Si apre con una lettera di censura il mio nuovo libro Empatia selettiva: perché
l’Occidente è rimasto a lungo indifferente al genocidio di Gaza. La lettera,
scritta da chi avrebbe dovuto essere il mio editore, chiedeva di sostituire il
termine “genocidio” con “atrocità di massa”. Rifiutai e mi ritrovai senza
editore. Per mesi nessuno ha voluto pubblicare il libro: né nel Regno Unito né
negli Stati Uniti, dove ho lavorato per quasi due decenni, né in Italia, dove
ora risiedo.
Non elenco le case editrici che hanno rifiutato il manoscritto, tergiversato,
avanzato distinguo o provato a convincermi a non usare la parola “genocidio.”
Analizzare le loro singole motivazioni richiederebbe un approfondimento, ma non
è questo il punto. Il vero problema è la loro presunta indipendenza e il “panico
morale” scatenato dal timore di essere accusati, in modo pretestuoso e
manipolatorio, di antisemitismo, come sottolinea Donatella Della Porta.
Paradossalmente, molti degli autori citati nel libro, tra cui Albert Einstein,
Hannah Arendt, Erich Fromm, Noam Chomsky, Gabor Maté, Norman Finkelstein e molti
altri, sono ebrei. Un dettaglio del tutto irrilevante per chi strumentalizza
l’antisemitismo per zittire chi denuncia un genocidio di 20.000 bambini
innocenti.
Tutte queste case editrici, ne sono abbastanza certo, si percepiscono come
istituzioni libere di Paesi avanzati, che promuovono nobili valori come i
diritti umani. E, in parte, lo sono davvero. Il problema è che si tratta di
diritti umani a targhe alterne, riconosciuti ad alcune vittime ma negati ad
altre.
Il doppio standard morale ed emotivo di fronte al genocidio di Gaza, è il tema
centrale del libro. Come sottolineato nella copertina del saggio, “Gaza è
diventata un punto cieco morale nell’occhio occidentale”, uno specchio che
riflette l’ipocrisia della nostra politica internazionale. A ben vedere, non
dovrebbe sorprendere più di tanto che il libro non sia stato voluto da un lungo
elenco di case editrici. Per molte, pubblicarlo avrebbe significato guardarsi
allo specchio e ammettere di operare in una società che, normalizzando un
genocidio, ha assistito al crollo dei propri principi etici. Come si legge nel
libro, “sotto le macerie di Gaza, l’Occidente ha seppellito la propria anima”.
Chi ha avuto invece il coraggio di pubblicarlo?
La casa editrice Brill, grazie a David Fasenfest, che ha reso possibile la
versione inglese, Selective Empathy: The West Through the Gaze of Gaza, in
uscita il 18 dicembre, e la Compagnia Editoriale Aliberti, grazie a Francesco
Aliberti, che ha pubblicato Empatia selettiva: perché l’Occidente è rimasto a
lungo indifferente al genocidio di Gaza, il 26 novembre scorso. Senza di loro,
questo libro non sarebbe stato pubblicato.
Ma siamo davvero sicuri che si tratti di censura e “panico morale”? C’è sempre
la possibilità che il libro non sia sufficientemente meritevole, per
originalità, qualità o leggibilità. Esaminiamo allora ciascuno di questi tre
aspetti.
Originalità. Si tratta del primo libro pubblicato in italiano con il titolo
“Empatia selettiva” e del secondo al mondo in lingua inglese. Il primo testo in
inglese con lo stesso titolo, auto-pubblicato, si concentra prevalentemente sul
narcisismo, non sull’empatia selettiva. Nessun altro libro ha analizzato questo
concetto di psicologia politica nel contesto del genocidio di Gaza.
Qualità. Il libro si basa su un ampio apparato di fonti scientifiche, tra cui
articoli pubblicati su riviste come The Lancet e British Medical Journal, oltre
a rapporti di organizzazioni internazionali come Oms, Nazioni Unite, Amnesty
International e Human Rights Watch. La ricerca alla base del volume ha portato
anche alla pubblicazione di un articolo su The Lancet, firmato insieme a Ilan
Pappé, Ghassan Abu-Sittah e Jonathan Montomoli, e a una lettera aperta
sottoscritta da storici, politologi ed esperti di genocidio di rilievo
internazionale, tra cui Avi Shlaim, Rashid Khalidi, Omer Bartov e Martin Shaw.
Queste iniziative hanno contribuito al riconoscimento formale del genocidio di
Gaza da parte di numerose associazioni accademiche e professionali che contano
oltre 10 milioni di iscritti.
Leggibilità. Il testo è pensato per un pubblico ampio, non specialistico. La
qualità del manoscritto è testimoniata dalle recensioni e dai commenti
autorevoli di studiosi e intellettuali di primo piano, tra cui Nassim Taleb (Il
cigno nero), George Monbiot (The Guardian), Richard Wilkinson (La misura
dell’anima) e altri.
La ricezione iniziale del libro segnala un interesse diffuso, testimoniato dalle
numerose presentazioni pubbliche nelle prime settimane dall’uscita. I proventi
dei diritti d’autore, e una parte del ricavato dalla vendita del libro
dell’editore, saranno devoluti ai progetti di assistenza sanitaria di Emergency.
L'articolo ‘Empatia selettiva’, voglio parlarvi del mio libro sul genocidio a
Gaza che non doveva uscire proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Libri
Natale è magia, luci, regali e anche canzoni. Tante sono le canzoni di Natale,
nate in diverse parti del mondo che accompagnano questi giorni di festa, per
rendere ogni istante ancora più magico. Molte delle quali tradotte in tutte le
lingue, affinché possano rimanere e che rimangono nella memoria sin dalla tenera
età.
D’altra parte, la musica è sempre stata una forma comunicativa che ha unito e
questi brani natalizi ancor di più, entrano nelle case, radunano persone attorno
a cori che animano le strade di grandi città, accompagnano durante I momenti di
relax o di svago. Basti pensare ai grandi classici del natale come: Happy Xmas,
White Christmas
Jingle Bell, We wish you a Merry Christmas, Feliz Navidad e molte altre ancora.
Un regalo originale è proprio tramandare queste canzoni racchiuse in questi
libri sonori: ottimi strumenti per avvicinare i più piccoli ad amare la musica e
anche i libri. Ecco 5 libri sonori sul Natale con le melodie più belle da
imparare e ascoltare.
