La sua aristocratica solitudine è il paradigma del genio dorato che ogni
scrittore vorrebbe abitare. Jane Austen per chi scrive è uno scandaglio da cui
discendere. Un poggio a cui guardare. Una traduzione romantica del mestiere di
scrivere. Anche se lei non cercava il sentimento, il suo, dicono i bibliografi e
certa critica, era il romanzo della conoscenza. Per altri, l’elemento vacuo,
estetico, prevaleva sul contenuto. Ma Jane doveva salvarsi, utilizzando –
riferiscono studi accademici – la misura formale. Dunque a metà. Salvarsi da una
sensibilità estrema. Malgrado fossero romanzi connotati da un dichiarato
antiromanticismo, in lei riscontriamo molto romanticamente piuttosto i tratti di
una eroina ribelle, emancipata, proprio come vorremmo immaginarci un’artista del
tempo.
Una vita quieta, di una pacificità agiata, annoiata sì, con un paio di rinunce e
un amore straziato, interrotto da una morte precoce. Basta a rendere la
malinconia epica e struggente che la circonda, complice la nostra
intenzionalità. Crinoline e miniature di un mondo alto-borghese passato al
monocolo: è riuscita a nutrire un sogno corale, la leggerezza della lettura
avrebbe permesso al lettore una fuga salvifica, può darsi l’identica fuga che
moveva la creatività fervida di una giovane donna, la scrittrice che rifiutò il
matrimonio e le banali pratiche quotidiane in luogo di una vita breve,
incompiuta, confacente a restituirci una figura perciò leggendaria.
Eppure ricordiamo meglio lei, che altre donne femme de lettres, visto che il
secolo aveva fornito un tale primato: Eliza Haywood, Fanny Burney. E Jane. Jane
pare si fosse ispirata a una frase di un personaggio della Burney per Orgoglio e
pregiudizio. Il personaggio era Cecilia: “Tutta questa sfortunata faccenda è
stato il risultato di orgoglio e pregiudizio”.
Sfortunata faccenda, con quella noia colta, detta superficialità mondana, che in
realtà sprofondava in elevatissime certezze: l’amore. Sempre conficcato in una
qualche iconica fragilità. Una impossibilità. Una lettera non recapitata. Un
ballo mancato.
La Austen non amava la mondanità di provincia. Si racconta del deliquio che la
colse, quando ancora era una giovinetta, appreso che avrebbe dovuto trasferirsi
a Bath, una innocua, tediosissima città termale. Non amava quel luogo, non amava
la gretta civettuola socialità. Da lì ne trasse il romanzo Northanger Abbey. Una
accusa celata all’universo grasso e fastoso di una mediocre cittadina di
provincia.
Per me che ho coltivato la scrittura nella identica solitudine, rinuncia e
avversione noiosa, la Austen era un modo di essere necessario per raccontare la
vita. Romanticamente dicevo, di quel romanticismo, ironico e amaro insieme, o
anche del suo esatto contrario. Un antiromanticismo che giocando con la soglia
più a buon mercato del sentimento ne enuncia la tragicità segreta.
Figure sottili, delicate, eleganti. La Austen ne è il simbolo. Ogni scrittrice,
chissà, avrà pensato un po’ anche a lei, lungo la strada di solito erta degli
inizi, alla sua giovinezza, tradita dal destino che non si è fermato in tempo a
renderla felice, amata di quell’amore necessario a vibrare dentro un’esistenza,
finanche vita: che non sia soltanto uno scorrere ordinato e feroce di silenzi o
ripetute quotidianità.
Così morirà abbastanza presto, in anticipo sullo sfiorire irreparabile. Una
grazia in fondo.
L'articolo Jane Austen, eroina ribelle e antiromantica. Per me un modo di essere
necessario proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Cultura
C’è un’inversione di tendenza. Dopo decenni di spopolamento, saracinesche
abbassate, attività chiuse e aree interne abbandonate – nonostante lo sci,
nonostante il turismo di massa – c’è un’inversione di tendenza. Negli ultimi
cinque anni, tra Alpi e Appennini, il saldo tra nuovi residenti e fuoriuscite,
almeno per quanto riguarda lo spostamento di residenza, è positivo. Lo certifica
il Rapporto Montagne Italia 2025 dell’Uncem. E allora Andrea Membretti è andato
sul campo. Per la verità, sul campo c’è sempre stato – e, neanche a dirlo, ancor
prima della pubblicazione del dossier dell’Uncem – dal momento che da anni si
occupa di comunità montane, poiché tra i fondatori di Riabitare l’Italia e tra i
coordinatori del progetto Scuola di montagna con l’Università di Torino. Ma
questa volta si è fatto accompagnare niente di meno che da Karl Marx. E le
riflessioni (di entrambi, viene da dire) sono finite in un bel libro, edito da
People in collaborazione con L’Altra montagna, dal titolo Diventare montanari
(14 euro, 155 pagine).
Prima l’ossatura delle ricerche scientifiche di Membretti, che innanzitutto è
sociologo all’Università di Pavia e alla Bicocca, con un occhio a un nuovo,
dirimente fattore che ha tenuto in considerazione nella sua indagine: i
cambiamenti climatici e la volontà di adattarsi ad essi. Prima l’ossatura,
dicevamo, in mezzo gli spunti, le domande, i crampi mentali per i quali forse
allo stato attuale delle cose non abbiamo una risposta definitiva. Ma che
servono a ragionare. E, vivaddio, a orientarci. E quindi, le classi sociali. Sì,
quelle che la narrazione capitalista vorrebbe seppellire, ma che a fronte di un
mondo sempre più diseguale, polarizzato, diviso tra ricchi e poveri, esistono. E
dunque i nuovi montanari di Membretti sono principalmente tre. Quelli che lui
raggruppa in upper class, middle class e under class.
La upper class di ricchi “in crescita numerica, a livello globale, mai come ora.
Preoccupati a modo loro del mondo che va male, del clima che cambia, delle città
insicure, e desiderosi di spazi di separatezza sociale […] spazi che si possono
trovare in montagna, magari in qualche resort alpino d’alta quota, nella forma
di una ‘seconda città'”. Membretti trascorre mesi, per la sua ricerca, nella
città-di-montagna di Crans-Montana, in Svizzera, incontrando dirigenti
d’azienda, professori universitari, proprietari di co-working e pensionati che
hanno ereditato appartamenti nella nota località alpina. “Il clima emerge come
fattore sempre più rilevante […] questa graduale presa di coscienza come
elemento positivo si ritrova nell’intenzione di restare a vivere” qui. E allora
“anche i ricchi migrano oggi e migreranno ancora più in futuro dalle città verso
le montagne come forma di adattamento al cambiamento climatico? È possibile che
le persone più benestanti considerino la necessità, e non più solo il piacere o
il desiderio, di spostarsi a vivere per lunghi periodi nelle terre alte?”.
Probabilmente sì, in posti come Crans-Montana, dove si trova di tutto, mondanità
compresa, e un aeroporto a portata di mano. E dove, per dirla con Membretti,
“pago gli spritz, più o meno l’equivalente di una cena a Milano, e torno verso
il mio studio. Mi viene da fischiettare l’Internazionale mentre salgo le scale,
ma prudentemente mi astengo”. L’urbanità trasportata in montagna. Ha senso, può
funzionare? E quali aspetti positivi presenta, se li presenta?
Ma tra i nuovi montanari c’è anche chi fa parte della cosiddetta classe media.
