Nelle foto della famiglia nel bosco rivedo lo stesso romanticismo e i rischi di Captain Fantastic

Il Fatto Quotidiano - Monday, December 1, 2025

Nelle foto apparse sui giornali sembrano una piccola tribù sbucata da un’altra epoca: madre, padre, tre figli con gli occhi spalancati sul mondo e un rudere fatiscente che sembra un’estensione della loro pelle. Non vengono dalle montagne di Washington, non hanno un bus rosso scassato come quello dei Cash, ma la loro storia – una famiglia italiana che ha deciso di vivere nel bosco di Palmoli, in Abruzzo, lontano dal rumore ben oliato della civiltà – ha la stessa vertigine romantica e lo stesso rischio di Captain Fantastic: costruirsi un mondo proprio e sperare che non crolli al primo colpo di vento. Perché “i Cash italiani”, anche se non hanno mai preteso titoli, dicono solo: volevamo respirare.

La frase, così nuda, fa quasi ridere noi che viviamo tra notifiche, traffico e medianità permanente: respirare? In che senso? Ma allora leggi, ascolti, guardi ciò che hanno costruito. Poi ti immergi davvero nella loro storia: un bosco autentico, ruvido, niente glamping né amenities, niente casette pettinate da Instagram, nessuna consolazione da weekend benestante, e all’improvviso tutto torna. C’è quel silenzio nervoso che precede ogni scelta radicale. È il “no” che diventa un’architettura di vita.

Nel film Captain Fantastic, la casa dei Cash è una cabina di legno autocostruita. Non c’è elettricità, o meglio: c’è un pannello solare che funziona quando vuole lui. La dispensa è fatta di vasetti, radici, piccoli miracoli agricoli. I bambini studiano con libri vissuti e un programma che non assomiglia a nessun programma ministeriale: storia, botanica, manualità, filosofia politica, molto più del necessario per sopravvivere e giusto il superfluo per restare umani.

I cinque ragazzini protagonisti del film si svegliano all’alba, si arrampicano sugli alberi, sanno cacciare, distinguere i vari tipi di corteccia meglio di quanto i coetanei distinguano tra un avverbio e un congiuntivo, e conoscono a memoria emendamenti della Costituzione americana e al posto del natale festeggiano “La giornata di Noam Chomsky”. Non sono ingenui. O almeno, non più ingenui di noi, che ogni giorno ci raccontiamo di essere liberi mentre consegniamo i nostri dati, le nostre scelte, i nostri minuti a un algoritmo. Loro almeno hanno scelto da chi farsi tiranneggiare: la pioggia, le stagioni, il sonno dei bambini. Hanno deciso che il costo della libertà vale la fatica della coerenza.

Quando ascolti della famiglia di Palmoli sembra di vedere quei momenti in cui la vita parla più delle parole. Il bosco non è una fuga. È un laboratorio, un esperimento, e a volte, per capire meglio il mondo, può rivelarsi utile allontanarsene. Forse quei genitori non stanno proteggendo i figli dal mondo; li stanno soltanto preparando a entrarci. Certo, niente utopie zuccherose: le discussioni non mancano, gli imprevisti nemmeno. Il bosco è bello finché non è ostile, e lo diventa spesso: pioggia che entra dalle assi, freddo che spezza le dita, solitudine che chiede conto di ogni scelta.

L’avvocato della famiglia del bosco si è ritirato sostenendo che i genitori avessero rifiutato aiuti e lavori al casolare, ma i due replicano di non aver capito le proposte per via della barriera linguistica. Nel clima di accuse e fraintendimenti emerge il tema dell’unschooling: Catherine, la mamma, rivendica un’educazione libera, centrata sulla natura, convinta che i bambini non subiscano alcun danno, ma la legge italiana richiede comunicazioni formali ed esami annuali. Nathan, rimasto solo nella casa di Palmoli dopo l’allontanamento dei figli, continua a non capire il motivo della loro situazione. Intanto un ristoratore ha offerto loro un altro casolare, privo di servizi essenziali, che il padre sembra guardare con interesse.

“Ho fatto un errore bellissimo ma un errore”, dice Viggo Mortensen-Ben Cash nel film. La famiglia del bosco, quell’ombra la conoscono bene: ogni scelta radicale ha una parte di follia, quella che la società considera minaccia ma che a volte è solo il tentativo di restare vivi. Rallentare, guardarsi in faccia, vivere a contatto con le cose invece che con l’illusione delle cose. La loro storia ricorda ciò che ci ostiniamo a dimenticare: non esiste la vita giusta, esistono momenti in cui bisogna scegliere. A volte scegli la strada asfaltata. A volte scegli il bosco. E a volte, se sei abbastanza coraggioso da ascoltare quel rumore interno che insiste, ti accorgi che la strada asfaltata eri tu.

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