali, sono il prodotto di un’altra sensibilità: evocano lo scompenso tra mondo dei vivi e dei morti, ma senza l’introspezione o il simbolismo erotico del vampiro occidentale. Non sono mai protagonisti tragici, ma antagonisti da neutralizzare. Il vampiro asiatico, dunque, appare come un corpo simbolico senza presa sul presente. Incarna un’idea di soggettività individuale, seduttiva e autoreferenziale, inadeguata a rappresentare le dinamiche di una società in crisi sistemica. Dove lo zombie offre un linguaggio collettivo, il vampiro è ridotto al sussurro del singolo. > Il vampiro asiatico appare come un corpo simbolico senza presa sul presente. > Incarna un’idea di soggettività individuale, seduttiva e autoreferenziale, > inadeguata a rappresentare le dinamiche di una società in crisi sistemica. E, anche nell’immaginario occidentale, il vampiro ha smesso di incarnare la trasgressione per eccellenza. Come osserva Giovanni Padua in “Un vero conte transilvano morto”, ha perso la sua carica perturbante: non mette più in crisi l’ordine, lo decora. Le sue apparizioni recenti sembrano oscillare tra due poli ugualmente depotenziati: da un lato la domesticazione adolescenziale, dall’altro la restaurazione folklorica. Anche il Nosferatu (2024) di Robert Eggers, attesissimo remake uscito alla fine dello scorso anno, rinuncia a ogni forma di rinnovamento incomodante, radicandolo nella filologia culturale più che nell’inquietudine contemporanea. Il vampiro, così, smette di interrogare l’ordine per trasformarsi in monumento. Lungi dall’essere simbolo di rottura, diventa una figura rassicurante, storicizzata, utile più a evocare nostalgia che a disturbare. Lo zombie come semiotica dell’esclusione Il corpo “zombificato” è il corpo fuori senso, fuori discorso. Non ha più narrazione. È ciò che resta dopo la perdita della coerenza esistenziale, il punto in cui il linguaggio si spezza, il segno non si decifra, il potere che diventa biologico. È, in altre parole, la radicalizzazione del soggetto precario. Nell’Asia contemporanea, dove le strutture sociali sono attraversate da una tensione costante tra rapidità dello sviluppo e fragilità istituzionale, lo zombie diventa specchio e denuncia. Il suo successo culturale è legato anche alla sua flessibilità simbolica: può essere disoccupato o consumatore, migrante o cittadino medio, studente o manager. In ogni caso, rappresenta un corpo che non partecipa più, che non ha più diritto alla narrazione. Non è più soggetto di senso, ma resto biologico. Lo zombie non è escluso: è eccedente, inutile, residuo. Come nota Graziano Graziani in “Gli zombi e noi”, lo zombie si distingue da tutte le altre figure del pantheon horror proprio per questa sua natura collettiva e degradante. È il mostro della moltitudine, non dell’individuo: non ha l’eleganza del vampiro, né la coscienza tragica del mostro di Frankenstein. Non appartiene a un ordine simbolico arcaico o mitico, ma è a pieno titolo un prodotto della società di massa. In questa prospettiva, l’immaginario zombie si sovrappone sempre più frequentemente alla paura contemporanea dell’“invasione” migrante. Il corpo “zombificato” è l’incarnazione dell’altro che non riconosciamo più come umano, che è stato espulso simbolicamente dall’orizzonte dell’empatia. Se l’alterità non ha nulla in comune con il nostro ordine simbolico – se non è nemmeno più “umana” – allora tutto diventa giustificabile: la violenza, l’abbandono, la rimozione. È in questa zona grigia che si colloca l’efficacia simbolica dello zombie oggi: non è semplicemente il morto vivente, ma il vivente disumanizzato. Un corpo che non reclama più diritti, ma che non può essere ignorato. Uno spettro politico. In questa genealogia del corpo degradato e non riconosciuto, si inserisce anche il ghoul, come ha evidenziato Gioacchino (Jack) Orlando in “Echi dalle rovine”. Creatura folklorica marginale, il ghoul si nutre dei resti umani, abita luoghi desolati, si aggira ai confini del racconto. È simile allo zombie, ma conserva una coscienza e una lingua: è un mutante, non un morto che ritorna. Questo lo rende una figura ancora più ambigua, una soglia mobile tra umano e mostruoso. Il ghoul non rappresenta una degenerazione né un’evoluzione, ma una sopravvivenza ostinata. Non avanza né regredisce, semplicemente persiste. E come lo zombie, ci ricorda che l’umanità non è un dato naturale, ma una condizione continuamente negoziata – e facilmente negata. > Nell’Asia contemporanea, lo zombie diventa specchio e denuncia, anche grazie > alla sua flessibilità simbolica: può essere disoccupato o consumatore, > migrante o cittadino medio, studente o manager. In ogni caso, rappresenta un > corpo che non partecipa più, che non ha più diritto alla narrazione. Analizzare la figura dello zombie significa confrontarsi con le fratture del presente. L’horror è da tempo oggetto di studi approfonditi, non più relegato al rango di genere minore, ma riconosciuto come specchio delle tensioni sociali. Mentre altri generi proiettano speranze o nostalgie, l’horror lavora sulle crepe dell’attualità, rendendo visibile ciò che spesso preferiremmo ignorare. In particolare, lo zombie asiatico si fa dispositivo critico: il contagio, la folla, l’inefficienza delle istituzioni, il panico collettivo – tutto converge per raccontare una società già in crisi, dove la catastrofe non è una rottura, ma una continuità. Una sintomatologia globale L’Asia, nel suo precipitare nel futuro, ci mostra il laboratorio del mondo. Un luogo in cui il passato si sgretola e il presente non fa in tempo a diventare memoria. In quel vuoto che si apre tra crisi e connessione, lo zombie cammina. Ma se guardiamo all’Occidente, il panorama non è poi così diverso. Anche qui il vampiro (simbolo del tormento individuale, della trasgressione romantica, dell’erotismo gotico) ha perso centralità. Al suo posto, negli ultimi vent’anni, si è affermato lo