“L a mia lingua era sbagliata”, scrive Maggie Nelson in Pathemata. O, la storia
della mia bocca (2025), edito da Nottetempo e tradotto da Alessandra
Castellazzi, un libro in cui l’autrice californiana racconta un decennio di
dolore alla mascella. La lingua ‒ come organo ‒ sbagliata attiva una riflessione
sull’inadeguatezza dell’altra lingua, quella letteraria, nel raccontare il
dolore fisico. Nelson fa parlare il corpo malato per indagare attraverso esso la
relazione con gli altri e la postura di una scrittrice nel contesto linguistico
e sociale in cui il suo gesto grafico si esprime. “I miei denti continuano a
spostarsi”, scrive Nelson, e così avviene con il dolore che in Pathemata vive lo
smottamento del lutto per la morte dell’amica C, il travaglio del parto, la
gestione solitaria della malattia imposta dalla pandemia. Più che spostarsi nel
corpo, il dolore sposta il corpo, lo muove da dentro, lo fa esistere. E fa
esistere l’opera di Nelson, la fonda, la genera. L’autrice fa sua la visione del
filosofo Byung-Chul Han secondo cui “Il dolore regge l’esistenza umana. È un
organo percettivo che oggi abbiamo smarrito”.
I sintomi della lingua “fatta di sangue” interrogano la lingua con cui Nelson
scrive. Il libro diventa così un’anatomia del linguaggio che non ha un intento
terapeutico della scrittura come cura, ma al contrario proietta l’io narrante
verso fuori per far sentire al lettore l’esperienza del dolore. La malattia di
Nelson non ha diagnosi. La cronicità allora diventa ossessione che viene
tradotta in una forma letteraria. È stato più volte detto che è la
frammentazione a caratterizzare la forma di Pathemata. Ma più che pezzi e
schegge di un racconto, la scrittura di Nelson produce cerchi d’acqua: il dolore
fisico è un sasso appuntito gettato in uno stagno; il cerchio prodotto da questo
sasso si allarga sulla superficie intersecandosi con i cerchi degli altri
sintomi. La superficie del testo è cosparsa di passaggi letterari ‒ più che di
paragrafi ‒ collegati tra loro da una ricerca di senso e dalla produzione di
immagini: come cerchi d’acqua, si intersecano e si dilatano nella mente del
lettore. La profondità della riflessione letteraria di Nelson viene trovata nei
sassi precipitati sul fondo che, durante la caduta verso la zona non controllata
dalla mente, da dolori fisici diventano esistenziali. Come scrive Chul Han, il
dolore è “la forza di gravità dell’esistenza” e dell’opera di Nelson.
> Nelson fa parlare il corpo malato per indagare attraverso esso la relazione
> con gli altri e la postura di una scrittrice nel contesto linguistico e
> sociale in cui il suo gesto grafico si esprime.
Superficie e profondità rimandano a sogno e realtà tra cui si compie la tensione
comunicativa dell’autrice: “Proprio come nella storia dei sogni di Freud ‒ non è
il sogno che conta, ma il racconto del sogno ‒ le parole che scegli, i rischi
che corri nell’esternare la tua mente”, scrive Nelson. “Questa è la ‘cura della
parola’ di Freud ‒ Freud, che morì di cancro alla mandibola, per cui si
sottopose a più di trenta interventi chirurgici orali debilitanti e sfiguranti”.
La dimensione onirica, però, non si esprime in una scrittura rarefatta. Le acque
in cui Nelson immerge il lettore sono scure e immobili. E l’immobilità è
l’aspetto più terrificante del dolore: “L’unica cosa che mi spaventa più del
dolore e della sua ferocia è il torpore, la paralisi”.
“Al mattino è come se la mia bocca fosse sopravvissuta a una guerra”, scrive
nell’incipit. Un cerchio d’acqua si allarga: il rapporto tra dolore e metafora
su cui Susan Sontag in Malattia come metafora (1978) si è espressa nei termini
di liberare il racconto della malattia dai pensieri metaforici. Sul terreno
delle immagini si addentra invece Virginia Woolf che nel 1926 pubblica il saggio
Sulla malattia. Per Woolf la malattia mette in crisi il linguaggio: “Basta che
il malato tenti di spiegare a un medico la sofferenza che ha nella testa perché
il linguaggio si prosciughi di colpo”. Esiste una lingua letteraria del dolore
diversa dal linguaggio scientifico della malattia? Secondo Woolf, abbiamo
bisogno di “una lingua nuova, più primitiva, più sensuale, più oscena”.
