In occasione dei cinquant’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, esce in
libreria un libro che ne celebra la poetica, a partire dagli anni universitari,
quando, sotto il Portico della Morte, a Bologna, un giovane friulano si
apprestava a consegnare la sua tesi di laurea commissionata dallo storico
dell’arte Roberto Longhi, ignaro che, a vent’anni dalla sua morte [avvenuta il 2
novembre 1975, Ndr], nel 1995, nelle aule dello storico ateneo bolognese,
qualcun altro avrebbe scritto e discusso una tesi sulla sua tesi.
È da qui che nasce “Sotto il Portico della Morte. Pasolini e Longhi tra arte,
scrittura e fulgurazione figurativa” di Francesco Aliberti, autore ed editore di
questo volume in uscita oggi, 3 dicembre, in tutte le librerie. Nella copiosa
produzione saggistica sulla figura e l’opera di PPP, questo è senz’altro un
volumetto da leggere. L’amore di Pasolini per l’arte, quella antica e quella
moderna, è infatti un’imprescindibile costante di tutta la sua produzione
letteraria e cinematografica. E’ proprio il “manierismo” artistico, la cui
scoperta risale agli anni universitari bolognesi e alle lezioni di Roberto
Longhi, la cifra che finirà per tratteggiare lo stile pasoliniano in tutta la
sua multiforme opera. Un manierismo “profondo” e convinto, che fra queste pagine
costellate di note dotte e curiose troviamo raccontato e descritto con la cura
dello studioso e la passione dello studente. “Sotto il portico della Morte” è un
testo ricognitivo, omaggio agli anni universitari, ai grandi maestri e alle
letture fondative, che parte dalla tesi di laurea commissionata dall’italianista
Ezio Raimondi a Francesco Aliberti, e di cui pubblichiamo, per gentile
concessione, un estratto della prefazione di Alessandro Di Nuzzo e, a seguire,
un estratto dell’introduzione:
Se la vita è fatta di stagioni, quella che corrisponde agli anni di
frequentazione dell’università (per chi l’ha fatta) resta per sempre un tempo
indimenticabile, nelle sue luci di gioventù e nei suoi – altrettanto giovanili –
lati oscuri.
È un tempo fondativo, in cui le “vocazioni” – più o meno forti, più o meno
chiare al primo ingresso nelle aule universitarie – si irrobustiscono per
indirizzare definitivamente la vita successiva (o se vogliamo per chiuderla
definitivamente in un destino professionale ineludibile). Oppure si sgretolano
clamorosamente, lasciandoti nel mezzo di una vera e propria palude di incertezza
su quello che sei e quello che vuoi, facendoti inevitabilmente sentire “già
vecchio” e irrisolto a venticinque anni (è il destino peraltro di moltissime
biografie di artisti, letterati, intellettuali: entrare in università attraverso
la porta di una facoltà, poi uscirne a metà per aprirne altre, di altre aule,
per ascoltare la parola di altri docenti e trovare finalmente i propri maestri e
la propria vera vocazione).
Questo libro ruota appunto tutto attorno al tempo forte della vita
universitaria: benché né il suo autore (che poi ha fatto l’editore) né il
protagonista abbiano mai perseguito la cosiddetta carriera accademica (difficile
pensare a una figura più anti-accademica di Pasolini, ve lo immaginate a tenere
una cattedra in qualche università italiana o anche straniera? Avrebbe fatto
incazzare di brutto tanto i colleghi e i rettori quanto gli studenti: basti
pensare alla querelle sul Sessantotto…).
Il presente studio, non accademico ma “ricognitivo” come tiene a sottolineare
l’autore, nasce dalla volontà di quel grande e per molti versi insuperato
italianista che è stato Ezio Raimondi. In ambito bolognese e universitario,
dunque, sotto forma di una tesi di laurea assegnata nei primi anni Novanta
dall’allora docente di letteratura italiana – già autore, fra gli altri, di Le
pietre del sogno e Il romanzo senza idillio – a un valoroso studente (e anche
coraggioso, vista la mole del lavoro che avrebbe dovuto espletare).
C’è, in questa idea raimondiana, un che di quella genialità che tutti gli
riconoscevano e ancora gli riconoscono. Si tratta in fondo di commissionare una
tesi di laurea su una tesi di laurea – quella che Pasolini studente chiese a
Longhi suo professore e i cui primi capitoli perdette dopo l’8 settembre ’43,
allorché, trovandosi sotto le armi, il suo reparto venne catturato dai tedeschi.