Una classe media sempre più esigua, stretta tra un potere d’acquisto che si è
andato progressivamente deteriorando, la mancanza di prospettive di crescita e
la paura di perdere tutto e scivolare ai margini della società. Ed ecco allora
che persone con un bel bagaglio culturale, da una parte, e qualche risorsa a
disposizione, dall’altra, scelgono di cambiare vita. Aiutati sì dalle
possibilità economiche, ma anche da quelle professionali, vale a dire il lavoro
agile da un lato, e la scelta di buttarsi nell’avventura di un nuovo mestiere,
cambiando totalmente vita. C’è chi prende in mano un rifugio, chi diventa guida
escursionistica, chi apre un agriturismo e chi fa l’agricoltore. E in questo
senso “il futuro proiettato in montagna è visto come salvifico“. Cioè “un modo
per uscire da quel mondo metropolitano che consuma giorno per giorno, che
impoverisce le relazioni, il corpo e la creatività di ciascuno” con lo scopo più
o meno consapevole – e non secondario – di “mantenere la propria posizione
sociale, cambiando collocazione nello spazio”. E come ha detto una persona
intervistata da Membretti: “Certo, vita semplice non vuol dire vita facile […]
Qualcuno parlerebbe di rinuncia, ma per noi è stata una vera liberazione“. In
tutto ciò, per Membretti, il fattore climatico “sembra rivestire un ruolo
crescente”.
E da ultimi, dopo i montanari “per scelta”, ci sono i montanari “per necessità”
e “per forza”. I primi sono sostanzialmente migranti economici, persone che per
vivere trovano lavoro nell’edilizia, nella pastorizia, nell’agricoltura, nel
turismo e nei servizi alla persona. Come nota Membretti, un fenomeno che è
sempre esistito (si pensi al popolo Walser, per esempio) ma che ora ha numeri
imparagonabili col passato e, soprattutto, una distanza geografica e culturale,
rispetto al luogo di approdo, senza precedenti. I secondi invece sono i
profughi, i richiedenti asilo e protezione, “spinti in Italia da guerre o
calamità naturali e che vengono indirizzati dal governo centrale (senza margini
di scelta) in montagna, in attesa del vaglio delle loro richieste di
accoglienza”. Membretti sottolinea il “ruolo fondamentale” che entrambi
“rivestono nei sistemi socio-economici locali”, perché da una parte frenano
l’emorragia demografica e lo spopolamento, e perché dall’altra colmano “le
diffuse lacune professionali delle aree montane“. Tuttavia il loro positivo
ruolo viene di fatto “negato da politiche nazionali che non li considerano come
agenti di sviluppo territoriale, ma piuttosto come minacce all’ordine pubblico,
oppure come un costo per le casse dello Stato”.
Mail: a.marzocchi@ilfattoquotidiano.it
Instagram
L'articolo Chi sono i nuovi montanari? In viaggio con Karl Marx tra gli abitanti
delle terre alte: le risposta (e le domande) nel libro di Membretti proviene da
Il Fatto Quotidiano.
Reggia di Caserta superstar durante le prossime feste natalizie e di fine anno.
L’ultimo tratto del mandato di Tiziana Maffei – alla guida della residenza
borbonica dal 1° luglio 2019 – coincide con una serie di eventi di particolare
fascino. Da qualche giorno e per tutto il periodo natalizio sono esposti
nell’antima dimora borbonia che è tra i musei autonomi più visitati d’Italia un
curioso gruppo scultoreo detto dei Briganti e alcune statuine presepiali delle
manifatture siciliane, frutto di un complesso e articolato lavoro di
riorganizzazione, inventariazione e ricollocazione del proprio patrimonio per
offrire ai visitatori la conoscenza di oggetti mai visti prima.
Il gruppo scultoreo, attribuito a Giacomo Morretta e prodotto a Caltagirone
intorno al 1860, raffigura una scena di assalto lungo le strade dell’Italia
meridionale. Il capo del gruppo, a cavallo, domina la composizione, affiancato
da due sentinelle armate e da una brigantessa. L’opera, modellata in terracotta
con dettagli minuziosi, conserva le impronte dei due cani perduti e reca il
monogramma “GM”. I singoli elementi presentano sotto la base un sistema di
numerazione che consentiva di separare i singoli elementi e poi ricollocarli al
loro posto.
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BRIGANTI_PRESEPE REALE_REGGIA DI CASERTA
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PRESEPE DELLA REGGIA AL QUIRINALE4 @UFFICIO STAMPA DELLA PRESIDENZA DELLA
REPUBBLICA
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PRESEPE DELLA REGGIA AL QUIRINALE2 @UFFICIO STAMPA DELLA PRESIDENZA DELLA
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PRESEPE DELLA REGGIA AL QUIRINALE @UFFICIO STAMPA DELLA PRESIDENZA DELLA
REPUBBLICA
Fenomeno complesso e radicato principalmente nelle regioni del Sud, il
brigantaggio affonda le sue origini nel Seicento, quando bande armate sfidarono
il controllo dello Stato Pontificio, per poi proseguire durante l’Ottocento. Il
gruppo scultoreo esposto per la prima volta coglie una scena, con il
tradizionale realismo presepiale, e al tempo stesso testimonia il legame tra una
forma d’arte diffusissima e alcuni passaggi della storia locale.
Nelle teche della Sala degli Appartamenti dell’antica Reggia reali sono visibili
per la prima volta anche nove statuine di terracotta provenienti dai depositi
della Reggia di Caserta che raccontano la ricchezza del collezionismo borbonico
legato al Presepe. Accanto ai pastori napoletani compaiono figure realizzate a
Caltagirone, importante centro siciliano dove numerose botteghe perfezionarono
nei secoli tecniche e stili. Quest’anno il presepe del Palazzo del Quirinale è
realizzato proprio con la collezione della Reggia di Caserta che valorizza la
tradizione napoletana tra Settecento e Ottocento. Questo particolare elemento
del patrimonio della Reggia prese il via per iniziativa di re Carlo di Borbone e
si sviluppò con il contributo della regina Maria Amalia di Sassonia. Le figure,
modellate in terracotta con occhi in vetro e corpi snodabili, indossano tessuti
di San Leucio e sete orientali con accessori che documentano la squisita qualità
delle manifatture del Regno di Napoli. Grazie alla riorganizzazione del ricco
patrimonio della Reggia – che conta oltre 400 pezzi tra pastori, angeli, animali
e utensili del presepe di corte borbonico — ne è stato selezionato un nucleo per
l’esposizione al Quirinale che è visibile nella Sala del Mappamondo fino al 21
dicembre e poi dal 9 gennaio al 2 febbraio, giorno della Candelora. Le
prenotazioni per le visite sono disponibili sul sito della Presidenza della
Repubblica. “Quando sono arrivata ho iniziato con molta fatica questo lavoro sui
depositi – racconta la dirigente Maffei -, perché all’inizio mi avevano detto
che non ve ne erano, adesso ne stiamo facendo sette. E man mano che studiamo,
organizziamo, troviamo e soprattutto sistematizziamo il patrimonio, riusciamo a
mostrarne dei nuclei importanti talvolta composti da oggetti pressoché inediti“.
Sempre a ridosso di Natale (il 19) alla Reggia si inaugura la mostra Regine.
Trame di cultura e diplomazia tra Napoli e l’Europa: curata dalla stessa Tiziana
Maffei e da Valeria Di Fratta, l’esposizione propone oltre 200 opere provenienti
da prestigiosi musei e istituzioni italiane ed europee, e totalmente dedicata
alle sovrane che, tra Settecento e prima metà del Novecento, contribuirono in
modo determinante alla costruzione, affermazione e diffusione di una cultura
europea condivisa. Da Elisabetta Farnese a Maria Amalia di Sassonia; da Maria
Carolina d’Asburgo-Lorena, attraverso il decennio napoleonico di Giulia Clary e
Carolina Murat, alla Restaurazione borbonica con Maria Isabella; da Maria
Cristina di Savoia a Maria Teresa d’Asburgo-Teschen, fino a Maria Sofia di
Baviera e alle sovrane dei Savoia – Margherita, Elena di Montenegro e Maria José
del Belgio.