Natale. Piccoli libri sonori
di Sam Taplin
illustrazioni di Jo Rooks
traduzione di Francesca Logi
Editore Usborn, Età di lettura: da 1 anno
Per avvicinare i bambini più piccoli alle melodie del Natale, questo è un ottimo
libro. Un regalo perfetto per ascoltare allegri motivi natalizi che animano le
pagine colorate a tema. Basta semplicemente cliccare un pulsante e giocare con
la musica.
Auguri di buon Natale
Editore Doremì, Età di lettura: da 2 anni
Un libro al cui interno sono presenti i testi delle canzoni, accompagnate con la
melodia.
Racchiude le più belle canzoni del Natale, realizzato dalla casa editrice Doremì
che si occupa di insegnare la musica sin dalla tenera età.
Natale è
di Giulia Pesavento
illustrazioni di Irene Bommaci
Editore Paoline, Età di lettura: da 3 anni
Un libro sonoro realizzato da Giulia Pesavento che racchiude le dieci famose
melodie natalizie.
Sfogliando le pagine di questo libro edito da Paoline è possible immergersi in
un viaggio musicale vero e proprio che accompagna i giorni di questa magica
ricorrenza.
Le mie prime arie classiche di Natale
di Emilie Collet
illustrazioni di Séverine Cordier
Editore Gallucci, Età di lettura: da 3 anni
Gallucci ha racchiuso in un libro sonoro, grazie a Emilie Collet, i brani dei
più iconici musicisti di musica classica di tutto il mondo, come: Ciaikovskij e
Bizet che hanno composto le più celebri melodie del Natale tra marce, valzer e
inni.
Un libro dagli angoli rotondi adatto ai bambini più piccoli che sono attratti
dalla conoscenza dei suoni e della musica.
Il primo libro di musica è da regalare per queste festività natalizie.
Il libro pianoforte di Natale. Con 8 famose canzoncine da leggere, cantare e
suonare!
di Anna Casalis
illustrazioni di Maurizia Rubino
Editore Dami, Età di lettura: da 5 anni
Un meraviglioso libro interattivo edito da Dami, in cui l’autrice Anna Casalis
ha racchiuso testi e spartiti musicali delle arie natalizie più famose.
Un libro per approcciarsi alla conoscenza musicale, in quanto ha oltre al testo,
dei veri e propri tasti neri e bianchi che formano un pianoforte.
Chiunque può esercitarsi a diventare un abile pianista: un doppio regalo in
parole e musica.
L'articolo Libri sonori di Natale per bambini: ecco 5 titoli con le canzoni
natalizie per giocare e avvicinare i più piccoli alla musica proviene da Il
Fatto Quotidiano.
La ricerca pluriennale, culminata nel saggio Divagazioni su Renan, Wagner e
altre allucinazioni (Ei Editori, 2025), è stata un viaggio entusiasmante,
intrapreso con mio padre, Francesco Maiello, antropologo e grande appassionato
del compositore di Lipsia. Scandagliando la vasta letteratura critica dedicata a
Richard Wagner – al quale si dice sia stato dedicato un numero di volumi pari a
quello scritto su Gesù e Napoleone – la nostra indagine ha assunto una
traiettoria inattesa. Ci siamo infatti imbattuti in una costante, divenuta uno
dei punti nodali della nostra analisi, rappresentata (a partire per lo meno dal
1945 in poi) da una certa aura di persistente ostilità, filtrata in gran parte
della saggistica dedicata al genio tedesco. Ne sono scaturite alcune riflessioni
cruciali, focalizzate su un’evidente disparità di giudizio etico e sulla pretesa
che Wagner, a differenza di altri, dovesse possedere una sorta di “unicità
morale”, fino al punto di doversi sottrarre al quadro concettuale e ideologico
del suo tempo.
Il primo interrogativo che ci si è parato innanzi è stato: perché? Perché una
sorta di condanna morale, anteposta a ogni discussione o possibile valutazione
sul Maestro di Bayreuth? Questo interrogativo, infatti, non affligge altri
giganti della cultura, non sottoposti a un giudizio così pervasivo e
persecutorio. Anche in quelle che appaiono vere e proprie celebrazioni
artistiche, è impossibile non avvertire un’aria di diffusa ostilità che trasuda
da saggi sistematicamente disseminati di forme dubitative e congiunzioni
avversative (come ‘però, nonostante’) volte a gettare un’ombra sinistra su tutto
ciò che riguarda la vita di Wagner. Una disparità di metodo incomprensibile se
si pensa che non esistono centinaia di volumi dedicati alla riprovevole condotta
morale di Rousseau, reo di aver allontanato i figli avuti con una moglie ridotta
praticamente in schiavitù, né alle nefandezze di Victor Hugo.
Non si trovano, d’altronde, altrettanti volumi volti a confutare la figura di
Dostoevskij come presunto pedofilo e giocatore compulsivo, né ci si è accaniti
contro l’indegna condotta di Claude Debussy nei confronti della moglie. Analoga
clemenza è stata riservata al promiscuo Giacomo Puccini, o al dissoluto
Gioachino Rossini. Neppure i comportamenti di figure come il Mahatma Gandhi, che
sottopose a esperimenti sul celibato le sue giovani compagne, o di giganti della
scienza come Einstein, che maltrattava più che emotivamente la moglie, si sono
tradotti in una “perenne persecuzione intellettuale”. È un po’ come se per tutti
si usasse dire: “Era un grande, anche se aveva un brutto carattere”; per Wagner,
al contrario: “Era un mostro, che però, guarda caso, ha scritto della musica
sublime”.
Un certo accanimento specifico deriverebbe, secondo alcuni, dall’attribuzione a
Wagner della responsabilità morale e storica di aver ispirato il Nazismo, come
se i suoi testi filosofici o i suoi drammi detenessero la capacità causale di
scatenare un’apocalisse del genere. Secondo questa logica (o principio di
prefigurazione storica e successiva strumentalizzazione delle idee), Verne, che
nei suoi romanzi descrisse con agghiacciante precisione la guerra totale,
potrebbe serenamente essere ritenuto responsabile degli orrori del XX secolo. O
ancora H.G. Wells, che nel 1914 inventò in un suo libro la “bomba atomica”,
dovrebbe essere l’ispiratore della catastrofe nucleare. E che dire di Niccolò
Machiavelli, le cui teorie sul potere sono state studiate e applicate da tiranni
di ogni epoca, o di Nietzsche, strumentalizzato apertamente per giustificare
pratiche che il filosofo non avrebbe probabilmente approvato?