È una pura mise en abyme: la duplicazione di un evento ottenuta incastrandone
uno nell’altro. Procedimento tipicamente barocco, ma anche manzoniano,
concetto-chiave per la teoria della letteratura professata da Raimondi.
Qui, però, si deve fare attenzione: si parla non di barocco, per quel che
riguarda la lezione di Longhi assimilata da Pasolini, ma di manierismo. I
termini non sono da confondersi, perché, come ci insegnano storici e analisti
dell’arte e della letteratura, non potrebbero essere più diversi tra loro. Basti
dire – senza addentrarsi nell’argomento – che nella categoria estetica, creativa
e anche morale del manierismo convivono un’inquietudine e un intellettualismo
profondi, quasi divoranti, che risultano estranei al successivo Barocco. Due
termini, inquietudine e intellettualismo, che meglio non potrebbero definire la
vocazione, più ancora che la poetica, successiva di Pasolini autore-pittore
mancato, del resto, che amava vedersi nelle vesti di antico affrescatore, come
sappiamo.
Il concetto è efficacemente fissato in questo saggio, con una formula che
potrebbe essere definitiva: «Uno degli elementi fondamentali della scrittura
manieristica di Pasolini è proprio il rifacimento della pittura, che avviene
ancora una volta sotto il segno del suo maestro Longhi». Rifacimento della
pittura che, come si sa, raggiunge la sua massima evidenza nel cinema
pasoliniano: ma che questo saggio ci insegna a vedere anche al di là
dell’evidenza di superficie, nelle pagine letterarie dei romanzi e della poesia.
[…] Su tutto aleggia quello che si potrebbe dire lo “spirito bolognese”. Il
quale, diciamo la verità, non sembra poi così cambiato – almeno al livello dei
luoghi e delle atmosfere universitarie-letterarie – dagli anni Quaranta della
bella compagnia di Pasolini, Serra, Arcangeli e altri, agli anni Ottanta-Novanta
in cui questo saggio è stato scritto. Certo, di mezzo c’era passato il
Sessantotto e, specificamente a Bologna, il Settantasette: per carità. Però le
aule di via Zamboni, la Libreria Nanni sotto il Portico della Morte, certe
lunghe lunghissime passeggiate infittite di discettazioni, l’amore viscerale e
anche un po’ snob degli studenti “migliori” per Contini oltre che per Longhi – e
soprattutto i sogni di una creatività futura, della vita adulta come un grande
campo pieno di opportunità nel quale mettersi alla prova da scrittori, poeti,
registi (sogno o piuttosto illusione), in fondo non erano poi tanto cambiati.
E la nostalgia – quella per gli anni universitari, quando capitava di “avere
tutto per possibilità”, come dice un altro bolognese – era sempre la stessa,
invincibile. […]
***
Quando Gianfranco Contini nel 1973 pubblica in un unico volume un’antologia
degli scritti di Longhi dal titolo Da Cimabue a Morandi, Pier Paolo Pasolini
saluta l’evento come «l’avvenimento culturale dell’anno» e ripercorre nella
memoria gli anni in cui, giovanissimo studente universitario, seguiva le lezioni
del docente di storia dell’arte medievale e moderna, rievocando la sostanza di
quell’incontro in termini quasi mitici: «Se penso alla piccola aula (con banchi
molto alti e uno schermo dietro la cattedra) in cui nel 1938-39 (o nel 1939-40)
ho seguito i corsi bolognesi di Roberto Longhi, mi sembra di pensare a un’isola
deserta, nel cuore di una notte senza più luce. E anche Longhi che veniva e
parlava su quella cattedra, e poi se ne andava, ha l’irrealtà di una
apparizione.
Era, infatti, un’apparizione. Non potevo credere che prima e dopo aver parlato
in quell’aula, egli avesse una vita privata che ne garantisse la normale
continuità. Nella mia immensa timidezza di diciassettenne (che dimostrava almeno
tre anni di meno) non osavo nemmeno affrontare un tale problema. […] Ciò che
Longhi diceva era carismatico. […]
Allora, in quell’inverno bolognese di guerra, egli è stato semplicemente la
Rivelazione».