In Nelson il dolore aggredisce la lingua fisica e deforma la lingua letteraria:
la creazione artistica avviene a partire dalla sensazione del corpo trovando nel
linguaggio un esito non convenzionale. L’uso dei trattini riproduce il movimento
di un dolore cronico che non si spezza, non frammenta, ma ritorna: c’è sempre
anche quando non si sente. Il sintomo in Nelson è l’intenzione letteraria,
l’istinto a narrare. La circolarità della costruzione narrativa ‒ i passaggi che
costruiscono il flusso della storia ‒ parte da dentro. Il dolore anche quando è
silente si sta raccontando. Negli intervalli tra un sintomo e l’altro il dolore
continua a esserci. Diventa verticale, profondo, abissale. Questo movimento di
caduta circolare in cui il dolore ritorna e si avvita su sé stesso si compie
anche nell’estetica scelta dall’autrice: “Dico che C mi ha stretto la mano, ma
in realtà l’incidente le ha tolto la presa delle dita; perciò, è più come se
formasse una culla in cui la mia mano può riposare ‒ una Pietà in miniatura ‒
evocando il suo apprendistato giovanile nella lavanda dei piedi”.
> La dimensione onirica non si esprime in una scrittura rarefatta. Le acque in
> cui Nelson immerge il lettore sono scure e immobili. E l’immobilità è
> l’aspetto più terrificante del dolore.
Il linguaggio metaforico riproduce anche un suono grazie all’attento lavoro di
traduzione di Alessandra Castellazzi che già in Bluets (2023), il precedente
libro di Nelson, si era posta la questione di restituire al lettore l’esperienza
musicale della lingua della scrittrice di San Francisco. A questo proposito
Woolf scrive: “Quando si è malati le parole sembrano possedere una qualità
mistica. Afferriamo ciò che va oltre il loro significato superficiale,
comprendiamo istintivamente questo, quello e quell’altro ‒ un suono, un colore,
qua un accento, là una pausa”. Per Woolf la poesia esprime meglio della prosa
l’urgenza comunicativa della malattia. In questo senso i passaggi letterari di
Pathemata risuonano come versi di una lunga poesia, un cerchio d’acqua vibrante,
sensuale, enigmatico, carico di attrazione verso l’esperienza del dolore:
“Rinunciare all’enigma del dolore non è facile”, scrive Nelson.
Secondo il filosofo Hans Georg Gadamer, la salute è silenziosa, è la malattia a
determinarla “come ciò che si oggettiva da sé e che ‘ci viene incontro’, in
breve ‘ciò che ci invade’”. La scrittura di Nelson come il dolore ci viene
incontro, ci invade, avvolge, disturba: “dieci anni fa un’equipe medica
rimuoveva una ciste del mio ovaio sinistro, contenente ‒ come speravamo ‒
soltanto capelli, denti e globuli di grasso, la creazione aggrovigliata di un
figlio delle fate. È più difficile operare sulla parte del corpo responsabile
della masticazione e della produzione del linguaggio. Specialmente se nessun
esame ha rivelato una putrefazione”.
> In Nelson il dolore aggredisce la lingua fisica e deforma la lingua
> letteraria: la creazione artistica avviene a partire dalla sensazione del
> corpo trovando nel linguaggio un esito non convenzionale.
L’anamnesi della doppia lingua tracciata da Nelson si fa idioma corporeo
confondendo il genere del testo, che non può definirsi un diario, né un saggio,
né un memoriale. Nelson restituisce il “corpo come memoriale”, concetto
elaborato dall’antropologa Mariella Pandolfi: “Nel corpo un reticolo di tracce
inscrivono una sorta di memoriale che sembra rispondere ad altre logiche
simboliche”, scrive la studiosa, “un corpo che diventa ‘memoriale’ e in cui la
storia esterna e il vissuto interno di essa si iscrivono”. Qui sta la
sperimentazione della scrittrice californiana: non scrivere un memoriale ma
scrivere con il corpo come memoriale:
> consento all’arazzo di allargarsi, intrecciandovi i miei primissimi trascorsi
> con la logopedia, i miei eterni problemi di tonsillite, le mie avventure
> adolescenziali con l’ortodonzia, le precedenti radiografie all’apparato
> digerente superiore e le infiammazioni all’articolazione temporomandibolare,
> lo svezzamento di mio figlio, la perimenopausa, i fattori di stress domestici,
> il ruolo letterario e simbolico della bocca nella vita di una scrittrice.