Un tassello che fa da avvio della fase finale dell’esperienza di Tiziana Maffei
alla guida della Reggia. Bilanci? La dirigente risponde in prima battuta che il
mandato finisce a fine giugno: “Ho ancora così tante cose da fare, che non ho
proprio il tempo di stilare il bilancio del mio operato – sottolinea -. Però la
cosa di cui vado più orgogliosa è la trasformazione dell’organizzazione
dell’istituto museale, al di là degli obiettivi raggiunti, di ciò che abbiamo
aperto, che i finanziamenti hanno funzionato, di aver trovato altre risorse, di
aver aumentato i visitatori. Però ciò di cui sono più contenta è l’aver creato
un gruppo, una squadra di lavoro di grande professionalità, con la quale abbiamo
lavorato tantissimo e che lascerò a chi mi sostituirà”.
Tra le esperienze elencate dalla dirigente il lavoro sulla sezione “Terrae
Motus” (collezione di arte contemporanea dei più grandi artisti mondiali degli
anni Ottanta), ma anche la demolizione del primo solaio costruito negli anni
Trenta dall’Aeronautica, riconquistando l’antica spazialità voluta da Vanvitelli
(“l’orgoglio dell’orgoglio” lo definisce la direttrice). “Abbiamo anche fatto in
modo – spiega Maffei – che tutti gli interventi avessero un importante taglio di
design contemporaneo, cioè abbiamo progettato pensando che ci troviamo
all’interno di un luogo che merita grande attenzione”. Nella lista delle cose
fatte (finalmente) ci sono appunto i depositi, ma anche l’irrigazione del parco
(“di cui nessuno si era mai occupato) e l’apertura delle serre al pubblico con
la vendita: dimostrazione, spiega Maffei, “che un luogo come questo può anche
fare attività produttiva in coerenza con la propria identità, perché è ciò che
si faceva nell’Ottocento”. “Per me è molto importante il rigore – spiega la
dirigente della Reggia – e credo che la macchina amministrativa oggi possa
contare su tutto ciò che abbiamo standardizzato nelle procedure, inserito in un
quadro di trasparenza. Per esempio il bando di valorizzazione partecipata con
cui abbiamo costruito una programmazione di qualità grazie ai privati. Penso a
tante iniziative messe a punto, come i concerti, concedendo gli spazi, ma
basandoci sempre sulla progettualità. Ciò fa comprendere che ogni istituto
museale si muove in quest’ottica di trasparenza, di condivisione e di
efficienza. È di tutto ciò che sono più orgogliosa, rispetto a ciò che ho
trovato, che significa anche capire da dove si è partiti in questo percorso.
Oggi non saremo da 10 né da 9, ma siamo partiti davvero da un’insufficienza
pesante”.
L'articolo Le statuine dei presepi di corte e una mostra sulle regine: i regali
di Natale della Reggia di Caserta. La direttrice: “Orgogliosa della rinascita di
questi anni” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Malore per il maestro Riccardo Chailly mentre, mercoledì 12 dicembre, dirigeva
la seconda rappresentazione di “Una lady Macbeth del distretto di Mcensk” al
Teatro alla Scala. Dopo il secondo intervallo dell’opera che il 7 dicembre ha
inaugurato la nuova stagione lirica del Teatro milanese con grande successo di
pubblico, la rappresentazione è stata interrotta. Il coordinatore artistico del
teatro, Paolo Gavazzeni, è salito sul palcoscenico e ha spiegato al pubblico la
situazione. Il direttore è stato ricoverato in codice giallo all’ospedale
Monzino.
Settantadue anni, alla sua ultima stagione come direttore musicale ma con ancora
tanti progetti in futuro con il teatro e con il festival di Lucerna di cui sarà
alla guida fino al 2028, Chailly ha mostrato qualche segno di “stanchezza” agli
orchestrali e già al primo intervallo, che è durato una decina di minuti più del
previsto, era girata la voce che non si sentisse bene. Poi però il direttore,
che ha da tempo un problema cardiaco che tiene sotto controllo, ha deciso di
proseguire per i cinquanta minuti successivi fino al secondo intervallo.
Velocemente è tramontata l’idea di far terminare l’opera al maestro suggeritore
e così il coordinatore artistico ha annunciato al pubblico che per la
complessità dell’opera e soprattutto “per rispetto del maestro Chailly” il
teatro aveva deciso di interrompere la rappresentazione. Nel frattempo alla
Scala sono arrivate ambulanza e automedica a prestare i primi soccorsi e a
portare il maestro in ospedale.
Lo scorso febbraio, per motivi di salute, Chailly, che è direttore musicale
della Scala dal 2015, non aveva partecipato alla tournée della Filarmonica della
Scala ed era stato sostituito da Lorenzo Viotti e nel 2023 aveva dovuto
rinunciare al concerto inaugurale del Festival di Lucerna a causa di una
operazione dopo un malore.
L'articolo Malore alla Scala mentre dirige “Lady Macbeth”: portato via il
maestro Riccardo Chailly tra gli applausi dei loggionisti proviene da Il Fatto
Quotidiano.
In Italia la produzione annuale di libri sulla musica è esuberante, e non
scarseggiano le punte di eccellenza intellettuale e scientifica. Sono occasioni
offerte agli amanti di musica per arricchire il piacere dell’ascolto attraverso
la lettura di pagine che spieghino la storia, il senso, gli arcani di un’arte
così sfuggente e inafferrabile. Parlar di musica è in effetti difficile. E
spesso il frequentatore di concerti e teatri esita ad affrontare saggi di storia
e critica della musica, nel timore, paradossale, che essi ne possano appesantire
lo spontaneo godimento.
La rassegna Il Fior fiore dei libri di musica intende appunto valorizzare questo
settore editoriale e incentivarne la risonanza nell’opinione pubblica,
segnalando una selezione assai varia di titoli di qualità, che alimentino la
conoscenza e la comprensione dell’arte musicale. A tal fine l’associazione Il
Saggiatore musicale ha chiesto a otto editori attivi in questo campo di proporre
tre titoli dal loro catalogo del biennio 2023-2024. Gli editori invitati
quest’anno sono Carocci Editore (Roma), EDT (Torino), Libreria Musicale Italiana
(Lucca), NeoClassica (Roma), Leo S. Olschki (Firenze), Il Saggiatore (Milano),
Società editrice di Musicologia (Roma) e Zecchini Editore (Varese). Un’apposita
commissione di musicologi attivi nelle Università e nei Conservatori ha
selezionato gli otto libri che domani, 11 dicembre, verranno presentati e
discussi nel Museo della Musica di Bologna. Il Saggiatore musicale ha
individuato i presentatori dei volumi – autorevoli musicologi, critici musicali,
melomani di altre discipline – che ne illustreranno l’interesse e il pregio. Il
coordinamento è affidato a Simone Di Crescenzo e Eduardo Grumelli.