zombie come mostro dominante della cultura visiva: più grezzo, meno riflessivo, ma incredibilmente efficace nel rappresentare le inquietudini collettive. L’inizio degli anni Duemila ha segnato una vera rinascita del genere: 28 Days Later (2002) di Danny Boyle ha rivoluzionato il linguaggio visivo dello zombie-movie, introducendo una creatura accelerata, rabbiosa, plasmata sull’ansia pandemica e la dissoluzione urbana. World War Z di Marc Forster (2013) ha dato una dimensione globale al contagio. The Walking Dead (2010-2022) ha costruito una mitologia seriale che ha ridefinito il modo in cui raccontiamo l’apocalisse: non più un evento improvviso, ma una lenta, dolorosa erosione della civiltà. Oggi, quelle stesse narrazioni stanno vivendo una nuova stagione, basti pensare a 28 Years Later (2025), l’universo di The Walking Dead che continua a moltiplicarsi con spin-off come The Ones Who Live e Daryl Dixon, in arrivo con nuove stagioni nel 2025. Anche The Last of Us, dopo aver concluso la seconda stagione nel 2025, proseguirà con una terza annunciata per il 2027, rinnovando il suo sguardo sul trauma e sul corpo infetto. È un rilancio simbolico. Il genere zombie si adatta a un presente frammentato: ogni declinazione propone nuovi punti di vista, nuovi corpi vulnerabili, nuove mappe emotive. Non c’è più un eroe a cui affidare il senso: c’è una moltitudine disorientata che cerca, a fatica, una forma di sopravvivenza. > Non c’è più un eroe a cui affidare il senso: c’è una moltitudine disorientata > che cerca, a fatica, una forma di sopravvivenza. Lo zombie occidentale si confronta con l’ansia del collasso dell’ordine liberale, della frammentazione delle istituzioni, della perdita del controllo razionale sul mondo. In Europa e negli Stati Uniti, il morto vivente si aggira tra rovine riconoscibili: scuole chiuse, città svuotate, famiglie implose. Non è solo una minaccia: è l’eco di un sistema che non funziona più. Simboleggia la paura che l’individuo non conti più nulla, che le strutture costruite per garantire coesione siano diventate inservibili. In Asia, invece, lo zombie prende forma dentro una modernità estrema: è il sintomo di un mondo iper-organizzato che produce esclusione sistemica, solitudine, anonimato. Lì, il morto che cammina non rappresenta la perdita di un’autonomia: incarna il sospetto che quell’autonomia non sia mai stata concessa del tutto. Eppure, nella moltiplicazione dei prodotti culturali lo zombie diventa un archetipo globale. Le sue incarnazioni si ibridano, si aggiornano, si esportano. Non è più solo un riflesso locale: è una mostruosità mondiale. Porta in sé ansie postpandemiche, memorie coloniali, precarietà economica, instabilità climatica, burnout emotivo. Ci racconta di come la società contemporanea, ovunque ci troviamo, abbia smesso di interrogarsi sull’anima mentre tutto crolla. L'articolo Sopravvivere al collasso proviene da Il Tascabile.
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Si conclude un annus horribilis: un incontro a Bologna tenta di fare il punto sulla crisi internazionale
Sta per concludersi un 2025 vero annus horribilis. Il primo anno della seconda presidenza Trump, il quarto della guerra in Ucraina, il terzo del genocidio palestinese a Gaza, perpetrato dagli israeliani di Netanyahu dopo la strage del 7 ottobre ad opera di Hamas. Vecchie guerre proseguono e nuove “fioriscono” in Sudan, in Congo, in Myanmar, tra India e Pakistan, e da poco in Venezuela (mascherata da caccia ai narcotrafficanti) e perfino tra Thailandia e Cambogia (di cui non è nemmeno chiara l’origine). Altre annunciate sono in procinto di scoppiare, perfino nel bel suolo d’Europa a sentire i proclami delle varie triadi nostrane, i volenterosi, i baltici, e soprattutto gli alemanni, delle cui ultime gesta, insieme alle nostre camicie nere, portiamo gli indelebili segni della memoria. Non si fa altro che parlare (e fabbricare) di armamenti, leve obbligatorie, lezioni di strategia militare nelle scuole, gite nelle caserme e giochi nei carrarmati, mentre l’opinione pubblica è sempre più disorientata dalla voce greve e biforcuta della bionda premier che giura “mai un soldato italiano andrà in guerra” dimenticando però di motivare la cosa con il nostro fondamentale art. 11 della Costituzione che esplicitamente la ripudia. Il mondo sembra correre cieco sull’orlo dell’abisso e nel frattempo per spendere in armi si tagliano welfare, servizi pubblici, si negano aumenti, tranne agli evasori fiscali a cui si condona di tutto. Perché sta andando così male? Chi lo poteva pensare anche solo cinque anni fa che la situazione internazionale sarebbe così radicalmente e pericolosamente precipitata? Solo papa Francesco – inascoltato – ammoniva che si stava prefigurando una “terza guerra mondiale a pezzi”, pezzi che ora si stanno tragicamente ricomponendo. Il presidente Usa si fa protagonista di piani di pace per Gaza e per l’Ucraina, ma questi piani stentano a produrre risultati e comunque l’assetto che in quelle martoriate aree di guerra sembra prefigurarsi certamente non appare all’insegna del riconoscimento di pari diritti tra aggressori e aggrediti, tra potenza coloniali e popolo colonizzato ed espropriato di tutto. E non è un caso che ritorni il terrorismo in diverse latitudini, a riprova che se le tensioni non si risolvono, la stabilità e la pace restano chimere. In questo quadro a tinte molto fosche, anche gli assetti politici alle latitudini occidentali sono attraversati da una fase di forte instabilità e di vera e propria regressione democratica. Populismi, sovranismi, nuove forme di autoritarismo, squilibri nei rapporti tra poteri istituzionali degli Stati democratici, pulsioni reazionarie, intolleranza razziale e sessuale, attacco ai diritti civili e sociali, perfino alla magistratura, smantellamento di fondamentali conquiste del welfare del secolo scorso, stanno segnando un tempo in cui