Scovato e smascherato da Striscia La Notizia con l’inviato Max Laudadio, il
“mago di Rimini” che sosteneva di poter guarire dal Covid e da altre malattie
con filtri e misteriose polverine, è stato condannato a 10 mesi e a una multa
per l’esercizio abusivo della professione di omeopata e per aver violato i
sigilli dell’autorità apposti su alcune confezioni di erbe che utilizzava come
medicamenti. Il Tribunale lo ha invece assolto perché il fatto non sussiste per
il reato di truffa.
Orfeo Bindi, 70 anni, era finito nel registro degli indagati perché prescriveva
“pozioni” miracolose per prevenire il Covid, curare malanni e ridurre il cancro.
La pubblica accusa, rappresentata dal vice pubblico ministero onorario, Simona
Bagnaresi, aveva citato come testimoni la maggior parte dei 30 clienti di Bindi,
ma nessuno di questi ha dichiarato di essersi sentito truffato. Insomma gli
credevano e forse gli credono ancora. Nessuno ha denunciato e nessuno di
conseguenza si era costituito parte civile. Sentiti tutti a sommarie
informazioni degli inquirenti, avevano quindi spiegato di non sentirsi
raggirati. Anche se la prestazione del guaritore, come testimoniato dal servizio
del programma di Canale 5, si aggirava intorno ai 100 euro.
L’uomo, su cui avevano eseguito gli accertamenti del caso i militari della
Guardia di Finanza, in un’inchiesta coordinata dal sostituto procuratore Davide
Ercolani, era accusato di aver prescritto erbe mediche che chiamava “polverine”
promettendo la guarigione da patologie compreso il coronavirus. Gli
investigatori delle Fiamme gialle aveva eseguito un’ordinanza del gip, Benedetta
Vitolo nei confronti di Bindi, sospeso dall’esercizio della professione di
medico omeopata. Quindi il rinvio a giudizio e il processo. Il legale di Bindi,
l’avvocato Antonio Giacomini del Foro di Forlì, ha annunciato il ricorso in
appello.
L'articolo Condannato il “mago” di Rimini che sosteneva di guarire il Covid con
le polverine proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Giustizia
di Luca Grandicelli
La Corte di appello di Torino ha disposto la cessazione immediata del
trattenimento di Mohamed Shahin, l’imam di Torino incarcerato il 12 novembre
2024 nel Cpr di Caltanissetta. La magistratura ha infatti accolto le istanze
dell’avvocato della difesa, richiamandosi direttamente alla direttiva europea
che stabilisce come il trattenimento dei richiedenti protezione internazionale
debba rappresentare un’eccezione e non una regola, ed escludendo inoltre la
sussistenza di una concreta e attuale pericolosità. Di fatto, ristabilendo un
principio elementare dello Stato di diritto, ovvero che la privazione della
libertà personale non può fondarsi su presupposti politici, né su valutazioni
generiche o preventive.
L’incarcerazione si è basata infatti sulle motivazioni descritte nel decreto
d’espulsione, che vedevano Shahin come portatore di un’ideologia fondamentalista
e antisemita e come figura di rilievo in ambienti dell’Islam radicale, con
presunti legami con soggetti indagati per terrorismo, accuse da lui sempre
respinte. La Corte d’appello di Torino ha ridimensionato tali elementi,
chiarendo che i contatti richiamati erano sporadici e risalenti nel tempo,
limitati a un’identificazione del 2012 e a una conversazione del 2018 tra terzi,
e che erano stati adeguatamente chiariti dallo stesso Shahin nel corso della
convalida.
Di tutto questo sono state consapevoli migliaia di persone che nelle ultime
settimane si sono riversate nelle piazze, di Torino e non solo, per protestare
contro quello che è parso un palese esercizio strumentale del diritto per fini
puramente politici. Mohamed Shahin, padre di due figli, incensurato, vive da
oltre vent’anni in Italia ed è considerato un punto di riferimento per la
comunità musulmana e per il dialogo interreligioso nella città e provincia di
Torino. Per lui si sono mobilitate non solo persone comuni, i fedeli delle
comunità musulmane italiane, ma anche voci autorevoli (e insospettabili) come il
vescovo Derio Olivero, Presidente della Commissione della Cei per l’Ecumenismo e
il Dialogo, che in un video diffuso sui social ha espresso solidarietà e chiesto
la sua liberazione immediata. E poi associazioni per i diritti umani,
intellettuali e sindacati.
