Tag - Pier Paolo Pasolini

“Sotto il portico della morte”, il libro che svela il legame segreto tra arte, vita e formazione del giovane Pier Paolo Pasolini
In occasione dei cinquant’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, esce in libreria un libro che ne celebra la poetica, a partire dagli anni universitari, quando, sotto il Portico della Morte, a Bologna, un giovane friulano si apprestava a consegnare la sua tesi di laurea commissionata dallo storico dell’arte Roberto Longhi, ignaro che, a vent’anni dalla sua morte [avvenuta il 2 novembre 1975, Ndr], nel 1995, nelle aule dello storico ateneo bolognese, qualcun altro avrebbe scritto e discusso una tesi sulla sua tesi. È da qui che nasce “Sotto il Portico della Morte. Pasolini e Longhi tra arte, scrittura e fulgurazione figurativa” di Francesco Aliberti, autore ed editore di questo volume in uscita oggi, 3 dicembre, in tutte le librerie. Nella copiosa produzione saggistica sulla figura e l’opera di PPP, questo è senz’altro un volumetto da leggere. L’amore di Pasolini per l’arte, quella antica e quella moderna, è infatti un’imprescindibile costante di tutta la sua produzione letteraria e cinematografica. E’ proprio il “manierismo” artistico, la cui scoperta risale agli anni universitari bolognesi e alle lezioni di Roberto Longhi, la cifra che finirà per tratteggiare lo stile pasoliniano in tutta la sua multiforme opera. Un manierismo “profondo” e convinto, che fra queste pagine costellate di note dotte e curiose troviamo raccontato e descritto con la cura dello studioso e la passione dello studente. “Sotto il portico della Morte” è un testo ricognitivo, omaggio agli anni universitari, ai grandi maestri e alle letture fondative, che parte dalla tesi di laurea commissionata dall’italianista Ezio Raimondi a Francesco Aliberti, e di cui pubblichiamo, per gentile concessione, un estratto della prefazione di Alessandro Di Nuzzo e, a seguire, un estratto dell’introduzione: Se la vita è fatta di stagioni, quella che corrisponde agli anni di frequentazione dell’università (per chi l’ha fatta) resta per sempre un tempo indimenticabile, nelle sue luci di gioventù e nei suoi – altrettanto giovanili – lati oscuri. È un tempo fondativo, in cui le “vocazioni” – più o meno forti, più o meno chiare al primo ingresso nelle aule universitarie – si irrobustiscono per indirizzare definitivamente la vita successiva (o se vogliamo per chiuderla definitivamente in un destino professionale ineludibile). Oppure si sgretolano clamorosamente, lasciandoti nel mezzo di una vera e propria palude di incertezza su quello che sei e quello che vuoi, facendoti inevitabilmente sentire “già vecchio” e irrisolto a venticinque anni (è il destino peraltro di moltissime biografie di artisti, letterati, intellettuali: entrare in università attraverso la porta di una facoltà, poi uscirne a metà per aprirne altre, di altre aule, per ascoltare la parola di altri docenti e trovare finalmente i propri maestri e la propria vera vocazione). Questo libro ruota appunto tutto attorno al tempo forte della vita universitaria: benché né il suo autore (che poi ha fatto l’editore) né il protagonista abbiano mai perseguito la cosiddetta carriera accademica (difficile pensare a una figura più anti-accademica di Pasolini, ve lo immaginate a tenere una cattedra in qualche università italiana o anche straniera? Avrebbe fatto incazzare di brutto tanto i colleghi e i rettori quanto gli studenti: basti pensare alla querelle sul Sessantotto…). Il presente studio, non accademico ma “ricognitivo” come tiene a sottolineare l’autore, nasce dalla volontà di quel grande e per molti versi insuperato italianista che è stato Ezio Raimondi. In ambito bolognese e universitario, dunque, sotto forma di una tesi di laurea assegnata nei primi anni Novanta dall’allora docente di letteratura italiana – già autore, fra gli altri, di Le pietre del sogno e Il romanzo senza idillio – a un valoroso studente (e anche coraggioso, vista la mole del lavoro che avrebbe dovuto espletare). C’è, in