Un conto è la lucidità profetica di certi autori, o ciò che possono
sinistramente augurarsi in un momento di rabbia e delusione; altro è ritenerli
responsabili di cose accadute post mortem, attribuendo loro il potere di
alterare il corso di macro-eventi che la storiografia moderna ha ampiamente
dimostrato non poter dipendere da singole figure, dato che, al contrario, sono
piuttosto le grandi dinamiche sociali, economiche e politiche a influenzare gli
uomini e le loro azioni.
In merito alla seconda questione, ovvero il “sottrarsi al proprio tempo”, anche
ammesso che questa visione di un Wagner “stregone proto-nazista” fosse vera, ci
si interroga sul perché tale accusa sia scagliata, con tale veemenza,
esclusivamente contro di lui, sorvolando ad esempio sul profondo antisemitismo e
razzismo di compositori come Čajkovskij, Mussorgsky o Strauss. E cosa dire di
Kant, la cui antropologia non è certo esente da teorie notoriamente razziste?
Similmente, potremmo citare Voltaire, sul quale non risultano migliaia di
pubblicazioni volte a ricordare le sue posizioni razziste e apertamente
antisemite. Né si applica lo stesso metro a premi Nobel come Pirandello, che
aderì apertamente al fascismo nel 1924.
E perché mai, quando si cita Dante Alighieri, non si ricorda sistematicamente il
suo parziale antisemitismo e le sue invettive contro determinate categorie
sociali e politiche? Perché gli scritti misogini e reazionari di Baudelaire o
Honoré de Balzac non vengono continuamente evocati per screditare questi due
grandi scrittori? E come si può sorvolare su Louis-Ferdinand Céline, autore di
feroci pamphlet antisemiti e collaborazionista durante l’occupazione nazista? Un
“trattamento di favore” che si estende persino a intellettuali come T.S. Eliot,
Emil Cioran e Mircea Eliade, i quali manifestarono un’aperta adesione al nazismo
e all’antisemitismo.
Alla fine dei conti, tutto ciò che abbiamo tentato di fare nel nostro lavoro è
stato ricordare ancora una volta che anche nella storia tout-court e in quella
biografica, problemi complessi non ammettono risposte semplici. Richard Wagner è
un pianeta, un nucleo culturale e storico di vastissima portata, crocevia di
questioni epocali che rendono del tutto marginale l’ossessione per il suo
carattere o per la sua adesione a idee diffuse al suo tempo.
Da parte nostra accogliamo la lezione di Carlo Sini, il quale ricorda che la
ricerca non è un tribunale della coscienza moderna su cui proiettare le nostre
ansie contemporanee. Al contrario, essa esige la ricerca di una profonda
connessione contestuale: l’indagine della cornice storica, intellettuale e
sociale entro la quale le sue dinamiche hanno realmente avuto luogo.
Diversamente, ci si trastulla con i giocattoli sbagliati.
L'articolo Divagazioni su Renan, Wagner e altre allucinazioni: perché la
condanna morale riguarda solo alcuni grandi proviene da Il Fatto Quotidiano.
Non arriva in tutt’Italia ma nella notte tra sabato e domenica, in molte zone
del Nord del Paese (Veneto, Trentino Alto Adige, Lombardia, Friuli Venezia
Giulia ed Emilia Romagna), sarà la festa di Santa Lucia. In Pianura Padana, sono
già spuntati sui cancelli delle scuole e delle abitazioni, i mazzolini di fieno
per l’asinello che traina il carretto dei doni e i bambini hanno preso carta e
penna (la mail, per fortuna, ancora non ce l’ha Santa Lucia) per scrivere la
lettera con i desiderata. E’ scontato che in queste missive non sempre ci siano
dei libri ma una buona lettura resta uno dei regali più belli e, a volte,
indimenticabili per questa occasione. Abbiamo scelto per voi, esaminando le
classifiche e osservando la qualità del testo oltre che delle illustrazioni,
dieci libri che potete donare ai vostri bambini e ragazzi.
L'articolo Santa Lucia, 10 libri per bambini da leggere e regalare il 13
dicembre: dalla Pimpa a “Missione risata”, ecco i nostri consigli proviene da Il
Fatto Quotidiano.
“Ma ci sarà su Amazon? su IBS? su Feltrinelli?”. Sta per uscire un nuovo saggio
scritto da me insieme a un collega giornalista e una delle prime domande che mi
sono trovato a rivolgere all’editore è stata proprio questa: sarà rinvenibile il
titolo sulle piattaforme online?
Mi limito al colosso Amazon che in Italia è approdato dal 2010 e che avrebbe
ogni mese più di 38 milioni di utenti nella sola Italia. Sono trascorsi quindici
anni appena e già la nostra vita è modellata su questo gigantesco moloch che sta
distruggendo il commercio di prossimità, consuma enormi risorse energetiche, e
consuma altresì suolo con i suoi hub. Qualcuno si ricorda di com’era la nostra
vita prima di Amazon?
Buona parte di voi che mi leggete è sicuramente contraria all’acquisto online,
ma poi per le più svariate ragioni si trova ad utilizzarlo, ma vergognandosene
un po’, ed ecco le giustificazioni di rito “avevo fretta”, “l’ho trovato solo
qui”, “posso restituirlo”, etc. etc. E così eccoci ad alimentare il capitalismo
globale, quello che faceva affermare a Warren Buffet: “È in corso una lotta di
classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra,
e stiamo vincendo”. Qui particolarmente evidente con la creazione anche di una
nuova classe di “schiavi”.
È uno dei temi principe che tocco anche nel mio recente “bianco benestante
ambientalista”: tu puoi avere le migliori intenzioni di questo mondo, in
particolare ti ritieni di essere e fai l’ambientalista, ma poi il tuo stile di
vita fatalmente cozza con la salvaguardia del pianeta: fai qualche viaggio,
mangi un po’ di carne, usi un po’ l’automobile, compri appunto un po’ su Amazon.
Alla fine della fiera lottare o non lottare per la salvaguardia del pianeta non
farà alcuna differenza, essendo identica l’impronta ecologica.
Ovviamente c’è la risposta positiva dell’editore alla domanda di cui all’incipit
e noi che tiriamo un sospiro di sollievo. Meno male che Amazon c’è!
