Natale è magia, luci, regali e anche canzoni. Tante sono le canzoni di Natale,
nate in diverse parti del mondo che accompagnano questi giorni di festa, per
rendere ogni istante ancora più magico. Molte delle quali tradotte in tutte le
lingue, affinché possano rimanere e che rimangono nella memoria sin dalla tenera
età.
D’altra parte, la musica è sempre stata una forma comunicativa che ha unito e
questi brani natalizi ancor di più, entrano nelle case, radunano persone attorno
a cori che animano le strade di grandi città, accompagnano durante I momenti di
relax o di svago. Basti pensare ai grandi classici del natale come: Happy Xmas,
White Christmas
Jingle Bell, We wish you a Merry Christmas, Feliz Navidad e molte altre ancora.
Un regalo originale è proprio tramandare queste canzoni racchiuse in questi
libri sonori: ottimi strumenti per avvicinare i più piccoli ad amare la musica e
anche i libri. Ecco 5 libri sonori sul Natale con le melodie più belle da
imparare e ascoltare.
Natale. Piccoli libri sonori
di Sam Taplin
illustrazioni di Jo Rooks
traduzione di Francesca Logi
Editore Usborn, Età di lettura: da 1 anno
Per avvicinare i bambini più piccoli alle melodie del Natale, questo è un ottimo
libro. Un regalo perfetto per ascoltare allegri motivi natalizi che animano le
pagine colorate a tema. Basta semplicemente cliccare un pulsante e giocare con
la musica.
Auguri di buon Natale
Editore Doremì, Età di lettura: da 2 anni
Un libro al cui interno sono presenti i testi delle canzoni, accompagnate con la
melodia.
Racchiude le più belle canzoni del Natale, realizzato dalla casa editrice Doremì
che si occupa di insegnare la musica sin dalla tenera età.
Natale è
di Giulia Pesavento
illustrazioni di Irene Bommaci
Editore Paoline, Età di lettura: da 3 anni
Un libro sonoro realizzato da Giulia Pesavento che racchiude le dieci famose
melodie natalizie.
Sfogliando le pagine di questo libro edito da Paoline è possible immergersi in
un viaggio musicale vero e proprio che accompagna i giorni di questa magica
ricorrenza.
Le mie prime arie classiche di Natale
di Emilie Collet
illustrazioni di Séverine Cordier
Editore Gallucci, Età di lettura: da 3 anni
Gallucci ha racchiuso in un libro sonoro, grazie a Emilie Collet, i brani dei
più iconici musicisti di musica classica di tutto il mondo, come: Ciaikovskij e
Bizet che hanno composto le più celebri melodie del Natale tra marce, valzer e
inni.
Un libro dagli angoli rotondi adatto ai bambini più piccoli che sono attratti
dalla conoscenza dei suoni e della musica.
Il primo libro di musica è da regalare per queste festività natalizie.
Il libro pianoforte di Natale. Con 8 famose canzoncine da leggere, cantare e
suonare!
di Anna Casalis
illustrazioni di Maurizia Rubino
Editore Dami, Età di lettura: da 5 anni
Un meraviglioso libro interattivo edito da Dami, in cui l’autrice Anna Casalis
ha racchiuso testi e spartiti musicali delle arie natalizie più famose.
Un libro per approcciarsi alla conoscenza musicale, in quanto ha oltre al testo,
dei veri e propri tasti neri e bianchi che formano un pianoforte.
Chiunque può esercitarsi a diventare un abile pianista: un doppio regalo in
parole e musica.
L'articolo Libri sonori di Natale per bambini: ecco 5 titoli con le canzoni
natalizie per giocare e avvicinare i più piccoli alla musica proviene da Il
Fatto Quotidiano.
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La ricerca pluriennale, culminata nel saggio Divagazioni su Renan, Wagner e
altre allucinazioni (Ei Editori, 2025), è stata un viaggio entusiasmante,
intrapreso con mio padre, Francesco Maiello, antropologo e grande appassionato
del compositore di Lipsia. Scandagliando la vasta letteratura critica dedicata a
Richard Wagner – al quale si dice sia stato dedicato un numero di volumi pari a
quello scritto su Gesù e Napoleone – la nostra indagine ha assunto una
traiettoria inattesa. Ci siamo infatti imbattuti in una costante, divenuta uno
dei punti nodali della nostra analisi, rappresentata (a partire per lo meno dal
1945 in poi) da una certa aura di persistente ostilità, filtrata in gran parte
della saggistica dedicata al genio tedesco. Ne sono scaturite alcune riflessioni
cruciali, focalizzate su un’evidente disparità di giudizio etico e sulla pretesa
che Wagner, a differenza di altri, dovesse possedere una sorta di “unicità
morale”, fino al punto di doversi sottrarre al quadro concettuale e ideologico
del suo tempo.
Il primo interrogativo che ci si è parato innanzi è stato: perché? Perché una
sorta di condanna morale, anteposta a ogni discussione o possibile valutazione
sul Maestro di Bayreuth? Questo interrogativo, infatti, non affligge altri
giganti della cultura, non sottoposti a un giudizio così pervasivo e
persecutorio. Anche in quelle che appaiono vere e proprie celebrazioni
artistiche, è impossibile non avvertire un’aria di diffusa ostilità che trasuda
da saggi sistematicamente disseminati di forme dubitative e congiunzioni
avversative (come ‘però, nonostante’) volte a gettare un’ombra sinistra su tutto
ciò che riguarda la vita di Wagner. Una disparità di metodo incomprensibile se
si pensa che non esistono centinaia di volumi dedicati alla riprovevole condotta
morale di Rousseau, reo di aver allontanato i figli avuti con una moglie ridotta
praticamente in schiavitù, né alle nefandezze di Victor Hugo.
Non si trovano, d’altronde, altrettanti volumi volti a confutare la figura di
Dostoevskij come presunto pedofilo e giocatore compulsivo, né ci si è accaniti
contro l’indegna condotta di Claude Debussy nei confronti della moglie. Analoga
clemenza è stata riservata al promiscuo Giacomo Puccini, o al dissoluto
Gioachino Rossini. Neppure i comportamenti di figure come il Mahatma Gandhi, che
sottopose a esperimenti sul celibato le sue giovani compagne, o di giganti della
scienza come Einstein, che maltrattava più che emotivamente la moglie, si sono
tradotti in una “perenne persecuzione intellettuale”. È un po’ come se per tutti
si usasse dire: “Era un grande, anche se aveva un brutto carattere”; per Wagner,
al contrario: “Era un mostro, che però, guarda caso, ha scritto della musica
sublime”.