L’episodio conferma dunque, e per ora, come l’Italia sia ancora un paese in cui
i magistrati esercitano il proprio ruolo nella più totale libertà e autonomia,
nonostante i tentativi e piani dell’esecutivo di delegittimarli, controllarli e
indirizzare l’esercizio delle loro funzioni su linee politiche di governo. Vale
la pena dunque ricordare alla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che si
chiede come “si fa a difendere la sicurezza degli italiani se ogni iniziativa
che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici”, che
la magistratura serve proprio a questo scopo: a evitare che il potere esecutivo
eserciti unilateralmente azioni arbitrarie, a garantire che la sicurezza non
diventi un alibi per comprimere diritti fondamentali e a ricordare che, in uno
Stato di diritto, la legge non è uno strumento di repressione del dissenso
politico; che la separazione dei poteri, quello esecutivo da quello giudiziario,
non è un intralcio all’azione di governo, ma la condizione stessa della
democrazia.
Il caso Shahin non è quindi una sconfitta dello Stato, ma una sua
riaffermazione, che trova la sua forza non quando reprime, ma quando accetta di
essere limitato dal diritto. Un concetto, quest’ultimo, che su certi versanti a
destra non è evidentemente di casa o si estende solo “fino a un certo punto”.
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L'articolo Libero l’imam di Torino: alla destra che contesta, ricordo che la
legge non serve a reprimere il dissenso proviene da Il Fatto Quotidiano.
È il caso che più di ogni altro incolla i telespettatori agli schermi. Ne
beneficia lo share televisivo, ma pure i numeri registrati dai siti di news e
dai quotidiani online: basta parlare del caso Garlasco e l’audience cresce. Sarà
per questo motivo se, tra tutti i cold case, Giorgia Meloni ha deciso di citare
proprio la vicenda dell’assassinio di Chiara Poggi per lanciare la campagna
elettorale in vista del referendum sulla separazione delle carriere in
magistratura. E pazienza se casi giudiziari come quello di Garlasco
continueranno a verificarsi anche quando pm e giudici saranno formalmente due
mestieri separati.
MELONI E LA “VERGOGNA” DI GARLASCO
Certo per arrivare a quel punto bisognerà prima aspettare che i Sì superino i No
al quesito referendario. Ed è quindi in questo clima da campagna elettorale
permamente che Meloni è arrivata a chiudere l’ultima edizione di Atreju. Alla
fine di un discorso lungo poco più di un’ora, la premier ha citato una frase del
magistrato Rosario Livatino, ucciso dai mafiosi della Stidda nel 1990. “Il
giudice se apparirà sempre libero e indipendente, si mostrerà degno della sua
funzione; se si manterrà integro e imparziale non tradirà mai il suo mandato”, è
la citazione del “giudice ragazzino”. Meloni l’ha tradotta così: “La giustizia
cioè non può essere piegata, né manipolata, né intimidita”. Sorvolando sul fatto
che spesso sono esponenti del suo governo (o lei stessa) ad attaccare i
magistrati e a manipolare il contenuto di alcune sentenze (come nel caso dei
centri in Albania), la capa dell’esecutivo ha quindi lanciato la corsa al
referendum. “È esattamente quello che vogliamo realizzare con la riforma del Csm
che finalmente libererà la magistratura dall’influenza nefasta delle correnti
politicizzate. E con l’istituzione dell’Alta corte disciplinare per affermare
finalmente che chi sbaglia si assume la sua disponibilità”. Secondo Meloni
queste sono “misure che servono all’Italia. Sono misure che non hanno nulla a
che vedere con il ‘mandiamo a casa la Meloni“, ha detto, con una punta di
falsetto sull’ultima frase. Nel caso qualcuno avesse dubbi, la premier ha
spiegato di riferirsi a chi “chiaramente non ha alcun argomento nel merito delle
norme”. Poi ha sganciato l’esito del voto al referendum dal suo destino
politico: “Fregatevene della Meloni, tanto questo governo rimane in carica fino
alla fine della legislatura. I governi passano, ma le leggi rimangono e incidono
sulla vostra vita. Fregatevene della Meloni, votate per voi stessi, per i vostri
figli, per il futuro di questa nazione”. Quindi, con il tipico climax ascendente
che caratterizza l’oratoria meloniana, ecco la citazione del cold case più pop
del momento: “Votate perché non ci debba più essere una vergogna come quella che
stiamo rivedendo a Garlasco, ultimo caso solo dal punto di vista temporale di
una giustizia che va profondamente riformata”. La folla, ovviamente, ha
applaudito a scena aperta.
