
“Sotto il portico della morte”, il libro che svela il legame segreto tra arte, vita e formazione del giovane Pier Paolo Pasolini
Il Fatto Quotidiano - Wednesday, December 3, 2025In occasione dei cinquant’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, esce in libreria un libro che ne celebra la poetica, a partire dagli anni universitari, quando, sotto il Portico della Morte, a Bologna, un giovane friulano si apprestava a consegnare la sua tesi di laurea commissionata dallo storico dell’arte Roberto Longhi, ignaro che, a vent’anni dalla sua morte [avvenuta il 2 novembre 1975, Ndr], nel 1995, nelle aule dello storico ateneo bolognese, qualcun altro avrebbe scritto e discusso una tesi sulla sua tesi.
È da qui che nasce “Sotto il Portico della Morte. Pasolini e Longhi tra arte, scrittura e fulgurazione figurativa” di Francesco Aliberti, autore ed editore di questo volume in uscita oggi, 3 dicembre, in tutte le librerie. Nella copiosa produzione saggistica sulla figura e l’opera di PPP, questo è senz’altro un volumetto da leggere. L’amore di Pasolini per l’arte, quella antica e quella moderna, è infatti un’imprescindibile costante di tutta la sua produzione letteraria e cinematografica. E’ proprio il “manierismo” artistico, la cui scoperta risale agli anni universitari bolognesi e alle lezioni di Roberto Longhi, la cifra che finirà per tratteggiare lo stile pasoliniano in tutta la sua multiforme opera. Un manierismo “profondo” e convinto, che fra queste pagine costellate di note dotte e curiose troviamo raccontato e descritto con la cura dello studioso e la passione dello studente. “Sotto il portico della Morte” è un testo ricognitivo, omaggio agli anni universitari, ai grandi maestri e alle letture fondative, che parte dalla tesi di laurea commissionata dall’italianista Ezio Raimondi a Francesco Aliberti, e di cui pubblichiamo, per gentile concessione, un estratto della prefazione di Alessandro Di Nuzzo e, a seguire, un estratto dell’introduzione:
Se la vita è fatta di stagioni, quella che corrisponde agli anni di frequentazione dell’università (per chi l’ha fatta) resta per sempre un tempo indimenticabile, nelle sue luci di gioventù e nei suoi – altrettanto giovanili – lati oscuri.
È un tempo fondativo, in cui le “vocazioni” – più o meno forti, più o meno chiare al primo ingresso nelle aule universitarie – si irrobustiscono per indirizzare definitivamente la vita successiva (o se vogliamo per chiuderla definitivamente in un destino professionale ineludibile). Oppure si sgretolano clamorosamente, lasciandoti nel mezzo di una vera e propria palude di incertezza su quello che sei e quello che vuoi, facendoti inevitabilmente sentire “già vecchio” e irrisolto a venticinque anni (è il destino peraltro di moltissime biografie di artisti, letterati, intellettuali: entrare in università attraverso la porta di una facoltà, poi uscirne a metà per aprirne altre, di altre aule, per ascoltare la parola di altri docenti e trovare finalmente i propri maestri e la propria vera vocazione).
Questo libro ruota appunto tutto attorno al tempo forte della vita universitaria: benché né il suo autore (che poi ha fatto l’editore) né il protagonista abbiano mai perseguito la cosiddetta carriera accademica (difficile pensare a una figura più anti-accademica di Pasolini, ve lo immaginate a tenere una cattedra in qualche università italiana o anche straniera? Avrebbe fatto incazzare di brutto tanto i colleghi e i rettori quanto gli studenti: basti pensare alla querelle sul Sessantotto…).
Il presente studio, non accademico ma “ricognitivo” come tiene a sottolineare l’autore, nasce dalla volontà di quel grande e per molti versi insuperato italianista che è stato Ezio Raimondi. In ambito bolognese e universitario, dunque, sotto forma di una tesi di laurea assegnata nei primi anni Novanta dall’allora docente di letteratura italiana – già autore, fra gli altri, di Le pietre del sogno e Il romanzo senza idillio – a un valoroso studente (e anche coraggioso, vista la mole del lavoro che avrebbe dovuto espletare).
C’è, in questa idea raimondiana, un che di quella genialità che tutti gli riconoscevano e ancora gli riconoscono. Si tratta in fondo di commissionare una tesi di laurea su una tesi di laurea – quella che Pasolini studente chiese a Longhi suo professore e i cui primi capitoli perdette dopo l’8 settembre ’43, allorché, trovandosi sotto le armi, il suo reparto venne catturato dai tedeschi. È una pura mise en abyme: la duplicazione di un evento ottenuta incastrandone uno nell’altro. Procedimento tipicamente barocco, ma anche manzoniano, concetto-chiave per la teoria della letteratura professata da Raimondi.
Qui, però, si deve fare attenzione: si parla non di barocco, per quel che riguarda la lezione di Longhi assimilata da Pasolini, ma di manierismo. I termini non sono da confondersi, perché, come ci insegnano storici e analisti dell’arte e della letteratura, non potrebbero essere più diversi tra loro. Basti dire – senza addentrarsi nell’argomento – che nella categoria estetica, creativa e anche morale del manierismo convivono un’inquietudine e un intellettualismo profondi, quasi divoranti, che risultano estranei al successivo Barocco. Due termini, inquietudine e intellettualismo, che meglio non potrebbero definire la vocazione, più ancora che la poetica, successiva di Pasolini autore-pittore mancato, del resto, che amava vedersi nelle vesti di antico affrescatore, come sappiamo.
