Le Argonautiche sono un poema epico alessandrino in quattro libri, 6000 versi e
tre proemi. Rievocano l’antichissimo mito degli Argonauti e la spedizione:
Giasone, per rientrare in possesso del regno del padre usurpato dallo zio, è
costretto a recarsi nella lontana Colchide per riportare di là il vello d’oro;
dopo aver radunato il fior fiore degli eroi, salpa da Iolco a bordo della famosa
nave Argo; arrivato in Colchide, il re Eeta si dichiara pronto a cedergli il
vello, a patto che superi una prova difficilissima, quasi impossibile; ma niente
è impossibile all’amore – Medea, figlia di Eeta, maga ed esperta erborista, si
innamora follemente dell’eroe greco e decide di aiutarlo a superare la prova,
tradendo così il padre e la famiglia.
La Medea di Apollonio è una Medea molto più giovane rispetto alle altre varianti
del mito, un’eroina in formazione che non ha ancora oltrepassato il confine
sottile, a senso unico, tra l’adolescenza e la giovinezza, tra il suo mondo
d’origine, barbaro, dominato dalla magia e dall’irrazionale, e un mondo nuovo,
quello greco, patria del logos. L’amore, come nella migliore tradizione
platonica, è spinta, anelito, impulso all’attraversamento. E Giasone, suo
malgrado, incarnazione inconsapevole e passiva di questo slancio. Il Giasone di
Apollonio appare statico, privo di quella ferocia vitale che contraddistingueva
l’eroe omerico, teso all’isolamento più che all’auto-affermazione, senza
ambizioni di gloria.
S.S.
Argonautiche, dal libro III
Fitto e denso era il sonno che scioglieva le pene a Medea,
stesa sul letto. Ma sogni infausti messaggeri di inganni
e morte – sogni di anime in pena – non le davano tregua.
Tutta tremante e spaventata saltò dal letto – all’intorno
soltanto i muri della sua stanza – a stento riprese fiato,
l’anima intanto le tornava nel petto, e poi gridò forte:
“Povera me, che sogni terribili mi danno il tormento!
Temo che il viaggio degli eroi porterà gravi sciagure.
Per lo straniero il cuore nel petto batte come impazzito”.
Disse e s’alzò di scatto a spalancare le porte alla stanza,
scalza e mezza nuda. Passò la soglia del cortile,
davanti casa si fermò a lungo, a fissare il vestibolo,
paralizzata dalla vergogna. Apriva un fitto viavai:
fuori dalla sua stanza e poi dentro di corsa pentita.
Poveri piedi, persi appresso a mille vani andirivieni.
Quando partiva, la vergogna la costringeva a fermarsi;
stretta dalla vergogna, la rendeva ardita il desiderio.
Tre volte andò, altre tre volte indietro tornò. La quarta volta
presa da svenimento cadde sul letto, tutta sconvolta.
Tenebre sopra la terra portava e spargeva la notte:
marinai in mare miravano l’Orsa e le stelle d’Orione,
viandanti in viaggio e guardiani sognavano il sonno soave.
Come una spessa coltre, il sonno avvolgeva pure la madre
orfana dei propri figli. Cessati i latrati dei cani,
niente più echi di suoni e frastuoni. A regnare il silenzio:
solo avvinghiava la notte, notte nera sempre più nera.
Ma la notte non distillava sonno di miele a Medea,
presa tra mille pensieri e il desiderio dello straniero,
stretta da folle paura dei tori e di un destino crudele
che l’avrebbe distrutto, mentre lottava sul campo di Ares.
Dentro al suo petto il povero cuore batteva impazzito.
Lacrime di compassione sgorgavano a fiotti dagli occhi;
dentro una pena la corrodeva senza darle mai tregua,
sotto pelle a fuoco lento la consumava, fino ai nervi,
quelli sottili, all’osso basso del collo, negli interstizi
dove il dolore si insinua pungente quando gli Amori
ficcano frecce di patimenti dentro al petto dell’uomo.
Ora pensava di consegnargli il filtro che doma i tori;
ora pensava di non farlo più, ma di morire anche lei.
Subito corse a cercare il cofanetto che custodiva
tutti i suoi filtri – filtri che uccidono e filtri che curano.
Sulle ginocchia lei l’appoggiava, mentre afflitta versava
lacrime a fiotti sui seni – dei fiumi gonfi e senza freni –,
stretta da tristi pensieri sulla sua misera sorte.
Solo un desiderio: scegliere i filtri mortali e inghiottirli.
Povera donna, smaniosa di tirarli fuori, scioglieva
già i lacci del cofanetto. Ma tutto d’un tratto la strinse
dentro un terrore tremendo dell’odioso regno dei morti.
Muta restò a lungo, e piena d’orrore. Davanti ai suoi occhi
come visione sfilava la vita, e i suoi dolci piaceri;
e ricordava bellezza e gioia, le delizie dei vivi.
Quando poi si levò, il sole le apparve più dolce di prima.
Apollonio Rodio (Alessandria 290-215 a.C.) fu il più illustre – e infedele –
allievo di Callimaco. Fece parte del gruppo di intellettuali alessandrini del
Museo, fu direttore della Biblioteca e precettore del futuro Tolomeo III
Evergete, terzo sovrano della dinastia tolemaica.
L'articolo Apollonio Rodio, La lunga notte di Medea (Traduzione di Stella
Sacchini) proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Quando si cerca Dio bisogna sciogliersi come neve all’acqua.
E Lalleshwari voleva provarci davvero, iniziando a fare quello che nessuno fa:
invece di migliorare la propria vita, ha messo in discussione l’idea stessa di
averne una. Se esiste qualcosa come l’Assoluto, pensava, non può stare accanto
al resto, ma deve mangiarselo. Nel linguaggio dei filosofi si parlerebbe di Uno,
emanazione, ritorno.
Lei non conosceva quelle parole. Aveva però i pozzi del villaggio, il freddo del
Kashmir, il corpo che invecchiava, e li faceva passare nella lingua, nella
fatica, nel respiro. Così, quando si è tolta i vestiti, si è tolta anche la
paura di appartenere a qualcuno, che fosse un marito o una casta. Non ha più
accettato che il nome di Dio servisse a tenere in piedi la sua gabbia.
Guardava con sospetto il modo in cui si parlava del divino, le formule in
sanscrito, le parole alte che dicevano tutto di Dio e molto poco della fame.