questa idea raimondiana, un che di quella genialità che tutti gli riconoscevano e ancora gli riconoscono. Si tratta in fondo di commissionare una tesi di laurea su una tesi di laurea – quella che Pasolini studente chiese a Longhi suo professore e i cui primi capitoli perdette dopo l’8 settembre ’43, allorché, trovandosi sotto le armi, il suo reparto venne catturato dai tedeschi. È una pura mise en abyme: la duplicazione di un evento ottenuta incastrandone uno nell’altro. Procedimento tipicamente barocco, ma anche manzoniano, concetto-chiave per la teoria della letteratura professata da Raimondi. Qui, però, si deve fare attenzione: si parla non di barocco, per quel che riguarda la lezione di Longhi assimilata da Pasolini, ma di manierismo. I termini non sono da confondersi, perché, come ci insegnano storici e analisti dell’arte e della letteratura, non potrebbero essere più diversi tra loro. Basti dire – senza addentrarsi nell’argomento – che nella categoria estetica, creativa e anche morale del manierismo convivono un’inquietudine e un intellettualismo profondi, quasi divoranti, che risultano estranei al successivo Barocco. Due termini, inquietudine e intellettualismo, che meglio non potrebbero definire la vocazione, più ancora che la poetica, successiva di Pasolini autore-pittore mancato, del resto, che amava vedersi nelle vesti di antico affrescatore, come sappiamo. Il concetto è efficacemente fissato in questo saggio, con una formula che potrebbe essere definitiva: «Uno degli elementi fondamentali della scrittura manieristica di Pasolini è proprio il rifacimento della pittura, che avviene ancora una volta sotto il segno del suo maestro Longhi». Rifacimento della pittura che, come si sa, raggiunge la sua massima evidenza nel cinema pasoliniano: ma che questo saggio ci insegna a vedere anche al di là dell’evidenza di superficie, nelle pagine letterarie dei romanzi e della poesia. […] Su tutto aleggia quello che si potrebbe dire lo “spirito bolognese”. Il quale, diciamo la verità, non sembra poi così cambiato – almeno al livello dei luoghi e delle atmosfere universitarie-letterarie – dagli anni Quaranta della bella compagnia di Pasolini, Serra, Arcangeli e altri, agli anni Ottanta-Novanta in cui questo saggio è stato scritto. Certo, di mezzo c’era passato il Sessantotto e, specificamente a Bologna, il Settantasette: per carità. Però le aule di via Zamboni, la Libreria Nanni sotto il Portico della Morte, certe lunghe lunghissime passeggiate infittite di discettazioni, l’amore viscerale e anche un po’ snob degli studenti “migliori” per Contini oltre che per Longhi – e soprattutto i sogni di una creatività futura, della vita adulta come un grande campo pieno di opportunità nel quale mettersi alla prova da scrittori, poeti, registi (sogno o piuttosto illusione), in fondo non erano poi tanto cambiati. E la nostalgia – quella per gli anni universitari, quando capitava di “avere tutto per possibilità”, come dice un altro bolognese – era sempre la stessa, invincibile. […] *** Quando Gianfranco Contini nel 1973 pubblica in un unico volume un’antologia degli scritti di Longhi dal titolo Da Cimabue a Morandi, Pier Paolo Pasolini saluta l’evento come «l’avvenimento culturale dell’anno» e ripercorre nella memoria gli anni in cui, giovanissimo studente universitario, seguiva le lezioni del docente di storia dell’arte medievale e moderna, rievocando la sostanza di quell’incontro in termini quasi mitici: «Se penso alla piccola aula (con banchi molto alti e uno schermo dietro la cattedra) in cui nel 1938-39 (o nel 1939-40) ho seguito i corsi bolognesi di Roberto Longhi, mi sembra di pensare a un’isola deserta, nel cuore di una notte senza più luce. E anche Longhi che veniva e parlava su quella cattedra, e poi se ne andava, ha l’irrealtà di una apparizione. Era, infatti, un’apparizione. Non potevo credere che prima e dopo aver parlato in quell’aula, egli avesse una vita privata che ne garantisse la normale continuità. Nella mia immensa timidezza di diciassettenne (che dimostrava almeno