U na massa inarrestabile. Senza volto, senza voce. Avanza a scatti: afferra,
dilania, consuma. Non pensa, non decide, non sente. È ovunque. Si può solo
cercare di non esserne contagiati. Oggi, questo è il nostro mostro. Non è
elegante, né seducente: non ha una storia da raccontare. Lo zombie non è
l’affascinante, tragica e ambigua creatura simbolo del male che per secoli ha
incarnato desiderio, solitudine e tormento, vale a dire il vampiro. Al centro di
molte narrazioni horror contemporanee troviamo un corpo disattivato nella sua
soggettività, ma ancora funzionante: non è più luogo di conflitto interiore, ma
meccanismo che reagisce, si muove, infetta. È una presenza che agisce senza
coscienza, senza desiderio, senza direzione.
Tra zombie e vampiri, è il primo ad aver conquistato l’immaginario
contemporaneo: non per fascino, ma per necessità. Dove il vampiro rifletteva
l’io, lo zombie riflette il noi che si disgrega. Il primo era dramma dell’anima,
il secondo è sintomo della fine di una società. In nessun luogo questa
transizione è stata più radicale che nel cinema asiatico, dove il genere zombie
è esploso con una varietà di forme e significati, mentre il vampiro è rimasto
bloccato nel folklore o in variazioni d’autore marginali. La cultura
dell’estremo oriente ha trasformato il morto vivente in un linguaggio per
raccontare crisi collettive, vulnerabilità sistemiche, tensioni invisibili ma
onnipresenti.
> Tra zombie e vampiri, è il primo ad aver conquistato l’immaginario
> contemporaneo: dove il vampiro rifletteva l’io, lo zombie riflette il noi che
> si disgrega. Il primo era dramma dell’anima, il secondo è sintomo della fine
> di una società.
Non si tratta solo di una moda, ma di una mutazione profonda dell’immaginario.
Il vampiro apparteneva a un mondo ossessionato dalla soggettività e
dall’interiorità. Lo zombie è il prodotto – e simbolo – di un mondo in cui il
soggetto si frantuma dentro la collettività. Un mondo che ha smesso di chiedersi
chi siamo, e ha cominciato a temere di essere già diventati qualcosa d’altro.
Il corpo come specchio della crisi
Per capire il successo dello zombie e il declino del vampiro, bisogna partire
dal corpo e il corpo, oggi, è un campo di battaglia. Secondo Dennis Waskul
(professore di sociologia alla Minnesota State University di Mankato) che si
occupa di interazione simbolica, corporeità, sensorialità, sessualità e fenomeni
del soprannaturale) e Phillip Vannini (docente e ricercatore presso la Royal
Roads University di Victoria in Canada, che lavora tra sociologia, antropologia
ed etnografia visiva, occupandosi soprattutto di semiotica del corpo e
interazione simbolica), il corpo umano non può essere ridotto a una semplice
entità biologica: è un costrutto sociale e simbolico, modellato
dall’interazione, dalla cultura e dai processi di significazione che lo
attraversano.
Il corpo è un sito in cui si negoziano identità, si riflettono dinamiche di
potere e si esprime – anche attraverso il silenzio o la malattia – la condizione
del soggetto, scrivono i due studiosi in Body/Embodiment: Symbolic Interaction
and the Sociology of the Body (2006). Non possiamo quindi considerare il corpo
come un’entità biologica, ma occorre prenderlo in considerazione come punto
d’incontro tra significati, relazioni e aspettative sociali. Ogni corpo è, in
qualche misura, una biografia vivente: qualcosa che parla anche quando tace, che
significa anche quando sembra solo subire.
Il vampiro è un corpo riflesso: performa la propria identità in relazione allo
sguardo altrui, si costruisce attraverso il desiderio, il giudizio, l’alterità.
È, potremmo dire, un corpo-specchio: non riflette direttamente ciò che gli altri
pensano, ma si plasma su segnali e aspettative sociali. E, in questo senso, è
profondamente moderno: costruisce sé stesso nel conflitto tra ciò che è e ciò
che appare. È il corpo dell’individualismo tardo-romantico, dell’interiorità
tormentata. Seduce perché mette in scena la soggettività in crisi, il desiderio
che non può essere appagato senza colpa.
Lo zombie, al contrario, è corpo svuotato. Non ha più agency (cioè la capacità
di un soggetto di agire nel mondo in modo intenzionale e consapevole,
esercitando scelta e influenza sulla realtà), né riflesso. È un caso di vero
fallimento drammaturgico: un corpo che ha smesso di recitare, che non prende più
parte al gioco rituale della socialità. Non si limita a essere escluso: è
semplicemente caduto fuori. I corpi, normalmente, si costruiscono dentro codici
condivisi, attraverso convenzioni culturali e performance quotidiane. Lo zombie,
invece, è un’interruzione di quel codice: non rappresenta più nulla, non negozia
più nulla, non comunica. Lo zombie è ciò che resta quando tutto questo si
interrompe.
> Il vampiro è un corpo riflesso: performa la propria identità in relazione allo
> sguardo altrui, si costruisce attraverso il desiderio, il giudizio,
> l’alterità. È un corpo-specchio che si plasma su segnali e aspettative
> sociali.
Nel mondo contemporaneo, segnato dalla perdita di certezze, dal collasso delle
narrazioni collettive e dalla crisi dell’identità, il corpo zombificato diventa
una metafora potente. È il corpo che ha perso la capacità di costruire senso,
che si muove senza meta in uno spazio disordinato, dove i codici sociali sono
collassati. Come ha osservato Stefano Vernamonti nel suo articolo “Staccando la
coscienza da terra”, la contemporaneità immagina sempre più spesso una coscienza
astratta, disincarnata – separabile dal corpo, caricabile su server o algoritmi.
È l’orizzonte della mente digitalizzata, della soggettività algoritmica,
dell’identità smaterializzata.
In questo scenario, lo zombie sembra una figura fuori tempo, residuale. E invece
è proprio qui che diventa interessante. Lo zombie rappresenta l’opposto esatto
di quella visione disincarnata: un corpo che continua ad agire senza coscienza,
svuotato di soggettività ma ancora vincolato al mondo, un resto muto della
coscienza – non più pensante, ma ancora pulsante. È il simbolo di ciò che resta
quando la coscienza se n’è andata ma il corpo non può smettere di muoversi. Lo
zombie, con la sua passività attiva, la sua esistenza senza soggetto, riesce a
restituirci con spietata precisione la condizione contemporanea: quella di
un’umanità che agisce per inerzia, lavora senza scopo, comunica senza ascolto,
vive senza presenza.
Nel cinema asiatico questo corpo senza soggetto è diventato il simbolo perfetto
della crisi. Train to Busan (2016), diretto da Yeon Sang-ho, non è solo un film
di zombie: è una radiografia della Corea del Sud contemporanea. Il treno che
corre verso la catastrofe è metafora di una modernità che ha perso controllo,
umanità, direzione. I personaggi sono tipologie sociali: il manager egoista, la
madre incinta, il senzatetto. E il virus è l’evento che li costringe a mostrarsi
per ciò che sono, senza maschere, senza ruolo, senza protezioni. Come osserva
Seoulbeats, il film ha raccolto le paure post-trauma del disastro del traghetto
Sewol e le ha trasformate in narrazione collettiva. Il treno diventa allora una
capsula sociale, una metafora accelerata della nazione, un dispositivo narrativo
che comprime tensioni familiari, economiche e morali.