Ecco gli otto titoli
Carlida Steffan e Luca Zoppelli, Nei palchi e sulle sedie. Il teatro musicale
nella società italiana dell’Ottocento (Carocci Editore), presentato da Carlotta
Sorba (Università di Padova);
Alessandro Macchia, Benjamin Britten. L’uomo, il compositore, l’interprete
(Edt), presentato da Enrico Reggiani (Università Cattolica, Milano);
Daniele Palma, Recording Voices. Archeologia fonografica dell’opera (Libreria
Musicale Italiana), presentato da Pietro Zappalà (Università di Pavia);
Fabrizio Della Seta, Popolo famiglia individui. Confronti sottintesi e malintesi
sulla scena operistica (NeoClassica), presentato da Ilaria Narici (Fondazione
Gioachino Rossini, Pesaro);
Gabriella Biagi Ravenni e Francesco Cesari (a cura di), Giacomo Puccini.
Epistolario. IV, 1905-1906 (Leo S. Olschki), presentato da Paolo D’Achille
(Accademia della Crusca, Firenze);
Michele Girardi, Giacomo Puccini. Tra fin de siècle e modernità (Il Saggiatore),
presentato da Emanuele d’Angelo (Accademia di Belle Arti, Bari);
Giulia Giovani e Francesco Lora, Giacomo Antonio Perti: corrispondenze
dall’Europa (Società editrice di Musicologia), presentato da Raffaele Mellace
(Università di Genova);
Marina Moretti (a cura di), Pëtr Il’ič Čajkovskij: lettere dall’Italia 1874-1890
(Zecchini), presentato da Carla Moreni (Il Sole 24 Ore).
***
Info
Dove | Palazzo Aldini Sanguinetti, Sala Eventi – Bologna, Strada Maggiore 34
Quando | Giovedì 11 dicembre 2025
Orari | 10:30-13:30 – 14:30-18:00
Programma | Tutti gli interventi
Ingresso | Gratuito
L'articolo Leggere di musica? Aumenta il piacere dell’ascolto. A Bologna torna
la rassegna “Fior fiore dei libri” dedicati a classica e lirica proviene da Il
Fatto Quotidiano.
Cosa accade nel cervello quando osserviamo un quadro, un paesaggio, un’opera
architettonica? Ogni fonte di bellezza influisce sul nostro stato d’animo ed
emozionale creando una relazione profonda con il nostro essere, con la memoria,
con il vissuto e l’immaginario. Ogni volta che ci immergiamo in un’esperienza di
condivisione estetica si genera un’empatiaspeciale fra noi e lo spazio, una
connessione emotiva, una risonanza.
Maria Chiara Monacelli, giovane imprenditrice laureata in architettura conmaster
in neuroscienze applicate (disciplina che studia la capacità del cervello di
rispondere e adattarsi all’esperienza che viviamo) e in neuroestetica,
(disciplina che unisce le neuroscienze con l’estetica), ha approfondito questi
aspetti. Alla fine del suo percorso di apprendimento e approfondimento
professionale, è nato Sensorial.
Una start up, un brand di architettura e microarchitettura che, integrando i
principi della neuroestetica e della sinestesia progettuale, permette di vivere
esperienze immersive come vedere un suono, ascoltare una luce, toccare
un’emozione.
“Mi interessava e mi interessa comprendere come lo spazio possa influire sul
nostro comportamento generando emozioni e benessere psicofisico. Spazio inteso
come relazione tra forme, colori, materiali, luci. Spazio architettonico che
influisce sul nostro stato emozionale”, rivela.
Tutto è partito dal cemento, un materiale che, a vedere le sue trasformazioni e
declinazioni nelle lavorazioni di Sensorial, diventa stupefacente. Che sia un
gioiello luminescente o la superficie di un tavolo che respira e si fa cassa
armonica per veicolare il suono.
Perché partire proprio dal cemento? “La mia famiglia, di Gubbio, lavora nel
settore da sempre. Conoscevo e conosco bene questo elemento. Ma volevo dargli
un’identità diversa: versatilità, trasformazione, risonanza, renderlo fonte di
esperienza sensoriale, appunto”.
Tutto è nato per caso. Da un’esperienza di lavoro all’estero. Manicelli
stavacollaborando a un progetto di architettura per la città di Neom in Arabia
Saudita: “Eravamo alla ricerca di materiali innovativi. Così ho proposto una
sperimentazione sul cemento con artigiani italiani che conoscevo. Il risultato è
stato la realizzazione di un bellissimo progetto per un teatro. Al termine, ho
deciso di far nascere la mia start up basandomi sui miei studi in neuroscienze
applicate all’architettura”.
Da Concrial, il cemento sensoriale, (dalla fusione delle parole concrete e
sensorial), si sono sviluppate diverse applicazioni e declinazioni che hanno
dato vita a opere inusuali, fra cui la creazione del tavolo sonoro Osmos,
fotoluminescente e fonodiffusore, e la capsule “Wearable concrete” firmata da
Giuliana Cella: trasfigurazione del cemento in materiale glamour, innovativo e
polisensoriale.
Osmos è il tavolo scultoreo di cemento fotoluminescente e sonoro, attraversato
da un ulivo caduto durante un’intemperia e ancora percorso da un rivolo d’acqua.
Diffonde il suono della musica dal vivo: se tocchi il tavolo ne senti la
vibrazione percorrere il tuo corpo. L’installazione artistica Osmos è stata
realizzata per un evento del Fuori Salone alla scorsa Design Week di Milano.
Mentre i bracciali, gli anelli e le collane nati dal cemento mischiato a
elementi luminescenti, persino a brillanti, sono stati presentati all’ultima
Faschion Week di Milano. Sono gioielli che al buio si accendono di luce
catturata durante il giorno. Leggerissimi, stanno andando a ruba fra le ragazze
della Milano contemporanea internazionale.
La designer, regina dell’etno-chic, ha pescato da varie collezioni di Sensorial.
Atacama, che trae ispirazione dal deserto cileno, impiega ossidi metallici di
rame, bronzo, ottone, ferro, oro e pigmentazioni naturali combinate al cemento.
Fuji, con innesti di metalli fusi combinati al cemento forgiato, richiama colate
laviche, con forti contrasti tra superfici lisce e materiche, lucide e grezze.
Moon è superficie che assorbe la luce naturale e la rilascia gradualmente in
oscurità. Venezia è invece un omaggio alla memoria, con pizzi e tessuti
sartoriali impressi, lasciando tracce tattili e visive che evocano la sensualità
dei tessuti storici veneziani.
“Abbiamo alleggerito e trasformato il cemento in modo che possa diventare un
elemento intimo e raccontare la persona che lo indossa. La collezione di
gioielli nasce dal desiderio di portare la materia sensoriale sul corpo”.
Monacelli sarà presente alla prossima Design Week di Milano? “Stiamo già
pensando al prossimo Salone del Mobile, per il momento posso solo anticipare che
il nostro atelier intende potenziare la multi-sensorialità di Concrial anche
avvalendosi di collaborazioni prestigiose”.
È il dialogo fra arte e manufatto che si apre a nuove frontiere esperienziali
del quotidiano in cui diventa possibile vedere e toccare un suono, sentire un
colore. Indossare una luce.
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L'articolo “Abbiamo alleggerito e trasformato il cemento in modo che possa
diventare un elemento intimo e raccontare la persona che lo indossa”: così Maria
Chiara Monacelli di Sensorial proviene da Il Fatto Quotidiano.
Quando, nel finale di Lady Macbeth del distretto di Mcensk, il palcoscenico
della Scala si trasforma in un rogo e due figure femminili vengono avvolte dalle
fiamme, il pubblico trattiene il respiro. Il calore arriva fino alla platea,
l’odore di bruciato attraversa i palchi. È una scena che resta impressa,
potentissima, ma soprattutto reale: il fuoco è vero, le fiamme salgono altissime
e ciò che avviene sul palco è frutto di un lavoro tecnico, fisico e umano che
pochissimi conoscono.