tre anni di meno) non osavo nemmeno affrontare un tale problema. […] Ciò che Longhi diceva era carismatico. […] Allora, in quell’inverno bolognese di guerra, egli è stato semplicemente la Rivelazione». Che cosa faceva Longhi in quell’auletta appartata e quasi introvabile di via Zamboni? Della “storia dell’arte”? Il corso era quello memorabile sui Fatti di Masolino e Masaccio3. L’indicazione che Pasolini fornisce persino del titolo del corso universitario, «[…] i miei Fatti di Masolino e Masaccio» dirà poche righe dopo, ci pone da subito di fronte a una sorta di intertestualità dichiarata. Se anche la lezione può essere considerata un testo orale dove l’ascoltatore fa l’esperienza di lettore, non c’è dubbio che Pasolini comincia a essere lettore di Longhi nel momento in cui assiste alle sue lezioni e di Longhi rimarrà lettore sempre, allievo e lettore, per tutta la vita. Anche nell’ultimo romanzo pubblicato postumo, Petrolio4, Longhi viene incluso fra Dante, Dostoevskij, Sade e altri nella lista promemoria che Pasolini compila durante la preparazione del romanzo. Nella «fitta selva delle voci»5 che lo circonda, nella molteplicità delle letture e degli incontri che costituiscono la sua memoria come linguaggio, la voce di Roberto Longhi resta certamente fra le più nitide. L’acquisizione critica della lezione longhiana viene quindi assunta da Pasolini, ancora studente universitario, come valore e modello profondo, come dato di partenza da cui sviluppare una personale linea critica e interpretativa. Le «meravigliose capacità istrioniche di Longhi, le sue gioiellerie severe» si rivelano per lo studente una vera «fulgurazione»: Che cos’è un maestro? Intanto si capisce soltanto dopo chi è stato il vero maestro: quindi il senso di questa parola ha la sua sede nella memoria come ricostruzione intellettuale anche se non sempre razionale di una realtà comunque vissuta. Nel momento in cui un maestro è effettivamente e esistenzialmente un maestro, cioè prima di essere interpretato o ricordato come tale, non è dunque maestro nel senso reale di questa parola. Egli viene vissuto e la coscienza del suo valore è esistenziale. Longhi era semplicemente uno dei miei professori all’università: ma l’aula dove insegnava era un posto diverso da tutti gli altri, fuori dall’entropia scolastica. […] Longhi era sguainato come una spada. Parlava come nessuno parlava. Il suo lessico era una completa novità. La sua ironia non aveva precedenti. La sua curiosità non aveva modelli. La sua eloquenza non aveva motivazioni. Per un ragazzo oppresso e umiliato dalla cultura scolastica, dal conformismo della società fascista, questa era la rivoluzione». L'articolo “Sotto il portico della morte”, il libro che svela il legame segreto tra arte, vita e formazione del giovane Pier Paolo Pasolini proviene da Il Fatto Quotidiano.
Libri
Libri e Arte
Pier Paolo Pasolini
Montanari a La7: “A Gaza c’è ancora un genocidio a bassa intensità”. E sulla destra che rivendica Pasolini: “Ignoranti e violenti”
“A Gaza è un genocidio a bassa intensità che segue quello ad alta intensità, ma in realtà non si è mai fermato.” Sono le parole di Tomaso Montanari, storico dell’arte e rettore dell’Università per Stranieri di Siena, che a Piazzapulita, su La7, ha presentato il suo nuovo libro Per Gaza (Feltrinelli), illustrato da Marco Sauro. Un libro concepito, racconta, per non permettere che l’attenzione pubblica scivoli altrove mentre l’Onu descrive la Striscia come “un abisso senza alcuna tregua in vista, minato ogni pilastro della sopravvivenza, cancellati 69 anni di sviluppo umano”. Montanari spiega che l’opera nasce dall’urgenza di custodire una memoria e un discorso che la cronaca tende a rimuovere. Tutti i diritti d’autore, insieme a una somma equivalente donata dall’editore, saranno devoluti alla CFTA, The Culture and Free Thought Association di Gaza, un’associazione laica guidata da donne che mantiene aperti ambulatori, consultori e spazi culturali in una delle aree più martoriate del pianeta. Nel corso della trasmissione, Montanari