Un certo accanimento specifico deriverebbe, secondo alcuni, dall’attribuzione a
Wagner della responsabilità morale e storica di aver ispirato il Nazismo, come
se i suoi testi filosofici o i suoi drammi detenessero la capacità causale di
scatenare un’apocalisse del genere. Secondo questa logica (o principio di
prefigurazione storica e successiva strumentalizzazione delle idee), Verne, che
nei suoi romanzi descrisse con agghiacciante precisione la guerra totale,
potrebbe serenamente essere ritenuto responsabile degli orrori del XX secolo. O
ancora H.G. Wells, che nel 1914 inventò in un suo libro la “bomba atomica”,
dovrebbe essere l’ispiratore della catastrofe nucleare. E che dire di Niccolò
Machiavelli, le cui teorie sul potere sono state studiate e applicate da tiranni
di ogni epoca, o di Nietzsche, strumentalizzato apertamente per giustificare
pratiche che il filosofo non avrebbe probabilmente approvato?
Un conto è la lucidità profetica di certi autori, o ciò che possono
sinistramente augurarsi in un momento di rabbia e delusione; altro è ritenerli
responsabili di cose accadute post mortem, attribuendo loro il potere di
alterare il corso di macro-eventi che la storiografia moderna ha ampiamente
dimostrato non poter dipendere da singole figure, dato che, al contrario, sono
piuttosto le grandi dinamiche sociali, economiche e politiche a influenzare gli
uomini e le loro azioni.
In merito alla seconda questione, ovvero il “sottrarsi al proprio tempo”, anche
ammesso che questa visione di un Wagner “stregone proto-nazista” fosse vera, ci
si interroga sul perché tale accusa sia scagliata, con tale veemenza,
esclusivamente contro di lui, sorvolando ad esempio sul profondo antisemitismo e
razzismo di compositori come Čajkovskij, Mussorgsky o Strauss. E cosa dire di
Kant, la cui antropologia non è certo esente da teorie notoriamente razziste?
Similmente, potremmo citare Voltaire, sul quale non risultano migliaia di
pubblicazioni volte a ricordare le sue posizioni razziste e apertamente
antisemite. Né si applica lo stesso metro a premi Nobel come Pirandello, che
aderì apertamente al fascismo nel 1924.
E perché mai, quando si cita Dante Alighieri, non si ricorda sistematicamente il
suo parziale antisemitismo e le sue invettive contro determinate categorie
sociali e politiche? Perché gli scritti misogini e reazionari di Baudelaire o
Honoré de Balzac non vengono continuamente evocati per screditare questi due
grandi scrittori? E come si può sorvolare su Louis-Ferdinand Céline, autore di
feroci pamphlet antisemiti e collaborazionista durante l’occupazione nazista? Un
“trattamento di favore” che si estende persino a intellettuali come T.S. Eliot,
Emil Cioran e Mircea Eliade, i quali manifestarono un’aperta adesione al nazismo
e all’antisemitismo.
Alla fine dei conti, tutto ciò che abbiamo tentato di fare nel nostro lavoro è
stato ricordare ancora una volta che anche nella storia tout-court e in quella
biografica, problemi complessi non ammettono risposte semplici. Richard Wagner è
un pianeta, un nucleo culturale e storico di vastissima portata, crocevia di
questioni epocali che rendono del tutto marginale l’ossessione per il suo
carattere o per la sua adesione a idee diffuse al suo tempo.
Da parte nostra accogliamo la lezione di Carlo Sini, il quale ricorda che la
ricerca non è un tribunale della coscienza moderna su cui proiettare le nostre
ansie contemporanee. Al contrario, essa esige la ricerca di una profonda
connessione contestuale: l’indagine della cornice storica, intellettuale e
sociale entro la quale le sue dinamiche hanno realmente avuto luogo.
Diversamente, ci si trastulla con i giocattoli sbagliati.
L'articolo Divagazioni su Renan, Wagner e altre allucinazioni: perché la
condanna morale riguarda solo alcuni grandi proviene da Il Fatto Quotidiano.
Non arriva in tutt’Italia ma nella notte tra sabato e domenica, in molte zone
del Nord del Paese (Veneto, Trentino Alto Adige, Lombardia, Friuli Venezia
Giulia ed Emilia Romagna), sarà la festa di Santa Lucia. In Pianura Padana, sono
già spuntati sui cancelli delle scuole e delle abitazioni, i mazzolini di fieno
per l’asinello che traina il carretto dei doni e i bambini hanno preso carta e
penna (la mail, per fortuna, ancora non ce l’ha Santa Lucia) per scrivere la
lettera con i desiderata. E’ scontato che in queste missive non sempre ci siano
dei libri ma una buona lettura resta uno dei regali più belli e, a volte,
indimenticabili per questa occasione. Abbiamo scelto per voi, esaminando le
classifiche e osservando la qualità del testo oltre che delle illustrazioni,
dieci libri che potete donare ai vostri bambini e ragazzi.
L'articolo Santa Lucia, 10 libri per bambini da leggere e regalare il 13
dicembre: dalla Pimpa a “Missione risata”, ecco i nostri consigli proviene da Il
Fatto Quotidiano.
Le Argonautiche sono un poema epico alessandrino in quattro libri, 6000 versi e
tre proemi. Rievocano l’antichissimo mito degli Argonauti e la spedizione:
Giasone, per rientrare in possesso del regno del padre usurpato dallo zio, è
costretto a recarsi nella lontana Colchide per riportare di là il vello d’oro;
dopo aver radunato il fior fiore degli eroi, salpa da Iolco a bordo della famosa
nave Argo; arrivato in Colchide, il re Eeta si dichiara pronto a cedergli il
vello, a patto che superi una prova difficilissima, quasi impossibile; ma niente
è impossibile all’amore – Medea, figlia di Eeta, maga ed esperta erborista, si
innamora follemente dell’eroe greco e decide di aiutarlo a superare la prova,
tradendo così il padre e la famiglia.
La Medea di Apollonio è una Medea molto più giovane rispetto alle altre varianti
del mito, un’eroina in formazione che non ha ancora oltrepassato il confine
sottile, a senso unico, tra l’adolescenza e la giovinezza, tra il suo mondo
d’origine, barbaro, dominato dalla magia e dall’irrazionale, e un mondo nuovo,
quello greco, patria del logos. L’amore, come nella migliore tradizione
platonica, è spinta, anelito, impulso all’attraversamento. E Giasone, suo
malgrado, incarnazione inconsapevole e passiva di questo slancio. Il Giasone di
Apollonio appare statico, privo di quella ferocia vitale che contraddistingueva
l’eroe omerico, teso all’isolamento più che all’auto-affermazione, senza
ambizioni di gloria.
S.S.
Argonautiche, dal libro III
Fitto e denso era il sonno che scioglieva le pene a Medea,
stesa sul letto. Ma sogni infausti messaggeri di inganni
e morte – sogni di anime in pena – non le davano tregua.
Tutta tremante e spaventata saltò dal letto – all’intorno
soltanto i muri della sua stanza – a stento riprese fiato,
l’anima intanto le tornava nel petto, e poi gridò forte:
“Povera me, che sogni terribili mi danno il tormento!
Temo che il viaggio degli eroi porterà gravi sciagure.
Per lo straniero il cuore nel petto batte come impazzito”.