L’OMICIDIO DI 18 ANNI FA
Ma è davvero così? Con la separazione delle carriere non ci sarà più la
“vergogna” che stiamo vedendo a Garlasco, come dice la Meloni? Ma poi quale
sarebbe la “vergogna” del caso Garlasco? A cosa si riferisce la premier? Le
indagini sull’omicidio di Chiara Poggi sono state riaperte dalla procura di
Pavia nel marzo scorso, quasi diciotto anni dopo i fatti. I pm sostengono di
aver trovato nuovi elementi che li hanno portati a scrivere nel registro degli
indagati il nome di Andrea Sempio, amico del fratello della vittima. Secondo
l’ipotesi degli inquirenti, avrebbe agito in concorso con Alberto Stasi (o con
ignoti), fidanzato di Chiara Poggi, che fino a oggi è l’unico condannato per
l’omicidio commesso il 13 agosto del 2007. Già all’epoca i sospetti si
concentrarono subito su Stasi, arrestato il 24 settembre del 2007. Dopo aver
scelto l’abbreviato, venne assolto in primo grado (2009) e pure in Appello
(2011). Poi, però, nel 2013 la Cassazione annullò l’assoluzione, ordinando un
nuovo processo di secondo grado. Alla fine del quale, Stasi venne riconosciuto
colpevole, senza le aggravanti della crudeltà e della premeditazione:
trattandosi di un processo in abbreviato, l’imputato ottenne uno sconto di un
terzo della pena, quindi la condanna a 24 anni venne ridotta a 16 anni di
carcere. Sentenza poi confermata dalla Suprema corte.
INNOCENTISTI E COLPEVOLISTI
Il tortuoso iter processuale, sommato a una serie di errori commessi nelle
indagini, ha trasformato l’assassinio di Garlasco in un vero e proprio caso, che
ha spaccato l’opinione pubblica tra colpevolisti e innocentisti: c’è chi crede
che Stasi sia l’unico assassino e chi invece lo considera un capro espiatorio.
“Trovo irragionevole che, dopo una sentenza o due sentenze di assoluzioni, sia
intervenuta una condanna senza nemmeno rifare l’intero processo”, ha detto per
esempio Carlo Nordio. Un’opinione legittima, soprattutto perchè proviene dal
Ministro della Giustizia: il guardasigilli, certo, potrebbe riformare il codice
per modificare questo meccanismo. Fino a oggi, però, non l’ha mai fatto. E di
sicuro non è con la riforma della separazione delle carriere che avverrà tutto
questo. Il provvedimento, come è noto, si limita a differenziare completamente e
nettamente i percorsi professionali tra giudicanti e requirenti. Per questo
motivo verrà sdoppiato il Consiglio superiore della magistratura, l’organo di
autogoverno delle toghe: ne esisteranno due, uno per i pubblici ministeri e un
altro per i giudici. Nascerà poi un terzo organo, l’Alta Corte disciplinare, che
sanzionerà i magistrati per i loro illeciti professionali: prerogativa che al
momento appartiene al Csm. Su tutto questo dovranno esprimersi i cittadini,
chiamati a votare al referendum costituzionale della prossima primavera. Anche
se dovesse vincere il Sì, la riforma non inciderà in alcun modo sulla
celebrazione dei processi, sulla loro velocità, sulla capacità degli
investigatori di compiere le indagini e su quella dei giudici di valutare le
prove.