A raccontarlo, in un’intervista al Corriere della Sera, sono Beatrice Del Bo e
Marie Schmitz, le due stuntwomen — una italiana, l’altra tedesca — che incarnano
la parte più rischiosa e spettacolare della produzione. Professioniste del
fuoco, interpreti invisibili, “torce umane” per mestiere. “Sono più di cinquanta
volte che brucio in scena, eppure fa sempre un certo effetto”, confessa Marie,
viso delicato e lunghi capelli biondi che contrastano con la brutalità del
compito. “Quando il costume, impregnato di sostanze infiammabili, s’accende, la
vampata dilaga in un attimo, dalla testa ai piedi”.
Beatrice, bruna, attrice e acrobata, aggiunge: “La temperatura arriva fino a 600
gradi. Sono una ventina di secondi di adrenalina pura, in cui non puoi
permetterti di sbagliare nulla”. Il protocollo è rigidissimo: tuta ignifuga
sotto il costume, strati di gel protettivo su viso, collo e mani. Un rituale che
si ripete identico ogni sera. Eppure la sicurezza assoluta non esiste: “Ogni
tanto qualche scottatura ci scappa”, ammette Marie. “Fa parte del mestiere:
entri nei momenti più pericolosi, combatti, voli, cadi dalle scale. Il nostro
lavoro è morire al posto degli altri“. Un mestiere che richiede collaborazione
totale, come sottolinea Beatrice: “Per farlo senza rischi serve una squadra. La
prima regola è sapere che il fuoco è imprevedibile. Va rispettato. Il fuoco fa
come il fuoco vuole, ce lo ripete sempre Ran”. Ran è Ran Braun, live action
designer e stunt coordinator, il responsabile degli effetti speciali della
produzione e collaboratore del regista Vasily Barkhatov. È alla sua prima volta
alla Scala, ma tornerà in stagione per Nabucco. Durante la scena del rogo, lui e
la sua équipe seguono tutto da un camion nascosto nelle quinte, pronti a
intervenire al minimo segnale di pericolo.
La scelta di Barkhatov — sostituire il lago gelato previsto dal libretto con un
vortice di fiamme — ha trasformato il finale dell’opera in un’immagine simbolica
di potenza e distruzione. Le due donne che si avvinghiano nel fuoco, fondendosi
in un unico falò, hanno un impatto quasi cinematografico: la violenza,
l’annientamento, la passione degenerata in morte. Un finale incandescente che
sembra avere un’eco ironica nella biografia di Šostakovič. “In una vecchia foto
finita in copertina di Time», ricorda il Corriere, “il compositore appare con un
elmetto da pompiere”. Da studente, infatti, aveva prestato servizio come
volontario nella squadra antincendio del conservatorio. Chissà come avrebbe
guardato questa scena: un’opera che incendia, letteralmente, la Scala.
L'articolo “Il nostro lavoro è morire al posto degli altri. La temperatura
arriva a 600 gradi, il fuoco è imprevedibile”: parlano le “torce umane” della
Prima della Scala proviene da Il Fatto Quotidiano.
Quando si cerca Dio bisogna sciogliersi come neve all’acqua.
E Lalleshwari voleva provarci davvero, iniziando a fare quello che nessuno fa:
invece di migliorare la propria vita, ha messo in discussione l’idea stessa di
averne una. Se esiste qualcosa come l’Assoluto, pensava, non può stare accanto
al resto, ma deve mangiarselo. Nel linguaggio dei filosofi si parlerebbe di Uno,
emanazione, ritorno.
Lei non conosceva quelle parole. Aveva però i pozzi del villaggio, il freddo del
Kashmir, il corpo che invecchiava, e li faceva passare nella lingua, nella
fatica, nel respiro. Così, quando si è tolta i vestiti, si è tolta anche la
paura di appartenere a qualcuno, che fosse un marito o una casta. Non ha più
accettato che il nome di Dio servisse a tenere in piedi la sua gabbia.
Guardava con sospetto il modo in cui si parlava del divino, le formule in
sanscrito, le parole alte che dicevano tutto di Dio e molto poco della fame.
Lalla aveva capito che quel linguaggio non la riguardava, non perché fosse atea,
ma perché la fede, così, era diventata un muro. Ha scelto di tradire quella
architettura. Ha preso il nome più grande, Dio, e lo ha portato in strada con la
lingua dei campi.
I suoi vakh sono nati come sabotaggio Brevi frasi in kashmiro, dette a voce,
senza pergamene né autorizzazioni.
La comunità l’ha sempre vista come una minaccia. Una donna che prega fuori dal
tempio, che parla di Dio senza intermediari, che rifiuta l’ordine
dell’obbedienza, era sicuramente un corpo sbagliato. Per questo veniva derisa,
ma allo stesso tempo temuta e venerata.
Lalla non ha cercato di convincere nessuno, ha semplicemente smesso di
collaborare con l’idea che Dio coincida con le regole sociali. Ha cercato di
smontare il linguaggio della mistica, le promesse di premio e le minacce del
castigo. Ha iniziato un lavoro di disarmo, togliendo al pensiero ogni alibi,
ogni tentativo di “capire” Dio diventava sospetto, come una pretesa di possesso.
Il potere religioso ha imparato a chiamarla santa, poi poetessa. Ma la sua forza
stava nel rifiuto di ogni appartenenza: era una brahmanica che tradiva la casta;
una donna che rifiutava il copione femminile; una figura che parlava una lingua
amata da induisti e sufi, senza diventare bandiera di nessuno. Lalla era
un’infedeltà permanente.
Il lascito di Lalleshwari è che la trasformazione spirituale non è un’esperienza
consolante ma uno strappo. E non avviene quando troviamo le parole giuste, ma
quando smettiamo di usarle per coprire ciò che non vogliamo vedere. Lei ha
mostrato che non si può pronunciare il nome di Dio e, nello stesso tempo,
continuare a difendere i propri privilegi. Ha dimostrato che una coscienza che
ama sul serio il divino non si eleva, ma perde pezzi fino a diventare
irricevibile per l’ordine comune.
Lalla non è mai riuscita a sistemare Dio in un posto che la lasciasse
tranquilla. Ha vissuto senza protezioni tra l’Uno e il fango, senza mai mettersi
al sicuro.
Bio – Lalleshwari, chiamata Lalla o Lal Ded, nasce nel XIV secolo nel Kashmir in
una famiglia brahmanica. Sposa giovanissima, abbandona la vita domestica e
intraprende un cammino spirituale legato allo Shaivismo kashmiro, in dialogo
sotterraneo con la sensibilità sufi. I suoi vakh, canti brevi in lingua
kashmira, circolano oralmente per secoli prima di essere raccolti: frammenti di
una ricerca radicale sulla dissoluzione dell’io e sulla presenza del divino
nella vita quotidiana. È oggi riconosciuta come una delle voci più potenti della
mistica del Kashmir, venerata oltre i confini religiosi.