le lancette dell’orologio politico cominciano a girare drammaticamente all’indietro. Da dove sorge tutto ciò? Oggi il centro motore dell’ideologia della nuova destra al potere è a Washington, accomodato nello studio ovale, mentre si sparge in tutt’Europa e altrove, ma Trump è solo l’ultimo prodotto scaturito da una lunga gestazione che assume le sue origini in un progetto politico che affonda le radici nel tempo, perché il conservatorismo Usa ha assunto in un lungo periodo, trasformazioni di dimensioni inusitate. Se arriva a far scrivere in un documento ufficiale di strategia nazionale di sicurezza nientemeno che gli Usa puntano su quattro paesi europei, Austria, Italia, Polonia e Ungheria, per scardinare il già faticoso processo di unificazione europeo, cos’altro occorre attendersi? C’è un testo che contribuisce con un’analisi documentata, raffinata, completa del fenomeno che ha condotto all’affermazione dell’ideologia reazionaria negli Usa e che è riuscito a diventare riferimento per tanti altri paesi che sembravano immuni da simili tendenze. Il libro s’intitola Dominio, la guerra invisibile dei potenti contro i sudditi (Feltrinelli), scritto alcuni anni fa da Marco D’Eramo, laureato in fisica, giornalista e scrittore, americanista, già penna di punta del quotidiano il manifesto e di molte altre testate. D’Eramo si confronterà su queste tematiche della crisi internazionale con Nadia Urbinati, politologa della Columbia University e testa pensante della sinistra tra le due sponde dell’oceano, nell’incontro intitolato “Libertà di non essere liberi?”. L’appuntamento, promosso dal Manifesto in rete insieme alla Fondazione Ivano Barberini, si terrà mercoledì 17 dicembre alle ore 17.30 a Bologna in via Mentana 2, ma potrà essere seguito anche in streaming a questo link. L'articolo Si conclude un annus horribilis: un incontro a Bologna tenta di fare il punto sulla crisi internazionale proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Cosa e dove diavolo è la cucina italiana? A guardare ‘4 ristoranti’, non esiste quasi più
L’Unesco ovviamente non lo sa, ma indirettamente mi ha premiato quando nei giorni scorsi ha riconosciuto la cucina italiana come patrimonio culturale immateriale globale. A dire il vero non so esattamente cosa questo significhi, ma, dato che io sono italiano, dato che amo cucinare, e che cucino quasi tutti i giorni, questo riconoscimento mi inorgoglisce un po’. Secondo la decisione, la cucina italiana è una “miscela culturale e sociale di tradizioni culinarie”, “un modo per prendersi cura di sé stessi e degli altri, esprimere amore e riscoprire le proprie radici culturali, offrendo alle comunità uno sbocco per condividere la loro storia e descrivere il mondo che li circonda”. Accidenti, non capisco neanche questo esattamente cosa significhi, ma mi sembra di ritrovarmici: mescolo cucina ligure e piemontese, mi ricordo mamma quando preparava i vari tipi di pasta ed io la osservavo curioso, e la cucina era un modo per esprimere gioia, condivisione, rispetto. Ma, detto questo un po’ scherzosamente, mi domando: ma cosa e dove diavolo è oggi la cucina italiana? Devi cercarla con la lanterna di Diogene, perché chi è che ha più tempo e voglia di cucinare in casa secondo tradizione? E quante sono, fuori dalle mura domestiche, le trattorie tradizionali? Se guardiamo i 4 ristoranti di Alessandro Borghese, essa non esiste quasi più, o, se esiste, è contaminata, o meglio è “rivisitata in chiave moderna”: tradotto: quella originale, alla Sora Lella per intenderci, è scomparsa. In compenso siamo subissati di piatti ultraprocessati, piatti pronti e quant’altro. La cucina italiana sembra diventata come i presidi slow food: qualcosa da tutelare perché altrimenti scompare. Ma poi, fatemi capire, quali sono gli ingredienti di questa benedetta cucina italiana? Le verdure che provengono dall’agricoltura intensiva? La carne che proviene dagli allevamenti anch’essi intensivi? Il pesce allevato, che supera di gran lunga quello pescato? Insomma, esiste ancora la cucina italiana con ingredienti naturali, che un tempo effettivamente allietava le nostre tavole? E quindi ha un senso il termine “sostenibilità” con cui è stato accompagnato il riconoscimento o è del tutto fuori luogo? Ma voglio andare oltre, e nel farlo, mi inorgoglisco sempre meno di essere stato indirettamente premiato. Intanto, vedo (ma già lo sapevo) che la dieta mediterranea, in generale, aveva ottenuto il riconoscimento nel 2010. Ma allora perché anche la cucina italiana, che ne fa parte? E dieci anni dopo, nel 2020, ecco il riconoscimento ottenuto dal pasto gastronomico francese. E poi ancora, la cucina tradizionale messicana, e ovviamente il pasto tradizionale giapponese. Per non parlare del riconoscimento di singoli prodotti, come la baguette francese o la vite ad alberello di Pantelleria. E la pizza napoletana no? Ma certo, non la pizza in sé ma l’arte del fare la pizza. E comunque fanno sedici; tanti sono i riconoscimenti Unesco immateriali che colleziona l’Italia da sola o con altre nazioni. C’è persino l’alpinismo (e anche qui, non sapevo di praticare un’eccellenza mondiale…). Insomma, sembra proprio che un riconoscimento non si neghi a nessuno, e a nessuna “cosa”: se ne facciano una ragione i nostri governanti, dalla Meloni a suo cognato, da Giuli alla Santanché all’onnipresente Tajani (“uno straordinario volano di crescita e prosperità” scusate ma quando parla Tajani mi scappa da ridere!). Del resto, se sempre in Italia hanno conferito il riconoscimento di Patrimonio Mondiale come paesaggio culturale a quell’azzeramento di biodiversità ed enorme distesa di vigneti irrorati da pesticidi che sono le Colline del Prosecco, talmente inquinate che i residui si trovano persino nel vino, beh, allora, ci sta proprio tutto. Concludo con una domanda che mi sorge spontanea dopo tutto questo sproloquiare: a quando il riconoscimento di patrimonio immateriale al junk food statunitense? L'articolo Cosa e dove diavolo è la cucina italiana? A guardare ‘4 ristoranti’, non esiste quasi più proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Cucina Italiana