COSA NON SUCCEDERÀ CON LA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE
Nulla dunque impedirà a una procura di riaprire le indagini su fatti di cronaca
nera, come avvenuto appunto su Garlasco. Si può dibattere sull’opportunità di
mettere sotto inchiesta Sempio o su quella di aver chiuso il caso con la
sentenza Stasi, si può discutere sugli evidenti errori commessi nelle indagini
di 18 anni fa, ma sempre avendo ben chiaro un elemento: con la separazione delle
carriere una “vergogna” come quella di Garlasco – qualsiasi fosse il riferimento
di Meloni – si potrà verificare ancora. Anche quando i pm avranno una carriera
separata dai giudici continueranno a esistere i casi irrisolti, quelli risolti
parzialmente e quelli definiti ma in cui le indagini vengono riaperte lo stesso.
Perché dunque Meloni ha citato Garlasco ad Atreju come simbolo dei mali che
saranno spazzati via in caso di vittoria al referendum? Secondo Barbara
Floridia, presidente M5S della Commissione di Vigilanza sulla Rai, la premier ha
dichiarato apertamente “di essere a capo del circo mediatico sul caso Garlasco.
Un caso che non è più cronaca, è cornice narrativa: serve a tenere alta la
tensione, a costruire l’emergenza permanente e a spingere il referendum sulla
separazione delle carriere. Un’operazione che non accelera i processi, non rende
la giustizia più efficiente, non migliora la vita dei cittadini. Serve solo a
fare propaganda, e la propaganda ha bisogno di rumore costante. Per questo ci
martellano giorno e notte con trasmissioni che ne parlano”. Del resto che la
riforma non inciderà in alcun modo sui tempi di accertamento della verità lo
ammettono pure autorevoli esponenti di governo. “Con questa riforma processi più
veloci? Chi parla di questo non conosce il sistema della giustizia in Italia”,
ha detto, per esempio, Andrea Ostellari, sottosegretario alla giustizia della
Lega, il giorno dell’approvazione definitiva del provvedimento. E d’altra parte
a riconoscerlo era stato lo stesso ministro Nordio, nel marzo scorso: “Questa
riforma non influisce sull’efficienza della giustizia“. Qualcuno allora dovrebbe
ricordarlo a Meloni.
L'articolo La bugia di Meloni sulla separazione delle carriere: “Non ci sarà più
una vergogna come il caso Garlasco”. Ma non è vero proviene da Il Fatto
Quotidiano.
C’è un altro guaio per John Elkann. Mentre l’iter per la cessione dei quotidiani
del gruppo Gedi entra nel vivo e nei giorni in cui il presidente di Stellantis
ha rifiutato l’offerta per la Juventus, il gip di Torino, Antonio Borretta, ha
ordinato per lui l’impostazione coatta con l’accusa di dichiarazione infedele.
Una decisione che ha avuto già effetti nel procedimento sulla messa alla prova,
visto che la gup Giovanna De Maria ha rinviato all’’11 febbraio 2026 l’udienza
per decidere se dare o meno il via libera agli undici mesi di Elkann come tutor
tra gli allievi delle scuole salesiane.
La questione riguarda sempre l’eredità della nonna di Elkann, Marella
Caracciolo, vedova di Gianni Agnelli. Da una parte il presidente di Stellantis
ha versato all’Agenzia delle Entrate 183 milioni di euro per ottenere il parere
favorevole della procura alla messa alla prova e chiudere così il procedimento
per truffa ai danni dello Stato, in relazione alle imposte e alla tassa di
successione non pagate sul un patrimonio della nonna. Dall’altra parte, la
procura ha chiesto per John Elkann, per i suoi fratelli Lapo e Ginevra, per il
commercialista Gianluca Ferrero e per il notaio svizzero Urs Robert von
Gruenigen, l’archiviazione di un altro procedimento in cui si contesta
l’infedele dichiarazione dei redditi della vedova Agnelli, relative al 2018 e ai
primi tre mesi del 2019 (Donna Marella era deceduta il 28 febbraio di
quell’anno).