Che cosa faceva Longhi in quell’auletta appartata e quasi introvabile di via
Zamboni? Della “storia dell’arte”? Il corso era quello memorabile sui Fatti di
Masolino e Masaccio3.
L’indicazione che Pasolini fornisce persino del titolo del corso universitario,
«[…] i miei Fatti di Masolino e Masaccio» dirà poche righe dopo, ci pone da
subito di fronte a una sorta di intertestualità dichiarata. Se anche la lezione
può essere considerata un testo orale dove l’ascoltatore fa l’esperienza di
lettore, non c’è dubbio che Pasolini comincia a essere lettore di Longhi nel
momento in cui assiste alle sue lezioni e di Longhi rimarrà lettore sempre,
allievo e lettore, per tutta la vita. Anche nell’ultimo romanzo pubblicato
postumo, Petrolio4, Longhi viene incluso fra Dante, Dostoevskij, Sade e altri
nella lista promemoria che Pasolini compila durante la preparazione del romanzo.
Nella «fitta selva delle voci»5 che lo circonda, nella molteplicità delle
letture e degli incontri che costituiscono la sua memoria come linguaggio, la
voce di Roberto Longhi resta certamente fra le più nitide.
L’acquisizione critica della lezione longhiana viene quindi assunta da Pasolini,
ancora studente universitario, come valore e modello profondo, come dato di
partenza da cui sviluppare una personale linea critica e interpretativa. Le
«meravigliose capacità istrioniche di Longhi, le sue gioiellerie severe» si
rivelano per lo studente una vera «fulgurazione»:
Che cos’è un maestro? Intanto si capisce soltanto dopo chi è stato il vero
maestro: quindi il senso di questa parola ha la sua sede nella memoria come
ricostruzione intellettuale anche se non sempre razionale di una realtà comunque
vissuta. Nel momento in cui un maestro è effettivamente e esistenzialmente un
maestro, cioè prima di essere interpretato o ricordato come tale, non è dunque
maestro nel senso reale di questa parola. Egli viene vissuto e la coscienza del
suo valore è esistenziale. Longhi era semplicemente uno dei miei professori
all’università: ma l’aula dove insegnava era un posto diverso da tutti gli
altri, fuori dall’entropia scolastica. […] Longhi era sguainato come una spada.
Parlava come nessuno parlava. Il suo lessico era una completa novità. La sua
ironia non aveva precedenti. La sua curiosità non aveva modelli. La sua
eloquenza non aveva motivazioni. Per un ragazzo oppresso e umiliato dalla
cultura scolastica, dal conformismo della società fascista, questa era la
rivoluzione».
L'articolo “Sotto il portico della morte”, il libro che svela il legame segreto
tra arte, vita e formazione del giovane Pier Paolo Pasolini proviene da Il Fatto
Quotidiano.
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“A Gaza è un genocidio a bassa intensità che segue quello ad alta intensità, ma
in realtà non si è mai fermato.” Sono le parole di Tomaso Montanari, storico
dell’arte e rettore dell’Università per Stranieri di Siena, che a Piazzapulita,
su La7, ha presentato il suo nuovo libro Per Gaza (Feltrinelli), illustrato da
Marco Sauro. Un libro concepito, racconta, per non permettere che l’attenzione
pubblica scivoli altrove mentre l’Onu descrive la Striscia come “un abisso senza
alcuna tregua in vista, minato ogni pilastro della sopravvivenza, cancellati 69
anni di sviluppo umano”.
Montanari spiega che l’opera nasce dall’urgenza di custodire una memoria e un
discorso che la cronaca tende a rimuovere. Tutti i diritti d’autore, insieme a
una somma equivalente donata dall’editore, saranno devoluti alla CFTA, The
Culture and Free Thought Association di Gaza, un’associazione laica guidata da
donne che mantiene aperti ambulatori, consultori e spazi culturali in una delle
aree più martoriate del pianeta.
Nel corso della trasmissione, Montanari ripercorre la genesi del libro e la
necessità di raccontare ciò che sta accadendo nella Striscia al di là delle
dichiarazioni ufficiali: “Marco Sauro ha disegnato e io ho scritto questo libro
anche perché sapevamo che ci sarebbe stato bisogno di tenere vivo il discorso su
Gaza. Il cessate il fuoco non è un cessato il genocidio. A Gaza si continua a
morire: trecento persone sono state uccise dopo il cessate il fuoco. La
situazione è drammatica: Israele ha fatto saltare le fognature, non ci sono più
case, le persone si ammalano e muoiono.”