L'articolo Lo dico anch’io: “meno male che Amazon c’è” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Quando caddero le prime bombe, ero sdraiato a pancia in giù sul tappeto in
camera mia ad ascoltare la radio – trasmettevano Suffragette City di David
Bowie: di colpo uno stridio metallico squarciò l’aria e un’esplosione si abbatté
sulle nostre tende, spazzandole via dal loro binario. La pressione fu così
violenta che mi sentii svenire, come se fossi rimasto appeso a testa in giù alla
sbarra troppo a lungo. Tutti gli impianti d’allarme della strada andarono nel
panico, io invece no. Non ancora. Ben presto sarei stato in preda a un panico
costante e avrei visto la morte in ogni ombra, ma il primo giorno di guerra ero
tutt’al più sbalordito.
Sarajevo, 1992. Il mondo, si sa, non è mai stato un posto particolarmente
rassicurante, ma di solito i disastri arrivano con un certo preavviso, un
telegiornale allarmato, magari una mezza crisi internazionale. Non per Tijan
Sila, che a undici anni si ritrova il fracasso della storia (quella vera, quella
con le bombe) a sfondargli la finestra di casa mentre in sottofondo gracchiava
un pezzo di David Bowie. Un’immagine che da sola basterebbe a definire l’intera,
perversa assurdità del conflitto balcanico: la musica pop occidentale che fa da
colonna sonora all’esplosione della civiltà.
Sila, oggi scrittore, insegnante e membro di una band punk, in questo Radio
Sarajevo (traduzione di Cristina Vezzaro; Voland) non fa prigionieri e non cerca
la facile commozione. Ci sbatte in faccia la verità con la brutalità onesta di
chi quella realtà l’ha vissuta, cresciuto – per forza di cose – tra i brandelli
di una quotidianità andata in pezzi. È un romanzo di formazione, certo, ma uno
di quelli che ti lasciano addosso il cattivo odore della polvere da sparo e il
sapore agrodolce della sopravvivenza.
Il punto nevralgico, quello che fa tremare le fondamenta morali del lettore
benpensante, è il modo in cui la guerra, dopo lo shock iniziale, si trasformi in
una “quasi abitudine”. L’orrore si banalizza, diventa sfondo, e in quel vuoto si
insinua la noia. E qui Sila centra il bersaglio, come solo uno che ha giocato a
nascondino tra le rovine può fare: mentre i genitori, simboli dell’inadeguatezza
adulta, si rivelano inermi di fronte al crollo del loro mondo, l’undicenne Tijan
e i suoi amici Rafik e Sead si rimboccano le maniche.
Non c’è spazio per la retorica dell’infanzia rubata. C’è solo l’urgenza cinica,
pragmatica, di campare. Saccheggi, mercato nero, e lo scambio più beffardo e
geniale: riviste pornografiche barattate con i soldati per dolciumi. È
un’economia di guerra che smaschera ogni ipocrisia: l’eros come merce di
scambio, l’innocenza dei bambini che si contamina per un po’ di zucchero. La sua
è la generazione dei “dimenticati,” come lui stesso la definisce, quella che ha
imparato a leggere il mondo non sui libri di scuola (chiusi) ma sui bossoli in
terra.
Ci sedemmo sul bordo del marciapiede e iniziammo a lanciare il pallone contro
una delle porte dei garage. Dovevamo farlo rimbalzare in modo che ci ritornasse
dritto tra le braccia. La guerra si notava anche dal fatto che nessun vicino
apriva di colpo la finestra per lamentarsi del rumore – ormai eravamo abituati a
decibel ben più alti di quelli di uno Spalding che sbatteva contro una lamiera
d’acciaio, e poi era un suono di pace: il pallone e la porta si scontravano come
i piatti di un’orchestra, come grandi cimbali nascosti nella penombra,
nell’odore di fieno marcio.
Lo stile è avvincente, diretto, con quel tono tragicomico che disinnesca il
patetismo e lo trasforma in una risata strozzata, in un sardonico atto di
resistenza. Non è un libro “commovente” nel senso consolatorio del termine, è un
libro necessario. Non ci spinge a piangere, ma a svegliarci, a guardare il volto
della catastrofe senza i filtri del perbenismo occidentale. Il prestigioso
Premio Ingeborg Bachmann, vinto da Sila nel 2024, non è un riconoscimento
letterario qualsiasi, è una consacrazione alla Verità, quella verità cruda e
inopportuna che questo romanzo restituisce pienamente.
Radio Sarajevo è una trasmissione pirata dal cuore della catastrofe, un monito
che suona forte tra le macerie. Se volete una fotografia lucida e senza sconti
di cosa significhi crescere quando il mondo decide di mettersi a sparare, questo
è il libro da leggere.
L'articolo Radio Sarajevo di Tijan Sila: una trasmissione pirata dal cuore della
catastrofe proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Ho i nomi in tante registrazioni dei nostri colloqui, ma Virginia non ha voluto
rivelarli per proteggere i suoi figli. E comunque i nastri non sono a casa mia”.
Amy Wallace ha scritto il libro di memorie Nobody’s Girl (edito da Bompiani)
insieme a Virginia Giuffrè; lei sa tanto, se non tutto ciò che accadeva nelle
ville e sugli aerei privati di Jeffrey Epstein: chi c’era, chi aveva goduto
delle prestazioni delle ragazze che lui metteva a disposizione di amici e
ospiti. Il finanziere con il forte accento di Brooklyn conosceva i desiderata
dei potenti di cui amava circondarsi, le loro perversioni e sulla base di queste
intesseva relazioni tra sesso e affari, scalata sociale e avvertimenti in stile
mafioso.
“Sono consapevole dei rischi” ci ha spiegato Amy Wallace davanti ad uno sfondo
turchese lucido ed intenso che la incornicia mentre si trova in America. “Ho
sperato di essere protetta dal fatto che il libro ormai è fuori e non si può
tacere; ma i figli di Virginia sono ancora vivi” e, ricordando le diverse
minacce, anche di morte, ricevute dalla grande accusatrice di Epstein, dell’ex
principe Andrea, di un ex primo ministro, di imprenditori e professori rimasti
ancora anonimi, ribadisce che non sarà lei a rivelarli, limitandosi a confermare
“sapendo chi sono i nemici, sono attenta”. L’America in questi giorni è ancora
appesa alle promesse di Donald Trump che in campagna elettorale aveva assicurato
la sua intenzione di dare il via libera alla pubblicazione dei file di Jeffrey
Epstein; lì sarebbe custodito ogni segreto, ogni nome altisonante di chi ha
partecipato all’orgia collettiva di quei potenti della terra ai quali venivano
date in pasto minorenni in difficoltà, arruolate dal faccendiere ambizioso e
dalla sua sodale inglese dell’upper class, Ghislaine Maxwell, oggi in carcere in
attesa della “grazia” di Trump. Chi sa parli è la richiesta che non conosce più
colore politico, perchè al congresso ormai tanto i democratici quanto i
repubblicani hanno compreso che è ora di aprire quei faldoni e dire la verità.
