
“Ecco come la Francia lavora contro la radicalizzazione degli ex detenuti. L’età si abbassa e la minaccia terroristica resta alta, non cali l’attenzione”
Il Fatto Quotidiano - Sunday, November 30, 2025Chi sceglie la via della radicalizzazione può tornare indietro ed essere re-inserito nella società? La domanda, senza una risposta semplice o univoca, tormenta governi e sistemi di sicurezza. Oltralpe, dieci anni dopo gli attentati del 13 novembre, ancora resistono – non senza polemiche – programmi di accompagnamento di ex detenuti arrestati per reati legati al terrorismo. Marc Hecker, direttore esecutivo dell’Istituto francese di relazioni internazionali (Ifri) ed esperto del tema, nel 2021 ha scritto un report su due dei principali dispositivi messi in campo dalla Francia. E, mentre lo stesso ministro dell’Interno Laurent Nuñez parla di “minaccia terroristica ancora alta”, Hecker non nasconde la sua preoccupazione sul futuro: “Il tema deve restare prioritario”. Il rischio? Ritrovarci impreparati come prima degli attentati del 2015. E l’allarme è ancora più concreto quando si guarda l’età dei radicalizzati, che sono “sempre più giovani”. Un dato confermato a giugno scorso dal governo, rispondendo a un quesito sollevato in Parlamento: dal 2023, in Francia, più dei due terzi delle persone coinvolte in progetti di attentati hanno meno di 21 anni. (con una crescita negli ultimi cinque anni dall’1,7 al 5,6 per cento). E questo “riguarda principalmente la corrente jihadista, ma anche le altre correnti radicali”.
IL LONGFORM – Parigi, 13 novembre: dieci anni dopo
Cosa ne pensa degli interventi francesi per i detenuti radicalizzati?
Attualmente esiste PAIRS, programma d’accompagnamento individuale e riaffiliazione sociale, sul quale pende però un’inchiesta amministrativa e accuse di malfunzionamento rivelate da Mediapart (a proposito della gestione della sede di Lione ndr). Dopo la pubblicazione del mio studio, c’è stato un caso di recidiva: una persona passata per il programma, nel 2023, ha commesso l’attentato del Ponte di Bir-Hakeim a Parigi.
Nel 2021 riconosceva gli aspetti positivi dell’approccio, ha cambiato idea?
Quest’ultimo è il solo caso di recidiva finora. C’è, ma il tasso è molto debole. Penso che non si debba buttare il bambino con l’acqua sporca. Infatti il programma va avanti.
È ancora corretto parlare di de-radicalizzazione?
Il termine è stato molto utilizzato, ma anche criticato perché è difficile da verificare e si pensa sia naïf poter de-radicalizzare qualcuno. Allora si usa il concetto di “disimpegno”.
È diverso?
Indica l’uscita di una persona da una dinamica violenta. In una società democratica e liberale, si può essere radicali, ma il problema è la radicalizzazione che porta a fare cose illegali e che conduce alla violenza. Comunque l’idea è la stessa: aiutare le persone a reinserirsi nella società.
Come?
Con tre tipi di intervento. Il primo con operatori sugli aspetti sociali: come si trova un lavoro, una casa, come si re-impara a vivere. Chi è stato tanti anni in prigione a volte non sa neanche più fare la spesa. Il secondo con piscologi e psichiatri: negli ultimi tempi, ci troviamo di fronte, nei due terzi dei casi, a persone con problemi psicologici. Infine, c’è l’aspetto ideologico.
Chi se ne occupa?
Mediatori, specialisti delle questioni religiose e in particolare dell’Islam. Parlano e lavorano con gli ex detenuti per far evolvere la loro visione. Per mostrare che la visione di Al-Qaeda e Isis è estrema, deviante, e che esistono modi più pacati di vivere il proprio Islam.
Come si fa a valutare i cambiamenti e a capire se ci sono simulazioni?
Prima del programma PAIRS in Francia c’erano state molte esperienze che non avevano funzionato. E uno dei problemi evidenziati era proprio quello della dissimulazione. Il termine arabo è “taqiyya”. C’è stato il caso di una ragazza che aveva seguito un programma precedente, era stata presentata come de-radicalizzata e poi era partita per la Siria. Oppure nell’ambito del programma delle unità dedicate, un detenuto aveva fatto un attacco contro il personale penitenziario. Prima non creava problemi particolari e si pensa sia stata una dissimulazione.