Lalla aveva capito che quel linguaggio non la riguardava, non perché fosse atea,
ma perché la fede, così, era diventata un muro. Ha scelto di tradire quella
architettura. Ha preso il nome più grande, Dio, e lo ha portato in strada con la
lingua dei campi.
I suoi vakh sono nati come sabotaggio Brevi frasi in kashmiro, dette a voce,
senza pergamene né autorizzazioni.
La comunità l’ha sempre vista come una minaccia. Una donna che prega fuori dal
tempio, che parla di Dio senza intermediari, che rifiuta l’ordine
dell’obbedienza, era sicuramente un corpo sbagliato. Per questo veniva derisa,
ma allo stesso tempo temuta e venerata.
Lalla non ha cercato di convincere nessuno, ha semplicemente smesso di
collaborare con l’idea che Dio coincida con le regole sociali. Ha cercato di
smontare il linguaggio della mistica, le promesse di premio e le minacce del
castigo. Ha iniziato un lavoro di disarmo, togliendo al pensiero ogni alibi,
ogni tentativo di “capire” Dio diventava sospetto, come una pretesa di possesso.
Il potere religioso ha imparato a chiamarla santa, poi poetessa. Ma la sua forza
stava nel rifiuto di ogni appartenenza: era una brahmanica che tradiva la casta;
una donna che rifiutava il copione femminile; una figura che parlava una lingua
amata da induisti e sufi, senza diventare bandiera di nessuno. Lalla era
un’infedeltà permanente.
Il lascito di Lalleshwari è che la trasformazione spirituale non è un’esperienza
consolante ma uno strappo. E non avviene quando troviamo le parole giuste, ma
quando smettiamo di usarle per coprire ciò che non vogliamo vedere. Lei ha
mostrato che non si può pronunciare il nome di Dio e, nello stesso tempo,
continuare a difendere i propri privilegi. Ha dimostrato che una coscienza che
ama sul serio il divino non si eleva, ma perde pezzi fino a diventare
irricevibile per l’ordine comune.
Lalla non è mai riuscita a sistemare Dio in un posto che la lasciasse
tranquilla. Ha vissuto senza protezioni tra l’Uno e il fango, senza mai mettersi
al sicuro.
Bio – Lalleshwari, chiamata Lalla o Lal Ded, nasce nel XIV secolo nel Kashmir in
una famiglia brahmanica. Sposa giovanissima, abbandona la vita domestica e
intraprende un cammino spirituale legato allo Shaivismo kashmiro, in dialogo
sotterraneo con la sensibilità sufi. I suoi vakh, canti brevi in lingua
kashmira, circolano oralmente per secoli prima di essere raccolti: frammenti di
una ricerca radicale sulla dissoluzione dell’io e sulla presenza del divino
nella vita quotidiana. È oggi riconosciuta come una delle voci più potenti della
mistica del Kashmir, venerata oltre i confini religiosi.
L'articolo Il destino di Lalleshwari, nuda nel nome di Dio proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Jan van der Haar (Paesi Bassi, 1960) è poeta e traduttore letterario. Ha
pubblicato finora tre raccolte di poesie: nel 2012 Vrolijk scheppen (Creare con
allegria), nel 2014 Ouderliefde (Amore genitoriale) e nel 2019 Eerst de bries,
daarna de bomen (Prima la brezza, poi gli alberi). Nel 2011 vince il premio
Poëzie-award per la poesia “De ruil” che apre la raccolta Vrolijk scheppen,
nell’ambito del festival Utrecht su Utrecht. Nel 2015 tre sue poesie, tradotte
da Gandolfo Cascio, escono in Italia nel terzo numero di «Almanacco dei poeti e
della poesia contemporanea». Nel 2022 altre tre sue poesie, sempre tradotte da
Gandolfo Cascio, escono nel quarto numero della rivista italiana «Letteratura e
Pensiero».
Ha tradotto in nederlandese raccolte poetiche di Giorgio Bassani (Epitaffio),
Elsa Morante (Alibi) e Eugenio Montale (Altri versi), nonché circa settanta
opere in prosa quali, tra altre, Solus ad solam e Notturno di Gabriele
d’Annunzio; Kaputt, La Pelle e altre cinque opere di Curzio Malaparte; Il
giardino dei Finzi-Contini, Gli occhiali d’oro e Dentro le mura di Giorgio
Bassani; Giù la piazza non c’è nessuno di Dolores Prato; Le piccole virtù,
Lessico famigliare e Mai devi domandarmi di Natalia Ginzburg; la pentalogia M di
Antonio Scurati e Prima di noi di Giorgio Fontana.
Prima di conoscerlo personalmente, mai mi sarei immaginata che questo
infaticabile traduttore olandese di molti autori italiani di gran peso potesse
essere anche poeta, e poeta di tanta leggerezza e ironia, presenti sia quando
scrive di sé o del mondo che lo circonda. Si potrebbe dire che è la leggerezza e
l’ironia della disperazione, scaturite da una vita intensamente vissuta, a volte
tribolata, dall’infanzia fino alla maturità, quest’ultima bellamente immortalata
nella foto di Saar Rypkema. Allora, traducendolo non posso fare a meno di
sorridere con affetto a quell’adolescente in vacanza in Zelanda, confrontato con
la sua incerta identità e con la voglia e il timore di scoprire in cosa
consistono davvero le apocalissi. Traducendolo ritrovo l’adolescente che sono
stata, altrettanto incerta e in ricerca.
P.F.
***
Zomer in Zeeland I
Streekromans lezen op je buik
zoals Een nest vol tuinfluiters
op het tapijt in de pronkkamer.
Je laten afleiden door minder
leeslustigen die je Bloody Mary
lieten horen en je plooiden naar
de schrik der zee. Het was zomer
en dit was je grote logeervakantie.
Je leefde want je wist niet beter en
de wereld wilde jou doen uitvinden.
Misschien lag er wat verborgen in
de vette worstenballen bij het ontbijt.
Je was al voorgelicht in de wonderen
van het Zwarte Woud die scholen in
een pengetekende gevarendriehoek.
Je snapte er geen bal van vond het
allerminst alarmerend er was zoveel
wat je niet snapte en je was niet bang.
Je verheugde je op de zondagse bolus.
*
Estate in Zelanda I
Leggere romanzi regionali come
Un nido pieno di beccafichi disteso
prono sul tappeto del soggiorno.
Lasciarti distrarre dalla meno voglia
di leggere che Mary la Sanguinaria
ti suscitava e che ti piegava al
dominatore dei sette mari. Era estate
ed era la tua grande vacanza da ospite.
Vivevi perché non sapevi fare altro e
il mondo voleva che tu scoprissi.