L'articolo Il destino di Lalleshwari, nuda nel nome di Dio proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Un camion che sfonda a sorpresa una vetrata, due personaggi che vanno a fuoco
sul palco, una autentica aggressione sessuale sul posto di lavoro vestita da
quella ambiguità – così moderna – del presunto equivoco, del gioco, del dissenso
“non espresso chiaramente”. Vasily Barkhatov supera con applausi e qualche
ovazione l’esame di maturità della Scala a 43 anni portando un’opera di quasi
cent’anni fa dentro il paesaggio linguistico e visivo di oggi. Non gli servono
superflui “costumi moderni”, a volte contrastati da una parte del pubblico
scaligero della Prima, perché l’idea e il lavoro è tutto nel pensiero
drammaturgico con cui ha portato in scena Una Lady Macbeth del distretto di
Mcensk di Dmitri Shostakovich. Un’opera di cui si dice che è difficile trovarne
un significato univoco. Barkhatov scavalca il quesito e rende la storia
credibile e avvincente, calcando il segno su alcune chiare volontà del
compositore (che non a caso dà alla protagonista Katerina le arie più forti) e
riempiendo di dinamismo ogni scena, anche e soprattutto quelle strumentali (che
non mancano) o dei cori, quando la scena di solito rischia di essere un po’
ingessata.
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096_GN1A7702 PH BRESCIA E AMISANO © TEATRO ALLA SCALA
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205_GN1A8059 PH BRESCIA E AMISANO © TEATRO ALLA SCALA
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LADY SCALA
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220_GN1A8112 PH BRESCIA E AMISANO © TEATRO ALLA SCALA
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129_096A8236 PH BRESCIA E AMISANO © TEATRO ALLA SCALA
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248_GN1A8192 PH BRESCIA E AMISANO © TEATRO ALLA SCALA
Barkhatov ambienta la sua Lady Macbeth negli anni Cinquanta, ironicamente (o
forse no) nel periodo che porterà alla morte di Stalin, il censore di
Shostakovich. La scenografia ha uno sviluppo orizzontale, diviso a metà. In una
scena ci sono sopra le cucine (sono molto i personaggi secondari anche tra la
servitù della famiglia di Katerina che compaiono via via), sotto la camera da
letto della protagonista e del marito Zinovij e l’ufficio di quest’ultimo. In
una seconda scena sotto si trova un grande salone da pranzo e sopra un balcone.
Il regista sfrutta questi molti spazi tutti a vista per spingere l’opera con
ritmo cinematografico, per non dire da thriller a puntate: una serie tv,
insomma, e ci scuseranno subito gli esperti di lirica per questa metafora ormai
un po’ logora. E però è vero che la cura registica per i dettagli fa sì che ogni
attore, anche all’opposto del movimento della scena, anche nei momenti solo
musicali e senza interventi dei protagonisti, riempie l’occhio e l’attenzione
dello spettatore.
Con questa abilità che affonda le radici nella freschezza tutta giovanile – con
quale avvenire – Barkhatov disegna una storia di libertà e di liberazione, che
non si compie fino in fondo ma che resta come icona e messaggio. Katerina vive
una vita soggiogata dai comandi impartiti dal marito e dal suocero (anzi il
primo sembra un fantoccio nelle mani del secondo). La accusano di non generare
eredi e lei ribalta l’accusa contro il poco amorevole consorte. In cucina si
consuma un’aggressione sessuale nei confronti di una cameriera, una violenza che
Barkhatov “veste” con gli ingredienti alimentari: la poverina viene ricoperta di
farina, di sugo, viene “lavorata” col mattarello, sculacciata. Le molestie
vengono interrotte proprio dalla moglie del padrone, Katerina, che già sente
crescere l’odio per il maschio che si sente tale soverchiando la donna. “Ho
bisogno di affetto” canterà poco dopo “soltanto io non ho nessun che mi
desideri”. Conosce Sergej, che lavora nell’azienda del marito e tutto cambia:
nella sua mente vede aprirsi, quando ormai non lo sperava nemmeno più, spazi
sconfinati nonostante resti poco più che reclusa. Il suocero Boris la sorprende
con lui e lo frusta. Lei non ne può più e quando il suocero le ordina un piatto
di funghi lei lo avvelena. Torna il marito Zinovij e Katerina e Sergej sono
sorpresi a letto e seminudi. Qui il ritmo si fa quasi a perdifiato. Lui si
nasconde nell’armadio, l’amante dissimula. Zinovij comincia a fare domande, lei
risponde vaga. Il marito la aggredisce, tenta di violentarla, lei chiama aiuto,
chiama Sergej che esce dall’armadio. Zinovij è sorpreso e di questo approfitta
Katerina che lo immobilizza a letto, con uno straccio comincia a strangolarlo.
Arriva anche Sergej, blocca braccia e gambe di Zinovij, Katerina prende un
cuscino e soffoca definitivamente il marito. Il quale stordito chiama un prete e
Sergej a quel punto lo finisce: “Eccoti il prete”. Gli preme il cuscino sulla
faccia finché Zinovji non smette di respirare. I due amanti restano come
scioccati ma il loro futuro insieme ora sembra assicurato.
Katerina e Sergej si sposano davanti a numerosi invitati ma nel frattempo – dopo
che finora è rimasto nascosto dentro un frigo – viene scoperto il cadavere di
Zinovij, il marito ammazzato. Qui arriva una prima trovata scenica di Barkhatov
che può assomigliare pure a una citazione. Durante la festa nuziale i morti
(suocero e marito della sposina killer) ricompaiono sottoforma di ombre e
visioni: come fantasma, diafano, Boris (e ricorda un po’ il Convitato di pietra
del Don Giovanni), Zinovji addirittura spuntando dalla torta nuziale (e la scena
reale della festa con gli invitati si “congela”). Ad ogni modo la notizia del
cadavere arriva alla polizia. “È finita” dice Katerina. “Fuggiamo” dice Sergej.
I due vengono arrestati e il cambio di scena – altra idea vincente di Barkhatov
– avviene con la dirompente entrata in scena di un camion militare.
Letteralmente dirompente: sfonda il portone di quella che sarebbe la casa di
Katerina e improvvisamente ci si ritrova nel campo di prigionia.
Il camion che distrugge la vetrata è anche una metafora efficace per
sottolineare che la vita di Katerina così come l’aveva sognata va in mille
pezzi. Nel campo di prigionia dove è stata portata con Sergej, la protagonista
vede crollare tutto. Dagli agi della villa col marito al freddo e alla miseria
del campo. In più Sergej ormai la detesta perché ha trascinato anche lui in
questa catastrofe. Non basta: lui si invaghisce di un’altra prigioniera. Di più:
l’ex amante si fa beffa di Katerina chiedendole soldi o capi di abbigliamento
che lui regala a un’altra prigioniera. Katerina ha capito tutto, e soprattutto
che tutto è perso, perfino l’amore che le aveva dato la spinta per il grande
salto nel buio, pur di raggiungere una libertà, una qualsiasi. Le guardie
gridano a tutti i prigionieri di alzarsi perché è ora di andare. Si tirano in
piedi tutti tranne Katerina che non dà segni di vita. In realtà finge. Poco
prima si è cosparsa di benzina. Dopo aver sentito la nuova amata di Sergej che
la canzona (“Guarda come mi stanno bene le tue calze”) ruba l’accendino a un
altro prigioniero poi fa in modo di mettersi vicino all’amante di Sergej e
accende il fuoco. Muoiono insieme bruciate vive. Sul palco brillano fiamme
reale, corrono impazzite due torce umane. Il pubblico della Scala è abbagliato e
conquistato.
Oltre alle ovazioni ripetute e insistite per il maestro Riccardo Chailly per la
prova d’orchestra, a ricevere gli applausi più convinti – a giusta ragione –
sono stati la protagonista, il soprano Sara Jakubiak, e Alexander Roslavets, il
basso che ha interpretato il suocero Boris.
L'articolo Prima della Scala 2025, camion che sfondano vetrate e “vere” torce
umane infuocate: la missione compiuta di Barkhatov con la Lady Macbeth di
Shostakovich proviene da Il Fatto Quotidiano.