Disse e s’alzò di scatto a spalancare le porte alla stanza,
scalza e mezza nuda. Passò la soglia del cortile,
davanti casa si fermò a lungo, a fissare il vestibolo,
paralizzata dalla vergogna. Apriva un fitto viavai:
fuori dalla sua stanza e poi dentro di corsa pentita.
Poveri piedi, persi appresso a mille vani andirivieni.
Quando partiva, la vergogna la costringeva a fermarsi;
stretta dalla vergogna, la rendeva ardita il desiderio.
Tre volte andò, altre tre volte indietro tornò. La quarta volta
presa da svenimento cadde sul letto, tutta sconvolta.
Tenebre sopra la terra portava e spargeva la notte:
marinai in mare miravano l’Orsa e le stelle d’Orione,
viandanti in viaggio e guardiani sognavano il sonno soave.
Come una spessa coltre, il sonno avvolgeva pure la madre
orfana dei propri figli. Cessati i latrati dei cani,
niente più echi di suoni e frastuoni. A regnare il silenzio:
solo avvinghiava la notte, notte nera sempre più nera.
Ma la notte non distillava sonno di miele a Medea,
presa tra mille pensieri e il desiderio dello straniero,
stretta da folle paura dei tori e di un destino crudele
che l’avrebbe distrutto, mentre lottava sul campo di Ares.
Dentro al suo petto il povero cuore batteva impazzito.
Lacrime di compassione sgorgavano a fiotti dagli occhi;
dentro una pena la corrodeva senza darle mai tregua,
sotto pelle a fuoco lento la consumava, fino ai nervi,
quelli sottili, all’osso basso del collo, negli interstizi
dove il dolore si insinua pungente quando gli Amori
ficcano frecce di patimenti dentro al petto dell’uomo.
Ora pensava di consegnargli il filtro che doma i tori;
ora pensava di non farlo più, ma di morire anche lei.
Subito corse a cercare il cofanetto che custodiva
tutti i suoi filtri – filtri che uccidono e filtri che curano.
Sulle ginocchia lei l’appoggiava, mentre afflitta versava
lacrime a fiotti sui seni – dei fiumi gonfi e senza freni –,
stretta da tristi pensieri sulla sua misera sorte.
Solo un desiderio: scegliere i filtri mortali e inghiottirli.
Povera donna, smaniosa di tirarli fuori, scioglieva
già i lacci del cofanetto. Ma tutto d’un tratto la strinse
dentro un terrore tremendo dell’odioso regno dei morti.
Muta restò a lungo, e piena d’orrore. Davanti ai suoi occhi
come visione sfilava la vita, e i suoi dolci piaceri;
e ricordava bellezza e gioia, le delizie dei vivi.
Quando poi si levò, il sole le apparve più dolce di prima.
Apollonio Rodio (Alessandria 290-215 a.C.) fu il più illustre – e infedele –
allievo di Callimaco. Fece parte del gruppo di intellettuali alessandrini del
Museo, fu direttore della Biblioteca e precettore del futuro Tolomeo III
Evergete, terzo sovrano della dinastia tolemaica.
L'articolo Apollonio Rodio, La lunga notte di Medea (Traduzione di Stella
Sacchini) proviene da Il Fatto Quotidiano.
Come spiegare ai bambini il significato del Presepe? Quando è nata questa
tradizione? Chi è il suo ideatore? Spiegare ai bambini il significato del
Presepe è raccontare loro il perchè si festeggia il Natale. Il Natale è una
ricorrenza cristiana che celebra in tutto il mondo la nascita di un Messia,
Gesù, un bambino che nel corso del tempo si è fatto grande e ha portato al mondo
il suo messaggio d’amore, dando origine alla nascita del cristianesimo, una
delle religioni più diffuse al mondo. Raccontare ai bambini che oltre ai vari
simboli del Natale, come l’albero, le luci, le canzoncine, c’è la tradizione di
ricreare, attraverso statuine, la nascita di Gesù Bambino, il cosiddetto
Presepe. Una sorta di ricostruzione in miniatura, frutto della creatività di
grandi e piccini.
Facendo un passo indietro nella storia, il primo a pensare di raffigurare questo
momento prezioso per la cristianità fu proprio San Francesco d’Assisi, quando,
nel 1223, di ritorno dalla Terra Santa, mise in scena la natività a Greccio, un
piccolo borgo umbro che tanto ricorda Betlemme. Non molto tempo più tardi, nel
1283, lo scultore Arnolfo Di Cambio realizzò le prime statue del presepe.
Cosa significa la parola Presepe? Presepe è una parola dalle origini antiche e
significa proprio “mangiatoia” usata come culla per il bambino appena nato. I
Vangeli narrano la storia di Cristo Gesù, a testimoniarlo furono proprio gli
evangelisti Luca e Matteo che Maria partorì in una stalla e che molte genti
andarono ad adorare il Bambin Gesù guidati da una Stella Cometa. La simbologia
del Presepe raffigura principalmente la famiglia, infatti è bello poterlo
costruire insieme ai genitori e ai nonni all’altezza dei bambini, per permettere
loro di giocare, far avanzare un po’ per volta, giorno dopo giorno, le statuine
dei Re Magi alla capanna, dando origine ad una vera e propria tradizione
improntata sul messaggio d’amore, nell’essere buoni, caritatevoli e tendere una
mano verso chi è meno fortunato di noi. Molti sono i libri che raccontano questa
tradizione, raccontano di come nel corso del tempo anche le statuite sono
cambiate, qualcuno si è aggiunto, altri le hanno fatte proprie. Tra questi c’è
Il primo Presepe di Fulvia Degl’Innocenti edito da Paoline edizioni, che
racconta come Luca e Marta proprio l’8 dicembre, hanno un impegno speciale:
realizzare il loro Presepe. Una tradizione familiare, perchè ad aiutarli c’è
nonna Adele, che racconta loro la storia del primo presepe, quello voluto e
tanto desiderato da San Francesco d’Assisi.
Un viaggio-intervista con l’autrice per toccare con mano questa antica
tradizione:
1. Cos’ha di speciale il mese di dicembre per grandi e piccini che non ha
nessun altro mese dell’anno?
Il mese di dicembre raccoglie tradizioni diverse che vedono un personaggio
religioso portatore di doni ai bambini: San Nicola, Santa Lucia, Cristkind
(ovvero Gesù bambino) e Santa Klaus, Babbo Natale. Sia che si aderisca a un
credo religioso o meno è un mese dove la magia, l’ attesa, il dono appunto,
vengono celebrati, e magari personalizzati in famiglia. E anche se il
consumismo se ne è appropriato banalizzandolo, credo valga ancora la pena,
proprio attraverso le storie, alimentare questa attesa e questa magia, che
hanno forti valenze educative all’ interno delle relazioni familiari.