La politica, imperniata di propaganda, sta promuovendo ormai valori antidemocratici
di Francesca Carone* “L’adattamento” è il piano simmetrico in cui la politica deve operare all’interno della collettività in base alle Leggi e alla Costituzione. La politica deve in primo luogo promuovere i valori costituzionali dell’uguaglianza e del pluralismo, del rispetto, delle pari opportunità, del diritto a vivere dignitosamente, superando i bisogni materiali e spirituali della società. In poche parole gli “operatori” della politica devono adattarsi al “mondo”, ricucire strappi generazionali e superare gap socio-culturali promuovendo diritto, democrazia e partecipazione. La politica, a prescindere da qualsiasi colore, deve agire per il bene di tutti decentrando e promuovendo il mandato ottenuto a favore dell’intera collettività e non accentrandolo dentro i confini del colore politico e della propaganda. E’ in questo territorio che la politica può assurgere al ruolo governativo di indirizzo costituzionale con le sovrastrutture della legalità e della democrazia. Il colore della politica deve adattarsi necessariamente alla Costituzione e a tutti i valori da essa derivanti, promuovendo leggi a favore dell’uguaglianza e del rispetto di tutti i cittadini, senza vie di fuga o compromessi impliciti che favoriscano alcuni cittadini a discapito di altri. Come le scandalose leggi “ad personam” con la conseguente deriva democratica. La politica non deve mai contestualizzarsi nella logica del pensiero acritico del colore partitico. Essa deve invece intervenire pragmaticamente, ponendosi in primis al servizio della collettività senza ricorrere alla solita propaganda vuota e autoreferenziale. Nel contempo deve dimostrare che i contenuti e le normative promosse sono in linea con la costituzione e la legalità, prima ancora che espressione del credo politico. L’equivoco in cui il nostro Paese è caduto risiede probabilmente nello scollamento e nel disallineamento dei valori costituzionali, legalitari, democratici dai contenuti derivanti dalla “summa ideologica” del governo di turno. Se la pace è un valore imprescindibile, ogni Paese deve opportunamente operare per la promozione di essa. Senza sconti. Senza se e senza ma. Gli slogan della politica nazionale e internazionale ci raccontano invece un’altra storia attraverso la narrazione incentrata sul binomio guerra–riarmo, declinato nello slogan “Se vuoi la pace preparati alla guerra” ossia non c’è pace senza riarmo: due termini evidentemente in antitesi e in netta contraddizione come ampiamente evidenziato dalla Chiesa. La politica ha invece il dovere di lavorare per il dialogo, per i negoziati, per le alleanze costruendo ponti, opportunità e futuro per le nuove generazioni. E’ in questo solco che dovrebbe operare la politica partecipata: per il bene collettivo, per la convivenza civile e la promozione del pluralismo e della democrazia. Tutta la politica oggi è invece imperniata di propaganda speculativa orientata a promuovere valori disgiunti e antidemocratici, per il bene di una ristretta collettività. Le conseguenze di questo approccio speculativo è l’orientamento delle norme giuridiche riferite a tutti i comparti dello Stato: scuola, giustizia, sanità, cultura, ecologia… Le conseguenze sono facilmente riscontrabili nelle indagini statistiche: il Rapporto Censis ci racconta di un’Italia sfiduciata politicamente e in crisi economica. Il malessere della società si traduce tuttavia negli effetti devastanti del calo della natalità, nella solitudine e nella ristrettezza socio-economica della popolazione anziana, nella fuga dei cervelli, nei tagli alla scuola e alle università. Nella impossibilità di una visione a lungo termine da parte di milioni di famiglie attanagliate dai rincari e dalle maggiorazioni nei servizi. E poi la corruzione: “un’industria in crescita vertiginosa diventata un’industria a pieno regime, che raddoppia i suoi numeri. Le fonti aperte della stampa e del web certificano che dal 1º gennaio al 1º dicembre 2025 il Belpaese è stato attraversato da 96 inchieste su corruzione e concussione, circa otto inchieste al mese”. Poi c’è l’eco della propaganda, urlata, grottesca e disinibita che imbianca il chiaroscuro della vera realtà succube delle ombre di una politica autoreferenziale e a senso unico. E poi l’imperversare della tempesta social-mass-mediatica che profetizza futuri dorati o rappresaglie popolari stile Masaniello. O peggio ancora celebra il dissenso telecomandato da lobby e poteri forti per dare una parvenza democratica e pluralista al dibattito e al governo di turno. E le “ballate social” del ponte sullo Stretto, della famiglia del bosco, della laurea militarizzata, dell’educazione all’affettività, del riarmo, delle accise. Passando per la strage di Gaza alla guerra in Ucraina. Tutto filtrato spesso da una narrazione monotematica che produce pericolose asimmetrie democratiche, depauperando il concetto di verità, ristabilendo assetti culturali, sociali e politici su un pericoloso pensiero unico. Mentre la povertà dilaga e con essa il malcontento generale della gente, parallelamente si fa strada la narrazione dell’oligarchia governativa: quella di patria, famiglia e Dio, del federalismo e della Giustizia a favore dei colletti bianchi. È in atto lo sradicamento dei valori costituzionali e democratici a favore di quelli di un sovranismo frustrato dal dissenso coraggioso di una compagine culturale e politica che difende il progresso, il pluralismo, l’uguaglianza e la democrazia del nostro Paese. Le promesse del governo fanno poi i conti con la narrazione pregressa degli stessi politici che oggi governano l’Italia: il famoso scandalo delle accise “urlato” da una Meloni popolana e le sue faccette antipresidenzialiste; il ponte sullo stretto denunciato e poi osannato da Salvini; la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri approvata dal Parlamento e contrastata da una forte compagine. E bene sarebbe che quella famosa laurea in Filosofia richiesta per i giovani ufficiali dell’Accademia di Modena, fosse proposta ai politici italiani se non altro per accompagnarli saggiamente nell’arte di governare. * Insegnante L'articolo La politica, imperniata di propaganda, sta promuovendo ormai valori antidemocratici proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Cos’è l’urbex, la pratica di esplorare luoghi abbandonati che ha preso piede (pericolosamente) anche tra i giovani