In The Sadness (2021), diretto da Rob Jabbaz e ambientato a Taipei, l’orrore si
radicalizza: il virus non uccide, ma libera gli istinti peggiori. Gli infetti
restano coscienti, ma si trasformano in sadici. Non è solo la società che
crolla, ma anche il codice morale. Il film è una parabola estrema sul potere
della repressione sociale e sull’ipocrisia dell’ordine pubblico. è un’opera che,
nella sua grottesca esagerazione, rivela l’instabilità dell’intero sistema
culturale asiatico contemporaneo. Il corpo infetto non è più solo mostruoso: è
sociale. È trauma puro, incarnazione dell’assenza di senso e specchio fedele di
una società in cui la promessa di coesione sociale si è dissolta nella
competizione feroce e nella solitudine di massa.
> Lo zombie rappresenta un corpo che continua ad agire senza coscienza, svuotato
> di soggettività ma ancora vincolato al mondo, un resto muto della coscienza –
> non più pensante, ma ancora pulsante.
Se lo zombie è diventato il corpo collettivo dell’esclusione, il vampiro, al
contrario, rimane una figura centrata sul sé, sul desiderio, sull’autonomia
(qualità che appaiono dissonanti in molte narrazioni asiatiche contemporanee).
In un immaginario dominato dalla pressione del conformismo sociale e
dall’instabilità delle strutture istituzionali, il vampiro non trova un
ecosistema culturale favorevole. Certo, esistono eccezioni significative.
Thirst (2009) di Park Chan-wook, per esempio, è un film straordinario. Il
protagonista, un prete cattolico trasformato in vampiro da una trasfusione
sperimentale, è l’incarnazione vivente del paradosso tra purezza e desiderio. La
pellicola fonde erotismo e senso di colpa, trascendenza e istinto. Ma il suo
vampiro è tutt’altro che collettivo: è un individuo scisso, tragicamente
solitario. Come nota una recensione su Booker Horror, Thirst opera come dramma
metafisico più che come horror di consumo. È un film che riflette sulle
dinamiche del desiderio e della fede, ma non riesce a diventare specchio della
società nel suo complesso. Non sorprende che non abbia generato imitatori.
Al contrario, le apparizioni del jiangshi (il “vampiro saltellante” della
tradizione cinese) appartengono a un registro più folklorico e comico. Questi
esseri, rigidi e quasi caricaturali, sono il prodotto di un’altra sensibilità:
evocano lo scompenso tra mondo dei vivi e dei morti, ma senza l’introspezione o
il simbolismo erotico del vampiro occidentale. Non sono mai protagonisti
tragici, ma antagonisti da neutralizzare.
Il vampiro asiatico, dunque, appare come un corpo simbolico senza presa sul
presente. Incarna un’idea di soggettività individuale, seduttiva e
autoreferenziale, inadeguata a rappresentare le dinamiche di una società in
crisi sistemica. Dove lo zombie offre un linguaggio collettivo, il vampiro è
ridotto al sussurro del singolo.
> Il vampiro asiatico appare come un corpo simbolico senza presa sul presente.
> Incarna un’idea di soggettività individuale, seduttiva e autoreferenziale,
> inadeguata a rappresentare le dinamiche di una società in crisi sistemica.
E, anche nell’immaginario occidentale, il vampiro ha smesso di incarnare la
trasgressione per eccellenza. Come osserva Giovanni Padua in “Un vero conte
transilvano morto”, ha perso la sua carica perturbante: non mette più in crisi
l’ordine, lo decora. Le sue apparizioni recenti sembrano oscillare tra due poli
ugualmente depotenziati: da un lato la domesticazione adolescenziale, dall’altro
la restaurazione folklorica. Anche il Nosferatu (2024) di Robert Eggers,
attesissimo remake uscito alla fine dello scorso anno, rinuncia a ogni forma di
rinnovamento incomodante, radicandolo nella filologia culturale più che
nell’inquietudine contemporanea. Il vampiro, così, smette di interrogare
l’ordine per trasformarsi in monumento. Lungi dall’essere simbolo di rottura,
diventa una figura rassicurante, storicizzata, utile più a evocare nostalgia che
a disturbare.
Lo zombie come semiotica dell’esclusione
Il corpo “zombificato” è il corpo fuori senso, fuori discorso. Non ha più
narrazione. È ciò che resta dopo la perdita della coerenza esistenziale, il
punto in cui il linguaggio si spezza, il segno non si decifra, il potere che
diventa biologico. È, in altre parole, la radicalizzazione del soggetto
precario. Nell’Asia contemporanea, dove le strutture sociali sono attraversate
da una tensione costante tra rapidità dello sviluppo e fragilità istituzionale,
lo zombie diventa specchio e denuncia. Il suo successo culturale è legato anche
alla sua flessibilità simbolica: può essere disoccupato o consumatore, migrante
o cittadino medio, studente o manager. In ogni caso, rappresenta un corpo che
non partecipa più, che non ha più diritto alla narrazione. Non è più soggetto di
senso, ma resto biologico. Lo zombie non è escluso: è eccedente, inutile,
residuo.
Come nota Graziano Graziani in “Gli zombi e noi”, lo zombie si distingue da
tutte le altre figure del pantheon horror proprio per questa sua natura
collettiva e degradante. È il mostro della moltitudine, non dell’individuo: non
ha l’eleganza del vampiro, né la coscienza tragica del mostro di Frankenstein.
Non appartiene a un ordine simbolico arcaico o mitico, ma è a pieno titolo un
prodotto della società di massa. In questa prospettiva, l’immaginario zombie si
sovrappone sempre più frequentemente alla paura contemporanea dell’“invasione”
migrante. Il corpo “zombificato” è l’incarnazione dell’altro che non
riconosciamo più come umano, che è stato espulso simbolicamente dall’orizzonte
dell’empatia. Se l’alterità non ha nulla in comune con il nostro ordine
simbolico – se non è nemmeno più “umana” – allora tutto diventa giustificabile:
la violenza, l’abbandono, la rimozione. È in questa zona grigia che si colloca
l’efficacia simbolica dello zombie oggi: non è semplicemente il morto vivente,
ma il vivente disumanizzato. Un corpo che non reclama più diritti, ma che non
può essere ignorato. Uno spettro politico.
In questa genealogia del corpo degradato e non riconosciuto, si inserisce anche
il ghoul, come ha evidenziato Gioacchino (Jack) Orlando in “Echi dalle rovine”.
Creatura folklorica marginale, il ghoul si nutre dei resti umani, abita luoghi
desolati, si aggira ai confini del racconto. È simile allo zombie, ma conserva
una coscienza e una lingua: è un mutante, non un morto che ritorna. Questo lo
rende una figura ancora più ambigua, una soglia mobile tra umano e mostruoso. Il
ghoul non rappresenta una degenerazione né un’evoluzione, ma una sopravvivenza
ostinata. Non avanza né regredisce, semplicemente persiste. E come lo zombie, ci
ricorda che l’umanità non è un dato naturale, ma una condizione continuamente
negoziata – e facilmente negata.