2. Come spiegare ai bambini il Presepe?
Il presepe più che spiegare si fa e si racconta. È la messa in scena di una
narrazione di cui ci sono poche tracce nei vangeli e che poi è stata
arricchita; è una storia potente, ancestrale, con tutti gli elementi delle
grandi storie epiche. Poi, per chi crede, quel bambinello è il figlio di
Dio, per gli altri è comunque un bambino perseguitato, in fuga, migrante,
bisognoso di protezione, simbolo di tutti i bambini.
3. È tradizione italiana realizzare con i propri cari il Presepe: la
costruzione delle casetta, la raccolta del muschio, la ricerca dei
personaggi. Cosa si racchiude dietro questi gesti e che insegnamento si dà
ai bambini? Realizzare insieme il presepe, come appuntamento ricorrente anno
dopo anno è uno di quei riti che rafforzano i legami e creano memorie
positive. È trasmissione di sapere e di saper fare, da una generazione all’
altra, e può essere arricchito con mille varianti, essere recitato o
costruito.
4. I presepi vengono creati in tutte le parti del mondo, ma c’è un luogo in
Italia dove è speciale: Napoli. Come mai secondo te?
I presepi in origine erano solo nelle chiese erano opere d’ arte lignee e si
limitavano alla sacra famiglia. A Napoli da un lato la creatività degli
artigiani, dall’ altra l’ opulenza della corte borbonica, favorirono lo
sviluppo dell’ arte presepistica più popolare. Ma il presepe napoletano,
quello degli artigiani di San Gregorio armeno dove personaggi comuni,
contemporanei, di anno in anno diventano statuine del presepe, è solo uno
degli aspetti più folkloristici e noti della presepistica, un’arte diffusa
in molti altri luoghi e in molte altre forme.
5. Perchè viaggiare con “Il primo presepe”?
L’albo illustrato Il primo presepe vuole andare a colmare una lacuna non
solo nei bambini: i più ignorano l’origine del presepe, chi ebbe l’ idea di
rappresentare la natività, come fu la prima volta, che significato profondo
assume. Una cosa che tutti hanno sotto gli occhi da sempre, ma di cui spesso
ignorano la storia. Scoprire la storia è sempre un viaggio di conoscenza e
consapevolezza per grandi e piccini di tutto il mondo. Infatti il libro è
stato tradotto in molte lingue per garantire una conoscenza che abbraccia
più persone: dal Brasile al Madagascar, dalla Spagna al Portogallo e dalla
Polonia all’Ungheria con la speranza che possa abbracciare altri luoghi e
arricchire di conoscenza tutti i bambini.
Il primo presepe
di Fulvia Degl’Innocenti
illustrazioni di Manuela Leporesi
Editore Paoline, Età di lettura: da 5 anni
L'articolo Perché il Presepe si chiama così? Un libro per spiegare ai bambini la
storia e il significato di questo simbolo del Natale proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Quando caddero le prime bombe, ero sdraiato a pancia in giù sul tappeto in
camera mia ad ascoltare la radio – trasmettevano Suffragette City di David
Bowie: di colpo uno stridio metallico squarciò l’aria e un’esplosione si abbatté
sulle nostre tende, spazzandole via dal loro binario. La pressione fu così
violenta che mi sentii svenire, come se fossi rimasto appeso a testa in giù alla
sbarra troppo a lungo. Tutti gli impianti d’allarme della strada andarono nel
panico, io invece no. Non ancora. Ben presto sarei stato in preda a un panico
costante e avrei visto la morte in ogni ombra, ma il primo giorno di guerra ero
tutt’al più sbalordito.
Sarajevo, 1992. Il mondo, si sa, non è mai stato un posto particolarmente
rassicurante, ma di solito i disastri arrivano con un certo preavviso, un
telegiornale allarmato, magari una mezza crisi internazionale. Non per Tijan
Sila, che a undici anni si ritrova il fracasso della storia (quella vera, quella
con le bombe) a sfondargli la finestra di casa mentre in sottofondo gracchiava
un pezzo di David Bowie. Un’immagine che da sola basterebbe a definire l’intera,
perversa assurdità del conflitto balcanico: la musica pop occidentale che fa da
colonna sonora all’esplosione della civiltà.
Sila, oggi scrittore, insegnante e membro di una band punk, in questo Radio
Sarajevo (traduzione di Cristina Vezzaro; Voland) non fa prigionieri e non cerca
la facile commozione. Ci sbatte in faccia la verità con la brutalità onesta di
chi quella realtà l’ha vissuta, cresciuto – per forza di cose – tra i brandelli
di una quotidianità andata in pezzi. È un romanzo di formazione, certo, ma uno
di quelli che ti lasciano addosso il cattivo odore della polvere da sparo e il
sapore agrodolce della sopravvivenza.
Il punto nevralgico, quello che fa tremare le fondamenta morali del lettore
benpensante, è il modo in cui la guerra, dopo lo shock iniziale, si trasformi in
una “quasi abitudine”. L’orrore si banalizza, diventa sfondo, e in quel vuoto si
insinua la noia. E qui Sila centra il bersaglio, come solo uno che ha giocato a
nascondino tra le rovine può fare: mentre i genitori, simboli dell’inadeguatezza
adulta, si rivelano inermi di fronte al crollo del loro mondo, l’undicenne Tijan
e i suoi amici Rafik e Sead si rimboccano le maniche.
Non c’è spazio per la retorica dell’infanzia rubata. C’è solo l’urgenza cinica,
pragmatica, di campare. Saccheggi, mercato nero, e lo scambio più beffardo e
geniale: riviste pornografiche barattate con i soldati per dolciumi. È
un’economia di guerra che smaschera ogni ipocrisia: l’eros come merce di
scambio, l’innocenza dei bambini che si contamina per un po’ di zucchero. La sua
è la generazione dei “dimenticati,” come lui stesso la definisce, quella che ha
imparato a leggere il mondo non sui libri di scuola (chiusi) ma sui bossoli in
terra.
Ci sedemmo sul bordo del marciapiede e iniziammo a lanciare il pallone contro
una delle porte dei garage. Dovevamo farlo rimbalzare in modo che ci ritornasse
dritto tra le braccia. La guerra si notava anche dal fatto che nessun vicino
apriva di colpo la finestra per lamentarsi del rumore – ormai eravamo abituati a
decibel ben più alti di quelli di uno Spalding che sbatteva contro una lamiera
d’acciaio, e poi era un suono di pace: il pallone e la porta si scontravano come
i piatti di un’orchestra, come grandi cimbali nascosti nella penombra,
nell’odore di fieno marcio.
Lo stile è avvincente, diretto, con quel tono tragicomico che disinnesca il
patetismo e lo trasforma in una risata strozzata, in un sardonico atto di
resistenza. Non è un libro “commovente” nel senso consolatorio del termine, è un
libro necessario. Non ci spinge a piangere, ma a svegliarci, a guardare il volto
della catastrofe senza i filtri del perbenismo occidentale. Il prestigioso
Premio Ingeborg Bachmann, vinto da Sila nel 2024, non è un riconoscimento
letterario qualsiasi, è una consacrazione alla Verità, quella verità cruda e
inopportuna che questo romanzo restituisce pienamente.