La denuncia dello storico si allarga poi al modo in cui la tragedia di Gaza
viene rappresentata, o in molti casi occultata, dai mezzi d’informazione.
Secondo Montanari, la cosiddetta pace trumpiana ha avuto una precisa funzione
narrativa: “È servita a far sì che i media mainstream parlassero di Gaza molte
righe sotto il delitto di Garlasco, per venire all’Italia. È calato un vero e
proprio oscuramento.”
Dalla crisi mediorientale il discorso scivola poi verso il panorama culturale
italiano, sollecitato dalle recenti dichiarazioni di Federico Mollicone,
deputato di Fratelli d’Italia e presidente della Commissione Cultura, secondo
cui “la sinistra “strumentalizza Pasolini” e lo scrittore sarebbe stato
“fascista”. Montanari reagisce con durezza: “Sono veramente imbarazzanti, in
malafede, ignoranti e violenti. Dire questo di Pasolini è profondamente
violento.”
Lo storico ricostruisce il contesto biografico e intellettuale dell’autore
friulano, respingendo l’idea di una sua adesione al fascismo: “Pasolini ha detto
di se stesso che, da ragazzo, non vedeva il fascismo perché ci era cresciuto
dentro, come i pesci non vedono l’acqua. Ma da adulto lo ha combattuto in tutti
i modi: con i suoi film, le poesie, gli articoli, l’opera intera. Per lui il
fascismo era la nevrosi della borghesia, la nevrosi del capitalismo.”
Montanari ricorda come, all’inizio degli anni Settanta, Pasolini avesse
individuato nel consumismo una forma di oppressione persino più radicale del
fascismo storico: “Diceva che il consumismo avrebbe fatto ciò che il fascismo
non era riuscito a fare: cambiare gli italiani dentro, trasformarne l’ethos.
Chiamare ‘fascismo’ il consumismo capitalista era per lui la condanna più alta
possibile.”
E si sofferma anche su un fenomeno che considera sintomatico: l’appropriazione
simbolica di Pasolini da parte dell’estrema destra. “CasaPound ha 88 eroi, tra
cui Gramsci e Pasolini. Perché 88? Perché l’otto è la lettera H, l’ottava
dell’alfabeto: 8-8 significa ‘Heil Hitler’. Bisogna ricordarsi i giochi di
questi signori.”
L'articolo Montanari a La7: “A Gaza c’è ancora un genocidio a bassa intensità”.
E sulla destra che rivendica Pasolini: “Ignoranti e violenti” proviene da Il
Fatto Quotidiano.
“Nel ‘49 Pasolini fu cacciato dal Partito Comunista Italiano per indegnità
morale. Il Movimento Sociale Italiano non cacciò mai un omosessuale per
indegnità morale”. Lo ha detto il presidente del Senato Ignazio La Russa
intervenendo al convegno “Pasolini conservatore”, organizzato dalla Fondazione
Alleanza nazionale al Senato. “Ci sono tanti di quei riferimenti in Pasolini che
la sinistra non può dire che appartengono alla sua storia come, men che meno
noi, possiamo dire che la storia di Pasolini appartenga alla destra. Ma credo,
con forza, che possiamo dire che Pasolini sia stato un uomo irregolare, ma così
importante da meritare oggi uno studio approfondito e che la sua memoria non
possa essere affidata a una parte e l’esame delle sue parole affidate ad alcuni,
ma è bene che siano affidate a tutti senza preclusioni e con la consapevolezza
che comunque lo si voglia guardare, Pasolini è stato un grande intellettuale
italiano”.
L'articolo La destra vuole appropriarsi di Pasolini, La Russa: “Msi non cacciò
mai un omosessuale, il Pci sì” – Video proviene da Il Fatto Quotidiano.
“E’ incredibile quello che hanno visto ieri sera i miei occhi per non più di
cinque minuti, fin troppo esaurienti, alla televisione… Ho realizzato solo dopo
un po’ quello che stavo vedendo: due donne molto simili l’una all’altra stavano
facendo evoluzioni d’una assoluta facilità, come due automi caricati a molle,
che sanno fare solo quei due o tre gesti, capaci di dare una inalterabile e
iterativa soddisfazione al bambino che li osserva. Due o tre mossucce idiote
incastonate in un ritmo che voleva essere gioioso e invece era soltanto facile”.