Forse c’era qualcosa di nascosto
negli unti polpettoni a colazione.
Eri già informato delle meraviglie
Della Foresta Nera figurate in un triangolo
di avvertimento disegnato a penna.
Non ci capivi un tubo senza trovarlo
per niente allarmante e c’era così tanto
che non capivi e non avevi paura.
Ti rallegravi pensando al dolce domenicale.
***
Zomer in Zeeland II
Je was op zoek zonder te weten
waarnaar. Je sloop hun kamer in
deed hun kledingkast op een kier
bevoelde lingerie het ondergoed
van de heer en vrouw des huizes:
Chick was een dame op een man
die aan haar vastgeangeld oogde.
Je wist het wereldraadsel gestuit
maar hoe moest dit nu afgehecht?
Je bladerde angst en zucht door
in een poedergeel licht van buiten
dat je bij je positieven bracht. Tot
de dochter des huizes tongde helle-
kringen hemelsferen explosieven
openden Avondsterren openbaarden
apocalyptische tienerhersenspinsels
die via de aorta en de kransslagaders
je hart bereikten en er een potje van
maakten worstelend met de janboel.
*
Estate in Zelanda II
Eri in cerca senza sapere dove.
Ti intrufolasti nella loro camera
socchiudesti il loro armadio
palpasti la biancheria intima
del signore e della signora di casa:
la rivista con una madama su un
uomo come inchiodato a lei. Sapevi di
esserti imbattuto nell’enigma del mondo
ma cosa dovevi fare per scioglierlo?
Sfogliasti angosce e sospiri
nella luce di fuori giallognola
che ti fecero tornare in te. Finché
la figlia di casa non si mise a slinguare
aprendo bolge infernali esplosive sfere
celesti svelando stelle serali spiattellanti
apocalissi adolescenziali che attraverso
l’aorta e le arterie coronarie avrebbero
raggiunto il tuo cuore provocando un
tumulto in lotta con il caos che era il tuo.
***
Zomer in Zeeland III
Het platenmeubel was een toverdoos op poten
die Sophietje ranja liet drinken met een rietje.
En zo was alles nieuwer dan je nieuw wist.
Boven stond de kaptafel van de gastvrouw
met twee zijspiegels die onbekende slinkse
kanten boden van je onvermoede profiel.
IJzend viel je blik op een wit piepschuimen
dameshoofd met een krullentooi: de pruik
van je onechte tante voelde je. Hij glansde
aubergine en geurde zacht naar sandelhout.
Met trillende handen pakte je het wonder op
en misschien is daar je zelfspot wel ontstaan.
Je greep met een ruk naar een lipstick bracht
die naar je mond. Hij maakte fiere felle vegen
die je nog meer deden gruwen van je eigen ik
en je mijmerde waarom ben ik ook geen vrouw
dan kon ik iemand anders wezen iemand die
zich van zichzelf zou weten te verlossen.
Mocht de ultieme, tomeloze verlossing bestaan.
*
Estate in Zelanda III
Il mobile dei dischi era una scatola magica su gambe
che faceva bere a Ninuccia cedrate con la cannuccia.
E così tutto era più nuovo di quanto tu trovassi nuovo.
Al piano di sopra c’era la toletta della signora
con due specchietti laterali che riflettevano
lati sconosciuti del tuo inaspettato profilo.
Il tuo sguardo cadde aborrito su una testa di donna
di polistirolo bianco con sopra un copricapo ricciuto:
era la parrucca della tua finta zia. Scintillava color
melanzana e odorava leggermente di legno di sandalo.
Con mani tremanti prendesti la meraviglia ed è forse
proprio allora che nacque la tua autoironia.
Con uno scatto afferrasti un rossetto e te lo portasti
alle labbra. Impresse fieri sfregi sgargianti che
ti fecero ancora più inorridire di te stesso
e riflettesti sul perché non eri anche tu una donna
nel qual caso avresti potuto essere qualcun altro
in grado di liberarsi di se stesso.
Fosse mai esistita l’ultima e smodata redenzione.
***
Zomer in Zeeland IV
De juunlucht zinnenprikkelde je wangen
en de zilte kreten van de zwaluwen boven
je hielden de verwachtingen laag gestemd.
Het eten was telkens een dringende massa
om doorheen te werken zonder morren
met beschaafde ellebogen zonder smakken.
Het Onze Vader van onechte tante was
inmiddels uitgejengeld: ‘Uw naam worde
hegeiligd…’ en dat hebeurde in de gemelen.
O de gebakken eieren met spek sputterden
in de pan en knisperden op je tarweboterham.
Om de beurt klonk: ‘Here zehen deze spijze.’
De dochter des huizes gaf je goede bekomst:
‘Jananne zumme hen vrieje?’ Je schrok helegans.
Het klonk alsof je mee moest naar het stadhuis.
De trap op naar de hanenbalken naar het hokje
met veel houtbetimmering en daar vlijde je
de Zeeuwse Jacoba neer op een paardendeken
om kuis en koninklijk over haar heen te buigen.
*
Estate in Zelanda IV
L’aria cipollosa ti pizzicava le guance
e le grida saline delle rondini sopra di te
tenevano accordate basse le aspettative.
Il pasto era ogni volta una massa pressante
da ingollare senza brontolare masticando
a bocca chiusa e con gomiti ben educati.
Il Padre nostro della finta zia cominciava
intanto a gragnolare: “Sia santificato il tuo
nome…” e quello accadeva nei cieli.
Oh le uova fritte in padella con la pancetta
e sfrigolanti sulla tua fetta di pane. A turno
risuonava: “Signore benedici questo cibo.”
La figlia di casa ti dava più che a sufficienza:
“Jananne vieni con me?” Da rimanerci stecchito.
Come se tu dovessi accompagnarla all’altare.
Dalle scale fino alle travi portanti fino al gabbiotto
con rivestimenti in legno e lì ti mettevi a coccolare
la zelandese Jacoba stesa su una coperta per cavalli
chinandoti su di essa casto e solenne.
L'articolo Jan van der Haar e le apocalissi della vita (Traduzione di Patrizia
Filia) proviene da Il Fatto Quotidiano.
Un libro di poesia, nel 2025, è già di per sé un atto politico. Una resistenza,
un’affermazione che rifiuta la bulimia del consumo narrativo e la logica del
fast-food editoriale. Ma l’ultima fatica di Matteo Bianchi, Christopher
(Interlinea), va oltre. È una scommessa giocata sul tavolo verde della
malinconia più acuta, quella che affonda le mani nei calcinacci della Storia e
nei brandelli delle vite marginali.