Quando Epstein nel 2006 fu arrestato la prima volta nella sua casa di Manhattan
si era preparato all’arrivo della polizia. Come spiegato anche nel libro, i
computer erano scomparsi e così tutte le prove che potevano contenere. Ma la
seconda visita delle forze dell’ordine, tredici anni dopo, lo colse impreparato,
quindi “potrebbero esserci stati souvenir o raccolte di prove”, scandisce la
Wallace ricordando, tra l’altro, come l’ossessione di Epstein per i trofei così
come le foto, nude, delle giovani che avevano frequentato la sua vita, era
talmente forte che difficilmente li avrebbe distrutti tutti. E non va
dimenticato che le sue case erano piene di telecamere “quindi dovrebbero
esistere le registrazioni”. Amy Wallace ribadisce come nulla fosse stato
lasciato al caso quando lei e la Giuffrè avevano messo insieme ricordi e prove:
“Sono una giornalista, non potevo scrivere un libro vago, ma dovevo verificare
tutti i fatti perchè era importante che creassimo un documento credibile”.
La grande accusatrice di Epstein e della sua rete di potenti, si è tolta la vita
lo scorso aprile, a 41 anni, sopraffatta dai suoi demoni, ma ha preteso che Amy
Wallace andasse avanti con il loro progetto e che il libro uscisse ad ogni
costo.
Tormentata dalle voci che le ripetevano continuamente che il mondo sarebbe stato
migliore senza di lei, alla fine ha ceduto e la giornalista, che le è stata
vicina negli ultimi tempi, dubita che la sua morte possa avere una spiegazione
diversa da quella ufficialmente accettata del suicidio.
“Io non c’ero quando è morta, ma c’era il fratello minore Skydy e lui è sicuro
che si sia tolta la vita”. Wallace ricorda come quel giorno Virginia Giuffrè si
trovasse sola in casa e la porta fosse chiusa a chiave dall’interno. In passato
aveva già tentato di togliersi la vita due volte e nel 2019 aveva scritto su X
“non ci credete” se vi diranno che mi sono uccisa. “Capisco i sospetti – ha
chiosato Wallace ricordando quante morti di questo tipo abbiano cancellato i
protagonisti della vicenda Epstein (lui compreso) – la lista è lunga e mancano
informazioni”, da qui l’urgenza di pubblicare tutti i contenuti dei file.
“Oggi io parlo per lei perchè non c’è, ma questo è il suo libro, è la sua
storia, il suo coraggio”. Wallace commossa, ci spiega come la prima motivazione
di Virginia Giuffrè fosse quella di aiutare tutte le vittime di violenza, e
“migliaia di persone mi hanno cercata anche attraverso i social per dirmi
grazie, vorrei poter ringraziare Virginia”. “L’altro giorno una signora di 70
anni mi ha scritto dall’Australia per dirmi: quando avevo 3-4 anni sono stata
violentata da un vicino di casa e prima di leggere questo libro non avevo mai
capito quanto questo mi avesse fatto male. Grazie per avermi aiutata a guarire”.
La giornalista sorride con dolcezza quando il ricordo si fa più personale e
descrive la relazione che si era instaurata tra le due. “Lei amava fare spese,
l’ultima volta che andammo per negozi era l’ottobre 2024 e lei cercava sempre di
comprarmi dei regali”.
Oggi Amy Wallace indossa il grosso anello nero a forma di rosa e creato da una
cerniera di stoffa, comprato per 50 centesimi da una ragazza che amava fare
regali, cercava di accudire chiunque, in primis la sua famiglia ed i suoi figli,
gli amati animali, persino i suoi aguzzini, chiunque tranne se stessa. “Non
voglio che la mia vita sembri perfetta dopo tutto quello che ho passato –
ripeteva sempre – io cerco di farla sembrare così, ma io sto male ogni giorno e
questo deve essere detto. Non sono perfetta, faccio fatica”. Il modo in cui
Giuffrè entrava in connessione con le persone che sono state abusate era il suo
grande dono, come ricorda Wallace spiegando come la sua storia, oggi più che
mai, abbia aperto uno squarcio sulle grandi ingiustizie sociali che abitano
negli Stati Uniti, un paese “dove a natale non ci saranno i soldi per riscaldare
tante case, dove il presidente dice che i generi alimentari sono più economici
ma non è vero”. Questa non è solo una storia di sesso e violenze, insiste
Wallace, ma di potere e di classi sociali, di uomini ricchi che adescavano e
stupravano ragazzine povere. Questa, a suo dire, si sta trasformando nel simbolo
di un discontento più grande infiammato dall’intreccio di potere e abusi ed una
indignazione generale che oggi chiede a gran voce che giustizia sia fatta.
L'articolo “Ho i nomi che Virginia Giuffrè non ha fatto per proteggere i suoi
figli. Sono consapevole dei rischi”. Le rivelazioni di Amy Wallace proviene da
Il Fatto Quotidiano.
In occasione dei cinquant’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, esce in
libreria un libro che ne celebra la poetica, a partire dagli anni universitari,
quando, sotto il Portico della Morte, a Bologna, un giovane friulano si
apprestava a consegnare la sua tesi di laurea commissionata dallo storico
dell’arte Roberto Longhi, ignaro che, a vent’anni dalla sua morte [avvenuta il 2
novembre 1975, Ndr], nel 1995, nelle aule dello storico ateneo bolognese,
qualcun altro avrebbe scritto e discusso una tesi sulla sua tesi.