> Nell’Asia contemporanea, lo zombie diventa specchio e denuncia, anche grazie
> alla sua flessibilità simbolica: può essere disoccupato o consumatore,
> migrante o cittadino medio, studente o manager. In ogni caso, rappresenta un
> corpo che non partecipa più, che non ha più diritto alla narrazione.
Analizzare la figura dello zombie significa confrontarsi con le fratture del
presente. L’horror è da tempo oggetto di studi approfonditi, non più relegato al
rango di genere minore, ma riconosciuto come specchio delle tensioni sociali.
Mentre altri generi proiettano speranze o nostalgie, l’horror lavora sulle crepe
dell’attualità, rendendo visibile ciò che spesso preferiremmo ignorare. In
particolare, lo zombie asiatico si fa dispositivo critico: il contagio, la
folla, l’inefficienza delle istituzioni, il panico collettivo – tutto converge
per raccontare una società già in crisi, dove la catastrofe non è una rottura,
ma una continuità.
Una sintomatologia globale
L’Asia, nel suo precipitare nel futuro, ci mostra il laboratorio del mondo. Un
luogo in cui il passato si sgretola e il presente non fa in tempo a diventare
memoria. In quel vuoto che si apre tra crisi e connessione, lo zombie cammina.
Ma se guardiamo all’Occidente, il panorama non è poi così diverso. Anche qui il
vampiro (simbolo del tormento individuale, della trasgressione romantica,
dell’erotismo gotico) ha perso centralità. Al suo posto, negli ultimi vent’anni,
si è affermato lo zombie come mostro dominante della cultura visiva: più grezzo,
meno riflessivo, ma incredibilmente efficace nel rappresentare le inquietudini
collettive.
L’inizio degli anni Duemila ha segnato una vera rinascita del genere: 28 Days
Later (2002) di Danny Boyle ha rivoluzionato il linguaggio visivo dello
zombie-movie, introducendo una creatura accelerata, rabbiosa, plasmata
sull’ansia pandemica e la dissoluzione urbana. World War Z di Marc Forster
(2013) ha dato una dimensione globale al contagio. The Walking Dead (2010-2022)
ha costruito una mitologia seriale che ha ridefinito il modo in cui raccontiamo
l’apocalisse: non più un evento improvviso, ma una lenta, dolorosa erosione
della civiltà.
Oggi, quelle stesse narrazioni stanno vivendo una nuova stagione, basti pensare
a 28 Years Later (2025), l’universo di The Walking Dead che continua a
moltiplicarsi con spin-off come The Ones Who Live e Daryl Dixon, in arrivo con
nuove stagioni nel 2025. Anche The Last of Us, dopo aver concluso la seconda
stagione nel 2025, proseguirà con una terza annunciata per il 2027, rinnovando
il suo sguardo sul trauma e sul corpo infetto.
È un rilancio simbolico. Il genere zombie si adatta a un presente frammentato:
ogni declinazione propone nuovi punti di vista, nuovi corpi vulnerabili, nuove
mappe emotive. Non c’è più un eroe a cui affidare il senso: c’è una moltitudine
disorientata che cerca, a fatica, una forma di sopravvivenza.
> Non c’è più un eroe a cui affidare il senso: c’è una moltitudine disorientata
> che cerca, a fatica, una forma di sopravvivenza.
Lo zombie occidentale si confronta con l’ansia del collasso dell’ordine
liberale, della frammentazione delle istituzioni, della perdita del controllo
razionale sul mondo. In Europa e negli Stati Uniti, il morto vivente si aggira
tra rovine riconoscibili: scuole chiuse, città svuotate, famiglie implose. Non è
solo una minaccia: è l’eco di un sistema che non funziona più. Simboleggia la
paura che l’individuo non conti più nulla, che le strutture costruite per
garantire coesione siano diventate inservibili. In Asia, invece, lo zombie
prende forma dentro una modernità estrema: è il sintomo di un mondo
iper-organizzato che produce esclusione sistemica, solitudine, anonimato. Lì, il
morto che cammina non rappresenta la perdita di un’autonomia: incarna il
sospetto che quell’autonomia non sia mai stata concessa del tutto.
Eppure, nella moltiplicazione dei prodotti culturali lo zombie diventa un
archetipo globale. Le sue incarnazioni si ibridano, si aggiornano, si esportano.
Non è più solo un riflesso locale: è una mostruosità mondiale. Porta in sé ansie
postpandemiche, memorie coloniali, precarietà economica, instabilità climatica,
burnout emotivo. Ci racconta di come la società contemporanea, ovunque ci
troviamo, abbia smesso di interrogarsi sull’anima mentre tutto crolla.
L'articolo Sopravvivere al collasso proviene da Il Tascabile.
Tag - Società
Sta per concludersi un 2025 vero annus horribilis. Il primo anno della seconda
presidenza Trump, il quarto della guerra in Ucraina, il terzo del genocidio
palestinese a Gaza, perpetrato dagli israeliani di Netanyahu dopo la strage del
7 ottobre ad opera di Hamas. Vecchie guerre proseguono e nuove “fioriscono” in
Sudan, in Congo, in Myanmar, tra India e Pakistan, e da poco in Venezuela
(mascherata da caccia ai narcotrafficanti) e perfino tra Thailandia e Cambogia
(di cui non è nemmeno chiara l’origine).
Altre annunciate sono in procinto di scoppiare, perfino nel bel suolo d’Europa a
sentire i proclami delle varie triadi nostrane, i volenterosi, i baltici, e
soprattutto gli alemanni, delle cui ultime gesta, insieme alle nostre camicie
nere, portiamo gli indelebili segni della memoria. Non si fa altro che parlare
(e fabbricare) di armamenti, leve obbligatorie, lezioni di strategia militare
nelle scuole, gite nelle caserme e giochi nei carrarmati, mentre l’opinione
pubblica è sempre più disorientata dalla voce greve e biforcuta della bionda
premier che giura “mai un soldato italiano andrà in guerra” dimenticando però di
motivare la cosa con il nostro fondamentale art. 11 della Costituzione che
esplicitamente la ripudia. Il mondo sembra correre cieco sull’orlo dell’abisso e
nel frattempo per spendere in armi si tagliano welfare, servizi pubblici, si
negano aumenti, tranne agli evasori fiscali a cui si condona di tutto.
Perché sta andando così male? Chi lo poteva pensare anche solo cinque anni fa
che la situazione internazionale sarebbe così radicalmente e pericolosamente
precipitata? Solo papa Francesco – inascoltato – ammoniva che si stava
prefigurando una “terza guerra mondiale a pezzi”, pezzi che ora si stanno
tragicamente ricomponendo.
Il presidente Usa si fa protagonista di piani di pace per Gaza e per l’Ucraina,
ma questi piani stentano a produrre risultati e comunque l’assetto che in quelle
martoriate aree di guerra sembra prefigurarsi certamente non appare all’insegna
del riconoscimento di pari diritti tra aggressori e aggrediti, tra potenza
coloniali e popolo colonizzato ed espropriato di tutto. E non è un caso che
ritorni il terrorismo in diverse latitudini, a riprova che se le tensioni non si
risolvono, la stabilità e la pace restano chimere.