ripercorre la genesi del libro e la necessità di raccontare ciò che sta accadendo nella Striscia al di là delle dichiarazioni ufficiali: “Marco Sauro ha disegnato e io ho scritto questo libro anche perché sapevamo che ci sarebbe stato bisogno di tenere vivo il discorso su Gaza. Il cessate il fuoco non è un cessato il genocidio. A Gaza si continua a morire: trecento persone sono state uccise dopo il cessate il fuoco. La situazione è drammatica: Israele ha fatto saltare le fognature, non ci sono più case, le persone si ammalano e muoiono.” La denuncia dello storico si allarga poi al modo in cui la tragedia di Gaza viene rappresentata, o in molti casi occultata, dai mezzi d’informazione. Secondo Montanari, la cosiddetta pace trumpiana ha avuto una precisa funzione narrativa: “È servita a far sì che i media mainstream parlassero di Gaza molte righe sotto il delitto di Garlasco, per venire all’Italia. È calato un vero e proprio oscuramento.” Dalla crisi mediorientale il discorso scivola poi verso il panorama culturale italiano, sollecitato dalle recenti dichiarazioni di Federico Mollicone, deputato di Fratelli d’Italia e presidente della Commissione Cultura, secondo cui “la sinistra “strumentalizza Pasolini” e lo scrittore sarebbe stato “fascista”. Montanari reagisce con durezza: “Sono veramente imbarazzanti, in malafede, ignoranti e violenti. Dire questo di Pasolini è profondamente violento.” Lo storico ricostruisce il contesto biografico e intellettuale dell’autore friulano, respingendo l’idea di una sua adesione al fascismo: “Pasolini ha detto di se stesso che, da ragazzo, non vedeva il fascismo perché ci era cresciuto dentro, come i pesci non vedono l’acqua. Ma da adulto lo ha combattuto in tutti i modi: con i suoi film, le poesie, gli articoli, l’opera intera. Per lui il fascismo era la nevrosi della borghesia, la nevrosi del capitalismo.” Montanari ricorda come, all’inizio degli anni Settanta, Pasolini avesse individuato nel consumismo una forma di oppressione persino più radicale del fascismo storico: “Diceva che il consumismo avrebbe fatto ciò che il fascismo non era riuscito a fare: cambiare gli italiani dentro, trasformarne l’ethos. Chiamare ‘fascismo’ il consumismo capitalista era per lui la condanna più alta possibile.” E si sofferma anche su un fenomeno che considera sintomatico: l’appropriazione simbolica di Pasolini da parte dell’estrema destra. “CasaPound ha 88 eroi, tra cui Gramsci e Pasolini. Perché 88? Perché l’otto è la lettera H, l’ottava dell’alfabeto: 8-8 significa ‘Heil Hitler’. Bisogna ricordarsi i giochi di questi signori.” L'articolo Montanari a La7: “A Gaza c’è ancora un genocidio a bassa intensità”. E sulla destra che rivendica Pasolini: “Ignoranti e violenti” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Gaza
Politica
La7
Pier Paolo Pasolini
Fratelli d'Italia
La destra vuole appropriarsi di Pasolini, La Russa: “Msi non cacciò mai un omosessuale, il Pci sì” – Video
“Nel ‘49 Pasolini fu cacciato dal Partito Comunista Italiano per indegnità morale. Il Movimento Sociale Italiano non cacciò mai un omosessuale per indegnità morale”. Lo ha detto il presidente del Senato Ignazio La Russa intervenendo al convegno “Pasolini conservatore”, organizzato dalla Fondazione Alleanza nazionale al Senato. “Ci sono tanti di quei riferimenti in Pasolini che la sinistra non può dire che appartengono alla sua storia come, men che meno noi, possiamo dire che la storia di Pasolini appartenga alla destra. Ma credo, con forza, che possiamo dire che Pasolini sia stato un uomo irregolare, ma così importante da meritare oggi uno studio approfondito e che la sua memoria non possa essere affidata a una parte e l’esame delle sue parole affidate ad alcuni, ma è bene che siano affidate a tutti senza preclusioni e con la consapevolezza che comunque lo si voglia guardare, Pasolini è stato un grande intellettuale italiano”. L'articolo La destra vuole appropriarsi di Pasolini, La Russa: “Msi non cacciò mai un omosessuale, il Pci sì” – Video proviene da Il Fatto Quotidiano.