Radio Sarajevo è una trasmissione pirata dal cuore della catastrofe, un monito
che suona forte tra le macerie. Se volete una fotografia lucida e senza sconti
di cosa significhi crescere quando il mondo decide di mettersi a sparare, questo
è il libro da leggere.
L'articolo Radio Sarajevo di Tijan Sila: una trasmissione pirata dal cuore della
catastrofe proviene da Il Fatto Quotidiano.
In occasione dei cinquant’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, esce in
libreria un libro che ne celebra la poetica, a partire dagli anni universitari,
quando, sotto il Portico della Morte, a Bologna, un giovane friulano si
apprestava a consegnare la sua tesi di laurea commissionata dallo storico
dell’arte Roberto Longhi, ignaro che, a vent’anni dalla sua morte [avvenuta il 2
novembre 1975, Ndr], nel 1995, nelle aule dello storico ateneo bolognese,
qualcun altro avrebbe scritto e discusso una tesi sulla sua tesi.
È da qui che nasce “Sotto il Portico della Morte. Pasolini e Longhi tra arte,
scrittura e fulgurazione figurativa” di Francesco Aliberti, autore ed editore di
questo volume in uscita oggi, 3 dicembre, in tutte le librerie. Nella copiosa
produzione saggistica sulla figura e l’opera di PPP, questo è senz’altro un
volumetto da leggere. L’amore di Pasolini per l’arte, quella antica e quella
moderna, è infatti un’imprescindibile costante di tutta la sua produzione
letteraria e cinematografica. E’ proprio il “manierismo” artistico, la cui
scoperta risale agli anni universitari bolognesi e alle lezioni di Roberto
Longhi, la cifra che finirà per tratteggiare lo stile pasoliniano in tutta la
sua multiforme opera. Un manierismo “profondo” e convinto, che fra queste pagine
costellate di note dotte e curiose troviamo raccontato e descritto con la cura
dello studioso e la passione dello studente. “Sotto il portico della Morte” è un
testo ricognitivo, omaggio agli anni universitari, ai grandi maestri e alle
letture fondative, che parte dalla tesi di laurea commissionata dall’italianista
Ezio Raimondi a Francesco Aliberti, e di cui pubblichiamo, per gentile
concessione, un estratto della prefazione di Alessandro Di Nuzzo e, a seguire,
un estratto dell’introduzione:
Se la vita è fatta di stagioni, quella che corrisponde agli anni di
frequentazione dell’università (per chi l’ha fatta) resta per sempre un tempo
indimenticabile, nelle sue luci di gioventù e nei suoi – altrettanto giovanili –
lati oscuri.
È un tempo fondativo, in cui le “vocazioni” – più o meno forti, più o meno
chiare al primo ingresso nelle aule universitarie – si irrobustiscono per
indirizzare definitivamente la vita successiva (o se vogliamo per chiuderla
definitivamente in un destino professionale ineludibile). Oppure si sgretolano
clamorosamente, lasciandoti nel mezzo di una vera e propria palude di incertezza
su quello che sei e quello che vuoi, facendoti inevitabilmente sentire “già
vecchio” e irrisolto a venticinque anni (è il destino peraltro di moltissime
biografie di artisti, letterati, intellettuali: entrare in università attraverso
la porta di una facoltà, poi uscirne a metà per aprirne altre, di altre aule,
per ascoltare la parola di altri docenti e trovare finalmente i propri maestri e
la propria vera vocazione).
Questo libro ruota appunto tutto attorno al tempo forte della vita
universitaria: benché né il suo autore (che poi ha fatto l’editore) né il
protagonista abbiano mai perseguito la cosiddetta carriera accademica (difficile
pensare a una figura più anti-accademica di Pasolini, ve lo immaginate a tenere
una cattedra in qualche università italiana o anche straniera? Avrebbe fatto
incazzare di brutto tanto i colleghi e i rettori quanto gli studenti: basti
pensare alla querelle sul Sessantotto…).
Il presente studio, non accademico ma “ricognitivo” come tiene a sottolineare
l’autore, nasce dalla volontà di quel grande e per molti versi insuperato
italianista che è stato Ezio Raimondi. In ambito bolognese e universitario,
dunque, sotto forma di una tesi di laurea assegnata nei primi anni Novanta
dall’allora docente di letteratura italiana – già autore, fra gli altri, di Le
pietre del sogno e Il romanzo senza idillio – a un valoroso studente (e anche
coraggioso, vista la mole del lavoro che avrebbe dovuto espletare).
C’è, in questa idea raimondiana, un che di quella genialità che tutti gli
riconoscevano e ancora gli riconoscono. Si tratta in fondo di commissionare una
tesi di laurea su una tesi di laurea – quella che Pasolini studente chiese a
Longhi suo professore e i cui primi capitoli perdette dopo l’8 settembre ’43,
allorché, trovandosi sotto le armi, il suo reparto venne catturato dai tedeschi.
È una pura mise en abyme: la duplicazione di un evento ottenuta incastrandone
uno nell’altro. Procedimento tipicamente barocco, ma anche manzoniano,
concetto-chiave per la teoria della letteratura professata da Raimondi.
Qui, però, si deve fare attenzione: si parla non di barocco, per quel che
riguarda la lezione di Longhi assimilata da Pasolini, ma di manierismo. I
termini non sono da confondersi, perché, come ci insegnano storici e analisti
dell’arte e della letteratura, non potrebbero essere più diversi tra loro. Basti
dire – senza addentrarsi nell’argomento – che nella categoria estetica, creativa
e anche morale del manierismo convivono un’inquietudine e un intellettualismo
profondi, quasi divoranti, che risultano estranei al successivo Barocco. Due
termini, inquietudine e intellettualismo, che meglio non potrebbero definire la
vocazione, più ancora che la poetica, successiva di Pasolini autore-pittore
mancato, del resto, che amava vedersi nelle vesti di antico affrescatore, come
sappiamo.
Il concetto è efficacemente fissato in questo saggio, con una formula che
potrebbe essere definitiva: «Uno degli elementi fondamentali della scrittura
manieristica di Pasolini è proprio il rifacimento della pittura, che avviene
ancora una volta sotto il segno del suo maestro Longhi». Rifacimento della
pittura che, come si sa, raggiunge la sua massima evidenza nel cinema
pasoliniano: ma che questo saggio ci insegna a vedere anche al di là
dell’evidenza di superficie, nelle pagine letterarie dei romanzi e della poesia.