In questo quadro a tinte molto fosche, anche gli assetti politici alle
latitudini occidentali sono attraversati da una fase di forte instabilità e di
vera e propria regressione democratica. Populismi, sovranismi, nuove forme di
autoritarismo, squilibri nei rapporti tra poteri istituzionali degli Stati
democratici, pulsioni reazionarie, intolleranza razziale e sessuale, attacco ai
diritti civili e sociali, perfino alla magistratura, smantellamento di
fondamentali conquiste del welfare del secolo scorso, stanno segnando un tempo
in cui le lancette dell’orologio politico cominciano a girare drammaticamente
all’indietro.
Da dove sorge tutto ciò? Oggi il centro motore dell’ideologia della nuova destra
al potere è a Washington, accomodato nello studio ovale, mentre si sparge in
tutt’Europa e altrove, ma Trump è solo l’ultimo prodotto scaturito da una lunga
gestazione che assume le sue origini in un progetto politico che affonda le
radici nel tempo, perché il conservatorismo Usa ha assunto in un lungo periodo,
trasformazioni di dimensioni inusitate. Se arriva a far scrivere in un documento
ufficiale di strategia nazionale di sicurezza nientemeno che gli Usa puntano su
quattro paesi europei, Austria, Italia, Polonia e Ungheria, per scardinare il
già faticoso processo di unificazione europeo, cos’altro occorre attendersi?
C’è un testo che contribuisce con un’analisi documentata, raffinata, completa
del fenomeno che ha condotto all’affermazione dell’ideologia reazionaria negli
Usa e che è riuscito a diventare riferimento per tanti altri paesi che
sembravano immuni da simili tendenze. Il libro s’intitola Dominio, la guerra
invisibile dei potenti contro i sudditi (Feltrinelli), scritto alcuni anni fa da
Marco D’Eramo, laureato in fisica, giornalista e scrittore, americanista, già
penna di punta del quotidiano il manifesto e di molte altre testate. D’Eramo si
confronterà su queste tematiche della crisi internazionale con Nadia Urbinati,
politologa della Columbia University e testa pensante della sinistra tra le due
sponde dell’oceano, nell’incontro intitolato “Libertà di non essere liberi?”.
L’appuntamento, promosso dal Manifesto in rete insieme alla Fondazione Ivano
Barberini, si terrà mercoledì 17 dicembre alle ore 17.30 a Bologna in via
Mentana 2, ma potrà essere seguito anche in streaming a questo link.
L'articolo Si conclude un annus horribilis: un incontro a Bologna tenta di fare
il punto sulla crisi internazionale proviene da Il Fatto Quotidiano.
L’Unesco ovviamente non lo sa, ma indirettamente mi ha premiato quando nei
giorni scorsi ha riconosciuto la cucina italiana come patrimonio culturale
immateriale globale. A dire il vero non so esattamente cosa questo significhi,
ma, dato che io sono italiano, dato che amo cucinare, e che cucino quasi tutti i
giorni, questo riconoscimento mi inorgoglisce un po’. Secondo la decisione, la
cucina italiana è una “miscela culturale e sociale di tradizioni culinarie”, “un
modo per prendersi cura di sé stessi e degli altri, esprimere amore e riscoprire
le proprie radici culturali, offrendo alle comunità uno sbocco per condividere
la loro storia e descrivere il mondo che li circonda”.
Accidenti, non capisco neanche questo esattamente cosa significhi, ma mi sembra
di ritrovarmici: mescolo cucina ligure e piemontese, mi ricordo mamma quando
preparava i vari tipi di pasta ed io la osservavo curioso, e la cucina era un
modo per esprimere gioia, condivisione, rispetto. Ma, detto questo un po’
scherzosamente, mi domando: ma cosa e dove diavolo è oggi la cucina italiana?
Devi cercarla con la lanterna di Diogene, perché chi è che ha più tempo e voglia
di cucinare in casa secondo tradizione? E quante sono, fuori dalle mura
domestiche, le trattorie tradizionali? Se guardiamo i 4 ristoranti di Alessandro
Borghese, essa non esiste quasi più, o, se esiste, è contaminata, o meglio è
“rivisitata in chiave moderna”: tradotto: quella originale, alla Sora Lella per
intenderci, è scomparsa. In compenso siamo subissati di piatti ultraprocessati,
piatti pronti e quant’altro. La cucina italiana sembra diventata come i presidi
slow food: qualcosa da tutelare perché altrimenti scompare.
Ma poi, fatemi capire, quali sono gli ingredienti di questa benedetta cucina
italiana? Le verdure che provengono dall’agricoltura intensiva? La carne che
proviene dagli allevamenti anch’essi intensivi? Il pesce allevato, che supera di
gran lunga quello pescato? Insomma, esiste ancora la cucina italiana con
ingredienti naturali, che un tempo effettivamente allietava le nostre tavole? E
quindi ha un senso il termine “sostenibilità” con cui è stato accompagnato il
riconoscimento o è del tutto fuori luogo?
Ma voglio andare oltre, e nel farlo, mi inorgoglisco sempre meno di essere stato
indirettamente premiato. Intanto, vedo (ma già lo sapevo) che la dieta
mediterranea, in generale, aveva ottenuto il riconoscimento nel 2010. Ma allora
perché anche la cucina italiana, che ne fa parte? E dieci anni dopo, nel 2020,
ecco il riconoscimento ottenuto dal pasto gastronomico francese. E poi ancora,
la cucina tradizionale messicana, e ovviamente il pasto tradizionale giapponese.
Per non parlare del riconoscimento di singoli prodotti, come la baguette
francese o la vite ad alberello di Pantelleria. E la pizza napoletana no? Ma
certo, non la pizza in sé ma l’arte del fare la pizza. E comunque fanno sedici;
tanti sono i riconoscimenti Unesco immateriali che colleziona l’Italia da sola o
con altre nazioni. C’è persino l’alpinismo (e anche qui, non sapevo di praticare
un’eccellenza mondiale…).
Insomma, sembra proprio che un riconoscimento non si neghi a nessuno, e a
nessuna “cosa”: se ne facciano una ragione i nostri governanti, dalla Meloni a
suo cognato, da Giuli alla Santanché all’onnipresente Tajani (“uno straordinario
volano di crescita e prosperità” scusate ma quando parla Tajani mi scappa da
ridere!). Del resto, se sempre in Italia hanno conferito il riconoscimento di
Patrimonio Mondiale come paesaggio culturale a quell’azzeramento di biodiversità
ed enorme distesa di vigneti irrorati da pesticidi che sono le Colline del
Prosecco, talmente inquinate che i residui si trovano persino nel vino, beh,
allora, ci sta proprio tutto.
Concludo con una domanda che mi sorge spontanea dopo tutto questo sproloquiare:
a quando il riconoscimento di patrimonio immateriale al junk food statunitense?
L'articolo Cosa e dove diavolo è la cucina italiana? A guardare ‘4 ristoranti’,
non esiste quasi più proviene da Il Fatto Quotidiano.
di Francesca Carone*
“L’adattamento” è il piano simmetrico in cui la politica deve operare
all’interno della collettività in base alle Leggi e alla Costituzione. La
politica deve in primo luogo promuovere i valori costituzionali dell’uguaglianza
e del pluralismo, del rispetto, delle pari opportunità, del diritto a vivere
dignitosamente, superando i bisogni materiali e spirituali della società. In
poche parole gli “operatori” della politica devono adattarsi al “mondo”,
ricucire strappi generazionali e superare gap socio-culturali promuovendo
diritto, democrazia e partecipazione.