Chi erano sono le due donne molto simili l’una all’altra, i miei venticinque
lettori l’avranno già capito, le gemelle Kessler, ovviamente. Ma chi è che
scrive questi giudizi così severi (e ho tralasciato la parte successiva ancor
più pesante)? Nientemeno che Pier Paolo Pasolini in un articolo apparso su Il
Tempo il 1 novembre del 1969 dal titolo Canzonissima (con rossore). E allora la
domanda sorge spontanea ma soprattutto ineludibile in questo momento in cui le
gemelle Alice ed Helene Kessler vengono celebrate come esempio di una
comunicazione elegante, raffinata e persino protofemminista: come è possibile un
simile giudizio? che senso ha? e aveva ragione Pasolini, qualche ragione?
La mia risposta è no. Quello di Pasolini è un giudizio un po’ superficiale, lui
stesso lo ammette: ha visto cinque minuti, distrattamente a casa di una zia
malata che è andato a trovare insieme con la mamma. Pensate che quel balletto
tanto aborrito è in realtà la sigla di Canzonissima del 1969, realizzata con la
regia del grande Antonello Falqui, un gioco di specchi astratto degno del grande
musical americano, talmente bello che la scenografia è ancora oggi conservata al
Teatro delle vittorie come un’opera d’arte. Questo era il vero pregio di quella
televisione, di essere una televisione opera di registi, una tv d’autore e le
gemelle Kessler hanno avuto la fortuna e il merito di esserne parte integrante,
lungi dall’essere automi, interpreti ben consapevoli del loro ruolo.
Un’interpretazione, la loro, che continuava anche fuori dal palcoscenico, nella
loro vita privata mai mondana, nelle frequentazioni colte, in quella
riservatezza che le rendeva come inaccessibili.
C’è una scena di un film di quegli anni che ben esemplifica questa loro
immagine. E’ il finale di Guglielmo il dentone, il famoso episodio del film I
complessi. Il protagonista, un grande Alberto Sordi, è un giovane preparatissimo
che vuole fare il conduttore del telegiornale, ma la sua aspirazione non si
concilia con il suo aspetto, una dentatura esagerata poco telegenica. Guglielmo
però non demorde, supera tutte le prove del concorso, aggira brillantemente i
trabocchetti che le commissione gli prepara, rifiuta i consigli di chi gli si
presenta come amico e alla fine la spunta.
Quando al termine di una sua conduzione, apprezzata anche dal pubblico, esce
dagli studi orgoglioso e trionfante, appare, ammirato e invidiato, in compagnia
delle gemelle Kessler. È il segno del massimo successo e prestigio per italiano
di quell’epoca: uscire in compagnia delle desideratissime ma irraggiungibili
gemelle. Oggi è bello ricordarle in queste immagine simbolica, divertite e
sorridenti. Alice ed Ellen che vi sia lieve la terra e, come diceva la vostra
canzone, piccola la notte.
L'articolo Pasolini si sbagliava sulle gemelle Kessler: quelle ‘mossucce’ sono
un simbolo della tv d’autore proviene da Il Fatto Quotidiano.
Sono passati alcuni giorni dall’anniversario dei 50 anni dell’omicidio di Pier
Paolo Pasolini che ha scippato a questo Paese l’intellettuale più lucido e
lungimirante del 900. Tante le voci che si sono espresse in questi giorni sulle
dinamiche dell’omicidio e sui possibili moventi. Qui inserendomi nel dibattito,
ancora così acceso, vorrei ristabilire alcuni fatti:
– l’archiviazione del 2015 sul caso riaperto dalla procura di Roma nel 2010 ha
stabilito la presenza di più persone senza la possibilità di individuare le
identità degli altri complici. La Cassazione che nel 1979 aveva stabilito
l’unica colpevolezza di Pino Pelosi è stata dunque superata: Pasolini è ancora
un caso aperto anche a livello giudiziario;
– la notizia di reato iscritta dai giudici di primo grado nel 1976 ( “in
concorso con ignoti”) ha permesso per fortuna negli anni di riaprire le
inchieste (in tutto tre successive) anche se spesso queste inchieste hanno
finito per depistare e nascondere i fatti più che indagare davvero;
– la leggenda del rapporto sessuale che sarebbe intervenuto quella notte tra
Pasolini e Pelosi (divenuto il vero focus del processo che si è svolto al tempo)
è smentita sin dai suoi primi atti, in quanto – come anche riconosciuto
perentoriamente dalla perizia acclusa agli atti – non è stata riscontrata alcuna
presenza di liquido seminale sugli indumenti di Pasolini o tracce seminali di
Pasolini sugli indumenti di Pelosi. Dopo 50 anni tornare a parlare di contesto
di prostituzione maschile, come fatto da alcuni, è un passo indietro enorme
fattuale e culturale. Non perché Pasolini e Pelosi non potessero avere rapporti
di quel tipo in generale, ma perché quella notte altre erano le urgenze che
animavano Pasolini. E Pelosi ne fu l’esca consapevole;
– nel 2023 è stato chiarito da un articolo su l’Espresso della sottoscritta, con
tanto di documento pubblicato, che Maurizio Abbatino non poteva essere della
partita dell’agguato teso allo scrittore quella notte perché si trovava in
carcere. Altro è il ruolo dall’ex boss ricoperto, invece, e da lui confermato
con riferimento alle bobine del film Salò sottratte al regista nell’agosto del
2025: il recupero delle stesse su commissione e dopo essere uscito di prigione.