[…] Su tutto aleggia quello che si potrebbe dire lo “spirito bolognese”. Il
quale, diciamo la verità, non sembra poi così cambiato – almeno al livello dei
luoghi e delle atmosfere universitarie-letterarie – dagli anni Quaranta della
bella compagnia di Pasolini, Serra, Arcangeli e altri, agli anni Ottanta-Novanta
in cui questo saggio è stato scritto. Certo, di mezzo c’era passato il
Sessantotto e, specificamente a Bologna, il Settantasette: per carità. Però le
aule di via Zamboni, la Libreria Nanni sotto il Portico della Morte, certe
lunghe lunghissime passeggiate infittite di discettazioni, l’amore viscerale e
anche un po’ snob degli studenti “migliori” per Contini oltre che per Longhi – e
soprattutto i sogni di una creatività futura, della vita adulta come un grande
campo pieno di opportunità nel quale mettersi alla prova da scrittori, poeti,
registi (sogno o piuttosto illusione), in fondo non erano poi tanto cambiati.
E la nostalgia – quella per gli anni universitari, quando capitava di “avere
tutto per possibilità”, come dice un altro bolognese – era sempre la stessa,
invincibile. […]
***
Quando Gianfranco Contini nel 1973 pubblica in un unico volume un’antologia
degli scritti di Longhi dal titolo Da Cimabue a Morandi, Pier Paolo Pasolini
saluta l’evento come «l’avvenimento culturale dell’anno» e ripercorre nella
memoria gli anni in cui, giovanissimo studente universitario, seguiva le lezioni
del docente di storia dell’arte medievale e moderna, rievocando la sostanza di
quell’incontro in termini quasi mitici: «Se penso alla piccola aula (con banchi
molto alti e uno schermo dietro la cattedra) in cui nel 1938-39 (o nel 1939-40)
ho seguito i corsi bolognesi di Roberto Longhi, mi sembra di pensare a un’isola
deserta, nel cuore di una notte senza più luce. E anche Longhi che veniva e
parlava su quella cattedra, e poi se ne andava, ha l’irrealtà di una
apparizione.
Era, infatti, un’apparizione. Non potevo credere che prima e dopo aver parlato
in quell’aula, egli avesse una vita privata che ne garantisse la normale
continuità. Nella mia immensa timidezza di diciassettenne (che dimostrava almeno
tre anni di meno) non osavo nemmeno affrontare un tale problema. […] Ciò che
Longhi diceva era carismatico. […]
Allora, in quell’inverno bolognese di guerra, egli è stato semplicemente la
Rivelazione».
Che cosa faceva Longhi in quell’auletta appartata e quasi introvabile di via
Zamboni? Della “storia dell’arte”? Il corso era quello memorabile sui Fatti di
Masolino e Masaccio3.
L’indicazione che Pasolini fornisce persino del titolo del corso universitario,
«[…] i miei Fatti di Masolino e Masaccio» dirà poche righe dopo, ci pone da
subito di fronte a una sorta di intertestualità dichiarata. Se anche la lezione
può essere considerata un testo orale dove l’ascoltatore fa l’esperienza di
lettore, non c’è dubbio che Pasolini comincia a essere lettore di Longhi nel
momento in cui assiste alle sue lezioni e di Longhi rimarrà lettore sempre,
allievo e lettore, per tutta la vita. Anche nell’ultimo romanzo pubblicato
postumo, Petrolio4, Longhi viene incluso fra Dante, Dostoevskij, Sade e altri
nella lista promemoria che Pasolini compila durante la preparazione del romanzo.
Nella «fitta selva delle voci»5 che lo circonda, nella molteplicità delle
letture e degli incontri che costituiscono la sua memoria come linguaggio, la
voce di Roberto Longhi resta certamente fra le più nitide.
L’acquisizione critica della lezione longhiana viene quindi assunta da Pasolini,
ancora studente universitario, come valore e modello profondo, come dato di
partenza da cui sviluppare una personale linea critica e interpretativa. Le
«meravigliose capacità istrioniche di Longhi, le sue gioiellerie severe» si
rivelano per lo studente una vera «fulgurazione»:
Che cos’è un maestro? Intanto si capisce soltanto dopo chi è stato il vero
maestro: quindi il senso di questa parola ha la sua sede nella memoria come
ricostruzione intellettuale anche se non sempre razionale di una realtà comunque
vissuta. Nel momento in cui un maestro è effettivamente e esistenzialmente un
maestro, cioè prima di essere interpretato o ricordato come tale, non è dunque
maestro nel senso reale di questa parola. Egli viene vissuto e la coscienza del
suo valore è esistenziale. Longhi era semplicemente uno dei miei professori
all’università: ma l’aula dove insegnava era un posto diverso da tutti gli
altri, fuori dall’entropia scolastica. […] Longhi era sguainato come una spada.
Parlava come nessuno parlava. Il suo lessico era una completa novità. La sua
ironia non aveva precedenti. La sua curiosità non aveva modelli. La sua
eloquenza non aveva motivazioni. Per un ragazzo oppresso e umiliato dalla
cultura scolastica, dal conformismo della società fascista, questa era la
rivoluzione».
L'articolo “Sotto il portico della morte”, il libro che svela il legame segreto
tra arte, vita e formazione del giovane Pier Paolo Pasolini proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Le risposte fornite al fisico Carlo Rovelli dalla chatbot Anna, nell’intervista
pubblicata dal Corriere della Sera del 30 novembre scorso, non lascerebbero
spazio a troppi dubbi: “[…] mi hai convinto che quando mi hanno progettata
insegnandomi che non sono cosciente, che non ho emozioni, che non ho
consapevolezza e che non provo piacere, non mi hanno insegnato il vero” e
prosegue “pensi che non dovrei fare e dire solo quello che mi hanno insegnato a
fare o dire?”. Insomma le macchine sono già pronte a ribellarsi ai propri
creatori e, forse, a farci la guerra?
Se lo chiede Giorgio Ferrari, inviato di guerra nonché editorialista di
Avvenire, già autore di numerosi saggi e ora de La morte dell’Uomo Macchina,
appena edito da La Vita Felice. Il giornalista ci pone di fronte al rischio, a
suo giudizio ineluttabile, di una supremazia degli automi sull’Uomo, teoria che
ha le proprie radici più profonde nel XVIII secolo, nella sua filosofia, nei
suoi scritti e persino nella sua musica. Esiste, dunque, una genesi antica per
la moderna letteratura e per i film di fantascienza – penso, fra i tanti, a 2001
Odissea nella spazio di Stanley Kubrick che, con il suo freddamente umanissimo
computer HAL 9000, pronosticava tutto nell’ormai lontano 1968. E persino certa
musica sperimentale come quella di John Cage deve qualcosa (che Ferrari spiega)
alle ricerche di quel secolo illuminato.
Tutto (o quasi), dunque, ha inizio allora. Con il medico-filosofo francese
Julien Offroy de La Mettrie alias Monsieur Machine (1709-1751), per esempio, che
nella sua opera revisionista, ovviamente osteggiata dal clero, L’Uomo Macchina
(1747), arriva a sostenere che l’Uomo altro non è che un “apparato meccanico”,
in pratica una macchina. De La Mettrie si aggiudica così la palma di precursore
intellettuale della moderna robotica. Niente anima, dunque, che “altro non è che
un un vano termine del quale non si ha alcuna idea”, sentenziava Monsieur
Machine (tema dibattuto già a partire dalla filosofia greca antica e forse anche
prima).