Non aspettatevi i versi sussurrati, i vezzi lirici da salotto buono. Qui siamo
in trincea. Siamo di fronte a un’ibridazione dolente e precisa, dove la parola è
un bisturi affilato e non un orpello. Bianchi, giornalista de Il Sole 24 Ore e
Left, filologo formatosi su Corrado Govoni e autore di saggi come Il lascito
lirico di Corrado Govoni (Mimesis, 2023), ma soprattutto erede – non solo ideale
– di Roberto Pazzi, non cerca l’applauso facile. Cerca i margini, i rottami
preziosi, le figure che hanno detto no.
La struttura è un trittico, quasi un polittico affrescato sul muro di un bar
parigino a notte fonda. Un poème en prose a stazioni, suddiviso in quattro
“soglie”— del sé, dell’amore, dell’inappartenenza, della memoria —, che non
scandiscono un tempo cronologico, ma simbolico. Tre anime apparentemente
distanti, tre declinazioni della sconfitta che, lette da Bianchi, diventano le
stigmate di un’identica, ostinata, fragilità irriducibile: Christopher Channing,
l’artista queer, il notturno, il guitto, l’attore che si muove in bilico tra il
nudo esibito e la maschera di cipria, tra la lingua di Manchester e la
malinconia parisienne. La sua è la resistenza del corpo che si fa linguaggio,
dell’identità che rifiuta l’etichetta borghese. È l’emblema di una vita ai
margini. In Channing si annida il desiderio di non omologazione che è proprio di
chi, per esistere, deve inventarsi ogni giorno, frantumando il genere biografico
per restituirci visioni dense tra carne e mito; Roberto Pazzi, il maestro.
L’intellettuale esemplare. La figura che nel panorama culturale attuale è a
malapena un fantasma, l’ultimo alfiere di una cultura che rifiuta il consumo e
la finzione. Pazzi, di cui Bianchi dirige il Centro Studi, è il punto fermo
etico, il peso specifico che misura la distanza siderale tra il Pensiero e il
chiacchiericcio da talk-show. È il silenzio eloquente contro il rumore del
vuoto. La poesia qui si fa dialogo con un maestro; Napoleone Bonaparte, non il
generale di Austerlitz, non la macchina da guerra, ma il vinto dell’Elba,
l’esule, il nostalgico rifugiato nella propria disfatta, colto in prose rade,
quasi da taccuino. La figura storica viene spogliata del mito per rivelare
l’uomo che resiste a scomparire. È l’imperatore detronizzato che ci ricorda che
la vera grandezza non è nella vittoria, ma nell’ostinazione a non annullarsi,
anche quando si è ridotti a una zolla d’esilio.
Bianchi maneggia la materia con una sapienza formale che è tutt’altro che
fredda. L’ibrido è la sua cifra: prosa lirica, verso che si spezza, citazione
che si fa scheggia. È la lingua di chi ha letto i classici – e non li ha
dimenticati –, ma sa che la loro eco deve risuonare nel baccano delle nostre
periferie esistenziali. Come il poeta stesso ha sostenuto sulla rivista
semestrale che dirige, Laboratori critici, il poeta scrive e dimentica: non
costruisce monumenti con le parole e non conserva un’identità fissa. La
dimenticanza non è perdita, ma condizione necessaria affinché a parlare sia il
mondo, allentando la presa asfissiante dell’io lirico. La poesia non scaturisce
dalla memoria che trattiene, ma dalla memoria che si disfa e ritorna sotto forma
di frammenti. Un debito evidente con il parigino Michel Deguy, che ha teorizzato
la “dérive” del senso, una dislocazione del presente nel movimento del
linguaggio.
Christopher non è solo un libro sulla poesia, ma è un libro sulla necessità
della Poesia come atto di fede nel passato che illumina l’oggi. È un’opera che
dovrebbe essere letta da chiunque creda ancora che esista un’altra via, che
esista una cultura non vendibile, non consumabile. È la testimonianza che la
fragilità, se irriducibile, si trasforma nella forma più potente di protesta. E
in tempi di influencer e dittatura del banale, questo libro di Matteo Bianchi —
con la prefazione di Giancarlo Pontiggia e la nota finale di Tommaso Di Dio — è
una granata in biblioteca. Leggetelo, se avete il coraggio di confrontarvi con
la bellezza che nasce dalla sconfitta personale.
L'articolo “Christopher”, di Matteo Bianchi: quando la poesia non si arrende al
mercato proviene da Il Fatto Quotidiano.
Gojko Božović è nato nel 1972 a Pljevlja, in Montenegro, e vive a Belgrado, dove
si è laureato alla Facoltà di Filologia. Poeta, saggista, critico letterario,
editore e fondatore della casa editrice Arhipelag, possiede una rara proprietà
della parola che ha sperimentato il senso dell’esperienza nelle sue pieghe più
nascoste, in cui ogni cosa vissuta è potenziale parola poetica. Il contenuto è
collegato al titolo stesso delle poesie e chiarisce il concetto della
originalità stilistica del verso. Poeta minimalista malinconico, Gojko Božović,
con temi che sembrano ovvi, ha creato una riflessione profonda sulle cose e sul
nostro sguardo su di esse, per mezzo di una lingua metaforica moderna, sia nella
forma che nel contenuto.
Ha pubblicato diverse raccolte di poesia tra cui: Cinema sotterraneo (1991),
Poesie sulle cose (1996), Arcipelago (2002), Gli dei vicini (2012), Mentre
scompariamo nel buio (2021). Tra i saggi pubblicati molti riguardano la storia
della poesia serba: I luoghi che amiamo. Saggi sulla letteratura serba (2009), I
regni senza confini. Saggi sulla poesia serba del XX e XXI secolo (2019),
Nascita della poesia (2023). Tradotto in diverse lingue, ha ricevuto premi
nazionali e internazionali tra cui il premio italiano “Europa Giovani
International Poetry Prize”. È ideatore e organizzatore del Beogradski festival
evropske književnosti (Festival belgradese di letteratura europea).
S.Š
Odisseo
Una volta che me ne sono andato,
E non tornerò più.
Non tornerò più.
Verrà qualcun altro,
Con il mio nome e con il mio volto.
Parlerà con la mia lingua
E avrà la cicatrice
Sulla gamba destra.
Nessuno mi riconoscerà per questo.
Non tornerò più.
Musica per le tue orecchie
Le cose importanti sono trascorse.
Tutto ciò che doveva è già accaduto.