Case abbandonate, ex discoteche, ex fabbriche. Tutti luoghi suggestivi che negli ultimi anni stanno ricevendo sempre più attenzioni da parte di fotografi e appassionati: molti appartengono al mondo urbex, il termine inglese derivante da urban exploration (esplorazione urbana). Indica l’attività di visitare posti lasciati in stato di abbandono, siano questi case private o edifici pubblici come scuole, cinema o discoteche. Chi pratica urbex lo fa soprattutto per interesse storico, curiosità, fotografia o per documentare spazi dimenticati dal tempo. L’obiettivo principale non è il vandalismo, ma l’osservazione e la testimonianza di luoghi lasciati all’abbandono, seguendo il principio non scritto di “non prendere nulla e non lasciare nulla”. L’esplorazione urbana abbraccia diversi ambiti. La fotografia, la storia, il turismo, l’economia, la geografia. In un certo senso, anche l’identità con il proprio territorio. L’URBEX, LA NUOVA MODA DEI GIOVANI L’urbex sta negli ultimi anni spopolando anche tra i giovani per una combinazione di fattori culturali, sociali e personali. Da un lato c’è il desiderio di esplorazione e di avventura, la voglia di uscire dagli spazi controllati e ripetitivi della vita quotidiana. I luoghi abbandonati trasmettono un senso di mistero e di libertà, oltre a permettere di vivere esperienze percepite come autentiche e fuori dall’ordinario. Un altro elemento importante è l’influenza dei social media: fotografie e video di edifici decadenti, con atmosfere suggestive, attirano molta attenzione e diventano un modo per esprimere creatività e costruire un’identità personale. Inoltre, l’urbex consente di sentirsi parte di una comunità con regole proprie e valori condivisi, come il rispetto dei luoghi e il rifiuto del vandalismo. Ma un aspetto importantissimo dell’urbex è la valutazione del rischio, inevitabile in luoghi abbandonati. Rischi di ogni genere. I più immediati sono quelli fisici: edifici instabili, crolli improvvisi, scale pericolanti, pavimenti marci, vetri rotti e materiali arrugginiti possono causare ferite e cadute improvvise da tetti instabili. Esistono anche rischi per la salute, dovuti all’inalazione di polveri nocive, muffe, amianto o sostanze chimiche presenti negli edifici dismessi. Ecco perché è per praticare l’urbex non bisogna mai essere sprovveduti: servono scarpe antinfortunistiche, caschetti e mascherine. L'articolo Cos’è l’urbex, la pratica di esplorare luoghi abbandonati che ha preso piede (pericolosamente) anche tra i giovani proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Le luci delle città nascondono, complici, le tenebre del mondo
“Le luci della città” è il titolo di uno dei film più belli e noti di Charlie Chaplin. Film muto del 1931, scritto, prodotto, diretto e interpretato da Chaplin. Le luci della città raccontano con struggente dolcezza la storia di una giovane fioraia cieca che, grazie all’aiuto finanziario del protagonista, ritrova la vista. Il film termina con l’episodio della fioraia che riconosce il suo benefattore tramite una stretta di mano. La mano che, da cieca, aveva avuto modo di sentire e apprezzare come strumento di bontà nei suoi confronti. A causa del pretesto commerciale del Natale prossimo le nostre città sono inondate di luci. Luci artificiali che si vorrebbero festive, gioiose e spensierate. Si propongono di compensare così le innumerevoli tenebre che sembrano invece prosperare poco lontano. Le luci delle nostre città appaiono false e poco credibili perché, invece di illuminare, accecano gli occhi, le parole e financo una festa così innocente come quella natalizia. Si tratta di luminarie che, in realtà, tradiscono la luce. Fanno parte dello spettacolo che, come su un palcoscenico, accendono e attirano l’attenzione su ciò che si vuole sottolineare. Le cose vere e autentiche occorrono però altrove, all’ombra, al buio, nelle trincee che da troppe parti si stanno scavando tra un cimitero e l’altro. Sono, invece di assordanti luci, silenzi gravidi di sofferenze, umiliazioni, paure e file interminabili di sfollati che, protetti dalle tenebre, tentano di scavalcare i fili spinati delle frontiere. Le luci delle città nascondono, complici, le tenebre. Chi, come chi scrive, ha avuto il privilegio di vivere per alcuni anni in Africa Occidentale, ricorderà i tagli all’elettricità o i black out improvvisi specie nella stagione calda dell’anno. Nel buio delle capitali e delle città si sentiva con nitidezza la musica prodotta dai generatori di corrente. Di varie dimensioni e per tutte le borse creavano un’atmosfera quasi magica e fatalmente interrotta dal grido di gioia dei bambini quando la corrente era ripristinata. Da quelle parti le luci della città erano povere e vere. Luci di città beffarde, ingannatrici, eccessive, arroganti e fuorvianti rispetto al mondo e alla verità dell’avvenimento che le luci vorrebbero mistificare. In città sarebbe meglio instaurare l’oscurità, la penombra, il coprifuoco non appena tramonta il sole e fino all’aurora del primo giorno della settimana. Affinché si possa meglio udire il grido …’sentinella quanto resta della notte’, perché poi ‘arriva il mattino e poi ancora la notte’, risponderebbe la sentinella. Il buio sarebbe più sincero. Con che diritto e come osare mettere le illuminazioni più sfrontate nelle città quando si fa la propaganda delle guerre e muoiono, lontano dalle luci, i migliori tra loro. Cercatori di utopie, fabbricatori di sogni, disegnatori di nuovi sentieri, funamboli di frontiere inventate, minatori di parole libere e poeti dalle nude mani fioriscono solo nella notte. Bisognerà spegnere le luci superflue e lasciar brillare le stelle per quanti nasceranno quella notte. Tutti sentiranno allora il canto del mattino. Casarza, 7 dicembre 2025 L'articolo Le luci delle città nascondono, complici, le tenebre del mondo proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Natale