Il gip Borretta, però, ha archiviato le posizioni di quasi tutti gli indagati,
tranne quella di Elkann e di Ferrero: per il proprietario e per il presidente
della Juventus, dunque, la procura dovrà formulare richiesta di rinvio a
giudizio. “Pur esprimendo la nostra soddisfazione per le archiviazioni disposte
dal gip Borretta, la sua decisione di imporre al pm di formulare l’imputazione
per John Elkann e Gian Luca Ferrero è difficile da comprendere, perchè in
contrasto con le richieste dei Pubblici Ministeri, che erano solide e ben
argomentate per tutti i nostri assistiti”, dicono i legali del presidente
Stellantis, annunciando ricorso in Cassazione contro la decisione del gip,
eccependone “l’ambormità“.
Il dubbio riguarda l’altro procedimento: il fatto che Elkann vada a processo con
l’accusa di dichiarazioni infedeli, precluderà al presidente di Stellantis di
ottenere la messa alla prova? Chiamata a rispondere a questa domanda, la gup De
Maria ha preso tempo, rinviando tutto al 2026. “La decisione del gip Borretta a
nostro avviso non vincola il GIP di Maria che deve decidere sulla nostra istanza
di Map”, dicono sempre i legali di Elknann, spiegando di aver presentato una
memoria in questo senso. “Nel merito – proseguono i legali – per noi questi
tecnicismi processuali non cambiano nulla: ribadiamo la nostra ferma convinzione
che le accuse mosse a John Elkann siano prive di qualsiasi fondamento e
riaffermiamo la forte convinzione che egli abbia sempre agito correttamente e
nel pieno rispetto della legge. La scelta di John Elkann di aderire a un accordo
non implica alcuna ammissione di responsabilità ed è stata infatti ispirata solo
dalla volontà di chiudere rapidamente una vicenda personale molto dolorosa,
tanto più dopo aver definito con l’Agenzia delle Entrate ogni possibile
controversia attinente i tributi potenzialmente gravanti sui fratelli Elkann in
qualità di eredi di Donna Marella Agnelli”.
L'articolo Un altro guaio per John Elkann: il gip di Torino ordina l’imputazione
coatta per dichiarazione infedele proviene da Il Fatto Quotidiano.
Condanna a una pena di 11 anni e 6 mesi per il ragazzino, all’epoca dei fatti
minorenne, che era accusato dell’omicidio di Fallou Sall (nella foto), il 16enne
ucciso a coltellate il 4 settembre del 2024, in via Piave, dopo che era
intervenuto in difesa di un amico. È la sentenza emessa dal collegio di giudici,
presieduto dalla presidente del Tribunale per i minori di Bologna, Gabriella
Tomai. La vittima voleva aiutare un amico, un 17enne bengalese che aveva avuto
alcuni screzi con l’imputato.
Il minore rispondeva anche del tentato omicidio dell’amico di Fallou, reato
derubricato in lesioni gravi e del porto abusivo di un coltello. La Procura
aveva chiesto una pena totale di 21 anni. Il processo, che era cominciato il 21
maggio, si è svolto con rito ordinario. I giudici hanno emesso il verdetto dopo
tre ore di camera di consiglio. Il legale del minore imputato, avvocato Pietro
Gabriele, aveva chiesto l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato,
invocando la legittima difesa. All’uscita dall’udienza ha detto che valuterà
l’appello dopo le motivazioni, che saranno disponibili entro 90 giorni.
L'articolo Uccise un 16enne intervenuto per aiutare un amico: minorenne
condannato a 11 anni e 6 mesi a Bologna proviene da Il Fatto Quotidiano.