Come si previene?
Si moltiplicano i punti di vista: più professionisti si alternano in diverse situazioni fino a rendere la dissimulazione non impossibile, ma complicata. Resistere nel tempo, nascondendo quello che si pensa in situazioni molto diverse, dalle uscite alle conversazioni, è difficile. Poi si stilano dei rapporti, ma la valutazione è raramente lineare. Sono persone non per forza molto stabili che possono trovarsi ad affrontare cose nel loro quotidiano che li riportano indietro: dai contatti con persone con ideologia alle difficoltà d’integrazione. I professionisti sanno che raramente le cose sono definitive.
Un lavoro enorme. È sufficiente la struttura messa in campo?
A volte il programma è anche troppo intenso. Non tutti passano da lì. Parliamo comunque di diverse centinaia di persone prese in carico con un tasso di recidiva molto basso. Questi dispositivi devono però essere mantenuti sul lungo periodo. Il programma esiste ancora, quindi dimostra che lo Stato l’ha sostenuto. Ora con le difficoltà di budget, probabilmente, si dovranno fare delle scelte. Ma al momento non ho segnali che possa essere chiuso.
Sono cambiate le priorità?
Abbiamo cambiato ciclo strategico. Siamo passati da quello della guerra contro il terrorismo, cominciato nel 2001 e finito circa nel 2021, a quello della competizione di potenza con il ritorno della guerra tra Stati sul continente europeo. Una delle difficoltà è quella di tenere i mezzi e la tensione sul terrorismo che resta una minaccia importante. E purtroppo le minacce non si sostituiscono l’una all’altra, ma si sommano. Non è perché abbiamo una guerra alle porte dell’Europa che la minaccia terroristica è sparita. Anzi, c’è piuttosto una crescita.
E la Francia lo tiene in conto?
La priorità numero uno oggi è la minaccia russa piuttosto che quella jihadista. Ma la minaccia terrorista è ancora considerata a livello abbastanza alto. E bisogna continuare a farlo. Le inchieste sui malfunzionamenti dei programmi sono un brutto segno: bisogna raddrizzare quello che si può. In Francia abbiamo avuto nove attentati jihadisti nel 2024. E poi ci sono ancora problemi con chi rientra dalla Siria e nuovi casi di radicalizzazione con un ringiovanimento delle persone che si radicalizzano.
C’è un problema di età?
Nella gerarchia di minacce terroriste, quella jihadista rimane la prima; seconda l’estrema destra: dal 2012 abbiamo avuto più di 90 attentati o progetti di attentati jihadisti, 16 dell’estrema destra. Il ringiovanimento, ovvero i minori di 15-16 anni, lo notiamo in entrambe le correnti. Questo rivela che l’ideologia rimane attrattiva e disponibile: la trovano sui social network, su TikTok, sulle piattaforme dei videogiochi. E poi osserviamo dei nuovi fenomeni di radicalizzazione: ad esempio è il caso degli incel, i mascolinisti, con un primo caso di terrorismo. Infine, ci sono le correnti che mescolano satanismo e pedocriminalità. In queste abbiamo l’impressione che la violenza sia più importante dell’ideologia. E’ un fenomeno in proporzione più debole e meno strutturato del jihadismo, ma va menzionato.
Che cosa fa sì che ci sia una radicalizzazione?
Il pull factor è quello che attira le persone verso un gruppo radicale, il push è quello che li spinge fuori dalla società. E poi distinguiamo tre livelli. Il primo sono le difficoltà familiari, psicologiche, d’integrazione. Quello macro, è la grande geopolitica: la guerra a Gaza ad esempio avrà un impatto sulla radicalizzazione. Infine c’è il livello intermedio: cosa succede nel quartiere. A volte ci si radicalizza perché in alcuni quartieri c’è un predicatore o un gruppo che trascina degli amici.
Ci sono programmi di deradicalizzazione anche per i militanti di estrema destra?
Non vengono messi con chi è considerato a rischio radicalizzazione jihadista. Ma ci sono dispositivi che cominciano a essere sviluppati anche per loro.
Rimane convinto della bontà del progetto?