Guerre
Dall’incidente al sogno: così è nato “Lo Spirito di Stella”, il primo catamarano al mondo accessibile alle persone con disabilità
Quando Andrea Stella, ferito a colpi di arma da fuoco da un tentativo di rapina negli Usa, ha deciso di tornare a navigare, si è scontrato con la realtà: nel 2000 non esisteva nessuna imbarcazione a vela adatta alle persone con disabilità. È lì che nasce il progetto del primo catamarano al mondo completamente accessibile, dal nome “Lo Spirito di Stella”, che in 20 anni ha ospitato a bordo oltre 10mila persone con disabilità. Nell’agosto del 2000, mentre si trovava a Miami per un viaggio subito dopo la laurea in giurisprudenza, Andrea Stella, che all’epoca aveva 24 anni, è stato aggredito da tre uomini: gli hanno sparato due colpi di pistola per rubargli l’auto. I proiettili colpiscono il fegato e un polmone: dopo 45 giorni di coma, Andrea si risveglia e scopre che passerà tutta la vita in sedia a rotelle a causa di una lesione alla colonna vertebrale. Il suo sogno di tornare a navigare, l’impegno, la testimonianza, lo hanno spinto a condividere l’idea di creare un’imbarcazione unica al mondo. Dal 2003, più di 10mila persone con disabilità hanno navigato gratuitamente su “Lo Spirito di Stella”, chi per tre ore, chi per diversi mesi attraversando gli oceani. Alcune di loro non erano mai state in mare e l’idea di salire su una barca sembrava per loro impossibile, racconta Andrea nella sua intervista al fatto.it. “Ricordo un ragazzo malato di Sla, velista: in dieci anni era uscito di casa due volte per andare in ospedale, la terza per tornare in barca – si emoziona –. Ricordo il periodo del Covid, quando non potevamo accogliere gruppi eterogenei e abbiamo coinvolto delle associazioni di bambini oncologici con le loro famiglie: tra questi mi è rimasto nel cuore Carlo, che poco dopo ci ha lasciato. Ma quel giorno in barca sembrava il bambino più felice del mondo”. Oggi “Lo Spirito di Stella” è impegnata in una campagna di sensibilizzazione sulle barriere architettoniche e svolge iniziative volte a favorire l’inserimento dei disabili nella società. Ci sono ragazzi che conducono la barca spostando il mento, chi soffiando in un piccolo tubicino: un miracolo di tecnica e ingegneria, nel nome dell’inclusione. Tra i progetti in corso, ci sono le attività di scuola vela itinerante e gratuita, che consente a ragazzi con disabilità accompagnati da medici, fisioterapisti o familiari, di vivere una giornata in autonomia cimentandosi nella conduzione di imbarcazioni a vela; corsi di sci per persone con disabilità; due unità abitative in costruzione a Bassano del Grappa completamente accessibili, ecocompatibili ed autonome (dal nome “La casa per tutti”); incontri e attività di sensibilizzazione nelle scuole. Nel 2021 il progetto ha avuto come obiettivo il giro d’Italia all’insegna dell’abbattimento delle barriere architettoniche – “e mentali” ci tengono a precisare -, consentendo a tutti di riscoprire le meraviglie del mare dopo mesi di pandemia e isolamento. Il 1° luglio 2023, dal Porto Antico di Genova, il catamarano ha intrapreso un viaggio epico, dal titolo WoW 2023-2025 – Around the World. Un progetto in collaborazione con il Ministero della Difesa che si è trasformato in un giro del mondo a favore dei militari divenuti disabili in servizio, appartenenti alle forze armate di tutti i Paesi del mondo che sono stati impegnati in attività di mantenimento della pace e della stabilità. Un viaggio storico al fianco della nave scuola della Marina Militare Italiana, l’Amerigo Vespucci. “Da tanti anni collaboriamo con lo Stato Maggiore, portando a bordo i figli con disabilità dei dipendenti delle Forze Armate che appartengono a una associazione chiamata Anafim e con il gruppo sportivo paralimpico difesa – spiega Andrea –. Le storie di questi ragazzi mi hanno colpito profondamente e nutro per loro un grande rispetto”. Il viaggio, partito dal porto di Genova proprio insieme alla Vespucci, ha toccato durante i 23 mesi di navigazione, tutti e cinque i continenti e attraversato tre oceani, per poi concludersi il 10 giugno 2025, rientrando a Genova. A 50 anni Andrea ha capito che lo spazio ristretto sulla vela ti porta a dover condividere la navigazione, i pericoli, le emozioni che stai vivendo: per lui costruire la barca ha significato ritrovare il sorriso, riprendersi la vita in mano dopo l’incidente. “Quando sono in un ristorante – sorride – la prima cosa che chiedo è se il bagno è accessibile (a bordo del catamarano sono due). Anche le nostre città sono modificabili, a partire dalle necessità di tutti. Le invenzioni nascono per risolvere i bisogni”. La nave di Andrea da oltre 20 anni solca l’oceano in nome dei diritti. “Il nostro è un messaggio che non ha colore né bandiera, è un tema che riguarda tutti – spiega lo skipper originario di Sandrigo, in provincia di Vicenza –. Crediamo a una società con meno barriere e con la capacità di dare opportunità a tutte le persone. A partire dal mondo del lavoro, valorizzando le abilità di ognuno: solo così potremo costruire una società più inclusiva, più equa e alla fine più sostenibile”. Il futuro? Andrea alza gli occhi per un attimo e guarda lontano. “Vorremmo fare un giro d’Italia il prossimo anno, raccontando con un documentario e con un libro a fumetti per le scuole il nostro catamarano speciale”. Un modo per sensibilizzare i cittadini e capire che, se su una barca persone con disabilità e non, militari, civili di varie nazionalità e lingue, possono collaborare attivamente per un’impresa così sfidante, ecco, “sono la testimonianza che la società non funziona perché siamo tutti uguali, ma perché abbiamo gli stessi obiettivi. Rispettiamo le stesse regole, pur essendo diversi”. Il viaggio continua. “La barca – conclude – in fondo per noi è una metafora della vita”. 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Società