La Corte di Appello di Torino si è pronunciata per la cessazione del
trattenimento dell’imam Mohamed Shahin nel Cpr di Caltanissetta. I giudici hanno
accolto uno dei ricorsi presentati dagli avvocati dell’uomo, i quali hanno
sostenuto che anche alla luce di nuova documentazione, non sussistono elementi
che possono far parlare di sicurezza per lo Stato o per l’ordine pubblico.
L’imam era stato colpito da un provvedimento di espulsione firmato dal ministro
Matteo Piantedosi.
L'articolo La Corte d’Appello contro il trattenimento dell’imam di Torino,
espulso dal ministro Piantedosi proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tutto rinviato all’anno prossimo. Si terrà l’11 febbraio 2026 l’udienza per
decidere sulla richiesta di messa alla prova di John Elkann. Il rinvio è stato
deciso dalla gip di Torino, Giovanna De Maria, che ha anche fissato nel 21
gennaio l’udienza per discutere del patteggiamento del commercialista Gianluca
Ferrero, presidente della Juventus. Oltre alla vendita delle testate del gruppo
Gedi, dunque, nel 2026 si definiranno anche i destini giudiziari del presidente
di Stellantis e del suo braccio destro, finiti nei guai per le vicende relative
all’eredità della nonna di Elkann, Marella Caracciolo, vedova di Gianni Agnelli.
Per poter accedere a undici mesi di messa alla prova, nel settembre scorso, il
nipote dell’Avvocato aveva versato all’Agenzia delle Entrate 183 milioni di
euro. Imposte e tassa di successione non pagate su un patrimonio di Marella
Caracciolo ricostruito all’estero e in Italia per oltre un miliardo di euro.
L’inchiesta penale era stata avviata dalla procura torinese dopo un esposto di
Margherita Agnelli, figlia dell’Avvocato e madre di Elkann, che rivendica
l’eredità materna e paterna. Elkann dovrebbe svolgere la messa alla prova
facendo da tutor tra gli allievi delle scuole salesiane, di formatore per gli
insegnanti e di consulente dei dirigenti salesiani. Su Ferrero, invece, i pm
avevano dato parere favorevole per un patteggiamento a un anno, poi nella scorsa
udienza si era convertita in una sanzione di 73mila euro. Il 21 gennaio, dunque,
sarà definita la modalità della pena.
L'articolo Eredità Agnelli, rinviata all’anno prossimo l’udienza per la messa
alla prova di John Elkann proviene da Il Fatto Quotidiano.
Il titolare di due negozi di cannabis light in provincia di Brescia è stato
arrestato dalla Polizia con l’accusa di detenzione ai fini di spaccio dopo il
sequestro di 19 barattoli contenenti circa due chilogrammi di infiorescenze.
L’arresto, eseguito ieri su disposizione della Procura di Brescia, è una delle
prime applicazioni concrete delle norme introdotte nei mesi scorsi con il
decreto sicurezza, che hanno imposto una stretta significativa sulla
coltivazione e sulla commercializzazione dei prodotti noti come “cannabis
light”. L’indagato era stato messo ai domiciliari.
Secondo l’accusa, le infiorescenze rinvenute nei due punti vendita sarebbero
state qualificabili come “marijuana”, formula utilizzata in imputazione senza
tuttavia indicare se siano state svolte analisi chimiche utili a verificarne la
presenza di principi attivi con effetto drogante. Un punto ritenuto centrale
dalla difesa, che sostiene che tali verifiche non siano state eseguite.
Davanti al giudice della direttissima, l’avvocato Niccolò Vecchioni, del Foro di
Milano, ha depositato fatture, documenti di trasporto e certificazioni dei
fornitori per dimostrare che l’attività dell’uomo, 33 anni, titolare degli store
a Sirmione e Desenzano del Garda, si basa esclusivamente sull’acquisto e sulla
vendita di infiorescenze prive di contenuto psicotropo, acquistate tramite
canali controllati e pienamente legali. La ricostruzione della difesa ha
convinto il giudice, che non ha disposto alcuna misura cautelare nonostante la
richiesta del pubblico ministero di imporre all’indagato l’obbligo di firma.