La politica, a prescindere da qualsiasi colore, deve agire per il bene di tutti
decentrando e promuovendo il mandato ottenuto a favore dell’intera collettività
e non accentrandolo dentro i confini del colore politico e della propaganda. E’
in questo territorio che la politica può assurgere al ruolo governativo di
indirizzo costituzionale con le sovrastrutture della legalità e della
democrazia.
Il colore della politica deve adattarsi necessariamente alla Costituzione e a
tutti i valori da essa derivanti, promuovendo leggi a favore dell’uguaglianza e
del rispetto di tutti i cittadini, senza vie di fuga o compromessi impliciti che
favoriscano alcuni cittadini a discapito di altri. Come le scandalose leggi “ad
personam” con la conseguente deriva democratica.
La politica non deve mai contestualizzarsi nella logica del pensiero acritico
del colore partitico. Essa deve invece intervenire pragmaticamente, ponendosi in
primis al servizio della collettività senza ricorrere alla solita propaganda
vuota e autoreferenziale. Nel contempo deve dimostrare che i contenuti e le
normative promosse sono in linea con la costituzione e la legalità, prima ancora
che espressione del credo politico.
L’equivoco in cui il nostro Paese è caduto risiede probabilmente nello
scollamento e nel disallineamento dei valori costituzionali, legalitari,
democratici dai contenuti derivanti dalla “summa ideologica” del governo di
turno. Se la pace è un valore imprescindibile, ogni Paese deve opportunamente
operare per la promozione di essa. Senza sconti. Senza se e senza ma. Gli slogan
della politica nazionale e internazionale ci raccontano invece un’altra storia
attraverso la narrazione incentrata sul binomio guerra–riarmo, declinato nello
slogan “Se vuoi la pace preparati alla guerra” ossia non c’è pace senza riarmo:
due termini evidentemente in antitesi e in netta contraddizione come ampiamente
evidenziato dalla Chiesa.
La politica ha invece il dovere di lavorare per il dialogo, per i negoziati, per
le alleanze costruendo ponti, opportunità e futuro per le nuove generazioni. E’
in questo solco che dovrebbe operare la politica partecipata: per il bene
collettivo, per la convivenza civile e la promozione del pluralismo e della
democrazia.
Tutta la politica oggi è invece imperniata di propaganda speculativa orientata a
promuovere valori disgiunti e antidemocratici, per il bene di una ristretta
collettività. Le conseguenze di questo approccio speculativo è l’orientamento
delle norme giuridiche riferite a tutti i comparti dello Stato: scuola,
giustizia, sanità, cultura, ecologia…
Le conseguenze sono facilmente riscontrabili nelle indagini statistiche: il
Rapporto Censis ci racconta di un’Italia sfiduciata politicamente e in crisi
economica. Il malessere della società si traduce tuttavia negli effetti
devastanti del calo della natalità, nella solitudine e nella ristrettezza
socio-economica della popolazione anziana, nella fuga dei cervelli, nei tagli
alla scuola e alle università. Nella impossibilità di una visione a lungo
termine da parte di milioni di famiglie attanagliate dai rincari e dalle
maggiorazioni nei servizi. E poi la corruzione: “un’industria in crescita
vertiginosa diventata un’industria a pieno regime, che raddoppia i suoi numeri.
Le fonti aperte della stampa e del web certificano che dal 1º gennaio al 1º
dicembre 2025 il Belpaese è stato attraversato da 96 inchieste su corruzione e
concussione, circa otto inchieste al mese”.
Poi c’è l’eco della propaganda, urlata, grottesca e disinibita che imbianca il
chiaroscuro della vera realtà succube delle ombre di una politica
autoreferenziale e a senso unico. E poi l’imperversare della tempesta
social-mass-mediatica che profetizza futuri dorati o rappresaglie popolari stile
Masaniello. O peggio ancora celebra il dissenso telecomandato da lobby e poteri
forti per dare una parvenza democratica e pluralista al dibattito e al governo
di turno. E le “ballate social” del ponte sullo Stretto, della famiglia del
bosco, della laurea militarizzata, dell’educazione all’affettività, del riarmo,
delle accise. Passando per la strage di Gaza alla guerra in Ucraina. Tutto
filtrato spesso da una narrazione monotematica che produce pericolose asimmetrie
democratiche, depauperando il concetto di verità, ristabilendo assetti
culturali, sociali e politici su un pericoloso pensiero unico.
Mentre la povertà dilaga e con essa il malcontento generale della gente,
parallelamente si fa strada la narrazione dell’oligarchia governativa: quella di
patria, famiglia e Dio, del federalismo e della Giustizia a favore dei colletti
bianchi. È in atto lo sradicamento dei valori costituzionali e democratici a
favore di quelli di un sovranismo frustrato dal dissenso coraggioso di una
compagine culturale e politica che difende il progresso, il pluralismo,
l’uguaglianza e la democrazia del nostro Paese.
Le promesse del governo fanno poi i conti con la narrazione pregressa degli
stessi politici che oggi governano l’Italia: il famoso scandalo delle accise
“urlato” da una Meloni popolana e le sue faccette antipresidenzialiste; il ponte
sullo stretto denunciato e poi osannato da Salvini; la separazione delle
carriere tra giudici e pubblici ministeri approvata dal Parlamento e contrastata
da una forte compagine.
E bene sarebbe che quella famosa laurea in Filosofia richiesta per i giovani
ufficiali dell’Accademia di Modena, fosse proposta ai politici italiani se non
altro per accompagnarli saggiamente nell’arte di governare.
* Insegnante
L'articolo La politica, imperniata di propaganda, sta promuovendo ormai valori
antidemocratici proviene da Il Fatto Quotidiano.
Case abbandonate, ex discoteche, ex fabbriche. Tutti luoghi suggestivi che negli
ultimi anni stanno ricevendo sempre più attenzioni da parte di fotografi e
appassionati: molti appartengono al mondo urbex, il termine inglese derivante da
urban exploration (esplorazione urbana). Indica l’attività di visitare posti
lasciati in stato di abbandono, siano questi case private o edifici pubblici
come scuole, cinema o discoteche.
Chi pratica urbex lo fa soprattutto per interesse storico, curiosità, fotografia
o per documentare spazi dimenticati dal tempo. L’obiettivo principale non è il
vandalismo, ma l’osservazione e la testimonianza di luoghi lasciati
all’abbandono, seguendo il principio non scritto di “non prendere nulla e non
lasciare nulla”. L’esplorazione urbana abbraccia diversi ambiti. La fotografia,
la storia, il turismo, l’economia, la geografia. In un certo senso, anche
l’identità con il proprio territorio.
L’URBEX, LA NUOVA MODA DEI GIOVANI
L’urbex sta negli ultimi anni spopolando anche tra i giovani per una
combinazione di fattori culturali, sociali e personali. Da un lato c’è il
desiderio di esplorazione e di avventura, la voglia di uscire dagli spazi
controllati e ripetitivi della vita quotidiana. I luoghi abbandonati trasmettono
un senso di mistero e di libertà, oltre a permettere di vivere esperienze
percepite come autentiche e fuori dall’ordinario.