I re sono caduti, i miti raccontati,
La Repubblica distrutta con l’indifferenza nelle botti.
Il vino, instabile, matura nelle botti
I fiumi sono incanalati nei tubi
E i tubi buttati nella spazzatura.
Sono ancora lì, perché la spazzatura
Non butta niente, non si
Rimette in una posizione di alternativa.
Quello che non è accaduto
È la vita in cui non siamo entrati,
Sono alcune vite
Che non sono né nostre, né altrui,
Né dei nati, né dei non nati,
Né la vita, né la morte.
Bisogna rinnovare il racconto,
Alla foce soddisfare la sete
Sentire la voce del vento
Tra i corpi dei palazzi.
I giovani, uomini chiassosi
Distruggeranno le lettere del canone
Nel loro fischio sarà composto
Il concerto soltanto per le tue orecchie.
Quando tutto sarà passato
Una volta, quando tutto sarà passato,
E tutto passerà,
Tutto quello che dura per giorni
E per mille giorni,
E anni
E per mille anni,
Finirà in un giorno,
Quando tutti alzano la testa
Chinata dalla paura,
Di menzogne a poco prezzo
E di costosi prestiti,
In un primo momento,
Non ci sarà nessuno vicino,
Ci sarà lo spazio vuoto,
Libero spazio dove sarai solo,
E tutto ciò che saprai sarà: che sei solo,
Ognuno s’incontrerà
Solo con se stesso,
Un giorno, quando tutto finirà.
Il taglio
Quando sono nato
Avevo
Più anni di adesso
Prima di questo
La mia memoria
Era migliore
Solo che dopo
Perdevo tempo
Tra due parole
Tra due parole
Tra due secoli
Giaceva la poesia
La parola è troppo carnale
Per essere poesia
La poesia è bella
Quanto lo permettono
Le circostanze
Come in cielo
Così in terra
Teoria della discarica
Alla discarica incantata
Nella patria delle rose
È seduta bellezza la bestia
La discarica è
Tra sogno e realtà
Nel vecchio posto
Mia cara bellezza
Mia amata bestia
Parla
In una delle sue
Lingue mute
Parla
Mentre da tutte
Le parti del mondo
Ti saluta
Graziosa bruttezza
Il cimitero di casamatta
Dalla casamatta
Arriva l’umanesimo
Là è il posto
Di lavoro della Bibbia
Da lì arrivano
Divinità e i giusti
con l’agnello
Tra i denti
Dal cimitero di casamatta
Si va soltanto
In paradiso
Perché altre strade non ci sono
E neppure le casematte.
Il diluvio
Nel baule di Noè
È entrato tutto il mondo
Tempo e spazio
Uno di ciascuno
C’era
Tutto c’era
Perché
Le forme si ripetono
Il diluvio ha coperto tutto
Tranne le anime che sono
Nel mondo alluvionato.
La scelta
Noi non abbiamo scelta,
E la nostra scelta è facile.
All’alba raccogliere la rugiada.
A mezzogiorno entrare nell’ombra.
Al crepuscolo sapere che
Il mattino è più saggio della sera.
E riflettere
Mentre aspetti le notizie.
Mentre aspetti amici e nemici,
Mentre niente dici e ancor di più
Mentre parli,
Mentre gli altri parlano
E soprattutto mentre stanno zitti,
E mentre la città in cui vivi
È la stella solitaria
All’orizzonte lontano.
Dietro lo specchio dell’automobile
Conosco molto bene le immagini che passano
Da ambedue le parti della strada
Nella notte buia
Dietro lo specchio dell’automobile.
Il buio nasconde le immagini
Che chiare vedo nel ricordo.
Tante volte sono passato da quella parte
Che so esattamente dove sono le cose.
Sono io quel movimento
Tra le immagini nel buio
E le immagini nel ricordo.
L'articolo Gojko Božović, poeta minimalista (Traduzione di Stevka Šmitran)
proviene da Il Fatto Quotidiano.
Entra nel vivo la seconda edizione del Festival Internazionale di Poesiaterapia
d’Italia che si chiude domenica 30 novembre ed è intitolato Attraverso. Parole
di benessere per ogni età, avendo come filo conduttore la Poesiaterapia nelle
età evolutive. La manifestazione curata da Mille Gru APS e PoesiaPresente –
Scuola di Poesia di Monza, si svolge in collaborazione con ASST Brianza con il
contributo di Fondazione della Comunità di Monza e Brianza e Fondazione Cariplo.
E si struttura in un convegno internazionale in presenza, quattro tavole rotonde
online e via zoom con esperti di Poesiaterapia italiani e stranieri, tre mostre,
uno spettacolo di poesia seguito da un reading e due laboratori di formazione.
Dopo le anteprime dei giorni scorsi, giovedì 27 novembre è il giorno della
partenza ufficiale della manifestazione con quattro tavole rotonde online e su
zoom con relatori italiani e internazionali. Dalle 8.30 fino alle 21.30 sono in
programma talk dedicati ai diversi periodi della vita. Si comincia con un focus
sull’adolescenza a cui sono dedicati i primi due incontri con la campionessa
mondiale di Poetry Slam 2024 Lady La Profeta, la scrittrice, poetessa e
danzaterapista Valentina Giordano, l’autrice per ragazzi Azzurra D’Agostino, il
coordinatore e responsabile pedagogico di Anno Unico, scuola per adolescenti che
non vanno a scuola, Davide Fant, il poeta Slammer sudafricano Xabiso Vili,
campione mondiale di Poetry Slam 2022, l’autrice Alessandra Racca, la psicologa
e poeta-performer Viola Margaglio, la poeta performer siciliana Eleonora Fisco.
Il terzo talk (ore 15-17) è, invece, dedicato all’infanzia. Fra i relatori la
poetaterapeuta ed educatrice transdisciplinare spagnola María Ortega García, il
docente e poeta Giacomo Nucci, la libraia Chiara Basile, l’autrice per ragazzi
Giusi Quarenghi, mentre l’ultimo incontro (18.30-21.30) volge lo sguardo all’età
adulta che verrà indagata grazie alla voce dell’inglese Jon Sayers, coach
psicodinamico e facilitatore di scrittura espressiva, la co-presidente
dell’International Academy for Poetry Therapy messicana Alejandra Monroy Sauri,
la fondatrice dell’International Barcelona Journaling Festival Marusha
Mozolevskaya, la psicofisiologia Sara Della Giovampaola e la psicoterapeuta
della Gestalt Leonora Cupane.