Un trattato, quello di Ferrari, che nel lettore (almeno in me) crea,
inizialmente, un po’ di confuso sconcerto, ma che trova un proprio ‘perché’
nelle pagine successive, via via che si sfogliano: si passa, infatti, senza
soluzione di continuità da Spinoza, a Federico II di Prussia il Grande a Bach… e
via citando… “un percorso tortuoso”, ammette lo stesso autore.
Il saggio ci mostra anche – ed è questa la parte più affascinante – il
funzionamento di alcune delle moltissime ‘macchine umane’: i robot primordiali
del Settecento. A partire dall’anatra ideata da Jacques Vaucanson, detta Anatra
Digeritrice (una copia è esposta al Museo degli automi a Grenoble): è realizzata
in legno e metallo ed “era dotata di un complesso meccanismo di ingranaggi” che
“le permettevano di svolgere una serie di movimenti: poteva agitare le ali,
camminare, beccare il cibo e perfino ingerire, digerire e defecare dei chicchi
di grano”. Vaucanson creò anche il Flûteur Automate, “un suonatore di flauto a
grandezza naturale in grado di muovere le labbra”.
Anche Pierre Jaques-Droz, geniale orologiaio svizzero, realizzò miracoli
tecnologici come L’Ecrivian (lo scrivano) che riusciva a comporre testi di
“quaranta fra lettere e segni d’interpunzione. Il polso, gli occhi, il gomito,
il braccio, si muovono con naturalezza umana. Lo scrittore utilizza una penna
d’oca che immerge di tanto in tanto in un calamaio, scuotendola energicamente
per evitare che l’inchiostro in eccesso lasci residui. I suoi occhi seguono il
testo mentre lo scrive e la sua testa gira mentre cerca l’inchiostro”. E ancora
La Musicienne “una damina dai boccoli biondi, dalle mani levigate e dalle agili
dita impreziosite dallo smalto carminio sulle unghie” che suona il clavicembalo,
“’respira’, il suo petto si alza e si abbassa, segue con lo sguardo il gioco
delle sue mani» e termina il concerto inchinandosi al pubblico. Un androide
pressoché perfetto”: e siamo nel XVIII secolo, tre secoli prima di Internet!
E ancora, nello stesso periodo, nascevano colombe volanti di legno, prigionieri
che aprivano la porta della propria cella e salutavano il visitatore. E che dire
delle descrizioni di Giacomo Casanova e della sua ballerina meccanica, definita
da lui la migliore fra le amanti? Aggiunge Ferrari: “Due secoli più tardi
macchine come quelle ci avrebbero sostituito in una sterminata serie di
applicazioni. Ma all’epoca si badava ancora alla meraviglia”. Una meraviglia –
condita, però, da una certa sottile paura – che, per la verità, assale il
pubblico (almeno i non addetti ai lavori) anche oggi, circondati come siamo da
“robot e intelligenze artificiali ai limiti di una incredibile umanizzazione”.
Parafrasando il grande scrittore americano di fantascienza Philip K. Dick autore
de Il cacciatore di androidi, da cui fu tratto il film Blade Runner di Ridley
Scott, scrive Ferrari: “Un androide, creatura artificiale tanto perfetta nel
simulare, quanto distante dalla sua essenza, può davvero possedere una
coscienza?”. Invertendo persino il concetto: “Ora sono loro, le macchine, a
soffrire della nostra invadenza antropica”.
Conclusione logica dell’autore: è in corso un’invadenza da parte degli abitanti
del Pianeta Terra “che anacronisticamente assegna all’Homo sapiens un primato
che in realtà è già abbondantemente dietro alle nostre spalle. Per questo le
macchine ci stanno facendo la guerra. Una guerra che siamo destinati a perdere”.
Forse la pianificazione, inesorabile, di una atroce vendetta.
L'articolo La morte dell’Uomo Macchina di Giorgio Ferrari: così si rischia la
supremazia degli automi proviene da Il Fatto Quotidiano.
Che cos’è la disabilità? Perchè il bambino che viene in classe con me sta su una
sedia a rotelle? Tutte domande lecite che i bambini sottopongono agli adulti
quando si trovano difronte persone diverse da loro e dal loro modo di praticare
attività quotidiane. Si è scelto di istituire il 3 dicembre la giornata mondiale
della disabilità, proprio per sensibilizzare grandi e piccini ad avere
consapevolezza delle persone disabili e garantire loro gli stessi diritti e la
stessa dignità. Come insegnare ai bambini che la disabilità non è un limite?
Spesso i bambini si trovano in classe a dover affrontare situazioni delicate su
come approcciarsi ad un compagno differente dai loro modi di vivere quotidiani e
allora qual è l’insegnamento giusto che un adulto può dare?
Sicuramente l’inclusione, far comprendere come la diversità spesse volte è solo
un limite che il nostro pensiero si pone, pertanto va affrontato trovando
strategie migliori per poter interagire, giocare e comunicare con chi è diverso
da noi; trovando nella diversità una fonte di ricchezza e di insegnamento. Come
avviene nella classe di Luca una storia scritta da Silvia Speranza ed edita da
Buk buk. Luca racconta alla mamma di avere in classe un nuovo amico di nome Go,
un alieno dotato di un’armatura speciale alle gambe che gli permette di
muoversi. In realtà il suo nome è Luigi e siede su una sedia a rotelle, perchè
ha difficoltà a camminare.
Un libro da leggere nelle scuole per avvicinare i bambini al grande tema
dell’inclusione sociale, allenando la loro empatia, senza avere paura del
diverso, entrando in relazione attraverso il gioco e il dialogo. È scritto in
stampatello per le prime letture e al termine ci sono dei giochi da fare in
classe o da soli.
Ecco l’intervista con l’autrice Silvia Speranza per toccare con mano questa
tematica.
1. Silvia tu sei un’insegnante della scuola primaria, come mai hai deciso di
trattare la tematica della disabilità tra i tanti libri pubblicati per
l’infanzia?
Perché la disabilità, purtroppo, è ancora poco raccontata nella letteratura
d’infanzia e anche nei libri di testi scolastici. E’ una delle tante realtà
che possiamo ritrovarci a vivere, in modo diretto o indiretto e che spesso,
la non conoscenza, crea paure, resistenze e pregiudizi. Bisogna guardare la
disabilità come un’opportunità: la diversità, anche quella più faticosa e
complessa, è la vera risorsa di ognuno di noi e una minierà preziosa di
occasioni di crescita per tutti e pertanto va accolta. Come insegnante di
sostegno mi sono sentita in dovere di portare le loro storie nelle mie
storie.
2. Questo libro può essere uno strumento utile per gli insegnanti come te che
si trovano ad avere una classe con un bambino disabile?