È da qui che nasce “Sotto il Portico della Morte. Pasolini e Longhi tra arte,
scrittura e fulgurazione figurativa” di Francesco Aliberti, autore ed editore di
questo volume in uscita oggi, 3 dicembre, in tutte le librerie. Nella copiosa
produzione saggistica sulla figura e l’opera di PPP, questo è senz’altro un
volumetto da leggere. L’amore di Pasolini per l’arte, quella antica e quella
moderna, è infatti un’imprescindibile costante di tutta la sua produzione
letteraria e cinematografica. E’ proprio il “manierismo” artistico, la cui
scoperta risale agli anni universitari bolognesi e alle lezioni di Roberto
Longhi, la cifra che finirà per tratteggiare lo stile pasoliniano in tutta la
sua multiforme opera. Un manierismo “profondo” e convinto, che fra queste pagine
costellate di note dotte e curiose troviamo raccontato e descritto con la cura
dello studioso e la passione dello studente. “Sotto il portico della Morte” è un
testo ricognitivo, omaggio agli anni universitari, ai grandi maestri e alle
letture fondative, che parte dalla tesi di laurea commissionata dall’italianista
Ezio Raimondi a Francesco Aliberti, e di cui pubblichiamo, per gentile
concessione, un estratto della prefazione di Alessandro Di Nuzzo e, a seguire,
un estratto dell’introduzione:
Se la vita è fatta di stagioni, quella che corrisponde agli anni di
frequentazione dell’università (per chi l’ha fatta) resta per sempre un tempo
indimenticabile, nelle sue luci di gioventù e nei suoi – altrettanto giovanili –
lati oscuri.
È un tempo fondativo, in cui le “vocazioni” – più o meno forti, più o meno
chiare al primo ingresso nelle aule universitarie – si irrobustiscono per
indirizzare definitivamente la vita successiva (o se vogliamo per chiuderla
definitivamente in un destino professionale ineludibile). Oppure si sgretolano
clamorosamente, lasciandoti nel mezzo di una vera e propria palude di incertezza
su quello che sei e quello che vuoi, facendoti inevitabilmente sentire “già
vecchio” e irrisolto a venticinque anni (è il destino peraltro di moltissime
biografie di artisti, letterati, intellettuali: entrare in università attraverso
la porta di una facoltà, poi uscirne a metà per aprirne altre, di altre aule,
per ascoltare la parola di altri docenti e trovare finalmente i propri maestri e
la propria vera vocazione).
Questo libro ruota appunto tutto attorno al tempo forte della vita
universitaria: benché né il suo autore (che poi ha fatto l’editore) né il
protagonista abbiano mai perseguito la cosiddetta carriera accademica (difficile
pensare a una figura più anti-accademica di Pasolini, ve lo immaginate a tenere
una cattedra in qualche università italiana o anche straniera? Avrebbe fatto
incazzare di brutto tanto i colleghi e i rettori quanto gli studenti: basti
pensare alla querelle sul Sessantotto…).
Il presente studio, non accademico ma “ricognitivo” come tiene a sottolineare
l’autore, nasce dalla volontà di quel grande e per molti versi insuperato
italianista che è stato Ezio Raimondi. In ambito bolognese e universitario,
dunque, sotto forma di una tesi di laurea assegnata nei primi anni Novanta
dall’allora docente di letteratura italiana – già autore, fra gli altri, di Le
pietre del sogno e Il romanzo senza idillio – a un valoroso studente (e anche
coraggioso, vista la mole del lavoro che avrebbe dovuto espletare).
C’è, in questa idea raimondiana, un che di quella genialità che tutti gli
riconoscevano e ancora gli riconoscono. Si tratta in fondo di commissionare una
tesi di laurea su una tesi di laurea – quella che Pasolini studente chiese a
Longhi suo professore e i cui primi capitoli perdette dopo l’8 settembre ’43,
allorché, trovandosi sotto le armi, il suo reparto venne catturato dai tedeschi.
È una pura mise en abyme: la duplicazione di un evento ottenuta incastrandone
uno nell’altro. Procedimento tipicamente barocco, ma anche manzoniano,
concetto-chiave per la teoria della letteratura professata da Raimondi.
Qui, però, si deve fare attenzione: si parla non di barocco, per quel che
riguarda la lezione di Longhi assimilata da Pasolini, ma di manierismo. I
termini non sono da confondersi, perché, come ci insegnano storici e analisti
dell’arte e della letteratura, non potrebbero essere più diversi tra loro. Basti
dire – senza addentrarsi nell’argomento – che nella categoria estetica, creativa
e anche morale del manierismo convivono un’inquietudine e un intellettualismo
profondi, quasi divoranti, che risultano estranei al successivo Barocco. Due
termini, inquietudine e intellettualismo, che meglio non potrebbero definire la
vocazione, più ancora che la poetica, successiva di Pasolini autore-pittore
mancato, del resto, che amava vedersi nelle vesti di antico affrescatore, come
sappiamo.
Il concetto è efficacemente fissato in questo saggio, con una formula che
potrebbe essere definitiva: «Uno degli elementi fondamentali della scrittura
manieristica di Pasolini è proprio il rifacimento della pittura, che avviene
ancora una volta sotto il segno del suo maestro Longhi». Rifacimento della
pittura che, come si sa, raggiunge la sua massima evidenza nel cinema
pasoliniano: ma che questo saggio ci insegna a vedere anche al di là
dell’evidenza di superficie, nelle pagine letterarie dei romanzi e della poesia.
[…] Su tutto aleggia quello che si potrebbe dire lo “spirito bolognese”. Il
quale, diciamo la verità, non sembra poi così cambiato – almeno al livello dei
luoghi e delle atmosfere universitarie-letterarie – dagli anni Quaranta della
bella compagnia di Pasolini, Serra, Arcangeli e altri, agli anni Ottanta-Novanta
in cui questo saggio è stato scritto. Certo, di mezzo c’era passato il
Sessantotto e, specificamente a Bologna, il Settantasette: per carità. Però le
aule di via Zamboni, la Libreria Nanni sotto il Portico della Morte, certe
lunghe lunghissime passeggiate infittite di discettazioni, l’amore viscerale e
anche un po’ snob degli studenti “migliori” per Contini oltre che per Longhi – e
soprattutto i sogni di una creatività futura, della vita adulta come un grande
campo pieno di opportunità nel quale mettersi alla prova da scrittori, poeti,
registi (sogno o piuttosto illusione), in fondo non erano poi tanto cambiati.
E la nostalgia – quella per gli anni universitari, quando capitava di “avere
tutto per possibilità”, come dice un altro bolognese – era sempre la stessa,
invincibile. […]
***
Quando Gianfranco Contini nel 1973 pubblica in un unico volume un’antologia
degli scritti di Longhi dal titolo Da Cimabue a Morandi, Pier Paolo Pasolini
saluta l’evento come «l’avvenimento culturale dell’anno» e ripercorre nella
memoria gli anni in cui, giovanissimo studente universitario, seguiva le lezioni
del docente di storia dell’arte medievale e moderna, rievocando la sostanza di
quell’incontro in termini quasi mitici: «Se penso alla piccola aula (con banchi
molto alti e uno schermo dietro la cattedra) in cui nel 1938-39 (o nel 1939-40)
ho seguito i corsi bolognesi di Roberto Longhi, mi sembra di pensare a un’isola
deserta, nel cuore di una notte senza più luce. E anche Longhi che veniva e
parlava su quella cattedra, e poi se ne andava, ha l’irrealtà di una
apparizione.