Venerdì 28 novembre, alle ore 20.30, presso lo spazio di PoesiaPresente di via
Donatello 12 a Monza, si terrà lo spettacolo di poesia con testi e poesie di
Silvia Vecchini, la drammaturgia di Dome Bulfaro e il Coro DiVerso della scuola
di Poesia PoesiaPresente. Segue alle 21.30 un incontro fra Silvia Vecchini e
l’editrice Giovanna Zoboli a partire dall’ultimo libro dell’autrice C’è una
poesia che ti aspetta (Topipittori). Sabato 29 novembre, invece, è in calendario
il convegno internazionale, con ospiti dal vivo presso l’Auditorium
dell’Ospedale di Vimercate. La mattina sarà dedicata a interventi su Saperi
generali in rapporto alla poesia come cura grazie alle riflessioni
dell’epistemologa Barbara Sangiovanni, la poeta Silvia Vecchini, la
professoressa della Sigmund Freud University Tamara Trebes, il professore
dell’Università di Torino Vincenzo Alastra, la poeta, esperta di poesia e
Alzheimer Franca Grisoni. Il pomeriggio, invece, è volto a esplorare gli
interventi pratici specifici di Poesiaterapia: Paola Perfetti illustrerà
l’esperienza nel primo villaggio Alzheimer in Italia, Il Paese Ritrovato di
Monza, mentre il poeta americano Gary Glazner ripercorrerà le pratiche
dell’Alzheimer’s Poetry Project da lui diretto. Il ruolo della Biblioterapia nel
lutto viene espresso dalla professoressa dell’Università di Ghent Dimitra
Didangelou, mentre la poesia orientale sarà ricordata dalla docente
dell’Università di Padova Ines Testoni, direttrice del Master CAT (Creative Arts
Therapies) insieme alla scrittrice e tanatologa Laura Liberale, coordinatrice
del master. I laboratori teatrali e di medicina narrativa per l’umanizzazione
delle cure e per il sostegno alla popolazione adolescente saranno infine
approfonditi dall’educatore professionale e counselor biosistemico dell’Ospedale
Cona di Ferrara Alberto Urro e dal Project Manager per la formazione presso le
Aziende AUSL e l’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Ferrara Michele Dalpozzo.
Infine, Dome Bulfaro, docente presso l’Università di Verona e fondatore con
Simona Cesana di PoesiaPresente – Scuola di Poesiaterapia di Monza, concluderà i
lavori con un intervento dedicato alla cura del proprio giardino interiore. Il
festival termina domenica 30 novembre, nella sede di PoesiaPresente, con due
laboratori di formazione in Poesiaterapia condotti rispettivamente da Dimitra
Didangelou e Dome Bulfaro e da Tamara Trebes e Luca Buonaguidi.
L'articolo “ATTRAVERSO. Parole di benessere per ogni età”, al via il secondo
Festival Internazionale di Poesiaterapia proviene da Il Fatto Quotidiano.
Per prima cosa mi sono chiesto se fosse il caso di dire chi fosse Vinicius de
Moraes. La risposta è stata “sì”, perché il tempo passa e il Brasile è un posto
lontano. Poi mi sono chiesto cosa potessi dire su Vinicius. La risposta è stata
“niente, o quasi”. Se non: Vinicius è stato più che un poeta, è stato una
“ricetta di poeta”, un uomo che è vissuto “in” poesia, “per” la poesia, “con” la
poesia. In modo umanissimo e umile, come solo nella povera quotidianità
latino-americana si può ancora fare, lui che povero non era ma brasiliano sì,
profondamente, totalmente.
Anche in questo, soprattutto, è stata la sua grandezza: l’aver traghettato una
poesia gigantesca e indimenticabile, coltissima ma popolare, dal libro alla
strada, al bar, alla canzone. Alla vita.
M.D.
Soneto da fidelidade
De tudo ao meu amor serei atento
Antes, e com tal zelo, e sempre, e tanto
Que mesmo em face do maior encanto
Dele se encante mais meu pensamento.
Quero vivê-lo em cada vão momento
E em seu louvor hei de espalhar meu canto
E rir meu riso e derramar meu pranto
Ao seu pesar ou seu contentamento.
E assim, quando mais tarde me procure
Quem sabe a morte, angústia de quem vive
Quem sabe a solidão, fim de quem ama
Eu possa me dizer do amor (que tive):
Que não seja imortal, posto que é chama
Mas que seja infinito enquanto dure.
*
Sonetto della fedeltà
Su tutto, al mio amore sarò attento
per primo, e con tal zelo, e sempre, e tanto
che pure di fronte al più grande incanto
di lui sia maggiore l’incantamento.
Voglio viverne ogni vano momento
ed in suo onore spargere il mio canto
ridere il mio riso, versare il pianto
alla sua gioia oppure al suo scontento.
Così, quando mi cercherà la morte,
ansia del vivo, o dalla solitudine,
destino di chi ama, io sia inseguito,
mi dica (dell’amore avuto in sorte):
che non è immortale, poiché è di fiamma,
ma fino a quando dura è infinito.
***
Soneto de separação
De repente do riso fez-se o pranto
Silencioso e branco como a bruma
E das bocas unidas fez-se a espuma
E das mãos espalmadas fez-se o espanto.
De repente da calma fez-se o vento
Que dos olhos desfez a última chama
E da paixão fez-se o pressentimento
E do momento imóvel fez-se o drama.
De repente, não mais que de repente
Fez-se de triste o que se fez amante
E de sozinho o que se fez contente.
Fez-se do amigo próximo o distante
Fez-se da vida uma aventura errante
De repente, não mais que de repente.
*
Sonetto di separazione
All’improvviso il riso si fa pianto
silenzioso e bianco come la bruma
e delle bocche unite si fa schiuma
e delle mani aperte disincanto
D’improvviso la calma si fa vento
che degli occhi disfà l’ultima fiamma
la passione si fa presentimento
e il momento immoto si fa dramma
D’improvviso, non più che in un momento
si fa triste colui ch’è stato amante
ed è solo chi prima era contento
Si fa l’amico prossimo distante
si fa la vita un’avventura errante
d’improvviso, non più che in un momento
***
Poema de Natal
Para isso fomos feitos:
para lembrar e ser lembrados
para chorar e fazer chorar
para enterrar os nossos mortos –
por isso temos braços longos para os adeuses
mãos para colher o que foi dado
dedos para cavar a terra.
Assim será nossa vida:
uma tarde sempre a esquecer
uma estrela a se apagar na treva
um caminho entre dois túmulos –
por isso precisamos velar
falar baixo, pisar leve, ver
a noite dormir em silêncio.