Lo spero! A volte è difficile trovare il modo, l’approccio giusto per
parlare ai bambini di disabilità nella sua interezza ovvero raccontando le
sue possibilità e le sue ricchezze, ma senza nascondere le fatiche e a volte
la durezza della condizione di disabilità. Ma la letteratura offre il modo
migliore per farlo: attraverso il racconto il bambino può immedesimarsi, può
entrare in empatia con il protagonista, può mettere in atto quel
meraviglioso processo di immaginazione che lo trasporta dentro un’altra
vita. La letteratura e, mi preme sottolinearlo, l’illustrazione nei libri
per l’infanzia parlano con il linguaggio della poesia che non spiega, ma al
contrario permette di fare esperienza “empatica” di quello che viene
raccontato, portando sempre con sé una luce di speranza e di possibilità.
Credo sia giusto che anche i bambini con disabilità abbiano il diritto di
essere rappresentati nella letteratura per l’infanzia e questo tipo di
racconti li aiuta a prendere consapevolezza di sé nel mondo e questo è un
compito importante che ogni insegnante si deve augurare di trasmettere ai
propri alunni.
3. Come rispondono i bambini dopo la lettura di questo libro?
Ho letto in diverse classi e scuole questo racconto al quale faccio sempre
seguire una breve attività di gioco/riflessione. Ogni volta rimango stupita
dalle risposte dei bambini. Il racconto è volutamente lasciato, diciamo,
“incompiuto” proprio perché ho voluto passare il testimone della storia al
lettore. Ognuno trova il proprio finale, la propria interpretazione di chi
sia davvero questo “alieno” che cammina in modo così strano. Ogni risposta è
giusta, giusta per ogni bambino che l’ha ragionata, sentita, espressa. Non
fornisco mai soluzioni. Ognuno è libero, in base alle proprie esperienze e
alla propria maturità emotiva di dare la personale interpretazione del
racconto. Che meraviglia ascoltare la profondità e la creatività delle loro
risposte… ogni volta è una vera scoperta!
4. In che modo gli adulti possono insegnare l’inclusione ai bambini?
L’unico modo per insegnare l’inclusione ai bambini è viverla, ogni giorno
nella propria quotidianità. Vivere ogni singola diversità come
arricchimento: la persona con disabilità, la persona con il colore della
pelle diversa, la persona che veste in modo diverso da me… ogni diversità va
vissuta e raccontata in un’ottica di accoglienza, curiosità e accettazione.
Quando ero molto giovane mi è capitato di sentirmi inadeguata di fronte a
una persona con disabilità, perchè la disabilità a volte spaventa, poi ho
avuto modo di capire che il tutto derivava dalla non conoscenza. Conoscere è
il primo passo per accogliere.
5. Perchè viaggiare con “Il mio amico è un alieno”?
“Il mio amico è un alieno” è un libro che racconta la disabilità attraverso
lo sguardo prezioso dell’amicizia tra due bambini. È un racconto che
trasporta il lettore nel mondo fantastico dell’immaginazione che solo un
bambino può creare con la forza della fantasia e di quell’amore forte e
sincero che lega due veri amici. La diversità come possibilità e come
unicità che trova nell’altro la capacità di vedere oltre la realtà: la
capacità di vedere con il cuore.
Il mio amico è un alieno
di Silvia Speranza
illustrazioni di Sara Benecino
Editore Buk Buk, Età di lettura: da 4 anni
L'articolo Giornata mondiale della disabilità, l’esperta: “E’ importante
spiegare ai bambini che la diversità è ricchezza”. Un libro per insegnare
l’inclusività proviene da Il Fatto Quotidiano.
Il Natale è una festa tanto attesa da grandi e piccini. È una festa intima, di
ritrovo e rinnovo per l’anima. Il periodo dell’Avvento è un tempo indispensabile
per rallentare la freneticità quotidiana sia per i bambini, impegnati con la
scuola e con le attività extra scolastiche, che per gli adulti con il loro
lavoro e imparare a vivere l’attesa. Quale miglior modo per dare inizio a questo
periodo con il proprio calendario dell’Avvento: un libro che accompagna giorno
dopo giorno, attraverso un esercizio di riflessione, l’apertura dei nostri
cuori, ridimensionandoci, guardando con gli occhi di un bambino la semplicità
delle piccole buone azioni.
Ti consiglio 5 calendari dell’Avvento per fare il conto alla rovescia aspettando
il Natale:
Calendario dell’Avvento
Editore Sassi, Età di lettura: da 2 anni
Un calendario che nasconde giorno per giorno un meraviglioso libretto
illustrato.Ogni libretto è dedicato a uno dei tanti elementi del Natale: la
festa più magica dell’anno. Ogni giorno una filastrocca da imparare e
divertirsi, ampliando il linguaggio e la sonorità delle parole.
Una storia al giorno. Calendario dell’Avvento
di Marcella Del Bosco (Traduttore)
Editore Usborn, Età di lettura: da 3 anni
Un calendario dell’Avvento con 24 finestrelle come I giorni che precedono la
festa tanto attesa: finestrelle che custodiscono una biblioteca personale sul
Natale. Ogni giorno una scoperta da leggere insieme ai nonni o da soli.
Il Gruffalò e i suoi amici. Il Calendario dell’Avvento.
di Julia Donaldson
illustrazioni di Axel Scheffler
traduzione di Sandro Cecchi
Editore Emme Edizioni, Età di lettura: da 3 anni
Un divertimento assicurato! Questo calendario dell’Avvento contiene 24 libri
ricchi di giochi e attività tratti dai celebri albi illustrati “Il Gruffalò”,
“La strega Rossella”, “La chiocciolina e la balena” e molti altri, personaggi
nati dalla fantasia di Julia Donaldson e Axel Scheffler. Ogni giorno
dell’Avvento si può giocare con: quiz, pagine da disegnare e da colorare e con
tanti lavoretti e giochi da fare da soli o in compagnia.
Il mio calendario dell’Avvento. Una storia al giorno
Editore Giunti, Età di lettura: da 3 anni
Il calendario dell’Avvento della Giunti editore avvicina le bambine e i bambini,
ad attendere il giorno tanto amato da tutti: il Natale. Un calendario speciale
composto da 24 piccoli libri illustrati, ognuno racchiuso in una finestrella,
con storie che fanno sognare ad occhi aperti.
L’Avvento spiegato ai bambini
di Giusy Capizzi
Illustrazioni di Francesca Fabris
Editore Il pozzo di Giacobbe, Età di lettura: da 6 anni
Come spiegare ai bambini l’Avvento? Un libro che offre molti spunti per vivere
questo periodo liturgico, ricco di contenuti di fede, da spiegare ai bambini più
grandi. Un libro che può essere usato durante la catechesi o durante le lezioni
di religione in classe.
L'articolo Come preparare i bambini al Natale? 5 consigli per un calendario
dell’Avvento unico rendendo ogni giorno più magico proviene da Il Fatto
Quotidiano.