
Le leggi non vivono di autorità, ma di riconoscimento: senza, ogni limite perde senso. E si arriva alla violenza
Il Fatto Quotidiano - Wednesday, December 3, 2025di Alberto Minnella
Ho ascoltato recentemente un’intervista di Gherardo Colombo sulle regole ed è stato come entrare in una zona del discorso pubblico che raramente frequentiamo: quella in cui non ci si limita a chiedere “quale legge?”, ma si tenta di capire che cosa sostiene una legge affinché possa essere davvero tale. Nelle sue parole emerge l’idea che le norme non vivono di autorità, ma di riconoscimento. E il riconoscimento è qualcosa che avviene sempre dentro le persone prima che nei tribunali.
Colombo lo ripete con calma: una regola funziona solo se incontra una coscienza capace di percepirla come parte della convivenza. Altrimenti resta un segnale neutro, un’indicazione che può essere letta, ignorata o aggirata senza alcuna risonanza interiore. È questo scollamento tra norma e interiorità che caratterizza sempre più spesso il nostro tempo. Non è una colpa individuale, ma un effetto di un contesto in cui tutto sembra temporaneo, reversibile, intercambiabile: anche i limiti.
In questo scenario, la violenza non appare come atto di ribellione ma come gesto senza profondità. Non c’è l’intenzione di opporsi a una regola: spesso non c’è nemmeno la percezione che quella regola esista come dimensione condivisa. Il limite non viene attraversato: semplicemente non viene visto. E quando il limite non è vissuto, non può esserci trasgressione. La trasgressione, che per secoli aveva un ruolo preciso — segnava il punto in cui l’individuo sfidava l’ordine — oggi appare come un concetto quasi inattuale, eroso dall’assenza stessa di un confine stabile da violare.
I reati che occupano le cronache sono spesso la manifestazione di questa mancanza: gesti improvvisi, scollegati, privi di una narrazione che li contenga o li renda interpretabili. La violenza diventa un impulso che non trova argini, non perché li distrugga, ma perché non li incontra. E la legge, vista da Colombo, appare allora come un contenitore che non riesce a trattenere ciò che non ha forma.
Le norme non sono state pensate per sostituire la responsabilità, ma per organizzarla. Sono la grammatica minima che permette a una comunità di esistere. Quando però la comunità perde la capacità di condividere significati, quella grammatica si inceppa. La regola continua a esistere, ma perde peso: non fa più orientamento, non delimita, non suggerisce un orizzonte. Semplicemente, scivola accanto alla vita delle persone senza toccarla davvero.
La regola è, dunque, un gesto educativo. Non impone, orienta. Non chiude, apre un passaggio: permette a ognuno di comprendere dove finisce il proprio desiderio e dove inizia lo spazio dell’altro. Per questo Colombo ripete che le regole non servono a reprimere, ma a far funzionare le relazioni. A costruire fiducia, prevedibilità, continuità nel vivere insieme.
Ma tutto ciò richiede una cultura delle responsabilità che oggi sembra indebolita. Si cresce senza avere esperienza del limite, come se il limite fosse una minaccia e non una forma di protezione. E così le persone arrivano all’età adulta senza aver interiorizzato la distinzione tra impulso e azione, tra bisogno immediato e conseguenza. Il gesto violento è spesso la manifestazione estrema di questa incapacità di contenersi, di darsi forma. La legge può intervenire dopo, ma non può anticipare ciò che solo l’educazione può generare: la capacità di riconoscere l’altro, di misurare i propri atti, di dare un significato al proprio agire.
Colombo lo ripete da anni, e le sue parole suonano oggi più urgenti che mai: una società non si salva con l’inasprimento delle norme, ma con la costruzione paziente di una coscienza comune. Come ripristinare il terreno su cui una regola può mettere radici? Non ci sono soluzioni immediate. Ma una via sensata è un’educazione culturale diversa, che fin dalle prime scuole restituisca al limite il suo valore di relazione. Un’educazione capace di ridare peso ai legami, agli spazi, senso alle regole e responsabilità. Da lì può nascere una speranza.
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