Não há muito o que dizer:
uma canção sobre um berço
um verso, talvez de amor
uma prece por quem se vai –
mas que essa hora não esqueça
e por ela os nossos corações
se deixem, graves e simples.
Pois para isso fomos feitos:
para a esperança no milagre
para a participação da poesia
para ver a face da morte –
de repente nunca mais esperaremos…
Hoje a noite é jovem; da morte, apenas
nascemos, imensamente.
*
Poesia di Natale
Per questo siamo fatti:
per ricordare ed esser ricordati
per piangere e far piangere
per interrare i nostri morti –
per questo abbiamo braccia lunghe per gli addii
mani per cogliere ciò che è dato
dita per scavare la terra.
Così sarà la nostra vita:
una sera sempre a scordare
una stella a spegnersi nella tenebra
un sentiero fra due tumuli –
per questo dobbiamo vegliare
parlar basso, camminare piano, guardare
la notte dormire in silenzio.
Non c’è molto da dire:
una canzone sopra una culla
un verso, a volte di amore
una preghiera per chi se ne va –
ma quell’ora non si scorda
ed è lì che i nostri cuori
si abbandonano, gravi e semplici.
Perché per questo siamo fatti:
per la speranza nel miracolo
per la partecipazione della poesia
per vedere la faccia della morte –
d’improvviso non attenderemo più…
Oggi la notte è giovane; dalla morte appena
siamo nati, immensamente.
Vinicius de Moraes (1913-1980) è stato un poeta, paroliere e diplomatico
brasiliano. È noto per aver contribuito alla nascita della Bossa nova,
collaborando con Tom Jobim. Tra le sue canzoni più celebri: Garota de Ipanema e
Chega de Saudade. La sua poesia fonde lirismo, passione e spiritualità. Ha
lasciato un segno profondo nella cultura brasiliana del XX secolo.
L'articolo Vinicius de Moraes, che altro? (Traduzione di Massimiliano Damaggio)
proviene da Il Fatto Quotidiano.
Cemal Süreya (1931-1990) è stato uno dei maestri del “Secondo Nuovo”,
l’avanguardia modernista che ha segnato la poesia turca negli anni Cinquanta e
Sessanta. Nato nell’Est della Turchia, ha pubblicato sei raccolte di poesia (la
prima nel 1958, le ultime due nel 1988), cinque raccolte di saggi, traduzioni,
vignette e ha diretto la rivista chiave della letteratura turca degli anni
Sessanta, Papirüs. I suoi versi sono carichi di sensualità, erotismo, ironia,
hanno trame sonore molto ricche eppure sono immediati, restano incisi nella
memoria. Questi elementi fanno sì che in Turchia Süreya sia conosciuto da un
pubblico molto vasto, anche di giovani; le sue poesie sono riprodotte su gadget
di ogni tipo e spesso gli sono attribuite poesie che non ha mai scritto.
Insomma, un vero e proprio classico moderno.
Una raccolta di novantanove sue poesie è stata pubblicata in italiano da
Bompiani nel 2025 con il titolo Tutte le canzoni di Istanbul, a cura di Nicola
Verderame. Da questa raccolta sono tratte le poesie qui riprodotte per gentile
concessione delle case editrici Bompiani e Can Yayınları.
N. V.
Adam
Adam şapkasına rastladı sokakta
Kimbilir kimin şapkası
Adam ne yapıp yapıp hatırladı
Bir kadın hatırladı sonuna kadar beyaz
Bir kadın açtı pencereyi sonuna kadar
Bir kadın kimbilir kimin karısı
Adam ne yapıp yapıp hatırladı.
Yıldızlar kıyamet gibiydi kaldırımlarda
Çünkü biraz evvel yağmur yağmıştı
Adam bulut gibiydi, hatırladı
Adamın ayaklarının altında
Yıldızların yıldız olduğu vardı
Adam yıldızlara basa basa yürüdü
Çünkü biraz önce yağmur yağmıştı.
(1953)
*
Adam
L’uomo trovò il suo cappello per la via
Chissà di chi era quel cappello
L’uomo tanto fece che ricordò
Ricordò una donna bianca fino in fondo
Una donna aprì la finestra fino in fondo
Una donna, moglie di chissà chi
L’uomo tanto fece che lo ricordò.
Le stelle erano un finimondo sui marciapiedi
Perché poco prima era piovuto
L’uomo era come una stella, ricordò
Sotto i suoi piedi le stelle
Erano stelle vere
L’uomo camminò pestandole
Perché poco prima aveva piovuto.
