
“Christopher”, di Matteo Bianchi: quando la poesia non si arrende al mercato
Il Fatto Quotidiano - Monday, December 1, 2025Un libro di poesia, nel 2025, è già di per sé un atto politico. Una resistenza, un’affermazione che rifiuta la bulimia del consumo narrativo e la logica del fast-food editoriale. Ma l’ultima fatica di Matteo Bianchi, Christopher (Interlinea), va oltre. È una scommessa giocata sul tavolo verde della malinconia più acuta, quella che affonda le mani nei calcinacci della Storia e nei brandelli delle vite marginali.
Non aspettatevi i versi sussurrati, i vezzi lirici da salotto buono. Qui siamo in trincea. Siamo di fronte a un’ibridazione dolente e precisa, dove la parola è un bisturi affilato e non un orpello. Bianchi, giornalista de Il Sole 24 Ore e Left, filologo formatosi su Corrado Govoni e autore di saggi come Il lascito lirico di Corrado Govoni (Mimesis, 2023), ma soprattutto erede – non solo ideale – di Roberto Pazzi, non cerca l’applauso facile. Cerca i margini, i rottami preziosi, le figure che hanno detto no.
La struttura è un trittico, quasi un polittico affrescato sul muro di un bar parigino a notte fonda. Un poème en prose a stazioni, suddiviso in quattro “soglie”— del sé, dell’amore, dell’inappartenenza, della memoria —, che non scandiscono un tempo cronologico, ma simbolico. Tre anime apparentemente distanti, tre declinazioni della sconfitta che, lette da Bianchi, diventano le stigmate di un’identica, ostinata, fragilità irriducibile: Christopher Channing, l’artista queer, il notturno, il guitto, l’attore che si muove in bilico tra il nudo esibito e la maschera di cipria, tra la lingua di Manchester e la malinconia parisienne. La sua è la resistenza del corpo che si fa linguaggio, dell’identità che rifiuta l’etichetta borghese. È l’emblema di una vita ai margini. In Channing si annida il desiderio di non omologazione che è proprio di chi, per esistere, deve inventarsi ogni giorno, frantumando il genere biografico per restituirci visioni dense tra carne e mito; Roberto Pazzi, il maestro. L’intellettuale esemplare. La figura che nel panorama culturale attuale è a malapena un fantasma, l’ultimo alfiere di una cultura che rifiuta il consumo e la finzione. Pazzi, di cui Bianchi dirige il Centro Studi, è il punto fermo etico, il peso specifico che misura la distanza siderale tra il Pensiero e il chiacchiericcio da talk-show. È il silenzio eloquente contro il rumore del vuoto. La poesia qui si fa dialogo con un maestro; Napoleone Bonaparte, non il generale di Austerlitz, non la macchina da guerra, ma il vinto dell’Elba, l’esule, il nostalgico rifugiato nella propria disfatta, colto in prose rade, quasi da taccuino. La figura storica viene spogliata del mito per rivelare l’uomo che resiste a scomparire. È l’imperatore detronizzato che ci ricorda che la vera grandezza non è nella vittoria, ma nell’ostinazione a non annullarsi, anche quando si è ridotti a una zolla d’esilio.
Bianchi maneggia la materia con una sapienza formale che è tutt’altro che fredda. L’ibrido è la sua cifra: prosa lirica, verso che si spezza, citazione che si fa scheggia. È la lingua di chi ha letto i classici – e non li ha dimenticati –, ma sa che la loro eco deve risuonare nel baccano delle nostre periferie esistenziali. Come il poeta stesso ha sostenuto sulla rivista semestrale che dirige, Laboratori critici, il poeta scrive e dimentica: non costruisce monumenti con le parole e non conserva un’identità fissa. La dimenticanza non è perdita, ma condizione necessaria affinché a parlare sia il mondo, allentando la presa asfissiante dell’io lirico. La poesia non scaturisce dalla memoria che trattiene, ma dalla memoria che si disfa e ritorna sotto forma di frammenti. Un debito evidente con il parigino Michel Deguy, che ha teorizzato la “dérive” del senso, una dislocazione del presente nel movimento del linguaggio.
Christopher non è solo un libro sulla poesia, ma è un libro sulla necessità della Poesia come atto di fede nel passato che illumina l’oggi. È un’opera che dovrebbe essere letta da chiunque creda ancora che esista un’altra via, che esista una cultura non vendibile, non consumabile. È la testimonianza che la fragilità, se irriducibile, si trasforma nella forma più potente di protesta. E in tempi di influencer e dittatura del banale, questo libro di Matteo Bianchi — con la prefazione di Giancarlo Pontiggia e la nota finale di Tommaso Di Dio — è una granata in biblioteca. Leggetelo, se avete il coraggio di confrontarvi con la bellezza che nasce dalla sconfitta personale.
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