Sotto il vulcano

Il Tascabile - Monday, July 28, 2025

M i sono sempre immaginata Emily Dickinson di spalle. Una donna senza volto con la schiena curva su plichi di scritti, la grafia nervosa, gli occhi stanchi dalle letture voraci. Oppure distesa sul letto, senza forze e con le braccia penzoloni. La porta chiusa con un enorme chiave in ferro battuto. Isolata, sola, possibilmente triste. Leggendo l’ultimo saggio di Sara De Simone, Una tranquilla vita da vulcano: una storia di Emily Dickinson (2025), mi sono resa conto che probabilmente non sono l’unica a immaginarla così, ma che è ora di rileggere le sue poesie con occhi più attenti. Tornare ai testi, dice sempre De Simone.

Il saggio è pubblicato da Solferino per Genealogie, collana nata in collaborazione con il Festival di scrittrici InQuiete. Il progetto si fonda sulla necessità di restituire alle scrittrici del passato una complessità che il canone ha spesso semplificato o completamente escluso. Raccontare daccapo, disegnare i volti mancanti (le copertine non a caso sono sempre ritratti), farle alzare dalle scrivanie e dai letti (luoghi importantissimi, ma non gli unici abitati dalle scrittrici) e farle muovere nel mondo.

Loperazione di De Simone va in due direzioni: raccontare i primi anni di vita della scrittrice (il suo rapporto con il mondo fuori dalla porta) e riscrivere il concetto di isolamento di cui tanto abbiamo sentito parlare.

De Simone, già abilissima nel raccontare l’amicizia e lo scambio intellettuale tra Katherine Mansfield e Virginia Woolf (Nessuna come lei, 2023), torna a fare un esercizio di archeologia dei testi e ci porta ad Amherst, in Massachusetts, nella prima metà dell’Ottocento. C’è una bambina che diventerà una ragazza dai capelli “arditi come il riccio della castagna” a cui piace leggere, cogliere fiori e raccoglierli in piccoli erbari. Il ritratto tratteggiato dall’autrice è vitale, curioso, fatto di tanti spostamenti, trentasei anni di vita in cui Dickinson ha viaggiato e intrecciato relazioni prima della blasonata reclusione. Anni luminosi in cui ha coltivato amicizie, fatto lunghe passeggiate con il cane Carlo, vinto il secondo posto per la miglior pagnotta del paese, praticato l’intellettuale e vissuto un’esperienza simile a quella che avrebbe fatto Virginia Woolf nel circolo Bloomsbury. Improvvisamente Emily Dickinson non è più curva sulla scrivania (che esiste ed è fatta in legno di ciliegio), ma le sue gambe prendono forma, camminano, creano coreografie nello spazio.

L’operazione di De Simone va in due direzioni: raccontare i primi anni di vita della scrittrice (il suo rapporto con il mondo fuori dalla porta) e riscrivere il concetto di isolamento di cui tanto abbiamo sentito parlare. “Non conosciamo, e probabilmente non conosceremo mai, tutte le ragioni del ritiro di Emily Dickinson. Quello che sappiamo, e che è importante ricordare, è che non si trattò di un ritiro dalla vita, contro la vita. Ma in ascolto della vita. Di una solitudine ricca, fertile, in aperto dialogo con il mondo e le sue creature”. Dickinson continuerà a leggere i quotidiani, a scrivere poesie e lettere, a cucinare dolci. La sua stanza è il luogo necessario per praticare la libertà, per dedicarsi totalmente alle sue poesie, è una scelta, “la difesa di uno spazio di autonomia, la protezione della stanza della scrittura”.

Dickinson è come la sua poesia, è qui e altrove, in grado di unire il basso e lalto, la morte e la vita, quello che cè dentro e quello che cè fuori la porta. E il saggio riesce a tenere insieme tutto.

Dickinson è come la sua poesia, è qui e altrove, in grado di unire il basso e l’alto, la morte e la vita, quello che c’è dentro e quello che c’è fuori la porta. E il saggio, seguendo pedissequamente la biografia dell’autrice, citando moltissimi testi e arricchendosi di un sostanzioso apparato bibliografico, riesce a tenere insieme tutto. Ricorda la bambina che s’inzuppa di fango per cogliere fiori scarlatti, l’adolescente insofferente che alle pulizie di casa preferisce “la peste, più classica e meno mortale”, e la donna che vive con passione travolgente le sue relazioni. Ricama un paio di giarrettiere e le invia alla sua amica Kate, scrivendo:
Quando Katie cammina, questo semplice paio il fianco cinge,
Quando agile corre, insieme a lei corrono per la via,
Se Katie s’inginocchi, quelle mani amorose ancora serrano le sue ginocchia pie ‒
Oh! Katie! Alla Fortuna puoi sorridere, se due ti avvincono così!
E pensare che nella prima edizione del 1890 Dickinson veniva definita nella prefazione dal letterato Thomas Wentworth Higginson come “una donna reclusa […] invisibile al mondo come vivesse in un convento” e si prodigò persino per eliminare tutte le dediche alla sua amata Susan perché “i maligni potrebbero leggervi dentro più di quanto quella vergine reclusa si sia mai sognata di mettervi”. Allora qui è utilissimo il movimento critico che fa De Simone, tornare ai testi, sempre.
Notti selvagge – Notti selvagge!
Se fossi accanto a te
Notti selvagge sarebbero
La nostra estasi!
Futili – i venti –
Per un cuore in porto –
Via la Bussola –
Via la Mappa!
Vogare nell’Eden –
Ah, il mare!
Potessi soltanto ormeggiare –Stanotte –
In Te!
Questa poesia si intitola Wild Nights e viene cancellata dalla prima edizione. La stessa edizione in cui tutti i versi vengono normalizzati: la punteggiatura addomesticata, le poesie ordinate per grandi temi (Amore, Dio, Natura), aggiunti titoli (a volte didascalici). La costruzione è pronta: una poeta vergine, reclusa, decorosa, quasi una santa. Il volto si sbiadisce sempre più, la chiave della porta viene buttata via.