Politica
Ignazio La Russa
Pier Paolo Pasolini
Pasolini si sbagliava sulle gemelle Kessler: quelle ‘mossucce’ sono un simbolo della tv d’autore
“E’ incredibile quello che hanno visto ieri sera i miei occhi per non più di cinque minuti, fin troppo esaurienti, alla televisione… Ho realizzato solo dopo un po’ quello che stavo vedendo: due donne molto simili l’una all’altra stavano facendo evoluzioni d’una assoluta facilità, come due automi caricati a molle, che sanno fare solo quei due o tre gesti, capaci di dare una inalterabile e iterativa soddisfazione al bambino che li osserva. Due o tre mossucce idiote incastonate in un ritmo che voleva essere gioioso e invece era soltanto facile”. Chi erano sono le due donne molto simili l’una all’altra, i miei venticinque lettori l’avranno già capito, le gemelle Kessler, ovviamente. Ma chi è che scrive questi giudizi così severi (e ho tralasciato la parte successiva ancor più pesante)? Nientemeno che Pier Paolo Pasolini in un articolo apparso su Il Tempo il 1 novembre del 1969 dal titolo Canzonissima (con rossore). E allora la domanda sorge spontanea ma soprattutto ineludibile in questo momento in cui le gemelle Alice ed Helene Kessler vengono celebrate come esempio di una comunicazione elegante, raffinata e persino protofemminista: come è possibile un simile giudizio? che senso ha? e aveva ragione Pasolini, qualche ragione? La mia risposta è no. Quello di Pasolini è un giudizio un po’ superficiale, lui stesso lo ammette: ha visto cinque minuti, distrattamente a casa di una zia malata che è andato a trovare insieme con la mamma. Pensate che quel balletto tanto aborrito è in realtà la sigla di Canzonissima del 1969, realizzata con la regia del grande Antonello Falqui, un gioco di specchi astratto degno del grande musical americano, talmente bello che la scenografia è ancora oggi conservata al Teatro delle vittorie come un’opera d’arte. Questo era il vero pregio di quella televisione, di essere una televisione opera di registi, una tv d’autore e le gemelle Kessler hanno avuto la fortuna e il merito di esserne parte integrante, lungi dall’essere automi, interpreti ben consapevoli del loro ruolo. Un’interpretazione, la loro, che continuava anche fuori dal palcoscenico, nella loro vita privata mai mondana, nelle frequentazioni colte, in quella riservatezza che le rendeva come inaccessibili. C’è una scena di un film di quegli anni che ben esemplifica questa loro immagine. E’ il finale di Guglielmo il dentone, il famoso episodio del film I complessi. Il protagonista, un grande Alberto Sordi, è un giovane preparatissimo che vuole fare il conduttore del telegiornale, ma la sua aspirazione non si concilia con il suo aspetto, una dentatura esagerata poco telegenica. Guglielmo però non demorde, supera tutte le prove del concorso, aggira brillantemente i trabocchetti che le commissione gli prepara, rifiuta i consigli di chi gli si presenta come amico e alla fine la spunta. Quando al termine di una sua conduzione, apprezzata anche dal pubblico, esce dagli studi orgoglioso e trionfante, appare, ammirato e invidiato, in compagnia delle gemelle Kessler. È il segno del massimo successo e prestigio per italiano di quell’epoca: uscire in compagnia delle desideratissime ma irraggiungibili gemelle. Oggi è bello ricordarle in queste immagine simbolica, divertite e sorridenti. Alice ed Ellen che vi sia lieve la terra e, come diceva la vostra canzone, piccola la notte. L'articolo Pasolini si sbagliava sulle gemelle Kessler: quelle ‘mossucce’ sono un simbolo della tv d’autore proviene da Il Fatto Quotidiano.