Era, infatti, un’apparizione. Non potevo credere che prima e dopo aver parlato
in quell’aula, egli avesse una vita privata che ne garantisse la normale
continuità. Nella mia immensa timidezza di diciassettenne (che dimostrava almeno
tre anni di meno) non osavo nemmeno affrontare un tale problema. […] Ciò che
Longhi diceva era carismatico. […]
Allora, in quell’inverno bolognese di guerra, egli è stato semplicemente la
Rivelazione».
Che cosa faceva Longhi in quell’auletta appartata e quasi introvabile di via
Zamboni? Della “storia dell’arte”? Il corso era quello memorabile sui Fatti di
Masolino e Masaccio3.
L’indicazione che Pasolini fornisce persino del titolo del corso universitario,
«[…] i miei Fatti di Masolino e Masaccio» dirà poche righe dopo, ci pone da
subito di fronte a una sorta di intertestualità dichiarata. Se anche la lezione
può essere considerata un testo orale dove l’ascoltatore fa l’esperienza di
lettore, non c’è dubbio che Pasolini comincia a essere lettore di Longhi nel
momento in cui assiste alle sue lezioni e di Longhi rimarrà lettore sempre,
allievo e lettore, per tutta la vita. Anche nell’ultimo romanzo pubblicato
postumo, Petrolio4, Longhi viene incluso fra Dante, Dostoevskij, Sade e altri
nella lista promemoria che Pasolini compila durante la preparazione del romanzo.
Nella «fitta selva delle voci»5 che lo circonda, nella molteplicità delle
letture e degli incontri che costituiscono la sua memoria come linguaggio, la
voce di Roberto Longhi resta certamente fra le più nitide.
L’acquisizione critica della lezione longhiana viene quindi assunta da Pasolini,
ancora studente universitario, come valore e modello profondo, come dato di
partenza da cui sviluppare una personale linea critica e interpretativa. Le
«meravigliose capacità istrioniche di Longhi, le sue gioiellerie severe» si
rivelano per lo studente una vera «fulgurazione»:
Che cos’è un maestro? Intanto si capisce soltanto dopo chi è stato il vero
maestro: quindi il senso di questa parola ha la sua sede nella memoria come
ricostruzione intellettuale anche se non sempre razionale di una realtà comunque
vissuta. Nel momento in cui un maestro è effettivamente e esistenzialmente un
maestro, cioè prima di essere interpretato o ricordato come tale, non è dunque
maestro nel senso reale di questa parola. Egli viene vissuto e la coscienza del
suo valore è esistenziale. Longhi era semplicemente uno dei miei professori
all’università: ma l’aula dove insegnava era un posto diverso da tutti gli
altri, fuori dall’entropia scolastica. […] Longhi era sguainato come una spada.
Parlava come nessuno parlava. Il suo lessico era una completa novità. La sua
ironia non aveva precedenti. La sua curiosità non aveva modelli. La sua
eloquenza non aveva motivazioni. Per un ragazzo oppresso e umiliato dalla
cultura scolastica, dal conformismo della società fascista, questa era la
rivoluzione».
L'articolo “Sotto il portico della morte”, il libro che svela il legame segreto
tra arte, vita e formazione del giovane Pier Paolo Pasolini proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Che cos’è la disabilità? Perchè il bambino che viene in classe con me sta su una
sedia a rotelle? Tutte domande lecite che i bambini sottopongono agli adulti
quando si trovano difronte persone diverse da loro e dal loro modo di praticare
attività quotidiane. Si è scelto di istituire il 3 dicembre la giornata mondiale
della disabilità, proprio per sensibilizzare grandi e piccini ad avere
consapevolezza delle persone disabili e garantire loro gli stessi diritti e la
stessa dignità. Come insegnare ai bambini che la disabilità non è un limite?
Spesso i bambini si trovano in classe a dover affrontare situazioni delicate su
come approcciarsi ad un compagno differente dai loro modi di vivere quotidiani e
allora qual è l’insegnamento giusto che un adulto può dare?
Sicuramente l’inclusione, far comprendere come la diversità spesse volte è solo
un limite che il nostro pensiero si pone, pertanto va affrontato trovando
strategie migliori per poter interagire, giocare e comunicare con chi è diverso
da noi; trovando nella diversità una fonte di ricchezza e di insegnamento. Come
avviene nella classe di Luca una storia scritta da Silvia Speranza ed edita da
Buk buk. Luca racconta alla mamma di avere in classe un nuovo amico di nome Go,
un alieno dotato di un’armatura speciale alle gambe che gli permette di
muoversi. In realtà il suo nome è Luigi e siede su una sedia a rotelle, perchè
ha difficoltà a camminare.
Un libro da leggere nelle scuole per avvicinare i bambini al grande tema
dell’inclusione sociale, allenando la loro empatia, senza avere paura del
diverso, entrando in relazione attraverso il gioco e il dialogo. È scritto in
stampatello per le prime letture e al termine ci sono dei giochi da fare in
classe o da soli.
Ecco l’intervista con l’autrice Silvia Speranza per toccare con mano questa
tematica.
1. Silvia tu sei un’insegnante della scuola primaria, come mai hai deciso di
trattare la tematica della disabilità tra i tanti libri pubblicati per
l’infanzia?
Perché la disabilità, purtroppo, è ancora poco raccontata nella letteratura
d’infanzia e anche nei libri di testi scolastici. E’ una delle tante realtà
che possiamo ritrovarci a vivere, in modo diretto o indiretto e che spesso,
la non conoscenza, crea paure, resistenze e pregiudizi. Bisogna guardare la
disabilità come un’opportunità: la diversità, anche quella più faticosa e
complessa, è la vera risorsa di ognuno di noi e una minierà preziosa di
occasioni di crescita per tutti e pertanto va accolta. Come insegnante di
sostegno mi sono sentita in dovere di portare le loro storie nelle mie
storie.
2. Questo libro può essere uno strumento utile per gli insegnanti come te che
si trovano ad avere una classe con un bambino disabile?