Fatto che chiarisce la complessità della trappola tesa per condurre Pasolini
all’idroscalo in un momento in cui, come è stato attestato, lo scrittore era
intercettato e seguito nei suoi movimenti. Abbatino si è sempre dichiarato
disponibile a collaborare se la magistratura volesse fargli recuperare l’intera
memoria;
– si è parlato spesso di presenze dei “servizi segreti” sul posto la mattina del
ritrovamento del corpo (la cui soppressione finale, secondo nuove testimonianze
da me acquisite, sarebbe avvenuta alle 4.30 del mattino e non all’1.30): la
persona da sempre indicata come appartenente a tale struttura presente intorno
al corpo sul posto gremito di gente con la giacca di pelle e la sigaretta non è
appartenente ad alcuna forza dell’ordine ma vicino agli ambienti del cinema che
in questa vicenda hanno più di un addentellato. I servizi c’entrano ma nessuna
logica anche da film di quart’ordine può arrivare a collocarli come presenti la
stessa mattina del ritrovamento del corpo;
– della partecipazione di Antonio Pinna, l’uomo dei Marsigliesi, si è detto
molto ma si è studiato poco: l’uomo è scomparso nel febbraio del 1976
dall’aereoporto di Fiumicino dopo la scarcerazione dei fratelli Borsellino
inizialmente indagati nell’inchiesta. Di Pinna non si è più saputo nulla se non
che nel 1979 fu stralciata la sua patente perché non più ritrovata la persona
(per lungo tempo si è affermato che l’uomo fosse stato fermato nel ‘79, cosa
falsa) e che nel 1988, quando ancora sotto indagine da parte dell’ex giudice
Imposimato per i suoi legami con il clan dei Marsigliesi, fu dichiarato morto
anche senza che il corpo si trovasse. Ma gli inquirenti degli anni 2010-2015 lo
hanno ricercato. Esistono infatti pagine e pagine di intercettazioni anche sui
familiari per cercare di scoprire se l’uomo si nascondesse da qualche parte
all’estero. Intercettazioni che non hanno portato a risultati. Tecnicamente non
si può dire che non sia stato cercato;
– l’altra figura entrata e uscita più volte dalle indagini è Johnny Lo Zingaro,
sin da ragazzino a servizio della criminalità. L’ultima indagine ha chiarito
(poco) come il suo DNA non combaciasse con i reperti trovati sul posto. Ma di
recente ho scoperto l’esistenza di sue lettere di confessione sull’omicidio,
esistenza indicatami da un ex magistrato. Lettere fatte sparire, come ho
scoperto andando al tribunale di Venezia a scavare tra carte dimenticate ma
ancora vive.
Se non si esce dal campetto di Ostia e non si cerca tra i personaggi della
estrema destra e del cinema attivi al tempo, se non si guarda tra le carte della
strategia della tensione gli elementi copiosi collegati all’omicidio e che la
magistratura tutta finora non ha voluto vedere, si resta ancora impigliati lì
tra la cronaca bella e impaginata e il complotto fine a sé stesso.
L'articolo L’omicidio Pasolini è ancora un caso aperto: voglio ristabilire
alcuni fatti proviene da Il Fatto Quotidiano.