Blog
Televisione
Pier Paolo Pasolini
Rai
L’omicidio Pasolini è ancora un caso aperto: voglio ristabilire alcuni fatti
Sono passati alcuni giorni dall’anniversario dei 50 anni dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini che ha scippato a questo Paese l’intellettuale più lucido e lungimirante del 900. Tante le voci che si sono espresse in questi giorni sulle dinamiche dell’omicidio e sui possibili moventi. Qui inserendomi nel dibattito, ancora così acceso, vorrei ristabilire alcuni fatti: – l’archiviazione del 2015 sul caso riaperto dalla procura di Roma nel 2010 ha stabilito la presenza di più persone senza la possibilità di individuare le identità degli altri complici. La Cassazione che nel 1979 aveva stabilito l’unica colpevolezza di Pino Pelosi è stata dunque superata: Pasolini è ancora un caso aperto anche a livello giudiziario; – la notizia di reato iscritta dai giudici di primo grado nel 1976 ( “in concorso con ignoti”) ha permesso per fortuna negli anni di riaprire le inchieste (in tutto tre successive) anche se spesso queste inchieste hanno finito per depistare e nascondere i fatti più che indagare davvero; – la leggenda del rapporto sessuale che sarebbe intervenuto quella notte tra Pasolini e Pelosi (divenuto il vero focus del processo che si è svolto al tempo) è smentita sin dai suoi primi atti, in quanto – come anche riconosciuto perentoriamente dalla perizia acclusa agli atti – non è stata riscontrata alcuna presenza di liquido seminale sugli indumenti di Pasolini o tracce seminali di Pasolini sugli indumenti di Pelosi. Dopo 50 anni tornare a parlare di contesto di prostituzione maschile, come fatto da alcuni, è un passo indietro enorme fattuale e culturale. Non perché Pasolini e Pelosi non potessero avere rapporti di quel tipo in generale, ma perché quella notte altre erano le urgenze che animavano Pasolini. E Pelosi ne fu l’esca consapevole; – nel 2023 è stato chiarito da un articolo su l’Espresso della sottoscritta, con tanto di documento pubblicato, che Maurizio Abbatino non poteva essere della partita dell’agguato teso allo scrittore quella notte perché si trovava in carcere. Altro è il ruolo dall’ex boss ricoperto, invece, e da lui confermato con riferimento alle bobine del film Salò sottratte al regista nell’agosto del 2025: il recupero delle stesse su commissione e dopo essere uscito di prigione. Fatto che chiarisce la complessità della trappola tesa per condurre Pasolini all’idroscalo in un momento in cui, come è stato attestato, lo scrittore era intercettato e seguito nei suoi movimenti. Abbatino si è sempre dichiarato disponibile a collaborare se la magistratura volesse fargli recuperare l’intera memoria; – si è parlato spesso di presenze dei “servizi segreti” sul posto la mattina del ritrovamento del corpo (la cui soppressione finale, secondo nuove testimonianze da me acquisite, sarebbe avvenuta alle 4.30 del mattino e non all’1.30): la persona da sempre indicata come appartenente a tale struttura presente intorno al corpo sul posto gremito di gente con la giacca di pelle e la sigaretta non è appartenente ad alcuna forza dell’ordine ma vicino agli ambienti del cinema che in questa vicenda hanno più di un addentellato. I servizi c’entrano ma nessuna logica anche da film di quart’ordine può arrivare a collocarli come presenti la stessa mattina del ritrovamento del corpo; – della partecipazione di Antonio Pinna, l’uomo dei Marsigliesi, si è detto molto ma si è studiato poco: l’uomo è scomparso nel febbraio del 1976 dall’aereoporto di Fiumicino dopo la scarcerazione dei fratelli Borsellino inizialmente indagati nell’inchiesta. Di Pinna non si è più saputo nulla se non che nel 1979 fu stralciata la sua patente perché non più ritrovata la persona (per lungo tempo si è affermato che l’uomo fosse stato fermato nel ‘79, cosa falsa) e che nel 1988, quando ancora sotto indagine da parte dell’ex giudice Imposimato per i suoi legami con il clan dei Marsigliesi, fu dichiarato morto anche senza che il corpo si trovasse. Ma gli inquirenti degli anni 2010-2015 lo hanno ricercato. Esistono infatti pagine e pagine di intercettazioni anche sui familiari per cercare di scoprire se l’uomo si nascondesse da qualche parte all’estero. Intercettazioni che non hanno portato a risultati. Tecnicamente non si può dire che non sia stato cercato; – l’altra figura entrata e uscita più volte dalle indagini è Johnny Lo Zingaro, sin da ragazzino a servizio della criminalità. L’ultima indagine ha chiarito (poco) come il suo DNA non combaciasse con i reperti trovati sul posto. Ma di recente ho scoperto l’esistenza di sue lettere di confessione sull’omicidio, esistenza indicatami da un ex magistrato. Lettere fatte sparire, come ho scoperto andando al tribunale di Venezia a scavare tra carte dimenticate ma ancora vive. Se non si esce dal campetto di Ostia e non si cerca tra i personaggi della estrema destra e del cinema attivi al tempo, se non si guarda tra le carte della strategia della tensione gli elementi copiosi collegati all’omicidio e che la magistratura tutta finora non ha voluto vedere, si resta ancora impigliati lì tra la cronaca bella e impaginata e il complotto fine a sé stesso. L'articolo L’omicidio Pasolini è ancora un caso aperto: voglio ristabilire alcuni fatti proviene da Il Fatto Quotidiano.
Cronaca
Blog
Pier Paolo Pasolini