Puff, è scomparsa la politica, dicono. Ma la Prima della Scala brulica di
vicepolitica, sottopolitica, minipolitica, ex politica, reggenti, facenti
funzioni, luogotenenti, spicciafaccende, caporioni, vecchie glorie, ex dive
dimenticate. Ogni tre metri un sottosegretario, un presidente di commissione, un
capogruppo di qualcosa: picchettati nel foyer, guasconi in corridoio, famelici
alla cassa del bar, brillanti e tintinnanti nel ridotto mentre sorseggiano dal
calice. Se non si trova la politica, magari è solo che è al bancone per
ordinare. Una cronaca più scrupolosa di questa imporrebbe di indicare nomi e
cognomi col rischio però che il cittadino-elettore-lettore fatichi a collegarli
a una faccia e a un merito tale da godere dell’opportunità di partecipare
all’appuntamento culturale tra i più prestigiosi del mondo e dell’anno. E’
sufficiente il sollievo che almeno per il momento Fratelli d’Italia non abbia
imbarcato anche Shostakovich, Chailly e il soprano nel suo pantheon che ormai ha
solo posti in piedi essendo gonfio di gente fino a Gramsci a Pasolini e
all’orizzonte chissà il Che e Cossutta. In realtà, a conti fatti, la Scala ai
tempi del potere della destra è come la Scala ai tempi del potere della sinistra
(o così almeno la chiamavano): sembra che si metta a vento e invece lo ignora.
E’ l’unico posto forse nel mondo in cui trionfa il centro: qui Maurizio Lupi lo
ascoltano davvero come se fosse importante. Ma è soprattutto il centro degli
affari, di banchieri, industriali, manager, amministratori, boiardi,
consigliori, ercolini sempre in piedi. E quindi se la politica di Roma non si fa
vedere, a Milano fondamentalmente frega zero, come ha risposto con onestà rara
il presidente della Regione Attilio Fontana, inopinatamente avanzato in seconda
fila del Palco Reale in quanto lasciato sguarnito. In questo vuoto di volti
conosciuti sarebbero da premiare con monumenti equestri fotografi e cameramen
che corrono elettrizzati dietro ogni vetro fumé che si ferma davanti
all’ingresso del teatro e scoprono che è tutta una riffa: il cuore lacrima
quando i colleghi vedono aprirsi lo sportello e, a dispetto dell’attesa, scende
un generale dei carabinieri, sia pure col tabarro tipo Batman.
La politica, dicono, è scomparsa dallo spettacolo lirico più celebre, ma appare
subito una falsa speranza. Il meloniano Federico Mollicone, anziché limitarsi a
frasi di circostanza sul meteo – clausola di salvaguardia di certe occasioni -,
si inerpica in un ragionamento che si conclude con il concetto che l’opera di
Shostakovich (che se ha un elemento su cui è difficile sbagliare è la denuncia
spietata del patriarcato) “stride molto con i valori di rispetto delle donne“.
Ricorda da vicino quella volta che Dario Nardella voleva che la Carmen di Bizet
non finisse morta ammazzata – come da trama appositamente scandalizzante – ma
diventasse una specie di Wonderwoman e magari aprisse un chiringuito a Cancùn.
Aiuto, non c’è più la politica alla Scala: o magari c’è e non si vede, come
nella riforma dei teatri lirici voluta dal sottosegretario Gianmarco Mazzi che
aumenta il controllo ministeriale sulla gestione delle fondazioni, con possibili
iniziative visibilmente benemerite come la nomina di Beatrice Venezi alla
Fenice. Ecco, sì, forse è vero quello che dicono, che la politica è “scomparsa”:
è campionessa di ghosting quando c’è da rendere meno precari i lavoratori, più
aggiornati i contratti, più dignitosi gli stipendi.
Così nel derby dell’intervistometro del foyer vince per mancanza di avversari la
nazionale cinema e spettacoli e con tutti questi ospiti che non c’entrano niente
con la politica quasi quasi ai Fratelli d’Italia gli potrebbe venire voglia di
farci Atreju il prossimo anno. Raccoglie un notevole numero di richieste di foto
Pierfrancesco Favino, bloccato in sala prima che salisse sul palco col costume
da Sergej, poi sul podio con la barba del maestro Chailly e infine nella buca
travestito da arpa. Achille Lauro fatica ad attraversare il lato corto del foyer
perché viene assalito da un commando di telecamere. Dopo qualche battuta –
svogliata o atterrita, forse la seconda – un suo assistente prova anche a dire
qualcosa come “ora basta domande, dobbiamo entrare” che però, lì, in quel canaio
che è l’ingresso del teatro Piermarini la sera del 7 dicembre, ha ricordato
l’effetto che faceva Tajani quando diceva con la faccia brutta “ora basta” ad
Israele nei mesi della carneficina. Una signora ne approfitta e a mezzo metro di
distanza grida: “Sei bellissimo!”. Poco dopo – mannaggina – Lauro fa alzare in
piedi tutto il “Senatooo” non per una standing ovation ma perché ha il posto in
mezzo alla fila e quindi gli ottuagenari spettatori che si erano già assisi con
ragguardevole sollievo hanno dovuto ripetere l’operazione daccapo con
altrettanto scorno.
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LA PRIMA DEL TEATRO ALLA SCALA DI MILANO
Economist Corrado Passera and his wife Giovanna Salza, right, arrive at La Scala
Opera House in Milan, northern Italy, Sunday, Dec. 7, 2025, for the 2025–26 gala
season premiere, which features a Russian opera for the second time since
Moscow's 2022 invasion of Ukraine. (AP Photo/Antonio Calanni)
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LA PRIMA DEL TEATRO ALLA SCALA DI MILANO
Former Italian Premier Mario Monti, right and his wife Elsa Antonioli arrive at
La Scala Opera House in Milan, northern Italy, Sunday, Dec. 7, 2025, for the
2025–26 gala season premiere, which features a Russian opera for the second time
since Moscow's 2022 invasion of Ukraine. (AP Photo/Antonio Calanni)
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MILANO, IL FOYER DELLA PRIMA ALLA SCALA 2025
Davide Oldani alla Prima del Teatro alla Scala 2025, la serata inaugurale della
stagione lirica con l'opera ‘Lady Macbeth del Distretto di Mcensk’ di Dmitrij
Sostakovic, Milano (Italia) Domenica 7 Dicembre 2025 (Foto Claudio
Furlan/LaPresse) Premiere of La Scala Theater 2025, the opening night of the
opera season with Dmitri Shostakovich's opera Lady Macbeth of the Mtsensk
District, Milan (Italy), Sunday, December 7, 2025 (Photo Claudio
Furlan/LaPresse)
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MILANO, IL FOYER DELLA PRIMA ALLA SCALA 2025
Barbara Berlusconi alla Prima del Teatro alla Scala 2025, la serata inaugurale
della stagione lirica con l'opera ‘Lady Macbeth del Distretto di Mcensk’ di
Dmitrij Sostakovic, Milano (Italia) Domenica 7 Dicembre 2025 (Foto Claudio
Furlan/LaPresse) Premiere of La Scala Theater 2025, the opening night of the
opera season with Dmitri Shostakovich's opera Lady Macbeth of the Mtsensk
District, Milan (Italy), Sunday, December 7, 2025 (Photo Claudio
Furlan/LaPresse)
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MILANO, IL FOYER DELLA PRIMA ALLA SCALA 2025
Alessandro Giuli alla Prima del Teatro alla Scala 2025, la serata inaugurale
della stagione lirica con l'opera ‘Lady Macbeth del Distretto di Mcensk’ di
Dmitrij Sostakovic, Milano (Italia) Domenica 7 Dicembre 2025 (Foto Claudio
Furlan/LaPresse) Premiere of La Scala Theater 2025, the opening night of the
opera season with Dmitri Shostakovich's opera Lady Macbeth of the Mtsensk
District, Milan (Italy), Sunday, December 7, 2025 (Photo Claudio
Furlan/LaPresse)
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PRIMA DELLA SCALA A MILANO
Bruno Vespa with his wife Augusta Iannini arrive for the season opening of the
Teatro alla Scala, the Prima della Scala, in Milan, Italy, 07 December 2025.