Il saggio, invece, ci restituisce l’ingresso per quella stanza, ci delinea il volto della poeta. E nella storia di Emily Dickinson centrale è il rapporto con la già citata Susan. L’amatissima Susan Gilbert, la prima compagna di avventure e di esercizi immaginifici per costruire mondi in cui la poesia è materica, perché se Dickinson è un vulcano, le sue parole sono la lava dormiente che aspetta di esplodere. Un legame che trattiene amore, amicizia, scambio intellettuale e artistico. Un dialogo instancabile che è durato per più di trent’anni, che è fondativo, che nutre i versi della poeta. Sue è la sua prima lettrice, la destinataria della sua prima poesia e di quasi trecento componimenti. La loro è un’alleanza che le eleva: “Susie, io e te siamo gli unici poeti ‒ mentre tutti gli altri sono prosa” scriverà Dickinson. È a lei che sempre Emily scriverà: “cara Sue, con l’eccezione di Shakespeare mi hai insegnato più cose tu di ogni altro essere vivente”. Susie è sì, lettrice attenta, ma è anche editor.

Nella storia di Emily Dickinson centrale è il rapporto con lamatissima Susan Gilbert, la prima compagna di avventure e di esercizi immaginifici: la loro è unalleanza che le eleva: “Susie, io e te siamo gli unici poeti ‒ mentre tutti gli altri sono prosa”.

E De Simone è particolarmente attenta ai carteggi intellettuali tra scrittrici, sottolineando quanto lo scambio con le altre è fondamentale (Dickinson corregge, scrive, rimanda a Susan), uno sguardo attento e critico che difficilmente si trova nel mondo esterno, maschile e dominante. Soprattutto per la sorprendente modernità dei versi di Dickinson: l’uso spasmodico di trattini, il quotidiano che fa capolino nell’infinito, scriveva De Simone in un pezzo uscito nel 2020: “Ancora in una lettera all’amica Elizabeth Holland, nel 1878, scriveva: ‘Dicono che Dio sia in ogni luogo, eppure pensiamo sempre a Lui come a una specie di eremita’. Verrebbe da rigirare la frase: pensiamo sempre ad Emily Dickinson come a una specie di eremita, eppure lei è in ogni luogo.”

De Simone ha la capacità di tornare sui testi con uno sguardo puro, come se li leggesse sempre per la prima volta. È in grado di coglierne le linee d’ombra e si sa muovere su questo margine. E proprio l’ancoraggio ai testi (i tantissimi carteggi, le poesie spesso tradotte da De Simone stessa) è uno dei pregi più grandi di questo saggio. Non c’è l’inserimento di una voce all’interno di una storia editoriale, ma c’è una volontà precisa di eludere il mito e far emergere la voce originale di Dickinson. E ci riesce. Ci porta così vicini alla poeta da farcela sentire compagna, amica, confidente. La sua poesia diventa concreta.

E proprio lancoraggio ai testi è uno dei pregi più grandi di questo saggio. Non cè linserimento di una voce allinterno di una storia editoriale, ma cè una volontà precisa di eludere il mito e far emergere la voce originale di Dickinson.

Nella parte finale del saggio c’è un bellissimo capitolo intitolato “Zia Emily”, nel quale racconta il rapporto con i suoi nipoti Ned, Marty e Gib. Sono gli unici che, nel periodo della reclusione, possono varcare la soglia della sua stanza, origliare le conversazioni degli altri adulti, mangiare dolcetti cucinati da lei, praticare insieme la fantasia. Dickinson crea un gioco tutto per loro: prima si mette in cucina a sfornare qualche prelibatezza, poi lascia un bigliettino all’interno del cesto pieno di dolcetti e infine lo fa trasportare dall’altra parte del giardino, dove vivono i suoi nipoti e loro madre Susan. Questa è l’immagine che vorrei mi tornasse alla mente tutte le volte che in futuro leggerò Emily Dickinson.

Il testo si chiude con un capitolo intitolato “Il mito” in cui si ribadisce la volontà non tanto di una contronarrazione, che sarebbe quasi un termine riduttivo, ma di una visione di “sbieco”. Scriveva Dickinson: “Di’ tutta la verità / ma dilla sbieca” e aggiunge De Simone: “per “sbieca” non s’intenda ambigua, equivoca, parziale: no, la verità va detta “tutta”, ma per traverso, inclinata, passando per quelle linee diagonali che sempre uniscono l’alto e il basso, la felicità e il dolore, la vita e la morte”. Ed è ciò che riesce a fare questo saggio, a unire i puntini (come fosse un gioco), e ricordare chi è stata Emily Dickinson. Una poeta, un’amante, una sorella, una zia, un corpo curioso e desiderante, misterioso e tangibile:

in fondo, quale immagine, chiarisce e mantiene il mistero di Emily Dickinson più di quella di un uccello che canta, non visto, nei boschi? Il suo canto è inevitabile, ci raggiunge, ci riguarda da vicino, eppure la sua origine rimane segreta. Sicura presenza che non vediamo, ma ci attraversa. Come la poesia. Come la vita. Raccontabile e irraccontabile. Perché, che cosa si può aggiungere al canto di un uccello? Forse solo l’impressione verde di un ramo, il lampo di una piuma che ci pare di aver visto nel fitto del fogliame. Era lì? Era vera? Mentre il canto continua.

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