Un altro elemento importante è l’influenza dei social media: fotografie e video
di edifici decadenti, con atmosfere suggestive, attirano molta attenzione e
diventano un modo per esprimere creatività e costruire un’identità personale.
Inoltre, l’urbex consente di sentirsi parte di una comunità con regole proprie e
valori condivisi, come il rispetto dei luoghi e il rifiuto del vandalismo.
Ma un aspetto importantissimo dell’urbex è la valutazione del rischio,
inevitabile in luoghi abbandonati. Rischi di ogni genere. I più immediati sono
quelli fisici: edifici instabili, crolli improvvisi, scale pericolanti,
pavimenti marci, vetri rotti e materiali arrugginiti possono causare ferite e
cadute improvvise da tetti instabili. Esistono anche rischi per la salute,
dovuti all’inalazione di polveri nocive, muffe, amianto o sostanze chimiche
presenti negli edifici dismessi. Ecco perché è per praticare l’urbex non bisogna
mai essere sprovveduti: servono scarpe antinfortunistiche, caschetti e
mascherine.
L'articolo Cos’è l’urbex, la pratica di esplorare luoghi abbandonati che ha
preso piede (pericolosamente) anche tra i giovani proviene da Il Fatto
Quotidiano.
“Le luci della città” è il titolo di uno dei film più belli e noti di Charlie
Chaplin. Film muto del 1931, scritto, prodotto, diretto e interpretato da
Chaplin. Le luci della città raccontano con struggente dolcezza la storia di una
giovane fioraia cieca che, grazie all’aiuto finanziario del protagonista,
ritrova la vista. Il film termina con l’episodio della fioraia che riconosce il
suo benefattore tramite una stretta di mano. La mano che, da cieca, aveva avuto
modo di sentire e apprezzare come strumento di bontà nei suoi confronti.
A causa del pretesto commerciale del Natale prossimo le nostre città sono
inondate di luci. Luci artificiali che si vorrebbero festive, gioiose e
spensierate. Si propongono di compensare così le innumerevoli tenebre che
sembrano invece prosperare poco lontano. Le luci delle nostre città appaiono
false e poco credibili perché, invece di illuminare, accecano gli occhi, le
parole e financo una festa così innocente come quella natalizia. Si tratta di
luminarie che, in realtà, tradiscono la luce.
Fanno parte dello spettacolo che, come su un palcoscenico, accendono e attirano
l’attenzione su ciò che si vuole sottolineare. Le cose vere e autentiche
occorrono però altrove, all’ombra, al buio, nelle trincee che da troppe parti si
stanno scavando tra un cimitero e l’altro. Sono, invece di assordanti luci,
silenzi gravidi di sofferenze, umiliazioni, paure e file interminabili di
sfollati che, protetti dalle tenebre, tentano di scavalcare i fili spinati delle
frontiere. Le luci delle città nascondono, complici, le tenebre.
Chi, come chi scrive, ha avuto il privilegio di vivere per alcuni anni in Africa
Occidentale, ricorderà i tagli all’elettricità o i black out improvvisi specie
nella stagione calda dell’anno. Nel buio delle capitali e delle città si sentiva
con nitidezza la musica prodotta dai generatori di corrente. Di varie dimensioni
e per tutte le borse creavano un’atmosfera quasi magica e fatalmente interrotta
dal grido di gioia dei bambini quando la corrente era ripristinata. Da quelle
parti le luci della città erano povere e vere.
Luci di città beffarde, ingannatrici, eccessive, arroganti e fuorvianti rispetto
al mondo e alla verità dell’avvenimento che le luci vorrebbero mistificare. In
città sarebbe meglio instaurare l’oscurità, la penombra, il coprifuoco non
appena tramonta il sole e fino all’aurora del primo giorno della settimana.
Affinché si possa meglio udire il grido …’sentinella quanto resta della notte’,
perché poi ‘arriva il mattino e poi ancora la notte’, risponderebbe la
sentinella. Il buio sarebbe più sincero.
Con che diritto e come osare mettere le illuminazioni più sfrontate nelle città
quando si fa la propaganda delle guerre e muoiono, lontano dalle luci, i
migliori tra loro. Cercatori di utopie, fabbricatori di sogni, disegnatori di
nuovi sentieri, funamboli di frontiere inventate, minatori di parole libere e
poeti dalle nude mani fioriscono solo nella notte. Bisognerà spegnere le luci
superflue e lasciar brillare le stelle per quanti nasceranno quella notte. Tutti
sentiranno allora il canto del mattino.
Casarza, 7 dicembre 2025
L'articolo Le luci delle città nascondono, complici, le tenebre del mondo
proviene da Il Fatto Quotidiano.
Quando Andrea Stella, ferito a colpi di arma da fuoco da un tentativo di rapina
negli Usa, ha deciso di tornare a navigare, si è scontrato con la realtà: nel
2000 non esisteva nessuna imbarcazione a vela adatta alle persone con
disabilità. È lì che nasce il progetto del primo catamarano al mondo
completamente accessibile, dal nome “Lo Spirito di Stella”, che in 20 anni ha
ospitato a bordo oltre 10mila persone con disabilità.
Nell’agosto del 2000, mentre si trovava a Miami per un viaggio subito dopo la
laurea in giurisprudenza, Andrea Stella, che all’epoca aveva 24 anni, è stato
aggredito da tre uomini: gli hanno sparato due colpi di pistola per rubargli
l’auto. I proiettili colpiscono il fegato e un polmone: dopo 45 giorni di coma,
Andrea si risveglia e scopre che passerà tutta la vita in sedia a rotelle a
causa di una lesione alla colonna vertebrale. Il suo sogno di tornare a
navigare, l’impegno, la testimonianza, lo hanno spinto a condividere l’idea di
creare un’imbarcazione unica al mondo.
Dal 2003, più di 10mila persone con disabilità hanno navigato gratuitamente su
“Lo Spirito di Stella”, chi per tre ore, chi per diversi mesi attraversando gli
oceani. Alcune di loro non erano mai state in mare e l’idea di salire su una
barca sembrava per loro impossibile, racconta Andrea nella sua intervista al
fatto.it. “Ricordo un ragazzo malato di Sla, velista: in dieci anni era uscito
di casa due volte per andare in ospedale, la terza per tornare in barca – si
emoziona –. Ricordo il periodo del Covid, quando non potevamo accogliere gruppi
eterogenei e abbiamo coinvolto delle associazioni di bambini oncologici con le
loro famiglie: tra questi mi è rimasto nel cuore Carlo, che poco dopo ci ha
lasciato. Ma quel giorno in barca sembrava il bambino più felice del mondo”.