ANSA/MATTEO CORNER
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MILANO, IL FOYER DELLA PRIMA ALLA SCALA 2025
Giovanni Amoroso, Liliana Segre e Giuseppe Sala alla Prima del Teatro alla Scala
2025, la serata inaugurale della stagione lirica con l'opera ‘Lady Macbeth del
Distretto di Mcensk’ di Dmitrij Sostakovic, Milano (Italia) Domenica 7 Dicembre
2025 (Foto Claudio Furlan/LaPresse) Giovanni Amoroso, Liliana Segre and Giuseppe
Sala at the Premiere of La Scala Theater 2025, the opening night of the opera
season with Dmitri Shostakovich's opera Lady Macbeth of the Mtsensk District,
Milan (Italy), Sunday, December 7, 2025 (Photo Claudio Furlan/LaPresse)
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MILANO, IL FOYER DELLA PRIMA ALLA SCALA 2025
Prima del Teatro alla Scala 2025, la serata inaugurale della stagione lirica con
l'opera ‘Lady Macbeth del Distretto di Mcensk’ di Dmitrij Sostakovic, Milano
(Italia) Domenica 7 Dicembre 2025 (Foto Claudio Furlan/LaPresse) Premiere of La
Scala Theater 2025, the opening night of the opera season with Dmitri
Shostakovich's opera Lady Macbeth of the Mtsensk District, Milan (Italy),
Sunday, December 7, 2025 (Photo Claudio Furlan/LaPresse)
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PRIMA DELLA SCALA A MILANO
Maurizio Lupi arrives for the season opening of the Teatro alla Scala, the Prima
della Scala, in Milan, Italy, 07 December 2025. ANSA/MATTEO CORNER
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PRIMA DELLA SCALA A MILANO
Roberto DAgostino arrives for the season opening of the Teatro alla Scala, the
Prima della Scala, in Milan, Italy, 07 December 2025. ANSA/MATTEO CORNER
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MILANO, IL FOYER DELLA PRIMA ALLA SCALA 2025
Pierfrancesco Favino alla Prima del Teatro alla Scala 2025, la serata inaugurale
della stagione lirica con l'opera ‘Lady Macbeth del Distretto di Mcensk’ di
Dmitrij Sostakovic, Milano (Italia) Domenica 7 Dicembre 2025 (Foto Claudio
Furlan/LaPresse) Premiere of La Scala Theater 2025, the opening night of the
opera season with Dmitri Shostakovich's opera Lady Macbeth of the Mtsensk
District, Milan (Italy), Sunday, December 7, 2025 (Photo Claudio
Furlan/LaPresse)
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MILANO, IL FOYER DELLA PRIMA ALLA SCALA 2025
Diana Bracco e Fedele Confalonieri alla Prima del Teatro alla Scala 2025, la
serata inaugurale della stagione lirica con l'opera ‘Lady Macbeth del Distretto
di Mcensk’ di Dmitrij Sostakovic, Milano (Italia) Domenica 7 Dicembre 2025 (Foto
Claudio Furlan/LaPresse) Premiere of La Scala Theater 2025, the opening night of
the opera season with Dmitri Shostakovich's opera Lady Macbeth of the Mtsensk
District, Milan (Italy), Sunday, December 7, 2025 (Photo Claudio
Furlan/LaPresse)
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PRIMA DELLA SCALA A MILANO
Vittorio Brumotti arrives for the season opening of the Teatro alla Scala, the
Prima della Scala, in Milan, Italy, 07 December 2025. ANSA/MATTEO CORNER
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PRIMA DELLA SCALA A MILANO
Ferruccio de Bortoli (R) and his son arrive for the season opening of the Teatro
alla Scala, the Prima della Scala, in Milan, Italy, 07 December 2025.
ANSA/MATTEO CORNER
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MILANO, IL FOYER DELLA PRIMA ALLA SCALA 2025
Mahmood alla Prima del Teatro alla Scala 2025, la serata inaugurale della
stagione lirica con l'opera ‘Lady Macbeth del Distretto di Mcensk’ di Dmitrij
Sostakovic, Milano (Italia) Domenica 7 Dicembre 2025 (Foto Claudio
Furlan/LaPresse) Premiere of La Scala Theater 2025, the opening night of the
opera season with Dmitri Shostakovich's opera Lady Macbeth of the Mtsensk
District, Milan (Italy), Sunday, December 7, 2025 (Photo Claudio
Furlan/LaPresse)
Lo chef Davide Oldani dimostra un’invidiabile capacità di permanenza nel foyer,
almeno 40 minuti, uno sforzo tecnico-sportivo imponente, poiché la sala
d’ingresso della Scala a sant’Ambrogio si trasforma – è bene ricordarlo per
Amnesty International che è all’ascolto – in un mega-ring di combattimento per
muay thai, senza esclusione di colpi né diritti di precedenza auspicabili non
per forza da manuali del bon ton, ma si spererebbe almeno dalle lezioni di buona
educazione impartite all’età del passeggino. Sciure ricoperte da gioielli il cui
valore è di circa 8,3 buste paga delle maschere del teatro travolgono come
schiacciasassi tutto ciò che hanno davanti – vip o non vip, va riconosciuta
l’etica professionale -, i più giovani sono anche più deleteri perché obnubilati
dai telefonini e quindi caricano a testa bassa come alla plaza de toros de Las
Ventas. Eppure l’aria sembra così avvilita che c’è chi deve spiegare a chi
l’accompagna che “quello è De Bortoli, era direttore del Corriere“, mentre una
coppia di francesi è lì che si interroga su chi sia quel bel ragazzo con un
tatouage sur le visage che tutti agognano (sempre Lauro).
Si scopre che Fabio Capello è melomane e aveva una cosa che ancora non era
riuscito a conquistare: un biglietto della Prima, appunto, mentre Beppe Marotta
sembra a suo agio nel foyer come allo stadio. Milano sembra non esistere senza
Berlusconi e quindi – oltre al pugnace Fedele Confalonieri (che se ne intende)
sprofondato nella sua solita poltroncina al fianco del corridoio centrale della
platea – ecco anche Barbara che ora è nel cda della Scala. “La cultura russa è
una cultura straordinaria, una cultura antica, quindi credo che sia importante
presentare opere che sono state composte da compositori di tutto il mondo e La
Scala questa l’ha sempre fatto e continuerà a farlo”. Il padre badava ad altri
prodotti, più artigianali e più funzionali come il lettone (con l’accento sulla
o) che gli regalò quel certo amico di San Pietroburgo. Sul palco si canta in
russo, il regista è russo, russo è il tenore, è russo anche il basso ed è russa
la costumista, mentre lo scenografo è bielorusso. Ciononostante in platea
nessuno ha messo mano alla pistola, non sono inviate proteste all’Onu per
annullare lo spettacolo e al momento in cui andiamo in pubblicazione Calenda non
si è ancora fatto tatuaggi.
L'articolo Prima della Scala 2025, la politica è scomparsa? No, forse è solo al
bar. Il racconto di ciò che non avete visto in tv proviene da Il Fatto
Quotidiano.