L’uomo è tornato libero e affronterà a marzo la prima udienza del processo.
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L'articolo Primo arresto per il titolare di negozi di cannabis light per il
decreto sicurezza, ma il giudice lo libera proviene da Il Fatto Quotidiano.
Mazzette smaterializzate ovvero l’ipotizzata corruzione in cambio di vantaggi o
assunzioni. La Direzione Distrettuale Antimafia di Campobasso ha chiesto il
rinvio a giudizio per il presidente della Regione Molise, Francesco Roberti, e
per altre 43 persone coinvolte nell’inchiesta denominata ‘Memory’, che ipotizza
appunto un sistema di corruzione e traffico illecito di rifiuti con collegamenti
alla criminalità organizzata pugliese, ma senza scambio di denaro. Il
procedimento sarà aperto con l’udienza preliminare fissata per il 22 gennaio.
L’inchiesta della Dda coinvolge, oltre a Roberti, la moglie del governatore,
Elvira Gasbarro, e due società operanti nel settore dei rifiuti.
Secondo la Procura, Roberti, all’epoca dei fatti sindaco di Termoli e poi
presidente della Provincia di Campobasso tra il 2019 e il 2023, avrebbe favorito
l’azienda Energia Pulita Srl nell’ottenimento di autorizzazioni e affidamenti
pubblici in cambio di vantaggi personali, tra cui l’assunzione della moglie e
l’affidamento di lavori a imprese considerate compiacenti. Nelle carte
dell’inchiesta, gli inquirenti parlano di “mazzette smaterializzate”.
Roberti, esponente di Forza Italia, guida la Regione Molise da due anni e mezzo.
Nei mesi scorsi aveva chiesto di essere ascoltato dai magistrati, presentandosi
a maggio per depositare una memoria difensiva di 200 pagine. Come spiegato dal
suo legale, Mariano Prencipe, nella memoria sono stati ricostruiti tutti gli
episodi contestati, fornendo chiarimenti e documentazione a sostegno della
posizione del presidente: “Dalle intercettazioni emerge chiaramente che Roberti
non si è interessato alle sorti di Energia Pulita come contestato. Anzi, fu
proprio la Provincia di Campobasso a sollevare osservazioni e imporre
restrizioni a questa società”.
La posizione di Roberti, pur rientrando nel filone della presunta corruzione,
resta distinta da quella degli altri soggetti coinvolti nei reati di stampo
mafioso, che comprendono associazione mafiosa, traffico di stupefacenti,
estorsione, riciclaggio e smaltimento illecito di rifiuti. Gli indagati
includono esponenti della criminalità foggiana, imprenditori, tecnici,
professionisti e funzionari pubblici. L’inchiesta si concentra sul periodo in
cui Roberti ricopriva incarichi politici locali, ovvero il suo ruolo di sindaco
di Termoli e presidente della provincia di Campobasso. Le contestazioni infatti
riguardano il periodo tra il 2020 e il 2023, gli anni in cui Roberti ha
ricoperto questi incarichi, ed era membro del consiglio generale della Cosib,
consorzio di cui fa parte anche una società coinvolta nelle indagini, Energia
Pulita srl. Quindi l’accusa non si estende agli altri filoni di indagine
riguardanti estorsioni, droga e traffico di rifiuti.
L'articolo “Mazzette smaterializzate”, chiesto il processo per il presidente del
Molise Roberti e altri 43 imputati proviene da Il Fatto Quotidiano.
E dopo la Procura di Catanzaro arriva anche la Corte dei Conti che, nell’ambito
dell’inchiesta sulle presunte liste d’attesa privatizzate alla “Renato
Dulbecco”, ha disposto il sequestro conservativo di oltre 9 milioni di euro a
carico di 11 persone. Si apre un altro capitolo nell’indagine che, nei mesi
scorsi, ha travolto il reparto di oculistica dell’Azienda
ospedaliera-universitaria di Catanzaro. Su delega della Procura generale della
Corte di Conti, infatti, il provvedimento è stato eseguito dal Nucleo di Polizia
economico-finanziaria di Catanzaro.