Lo spero! A volte è difficile trovare il modo, l’approccio giusto per
parlare ai bambini di disabilità nella sua interezza ovvero raccontando le
sue possibilità e le sue ricchezze, ma senza nascondere le fatiche e a volte
la durezza della condizione di disabilità. Ma la letteratura offre il modo
migliore per farlo: attraverso il racconto il bambino può immedesimarsi, può
entrare in empatia con il protagonista, può mettere in atto quel
meraviglioso processo di immaginazione che lo trasporta dentro un’altra
vita. La letteratura e, mi preme sottolinearlo, l’illustrazione nei libri
per l’infanzia parlano con il linguaggio della poesia che non spiega, ma al
contrario permette di fare esperienza “empatica” di quello che viene
raccontato, portando sempre con sé una luce di speranza e di possibilità.
Credo sia giusto che anche i bambini con disabilità abbiano il diritto di
essere rappresentati nella letteratura per l’infanzia e questo tipo di
racconti li aiuta a prendere consapevolezza di sé nel mondo e questo è un
compito importante che ogni insegnante si deve augurare di trasmettere ai
propri alunni.
3. Come rispondono i bambini dopo la lettura di questo libro?
Ho letto in diverse classi e scuole questo racconto al quale faccio sempre
seguire una breve attività di gioco/riflessione. Ogni volta rimango stupita
dalle risposte dei bambini. Il racconto è volutamente lasciato, diciamo,
“incompiuto” proprio perché ho voluto passare il testimone della storia al
lettore. Ognuno trova il proprio finale, la propria interpretazione di chi
sia davvero questo “alieno” che cammina in modo così strano. Ogni risposta è
giusta, giusta per ogni bambino che l’ha ragionata, sentita, espressa. Non
fornisco mai soluzioni. Ognuno è libero, in base alle proprie esperienze e
alla propria maturità emotiva di dare la personale interpretazione del
racconto. Che meraviglia ascoltare la profondità e la creatività delle loro
risposte… ogni volta è una vera scoperta!
4. In che modo gli adulti possono insegnare l’inclusione ai bambini?
L’unico modo per insegnare l’inclusione ai bambini è viverla, ogni giorno
nella propria quotidianità. Vivere ogni singola diversità come
arricchimento: la persona con disabilità, la persona con il colore della
pelle diversa, la persona che veste in modo diverso da me… ogni diversità va
vissuta e raccontata in un’ottica di accoglienza, curiosità e accettazione.
Quando ero molto giovane mi è capitato di sentirmi inadeguata di fronte a
una persona con disabilità, perchè la disabilità a volte spaventa, poi ho
avuto modo di capire che il tutto derivava dalla non conoscenza. Conoscere è
il primo passo per accogliere.
5. Perchè viaggiare con “Il mio amico è un alieno”?
“Il mio amico è un alieno” è un libro che racconta la disabilità attraverso
lo sguardo prezioso dell’amicizia tra due bambini. È un racconto che
trasporta il lettore nel mondo fantastico dell’immaginazione che solo un
bambino può creare con la forza della fantasia e di quell’amore forte e
sincero che lega due veri amici. La diversità come possibilità e come
unicità che trova nell’altro la capacità di vedere oltre la realtà: la
capacità di vedere con il cuore.
Il mio amico è un alieno
di Silvia Speranza
illustrazioni di Sara Benecino
Editore Buk Buk, Età di lettura: da 4 anni
L'articolo Giornata mondiale della disabilità, l’esperta: “E’ importante
spiegare ai bambini che la diversità è ricchezza”. Un libro per insegnare
l’inclusività proviene da Il Fatto Quotidiano.
Un gruppo di 80 tra autori, autrici, case editrici e personalità del mondo della
cultura ha scritto una lettera per chiedere spiegazioni sulla presenza tra gli
stand di “Più Libri Più Liberi” della casa editrice Passaggio al Bosco. Una
scelta che, dicono, hanno accolto con “sorpresa” perché il catalogo della
piccola realtà si basa “in larga parte sull’esaltazione di esperienze e figure
fondanti del pantheon nazifascista e antisemita”. L’appello, firmato da come
Alessandro Barbero, Antonio Scurati, Zerocalcare, Carlo Ginzburg, Daria Bignardi
e Caparezza, si rivolge direttamente all’Associazione Italiana Editori (Aie),
responsabile dell’assegnazione degli spazi.
“Nelle dichiarazioni dell’editore”, si legge nel testo, “questi titoli
dovrebbero rappresentare ‘il punto di vista del pensiero identitario’; quale sia
precisamente questo punto di vista lo si capisce scorrendo le schede dei libri
compilate dall’editore stesso: il pamphlet scritto da Leon Degrelle, fondatore
della divisione vallona delle Waffen Ss, rappresenterebbe ‘impareggiabile
contributo alla formazione dell’élite militante’. Lo stesso Degrelle, insieme a
Corneliu Zelea Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro e del Movimento
Legionario – due tra i più violenti e antisemiti movimenti fascisti degli anni
’30 in Romania – figurano tra gli interpreti delle ‘più alte virtù di coraggio,
disciplina, senso del dovere, altruismo e dominio di sé'”, proseguono
ripercorrendo la storia della casa editrice in questione precisando che queste
“sono solo alcune delle figure cardine di questo ‘pensiero identitario‘ di cui
il catalogo e ricchissimo”. Per questo, “appare evidente che non si tratta di
testi di studio o di indagine su determinati fenomeni o periodi storici, ma di
un progetto apologetico”, aggiungono.
“Sorge spontaneo chiedere allora all’Associazione Italiana Editori, responsabile
dell’assegnazione degli stand: com’è possibile che, pur nel rispetto di ogni
orientamento politico, questo tipo di pubblicazione sia stata ritenuta
compatibile con il regolamento che viene sottoscritto da ogni editore? Non c’e
forse una norma – l’Articolo 24, ‘osservanza di leggi e regolamenti’ – che
impegna chiaramente gli espositori ad aderire “a tutti i valori espressi nella
Costituzione Italiana, nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea
e nella Dichiarazione universale dei diritti umani ed in particolare a quelli
relativi alla tutela della libertà di pensiero, di stampa, di rispetto della
dignità umana? Poniamo quindi queste domande e preoccupazioni all’attenzione
dell associazione italiana editori per aprire una riflessione sull’opportunità
della presenza di tali contenuti in una fiera che dovrebbe promuovere cultura e
valori democratici”, chiedono i firmatari.
L'articolo “Fuori da Più Libri Più Liberi lo stand dell’editore che esalta
figure nazifasciste e antisemite”. Da Barbero a Zerocalcare, in 80 firmano
l’appello proviene da Il Fatto Quotidiano.