Il concetto è efficacemente fissato in questo saggio, con una formula che potrebbe essere definitiva: «Uno degli elementi fondamentali della scrittura manieristica di Pasolini è proprio il rifacimento della pittura, che avviene ancora una volta sotto il segno del suo maestro Longhi». Rifacimento della pittura che, come si sa, raggiunge la sua massima evidenza nel cinema pasoliniano: ma che questo saggio ci insegna a vedere anche al di là dell’evidenza di superficie, nelle pagine letterarie dei romanzi e della poesia.
[…] Su tutto aleggia quello che si potrebbe dire lo “spirito bolognese”. Il quale, diciamo la verità, non sembra poi così cambiato – almeno al livello dei luoghi e delle atmosfere universitarie-letterarie – dagli anni Quaranta della bella compagnia di Pasolini, Serra, Arcangeli e altri, agli anni Ottanta-Novanta in cui questo saggio è stato scritto. Certo, di mezzo c’era passato il Sessantotto e, specificamente a Bologna, il Settantasette: per carità. Però le aule di via Zamboni, la Libreria Nanni sotto il Portico della Morte, certe lunghe lunghissime passeggiate infittite di discettazioni, l’amore viscerale e anche un po’ snob degli studenti “migliori” per Contini oltre che per Longhi – e soprattutto i sogni di una creatività futura, della vita adulta come un grande campo pieno di opportunità nel quale mettersi alla prova da scrittori, poeti, registi (sogno o piuttosto illusione), in fondo non erano poi tanto cambiati.
E la nostalgia – quella per gli anni universitari, quando capitava di “avere tutto per possibilità”, come dice un altro bolognese – era sempre la stessa, invincibile. […]
***
Quando Gianfranco Contini nel 1973 pubblica in un unico volume un’antologia degli scritti di Longhi dal titolo Da Cimabue a Morandi, Pier Paolo Pasolini saluta l’evento come «l’avvenimento culturale dell’anno» e ripercorre nella memoria gli anni in cui, giovanissimo studente universitario, seguiva le lezioni del docente di storia dell’arte medievale e moderna, rievocando la sostanza di quell’incontro in termini quasi mitici: «Se penso alla piccola aula (con banchi molto alti e uno schermo dietro la cattedra) in cui nel 1938-39 (o nel 1939-40) ho seguito i corsi bolognesi di Roberto Longhi, mi sembra di pensare a un’isola deserta, nel cuore di una notte senza più luce. E anche Longhi che veniva e parlava su quella cattedra, e poi se ne andava, ha l’irrealtà di una apparizione.
Era, infatti, un’apparizione. Non potevo credere che prima e dopo aver parlato in quell’aula, egli avesse una vita privata che ne garantisse la normale continuità. Nella mia immensa timidezza di diciassettenne (che dimostrava almeno tre anni di meno) non osavo nemmeno affrontare un tale problema. […] Ciò che Longhi diceva era carismatico. […]
Allora, in quell’inverno bolognese di guerra, egli è stato semplicemente la Rivelazione».
Che cosa faceva Longhi in quell’auletta appartata e quasi introvabile di via Zamboni? Della “storia dell’arte”? Il corso era quello memorabile sui Fatti di Masolino e Masaccio3.
L’indicazione che Pasolini fornisce persino del titolo del corso universitario, «[…] i miei Fatti di Masolino e Masaccio» dirà poche righe dopo, ci pone da subito di fronte a una sorta di intertestualità dichiarata. Se anche la lezione può essere considerata un testo orale dove l’ascoltatore fa l’esperienza di lettore, non c’è dubbio che Pasolini comincia a essere lettore di Longhi nel momento in cui assiste alle sue lezioni e di Longhi rimarrà lettore sempre, allievo e lettore, per tutta la vita. Anche nell’ultimo romanzo pubblicato postumo, Petrolio4, Longhi viene incluso fra Dante, Dostoevskij, Sade e altri nella lista promemoria che Pasolini compila durante la preparazione del romanzo. Nella «fitta selva delle voci»5 che lo circonda, nella molteplicità delle letture e degli incontri che costituiscono la sua memoria come linguaggio, la voce di Roberto Longhi resta certamente fra le più nitide.
L’acquisizione critica della lezione longhiana viene quindi assunta da Pasolini, ancora studente universitario, come valore e modello profondo, come dato di partenza da cui sviluppare una personale linea critica e interpretativa. Le «meravigliose capacità istrioniche di Longhi, le sue gioiellerie severe» si rivelano per lo studente una vera «fulgurazione»:
Che cos’è un maestro? Intanto si capisce soltanto dopo chi è stato il vero maestro: quindi il senso di questa parola ha la sua sede nella memoria come ricostruzione intellettuale anche se non sempre razionale di una realtà comunque vissuta. Nel momento in cui un maestro è effettivamente e esistenzialmente un maestro, cioè prima di essere interpretato o ricordato come tale, non è dunque maestro nel senso reale di questa parola. Egli viene vissuto e la coscienza del suo valore è esistenziale. Longhi era semplicemente uno dei miei professori all’università: ma l’aula dove insegnava era un posto diverso da tutti gli altri, fuori dall’entropia scolastica. […] Longhi era sguainato come una spada. Parlava come nessuno parlava. Il suo lessico era una completa novità. La sua ironia non aveva precedenti. La sua curiosità non aveva modelli. La sua eloquenza non aveva motivazioni. Per un ragazzo oppresso e umiliato dalla cultura scolastica, dal conformismo della società fascista, questa era la rivoluzione».
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