Oggi “Lo Spirito di Stella” è impegnata in una campagna di sensibilizzazione
sulle barriere architettoniche e svolge iniziative volte a favorire
l’inserimento dei disabili nella società. Ci sono ragazzi che conducono la barca
spostando il mento, chi soffiando in un piccolo tubicino: un miracolo di tecnica
e ingegneria, nel nome dell’inclusione. Tra i progetti in corso, ci sono le
attività di scuola vela itinerante e gratuita, che consente a ragazzi con
disabilità accompagnati da medici, fisioterapisti o familiari, di vivere una
giornata in autonomia cimentandosi nella conduzione di imbarcazioni a vela;
corsi di sci per persone con disabilità; due unità abitative in costruzione a
Bassano del Grappa completamente accessibili, ecocompatibili ed autonome (dal
nome “La casa per tutti”); incontri e attività di sensibilizzazione nelle
scuole. Nel 2021 il progetto ha avuto come obiettivo il giro d’Italia
all’insegna dell’abbattimento delle barriere architettoniche – “e mentali” ci
tengono a precisare -, consentendo a tutti di riscoprire le meraviglie del mare
dopo mesi di pandemia e isolamento.
Il 1° luglio 2023, dal Porto Antico di Genova, il catamarano ha intrapreso un
viaggio epico, dal titolo WoW 2023-2025 – Around the World. Un progetto in
collaborazione con il Ministero della Difesa che si è trasformato in un giro del
mondo a favore dei militari divenuti disabili in servizio, appartenenti alle
forze armate di tutti i Paesi del mondo che sono stati impegnati in attività di
mantenimento della pace e della stabilità. Un viaggio storico al fianco della
nave scuola della Marina Militare Italiana, l’Amerigo Vespucci. “Da tanti anni
collaboriamo con lo Stato Maggiore, portando a bordo i figli con disabilità dei
dipendenti delle Forze Armate che appartengono a una associazione chiamata
Anafim e con il gruppo sportivo paralimpico difesa – spiega Andrea –. Le storie
di questi ragazzi mi hanno colpito profondamente e nutro per loro un grande
rispetto”. Il viaggio, partito dal porto di Genova proprio insieme alla
Vespucci, ha toccato durante i 23 mesi di navigazione, tutti e cinque i
continenti e attraversato tre oceani, per poi concludersi il 10 giugno 2025,
rientrando a Genova.
A 50 anni Andrea ha capito che lo spazio ristretto sulla vela ti porta a dover
condividere la navigazione, i pericoli, le emozioni che stai vivendo: per lui
costruire la barca ha significato ritrovare il sorriso, riprendersi la vita in
mano dopo l’incidente. “Quando sono in un ristorante – sorride – la prima cosa
che chiedo è se il bagno è accessibile (a bordo del catamarano sono due). Anche
le nostre città sono modificabili, a partire dalle necessità di tutti. Le
invenzioni nascono per risolvere i bisogni”. La nave di Andrea da oltre 20 anni
solca l’oceano in nome dei diritti. “Il nostro è un messaggio che non ha colore
né bandiera, è un tema che riguarda tutti – spiega lo skipper originario di
Sandrigo, in provincia di Vicenza –. Crediamo a una società con meno barriere e
con la capacità di dare opportunità a tutte le persone. A partire dal mondo del
lavoro, valorizzando le abilità di ognuno: solo così potremo costruire una
società più inclusiva, più equa e alla fine più sostenibile”.
Il futuro? Andrea alza gli occhi per un attimo e guarda lontano. “Vorremmo fare
un giro d’Italia il prossimo anno, raccontando con un documentario e con un
libro a fumetti per le scuole il nostro catamarano speciale”. Un modo per
sensibilizzare i cittadini e capire che, se su una barca persone con disabilità
e non, militari, civili di varie nazionalità e lingue, possono collaborare
attivamente per un’impresa così sfidante, ecco, “sono la testimonianza che la
società non funziona perché siamo tutti uguali, ma perché abbiamo gli stessi
obiettivi. Rispettiamo le stesse regole, pur essendo diversi”. Il viaggio
continua. “La barca – conclude – in fondo per noi è una metafora della vita”.
L'articolo Dall’incidente al sogno: così è nato “Lo Spirito di Stella”, il primo
catamarano al mondo accessibile alle persone con disabilità proviene da Il Fatto
Quotidiano.
C’è un ufficio marketing, da qualche parte nei palazzi della Difesa italiana
guidata con mano ferma dal ministro Guido Crosetto, dove qualcuno ha deciso che
perfino la guerra ha bisogno di un restyling culturale. Il mantra è: efficienza
letale e “genio italiano”. In questa cornice i nomi non sono etichette neutre,
ma connettori fra le cose e il loro senso. Per questo, mi colpisce leggere che
un nuovo sistema missilistico integrato, una rete complessa di sensori e
attuatori capaci di incenerire minacce ipersoniche, sia stato battezzato
“Michelangelo Security Dome”. E a produrlo è Leonardo, il colosso nazionale
degli armamenti.
Michelangelo e Leonardo, due nomi che, nella nostra memoria collettiva,
rimandano a cappelle affrescate, cupole, disegni visionari, bellezza. Vederli
legati a un sistema d’arma nuovo di zecca, a radar, missili, “effettori”
coordinati, disturba parecchio. Almeno me. Per cui mi chiedo: che cosa è andato
così storto?
È una questione di buon gusto e di coerenza simbolica. Abbiamo già digerito,
quasi senza accorgercene, lo scandalo originale. Leonardo S.p.A. è da anni il
marchio di un’azienda leader del settore delle armi che gioca su questa
ambiguità. Il nome di Leonardo da Vinci, vegetariano convinto che comprava gli
uccelli al mercato solo per liberarli dalle gabbie, è diventato sinonimo globale
di elicotteri d’attacco, caccia addestratori e sistemi di puntamento. Certo,
Leonardo disegnava macchine da guerra per Ludovico il Moro, ma lo faceva per
finanziare la sua arte, con il disprezzo dell’intellettuale costretto a
sporcarsi le mani. Oggi quel nome è un brand della più grande industria bellica
d’Italia, fattura 18 miliardi l’anno ed è in crescita, ovviamente, per le
logiche dilaganti della guerra permanente. È normale associare l’Uomo Vitruviano
ai floridi bilanci di tale azienda? Propongo di cambiargli nome.
L’operazione Michelangelo alza l’asticella della perversione culturale. Qui si
gioca sull’evocazione. Chiamare “Michelangelo Security Dome” un sistema d’arma
serve a pulire la coscienza dell’acquirente. Dalla cupola della Basilica da cui
officia Papa Leone XIV, disegnata dal Buonarroti, alla cupola antimissile. È il
“Made in Italy” che piace a Giuli, Santanché, Lollobrigida e Crosetto, applicato
alle logiche della difesa contro la Russia di Putin e le sue voglie
espansionistiche. Il radar di questo nuovo armamento si chiama Kronos: vabbè, è
greco e significa “tempo”, ma qui almeno c’è coerenza, dato che Crono divora i
suoi figli, metafora perfetta della guerra. Anche i francesi hanno chiamato le
loro navi militari con i nomi di filosofi o matematici, vedi la classe
“Descartes”, ma qui da noi il trend tocca vette di ipocrisia inarrivabili.
Vero è che da anni le parole gestite dalla politica cercano di stravolgere i
significati. E quindi le guerre diventano “operazioni di pace”, i bombardamenti
“interventi umanitari”, i missili “peacekeeper”, le bombe “intelligenti”, le
deportazioni forzate “zone umanitarie”. Nel settore civile, le aziende più
inquinanti si tingono di “green“, “eco”, “planet”, mentre vendono l’esatto
contrario. I nomi servono a costruire una narrazione in cui ciò che distrugge
appare come qualcosa che protegge.