Disabilità
Leonardo produce il Michelangelo Security Dome: un trend che tocca vette di ipocrisia inarrivabili
C’è un ufficio marketing, da qualche parte nei palazzi della Difesa italiana guidata con mano ferma dal ministro Guido Crosetto, dove qualcuno ha deciso che perfino la guerra ha bisogno di un restyling culturale. Il mantra è: efficienza letale e “genio italiano”. In questa cornice i nomi non sono etichette neutre, ma connettori fra le cose e il loro senso. Per questo, mi colpisce leggere che un nuovo sistema missilistico integrato, una rete complessa di sensori e attuatori capaci di incenerire minacce ipersoniche, sia stato battezzato “Michelangelo Security Dome”. E a produrlo è Leonardo, il colosso nazionale degli armamenti. Michelangelo e Leonardo, due nomi che, nella nostra memoria collettiva, rimandano a cappelle affrescate, cupole, disegni visionari, bellezza. Vederli legati a un sistema d’arma nuovo di zecca, a radar, missili, “effettori” coordinati, disturba parecchio. Almeno me. Per cui mi chiedo: che cosa è andato così storto? È una questione di buon gusto e di coerenza simbolica. Abbiamo già digerito, quasi senza accorgercene, lo scandalo originale. Leonardo S.p.A. è da anni il marchio di un’azienda leader del settore delle armi che gioca su questa ambiguità. Il nome di Leonardo da Vinci, vegetariano convinto che comprava gli uccelli al mercato solo per liberarli dalle gabbie, è diventato sinonimo globale di elicotteri d’attacco, caccia addestratori e sistemi di puntamento. Certo, Leonardo disegnava macchine da guerra per Ludovico il Moro, ma lo faceva per finanziare la sua arte, con il disprezzo dell’intellettuale costretto a sporcarsi le mani. Oggi quel nome è un brand della più grande industria bellica d’Italia, fattura 18 miliardi l’anno ed è in crescita, ovviamente, per le logiche dilaganti della guerra permanente. È normale associare l’Uomo Vitruviano ai floridi bilanci di tale azienda? Propongo di cambiargli nome. L’operazione Michelangelo alza l’asticella della perversione culturale. Qui si gioca sull’evocazione. Chiamare “Michelangelo Security Dome” un sistema d’arma serve a pulire la coscienza dell’acquirente. Dalla cupola della Basilica da cui officia Papa Leone XIV, disegnata dal Buonarroti, alla cupola antimissile. È il “Made in Italy” che piace a Giuli, Santanché, Lollobrigida e Crosetto, applicato alle logiche della difesa contro la Russia di Putin e le sue voglie espansionistiche. Il radar di questo nuovo armamento si chiama Kronos: vabbè, è greco e significa “tempo”, ma qui almeno c’è coerenza, dato che Crono divora i suoi figli, metafora perfetta della guerra. Anche i francesi hanno chiamato le loro navi militari con i nomi di filosofi o matematici, vedi la classe “Descartes”, ma qui da noi il trend tocca vette di ipocrisia inarrivabili. Vero è che da anni le parole gestite dalla politica cercano di stravolgere i significati. E quindi le guerre diventano “operazioni di pace”, i bombardamenti “interventi umanitari”, i missili “peacekeeper”, le bombe “intelligenti”, le deportazioni forzate “zone umanitarie”. Nel settore civile, le aziende più inquinanti si tingono di “green“, “eco”, “planet”, mentre vendono l’esatto contrario. I nomi servono a costruire una narrazione in cui ciò che distrugge appare come qualcosa che protegge. Forse è il momento di dirlo, anche se nessuno ascoltasse. Ci sono nomi che dovrebbero restare legati alla vita, alla conoscenza, alla scienza, all’arte. Non per moralismo, ma per igiene simbolica e mentale. Perché il modo in cui chiamiamo le cose finisce, piano piano, per cambiare il modo in cui le pensiamo. E un Paese che usa i suoi geni del Rinascimento per battezzare armi rischia di dimenticare che la sua grandezza è nata dall’arte, dalla musica, dalla letteratura, non da radar e missili. L'articolo Leonardo produce il Michelangelo Security Dome: un trend che tocca vette di ipocrisia inarrivabili proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Guerra
Leonardo Da Vinci
Da padre adottivo dico: non è con l’oscurantismo dello slogan Dio-Patria-Famiglia che si trovano soluzioni
di Claudio Pirola Diventato nonno pochi giorni fa, con mia moglie (siciliana, io della provincia di Milano, sposati da 36 anni) abbiamo affrontato l’avventura di adottare due figli (uno proveniente in età già adulta dal Brasile, l’altro italiano con una forma di disabilità) prima della nascita di un terzo figlio biologico. Con fatiche e determinazione abbiamo cercato di offrir loro, in un contesto assai eterogeneo che per noi ha sempre rappresentato un valore arricchente, un impegno di grande respiro che potesse senza pregiudizi contribuire ad una crescita serena, favorendo un’educazione con punti di riferimento, mappe di conoscenza prima che obblighi e vincoli con la sola finalità di sostenerli per quanto possibile nel costruirsi un avvenire. Con grande senso di libertà e responsabilità, favorendo confronto, liberi da ogni pregiudizio. Una vita normale, fondata su valori nei quali crediamo e lontanissima da quel Dio-Patria-Famiglia che una cultura basata evidentemente su valori ben diversi dai nostri vorrebbe inculcarci. Come