I destinatari sono il primario Vincenzo Scorcia e la segretaria del suo studio
privato Maria Battaglia. Ma anche la caposala Laura Logozzo e i medici Giuseppe
Giannacare, Adriano Carnevali, Rocco Pietropaolo, Andrea Lucisano, Andrea Bruni,
Eugenio Garofalo, Giorgio Randazzo e Maria Aloi.
Per tutti, la Corte dei conti ha ipotizzato svariate condotte di danno erariale
in relazione all’indebita percezione dell’indennità di esclusività e di stipendi
non dovuti, nel mancato riversamento di proventi da lavoro autonomo
illegittimamente esercitato, nella “privatizzazione” del servizio pubblico e
nell’appropriazione di beni pubblici per fini privati.
Da qui la richiesta, accolta dal presidente della Sezione giurisdizionale per la
Calabria della Corte dei conti, di un sequestro conservativo per un importo di
oltre 9 milioni di euro. Di questi, 6,2 milioni sono contestati al primario
Scorcia (di cui 2,3 in solido con la segretaria e la caposala). Per quanto
riguarda le altre contestazioni, 280mila sono stati sequestrati a Giuseppe
Giannaccare, 83mila ad Adriano Carnevali, 350mila a Rocco Pietropaolo, un
milione e 288 mila ad Andrea Lucisano, 357mila ad Andrea Bruni, 463mila ad
Eugenio Garofalo, 70mila a Giorgio Randazzo e 29mila a Maria Aloi.
L’inchiesta aveva portato lo scorso luglio agli arresti domiciliari, poi
annullati dal Riesame, del primario del reparto Vincenzo Scorcia e della sua
segretaria accusati di associazione a delinquere, peculato, concussione, truffa
aggravata e interruzione di pubblico servizio e, il medico, di falsità
ideologica e autoriciclaggio.
Secondo quanto emerso dalle indagini dei pm di Catanzaro, guidati dal
procuratore Salvatore Curcio, nel reparto di oculistica dell’Azienda Dulbecco
vigeva una gestione “privatistica” delle liste di attesa, con visite private a
pagamento per aggirare le lista d’attesa e scalare la graduatoria per essere
operati, alimentando, di fatto, un sistema privato di prenotazioni e prestazioni
erogate gratuitamente.
Per i magistrati contabili vi era “un sistema consolidato attraverso il quale i
medici dell’equipe erano soliti effettuare interventi chirurgici su pazienti
previamente visitati a pagamento durante lo svolgimento della suddetta attività
extra-istituzionale privata, garantendo loro un trattamento ‘privilegiato’
rispetto ai pazienti ambulatoriali regolari”. In questo modo sarebbero state
aggirate “le liste d’attesa ufficiali” e lesi “i principi di trasparenza ed
equità dell’assistenza sanitaria pubblica”. Il tutto “utilizzando integralmente
per tali interventi chirurgici risorse dell’azienda ospedaliera”.
Il danno erariale, ipotizzato dalla Corte dei Conti, ha portato così alle cifre
monstre del sequestro conservativo. Il provvedimento dei giudici contabili non è
un’attribuzione di responsabilità. Piuttosto è finalizzato a vincolare i beni
mobili e immobili degli indagati e a evitare che possano essere venduti o
dispersi prima di una sentenza definitiva nel merito. Ovviamente nel caso in
cui, al termine del processo, i medici coinvolti nell’inchiesta “Short Cut”
dovessero risultare colpevoli e di conseguenza condannati a risarcire i danni
all’Erario e all’università “Magna Grecia”. Intanto, però, dopo i sigilli si
aprirà il contradditorio anche davanti alla Corte dei conti.
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milioni su richiesta della Corte dei Conti proviene da Il Fatto Quotidiano.