(1953)
***
Güzelleme
Bak bunlar ellerin senin bunlar ayakların
Bunlar o kadar güzel ki artık o kadar olur
Bunlar da saçların işte akşamdan çözülü
Bak bu sensin çocuğum enine boyuna
Bu da yatak olduğuna göre altımızdaki
Sabahlara kadar koynumda yatmışsın
Bak bende yalan yok vallahi billahi
Sen o kadar güzelsin ki artık o kadar olur
İşe bak sen gözlerin de burda
Gözlerinin ucu da burda yaşamaya alışık
İyi ki burda yoksa ben ne yapardım
Bak çocuğum kolların işte çıplak işte
Bak gizlisi saklısı kalmadı günümüzün
Gözlerin sabahın sekizinde bana açık
Ne günah işlediysek yarı yarıya
Sen asıl bunlara bak bunlar dudakların
Bunların konuşması olur öpülmesi olur
Seni usulcu öpmüştüm ilk öptüğümde
Vapurdaydık vapur kıyıdan gidiyordu
Üç kulaç öteden İstanbul gidiyordu
Uzanmış seni usulca öpmüştüm
Hemen yanımızdan balıklar gidiyordu
(1954)
*
Elogio
Guarda queste sono le tue mani questi i tuoi piedi
Sono belli che più non si può
E questa la tua chioma disfatta da ieri sera
Guarda, piccola, sei tu tale e quale
E visto che questo sotto di noi è un letto
Hai dormito fino al mattino tra le mie braccia
Guarda che non mento lo giuro
Sei così bella che più non si può
Ecco anche i tuoi occhi sono qui
La tua coda dell’occhio è abituata a vivere qui
E meno male ch’è qui sennò cosa farei
Guarda piccola le tue braccia sono nude ecco
Guarda il nostro giorno non ha più segreti
Le otto di mattina i tuoi occhi sono aperti per me
Ogni peccato tra noi è da spartire a metà
Tu guardale sono le tue labbra
Sanno parlare si fanno baciare
Teneramente le ho baciate la prima volta
Eravamo sul traghetto, viaggiava sotto costa
Tre braccia più in là scorreva Istanbul
Mi sono chinato a baciarti dolcemente
I pesci scorrevano via accanto a noi
(1954)
***
Cıgarayı Attım Denize
Şimdi bir güvercinin uçuşunu bölüşüyoruz
Gökyüzünün o meşhur maviliğinde
Uzun saçlı iri memeli kadınlarıyla
Bir Akdeniz şehri çıkabilir içinden
Alıp yaracak olsak yüreğini
Şimdi bir güvercinin
Şimdi sen tam çağındasın yanma varılacak
Önünde durulacak tam elinden tutulacak
Hangi bir elinden güzelim hangi bir
Bir elinde kızlığın duruyor garip huysuz
Öbür elinde yetişkin bir günışığı
Daha öbür elinde de kilometrelerce hürlük
Çalışan insanlar için akşamlara kadar
Toz duman içinde
Bir elinle de boyuna ekmek kesiyorsun
Biz eskiden de en aşağı böyleydik şenlen
Bir bulut geçiyorsa onu görürdük
Bir minarenin keyfine diyecek yoksa onu
Bir adam boyuna yoksulluk ediyorsa onu
Ne zaman hürlüğün barışın sevginin aşkına
Bir cıgara atmışsak denize
Sabaha kadar yandı durdu
(1954)
*
Ho gettato in mare il mozzicone
Ora condividiamo un volo di colombo
In quel famoso azzurro del cielo
Con donne dai lunghi capelli e grandi seni
Una città mediterranea può spuntare
Se adesso fendiamo il cuore
Di una colomba
Adesso hai l’età perfetta perché mi avvicini
Mi pianti di fronte a te, ti prenda la mano
Ma quale mano, mia bella, quale
In una tieni una verginità strana e irrequieta
Nell’altra una matura luce del giorno
Nell’una chilometri di libertà
Con l’altra tagli fette di pane
Per chi lavora da mattina a sera
Tra la polvere e il fumo
Un tempo almeno anche noi eravamo così
Se passava una nuvola la vedevamo
Se un minareto gioiva, nulla da dire
Se un uomo era misero fino in fondo
Se gettavamo in mare un mozzicone
In nome d’amore pace affetto libertà
Continuava a bruciare fino al mattino
(1954)
***
İşte Tam Bu Saatlerde
İşte tam bu saatlerde bir yara gibidir su
Yeni deşilmiş uçlarında sokakların, küçük uçlarında.
Senin güneş sarnıcı gözlerin
Ölüm yası içindeki bir evde
Olmaması gereken bir şey gibi, kırılan bir ayna gibi.
Bu saatlerde.
Çarmıhını yanından eksik etmeyen bir İsa gibi
Merdiven taşıyan bir adam görüyoruz
Sırtında on iki basamak taşıyan bir adam görüyoruz
Bu adamı ne kadar çok seviyorum, bu kuşu ne kadar
Sen ne seviyorsun sen zaten sevince
Alnınla ayıklarsın yeryüzünü,
Çardaklar binaların ağızlarında
Aşar gider kendi sınırlarını,
Köpekler gizli bir dağı havlar.
Bunlar iyidir diyorum bunlar senden haberli,
Yoksa nerden bilecekler
Karbon sınırında yaşayan balıklar
Kovadan sızan hicret gününü,
Peygamberin parmaklarına asıp paltolarını
Nasıl girecekler tanrıevine
Mucizesever müslümanlar,
Ve On Binlerin Dönüşü sırasında
Greklerin keçilerle çiftleştiği
Dağ yolları neyle donanacak?
Yine de yine de sevişirken
Kullandığımız her kelime
Hırsızın devirdiği eşya.
Minibüslerle morarmış sokaklar
Buğdayın parayla değişildiği
Paranın ekmekle değişildiği
Ekmeğin tütünle değişildiği
Tütünün acıyla değişildiği
Ve artık hiçbir şeyle değişilmediği acının.
O sokaklarda.
Saatler yağmuru gösteriyor,
Bugün bu küçük salı günü
Her şeyi eksik İstanbul’un, tepelerinden başka,
Yalnız Galata
Galata
Gecenin bodrumlarında beslediği
O tükenmez paslanma tutkusunu
Bir ağız mızıkası halinde
Denize yediriyor yavaş yavaş
(1965)
*
Ecco proprio in queste ore
Ecco proprio in queste ore è come una piaga l’acqua
Negli anfratti nei minuscoli anfratti appena crivellati
delle vie.
I tuoi occhi cisterne di sole
Dentro una casa in lutto sono un qualcosa
Che non dovrebbe esistere, uno specchio rotto.
In queste ore.
Come un Cristo che non si separa mai dalla croce
Vediamo un uomo portare una scala
Una scala di dodici pioli sulle spalle
Quanto amo quest’uomo, quanto amo quest’uccello
Cos’è che ami tu? Quando ami tu
Mondi la terra con la fronte,
Le pergole davanti ai fabbricati
Oltrepassano i loro limiti,
I cani abbaiano a caccia di un monte segreto.
Bene tutto questo dico io tutti sanno tutto di te
Se no come farebbero
I pesci al limite del monossido di carbonio
A conoscere il giorno dell’esodo che cola dalla bacinella,
Come potrebbero entrare nella casa di Dio
Appendendo i paltò alle dita del Profeta
I musulmani amanti dei miracoli,
E al rientro dei Diecimila dell’Anabasi
Con cosa si adornerebbero i sentieri sui monti
Dove i greci si accoppiavano con le capre?
E ancora e ancora mentre facciamo l’amore
Ogni parola che pronunciamo
È un oggetto rovesciato dal ladro.
Strade tinte di violetto dai minibus
Dove il frumento si scambia con denaro
Il denaro si scambia con il pane
Il pane si scambia col tabacco
Il tabacco col dolore
E il dolore non si scambia più con nulla.
In quelle strade.
Gli orologi segnano pioggia
Oggi in questo piccolo martedì
Manca tutto a Istanbul, tranne le colline
Soltanto Galata
Galata
Quella sua inesauribile voglia d’arrugginire
Che coltiva negli scantinati della notte
Sotto forma d’armonica a bocca
Lentamente la dà in pasto al mare
(1965)
L'articolo Cemal Süreya, Maestro dell’avanguardia modernista turca (Traduzione
di Nicola Verderame) proviene da Il Fatto Quotidiano.