se un Dio sempre più sbandierato – e lo dico da cattolico che pur non avendo mai fatto parte di movimenti ha tratto ispirazione in particolare dal cardinal Martini e da Papa Francesco – sia il lasciapassare per creare condizioni assolutorie o, peggio ancora, di salvaguardia di presunte tradizioni. E c’è da chiedersi perché personaggi che hanno il compito istituzionale di essere inclusivi, nel pieno rispetto dei valori della Carta Costituzionale, si debbano arrogare il diritto – peraltro da pulpiti di dubbia coerenza – di impartire lezioni di moralità. In tale contesto appare non solo fuori luogo ma anche offensivo il proclama fatto da ultimo in Aula dall’on. Rossano Sasso, già sottosegretario all’Istruzione del “governo dei migliori”, secondo cui il valore del ddl Valditara per la scuola trova fondamento appunto in Dio-Patria-Famiglia. Non è peraltro con l’oscurantismo basato sempre più su repressione anziché su confronto e dialogo atti ad interpretare i complessi cambiamenti in atto che si possano trovare soluzioni ai numerosi problemi legati all’istruzione e all’educazione, compresa quella sessuo-affettiva rispetto a cui vari Ministri della Repubblica hanno avuto parole dal mio punto di vista orripilanti in queste ultime settimane. Anziché enunciare slogan risulterebbe più utile che i governanti si ponessero nella condizione di comprendere le ragioni per cui una famiglia vera fa sempre più fatica a formarsi e ad autosostenersi in un mondo dove il lavoro, la casa, le bollette, l’istruzione, l’assistenza medica sempre meno garantita dallo Stato, gli asili nido che mancano, gli stipendi proporzionalmente sempre più bassi, un vero piano casa che consideri i giovani studenti e non solo, i reiterati condoni che offendono chi paga le tasse e incentivano l’evasione, le mancate misure a fronte di una non più dilazionabile riconversione ecologica, il crescente incubo bellico a cui in particolare questo governo ci sta preparando rappresentano sempre più fattori di incertezza bloccanti. E così l’Italia, un Paese sempre più anestetizzato in un contesto economico stagnante – se non fosse per i fondi Pnrr ormai alla fine che hanno dato ossigeno al Pil – non trova di meglio che discutere di “casa nel bosco”, referendum sulla giustizia sì/no (con reiterate spaccature una volta di più nella cosiddetta sinistra, come già avvenne per quello sull’art. 18), ddl Delrio, armi sì/no con contrasti sempre più evidenti all’interno dello stesso maggior partito di opposizione, dando l’idea che si è ben lontani dal potere costruire una vera alternativa di governo. E non stupiamoci se poi tanti giovani perdono fiducia emigrando all’estero o sempre meno gente andrà a votare. In assenza di un Paese autorevole. Altro che sovranismo! IL BLOG SOSTENITORE OSPITA I POST SCRITTI DAI LETTORI CHE HANNO DECISO DI CONTRIBUIRE ALLA CRESCITA DE ILFATTOQUOTIDIANO.IT, SOTTOSCRIVENDO L’OFFERTA SOSTENITORE E DIVENTANDO COSÌ PARTE ATTIVA DELLA NOSTRA COMMUNITY. TRA I POST INVIATI, PETER GOMEZ E LA REDAZIONE SELEZIONERANNO E PUBBLICHERANNO QUELLI PIÙ INTERESSANTI. QUESTO BLOG NASCE DA UN’IDEA DEI LETTORI, CONTINUATE A RENDERLO IL VOSTRO SPAZIO. DIVENTARE SOSTENITORE SIGNIFICA ANCHE METTERCI LA FACCIA, LA FIRMA O L’IMPEGNO: ADERISCI ALLE NOSTRE CAMPAGNE, PENSATE PERCHÉ TU ABBIA UN RUOLO ATTIVO! SE VUOI PARTECIPARE, AL PREZZO DI “UN CAPPUCCINO ALLA SETTIMANA” POTRAI ANCHE SEGUIRE IN DIRETTA STREAMING LA RIUNIONE DI REDAZIONE DEL GIOVEDÌ – MANDANDOCI IN TEMPO REALE SUGGERIMENTI, NOTIZIE E IDEE – E ACCEDERE AL FORUM RISERVATO DOVE DISCUTERE E INTERAGIRE CON LA REDAZIONE. SCOPRI TUTTI I VANTAGGI! L'articolo Da padre adottivo dico: non è con l’oscurantismo dello slogan Dio-Patria-Famiglia che si trovano soluzioni proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Educazione Sessuale
Lo dico anch’io: “meno male che Amazon c’è”
“Ma ci sarà su Amazon? su IBS? su Feltrinelli?”. Sta per uscire un nuovo saggio scritto da me insieme a un collega giornalista e una delle prime domande che mi sono trovato a rivolgere all’editore è stata proprio questa: sarà rinvenibile il titolo sulle piattaforme online? Mi limito al colosso Amazon che in Italia è approdato dal 2010 e che avrebbe ogni mese più di 38 milioni di utenti nella sola Italia. Sono trascorsi quindici anni appena e già la nostra vita è modellata su questo gigantesco moloch che sta distruggendo il commercio di prossimità, consuma enormi risorse energetiche, e consuma altresì suolo con i suoi hub. Qualcuno si ricorda di com’era la nostra vita prima di Amazon? Buona parte di voi che mi leggete è sicuramente contraria all’acquisto online, ma poi per le più svariate ragioni si trova ad utilizzarlo, ma vergognandosene un po’, ed ecco le giustificazioni di rito “avevo fretta”, “l’ho trovato solo qui”, “posso restituirlo”, etc. etc. E così eccoci ad alimentare il capitalismo globale, quello che faceva affermare a Warren Buffet: “È in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo”. Qui particolarmente evidente con la creazione anche di una nuova classe di “schiavi”. È uno dei temi principe che tocco anche nel mio recente “bianco benestante ambientalista”: tu puoi avere le migliori intenzioni di questo mondo, in particolare ti ritieni di essere e fai l’ambientalista, ma poi il tuo stile di vita fatalmente cozza con la salvaguardia del pianeta: fai qualche viaggio, mangi un po’ di carne, usi un po’ l’automobile, compri appunto un po’ su Amazon. Alla fine della fiera lottare o non lottare per la salvaguardia del pianeta non farà alcuna differenza, essendo identica l’impronta ecologica. Ovviamente c’è la risposta positiva dell’editore alla domanda di cui all’incipit e noi che tiriamo un sospiro di sollievo. Meno male che Amazon c’è! L'articolo Lo dico anch’io: “meno male che Amazon c’è” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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