Spesso il pubblico ha una percezione sbagliata. Siamo in uno Stato democratico e le persone che hanno scontato le loro pena non si possono tenere in prigione. O si liberano senza supporto o si liberano con un programma che li segue. E inoltre, questo programma non si fa a scapito di un accompagnamento di sicurezza. Quindi partendo dal fatto che le persone non possono essere tenute in prigione per sempre, la soluzione migliore è aggiungere un accompagnamento supplementare e multidisciplinare. È uno strumento in più che si aggiunge alla sorveglianza della polizia e dei servizi segreti.
Sulla prevenzione si fa abbastanza?
Ci sono molte cose che sono state fatte in dieci anni. Ad esempio, il numero verde per le segnalazioni continua a essere molto utilizzato. Poi c’è un dispositivo sul territorio con cellule di prevenzione e gruppi nelle prefetture. Si può sempre fare di più e meglio, ma il dispositivo esiste e lo Stato ha dimostrato di riuscirsi ad adattare a una situazione comunque complicata.
Cosa pensa del modello francese in confronto ad altri Stati ?
Quello che si fa in prigione in Francia interessa molti Paesi. Da noi c’è un modello misto: i profili sono raggruppati o separati in seguito a una valutazione.
Ha partecipato a uno studio di comparazione sulle donne radicalizzate tra Francia, Olanda, Germania. Cosa è emerso?
Innanzitutto, c’è voluto un po’ di tempo perché ci fosse una presa di coscienza nella società ma anche a livello politico e giudiziario della problematica delle donne nel jihadismo. All’inizio erano considerate come vittime. Poi ci si è resi conto che in realtà potevano essere motrici della radicalizzazione e pienamente responsabili della loro partenza. E in Francia anche della loro capacità di passare all’azione, dal momento che, a settembre 2016, abbiamo avuto il tentativo di attentato a Notre Dame fatto da un gruppo di donne. Prima erano considerate solo cuoche o madri di futuri figli nati in Siria.
E cos’è cambiato?
Da quel momento, il solo fatto di essere presenti in una casa dell’Isis era ritenuto come un aiuto logistico a una organizzazione terroristica. Così c’è stato un aumento significativo delle condanne di donne per fatti di terrorismo. Sono una minoranza rispetto agli uomini, ma tendono ad aumentare. Nell’estate 2022 poi, la Francia ha deciso di rimpatriare le donne che erano nei campi di prigionia in Siria: circa 60 sono rientrate e sono state incarcerate.
Hanno lo stesso approccio alla violenza degli uomini?
Anche se ci sono diverse donne che sono passate alla violenza terrorista, la norma non è quella. Di solito una donna aiuta il marito, si prende cura di lui, fa dei bambini. Molti preferibilmente. E trasmette loro le norme radicali dell’Isis. La dimensione ideologica è molto importante: sono incaricate di trasmetterla alle generazioni successive.
E come viene gestita?
La maggior parte dei professionisti pensa che bisogna mantenere il legame con i figli, ma sono consapevoli del rischio di trasmissione. Dunque, gli incontri con loro in prigione si fanno con una terza persona.
Le donne rimpatriate sono ancora legate all’ideologia?
Hanno un legame molto forte con i figli: hanno vissuto in condizioni molto precarie nei campi siriani e sono state separate da loro in aeroporto. E questo può frapporsi alla presa in carico: sono focalizzate sui figli. L’altro aspetto da considerare è il trauma: hanno vissuto cose orribili.
Di cosa c’è bisogno?
Non è una questione di fondi, ma di essere consapevoli che il terrorismo resta un vero problema. E bisogna mantenere le risorse, anche per seguire le zone della jihad all’esterno. Sapere cosa succede in Afghanistan, Siria, Libia, Yemen, Somalia, Sahel. Le dinamiche del Sahel sono catastrofiche e abbiamo bisogno di fondi per continuare a capire. E per non trovarsi in una situazione in cui fra qualche anno avremo minacce dirette per l’Europa che non sono state seguite. L’urgenza è mantenere l’attenzione sul tema, che è meno prioritario oggi, ma potrebbe tornare domani.
C’è il rischio che cali l’attenzione come prima degli attentati del 2015?
Sì, esatto. Io lavoravo sul tema dal 2009. E farsi finanziare ricerche sul terrorismo era estremamente difficile. Non interessava più. L’impressione era che, con la fine della guerra in Afghanistan, al-Qaeda fosse in declino. Abbiamo dovuto aspettare gli attentati del 2015 perché all’improvviso ci fossero finanziamenti e attenzione sul tema.
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