Forse è il momento di dirlo, anche se nessuno ascoltasse. Ci sono nomi che
dovrebbero restare legati alla vita, alla conoscenza, alla scienza, all’arte.
Non per moralismo, ma per igiene simbolica e mentale. Perché il modo in cui
chiamiamo le cose finisce, piano piano, per cambiare il modo in cui le pensiamo.
E un Paese che usa i suoi geni del Rinascimento per battezzare armi rischia di
dimenticare che la sua grandezza è nata dall’arte, dalla musica, dalla
letteratura, non da radar e missili.
L'articolo Leonardo produce il Michelangelo Security Dome: un trend che tocca
vette di ipocrisia inarrivabili proviene da Il Fatto Quotidiano.
di Claudio Pirola
Diventato nonno pochi giorni fa, con mia moglie (siciliana, io della provincia
di Milano, sposati da 36 anni) abbiamo affrontato l’avventura di adottare due
figli (uno proveniente in età già adulta dal Brasile, l’altro italiano con una
forma di disabilità) prima della nascita di un terzo figlio biologico.
Con fatiche e determinazione abbiamo cercato di offrir loro, in un contesto
assai eterogeneo che per noi ha sempre rappresentato un valore arricchente, un
impegno di grande respiro che potesse senza pregiudizi contribuire ad una
crescita serena, favorendo un’educazione con punti di riferimento, mappe di
conoscenza prima che obblighi e vincoli con la sola finalità di sostenerli per
quanto possibile nel costruirsi un avvenire. Con grande senso di libertà e
responsabilità, favorendo confronto, liberi da ogni pregiudizio.
Una vita normale, fondata su valori nei quali crediamo e lontanissima da quel
Dio-Patria-Famiglia che una cultura basata evidentemente su valori ben diversi
dai nostri vorrebbe inculcarci. Come se un Dio sempre più sbandierato – e lo
dico da cattolico che pur non avendo mai fatto parte di movimenti ha tratto
ispirazione in particolare dal cardinal Martini e da Papa Francesco – sia il
lasciapassare per creare condizioni assolutorie o, peggio ancora, di
salvaguardia di presunte tradizioni. E c’è da chiedersi perché personaggi che
hanno il compito istituzionale di essere inclusivi, nel pieno rispetto dei
valori della Carta Costituzionale, si debbano arrogare il diritto – peraltro da
pulpiti di dubbia coerenza – di impartire lezioni di moralità.
In tale contesto appare non solo fuori luogo ma anche offensivo il proclama
fatto da ultimo in Aula dall’on. Rossano Sasso, già sottosegretario
all’Istruzione del “governo dei migliori”, secondo cui il valore del ddl
Valditara per la scuola trova fondamento appunto in Dio-Patria-Famiglia. Non è
peraltro con l’oscurantismo basato sempre più su repressione anziché su
confronto e dialogo atti ad interpretare i complessi cambiamenti in atto che si
possano trovare soluzioni ai numerosi problemi legati all’istruzione e
all’educazione, compresa quella sessuo-affettiva rispetto a cui vari Ministri
della Repubblica hanno avuto parole dal mio punto di vista orripilanti in queste
ultime settimane.
Anziché enunciare slogan risulterebbe più utile che i governanti si ponessero
nella condizione di comprendere le ragioni per cui una famiglia vera fa sempre
più fatica a formarsi e ad autosostenersi in un mondo dove il lavoro, la casa,
le bollette, l’istruzione, l’assistenza medica sempre meno garantita dallo
Stato, gli asili nido che mancano, gli stipendi proporzionalmente sempre più
bassi, un vero piano casa che consideri i giovani studenti e non solo, i
reiterati condoni che offendono chi paga le tasse e incentivano l’evasione, le
mancate misure a fronte di una non più dilazionabile riconversione ecologica, il
crescente incubo bellico a cui in particolare questo governo ci sta preparando
rappresentano sempre più fattori di incertezza bloccanti.
E così l’Italia, un Paese sempre più anestetizzato in un contesto economico
stagnante – se non fosse per i fondi Pnrr ormai alla fine che hanno dato
ossigeno al Pil – non trova di meglio che discutere di “casa nel bosco”,
referendum sulla giustizia sì/no (con reiterate spaccature una volta di più
nella cosiddetta sinistra, come già avvenne per quello sull’art. 18), ddl
Delrio, armi sì/no con contrasti sempre più evidenti all’interno dello stesso
maggior partito di opposizione, dando l’idea che si è ben lontani dal potere
costruire una vera alternativa di governo.
E non stupiamoci se poi tanti giovani perdono fiducia emigrando all’estero o
sempre meno gente andrà a votare. In assenza di un Paese autorevole. Altro che
sovranismo!
IL BLOG SOSTENITORE OSPITA I POST SCRITTI DAI LETTORI CHE HANNO DECISO DI
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MANDANDOCI IN TEMPO REALE SUGGERIMENTI, NOTIZIE E IDEE – E ACCEDERE AL FORUM
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L'articolo Da padre adottivo dico: non è con l’oscurantismo dello slogan
Dio-Patria-Famiglia che si trovano soluzioni proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Ma ci sarà su Amazon? su IBS? su Feltrinelli?”. Sta per uscire un nuovo saggio
scritto da me insieme a un collega giornalista e una delle prime domande che mi
sono trovato a rivolgere all’editore è stata proprio questa: sarà rinvenibile il
titolo sulle piattaforme online?
Mi limito al colosso Amazon che in Italia è approdato dal 2010 e che avrebbe
ogni mese più di 38 milioni di utenti nella sola Italia. Sono trascorsi quindici
anni appena e già la nostra vita è modellata su questo gigantesco moloch che sta
distruggendo il commercio di prossimità, consuma enormi risorse energetiche, e
consuma altresì suolo con i suoi hub. Qualcuno si ricorda di com’era la nostra
vita prima di Amazon?
Buona parte di voi che mi leggete è sicuramente contraria all’acquisto online,
ma poi per le più svariate ragioni si trova ad utilizzarlo, ma vergognandosene
un po’, ed ecco le giustificazioni di rito “avevo fretta”, “l’ho trovato solo
qui”, “posso restituirlo”, etc. etc. E così eccoci ad alimentare il capitalismo
globale, quello che faceva affermare a Warren Buffet: “È in corso una lotta di
classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra,
e stiamo vincendo”. Qui particolarmente evidente con la creazione anche di una
nuova classe di “schiavi”.
È uno dei temi principe che tocco anche nel mio recente “bianco benestante
ambientalista”: tu puoi avere le migliori intenzioni di questo mondo, in
particolare ti ritieni di essere e fai l’ambientalista, ma poi il tuo stile di
vita fatalmente cozza con la salvaguardia del pianeta: fai qualche viaggio,
mangi un po’ di carne, usi un po’ l’automobile, compri appunto un po’ su Amazon.
Alla fine della fiera lottare o non lottare per la salvaguardia del pianeta non
farà alcuna differenza, essendo identica l’impronta ecologica.
Ovviamente c’è la risposta positiva dell’editore alla domanda di cui all’incipit
e noi che tiriamo un sospiro di sollievo. Meno male che Amazon c’è!
L'articolo Lo dico anch’io: “meno male che Amazon c’è” proviene da Il Fatto
Quotidiano.