Secondo Chul Han, nella nostra epoca caratterizzata da “una algofobia, una paura
generalizzata del dolore, […] un’anestesia permanente, nulla deve più far male”.
Anche nell’arte. “I prodotti culturali”, scrive il filosofo, “devono assumere
una forma che li renda consumabili, cioè compiacenti”. Accade anche in
letteratura, ma Pathemata va in altra direzione: è un libro che fa male perché
non offre alcun rimedio al dolore. Il dolore cronico non insegna nulla. Nelson
ha agito nella scrittura quanto diceva Adorno: far diventare eloquente il dolore
come condizione di verità. Il dolore di Nelson è il modo di stare al mondo di
questa scrittrice, di indagare significati che sarebbero stati inaccessibili se
non avesse fatto esperienza della malattia.
La verità letteraria toccata da Nelson è forse questa: il dolore è una forma
allucinata e allucinante di conoscenza preclusa a chi non sente l’immobilità
fisica lancinante, a chi non vive la crisi della presenza demartiniana connessa
al corpo malato, a chi non si sente in quanto malato estraneo a sé stesso (“una
situazione fisica straniante”, scrive Nelson), a chi non ha smarrito la propria
capacità di agire perché infermo, a chi non esperisce quella rottura drammatica
dei sensi e delle percezioni da cui parte la narrazione. “È il dolore a mettere
in moto il racconto”, secondo Chul Han. E nel caso di Pathemata a farsi
“fantasia estetica”.
Scrive Nelson: “Tra me e me penso: Non mi sento mai bene, non sto mai bene. C’è
qualcosa di sistemicamente sbagliato in me, forse sono sistemicamente malata”. E
qui l’autrice trasforma l’io narrante in personaggio letterario iscrivendosi
nella tradizione del rapporto tra letteratura e malattia, da Dostoevskij che
inizia Memorie del sottosuolo con: “Sono un uomo malato” a Kafka che nei suoi
diari scrive: “Io volevo rimanere indipendente, non distratto dalla gioia di
vivere che può trovare un uomo utile e sano”. Per Nelson come per questi
scrittori forse la malattia attraverso la creazione di un linguaggio non
convenzionale diventa un modo di vivere fuori dalle regole.
> Il dolore è una forma allucinata e allucinante di conoscenza preclusa a chi
> non sente l’immobilità fisica lancinante, a chi non vive la crisi della
> presenza demartiniana connessa al corpo malato, a chi non si sente in quanto
> malato estraneo a sé stesso.
“C’è una foresta vergine in ognuno. […] Qui procediamo da soli, e ci piace di
più così. […] nel mondo dei sani, la cortese finzione va mantenuta, e lo sforzo
rinnovato ‒ per comunicare, per civilizzare, per condividere, per coltivare il
deserto ed educare il selvaggio, per lavorare insieme il giorno e per
spassarsela la sera. Nel mondo dei malati questa messa in scena si interrompe.
[…] Non più soldati nell’esercito degli eretti, diventiamo disertori”, scrive, a
proposito dell’antagonismo del dolore, Virginia Woolf che si riempì le tasche di
sassi per lasciarsi andare a fondo in un unico grande cerchio d’acqua,
tracciando il destino simbolico delle scrittrici che ieri e oggi fondano
nell’indagine letteraria sul dolore e sulla malattia, la loro ribellione.
L'articolo Indagine sul dolore proviene da Il Tascabile.
Tag - letteratura americana
P er ogni dolore orofacciale c’è una clinica, per ogni clinica c’è una delusione
e una cura e poi di nuovo una delusione; per ogni errore diagnostico c’è
l’aggravarsi del dolore o l’avanzare di un fastidio diverso, nuovo e nuovamente
raccontabile. Pathemata (2025) di Maggie Nelson è la testimonianza di una
malattia per mano ‒ per bocca, cioè ‒ di una scrittrice. Il sottotitolo recita
infatti: O, la storia della mia bocca. Ma se i denti, la lingua, il palato, la
mandibola servono a masticare, triturare, e infine digerire ciò che entra nel
corpo, allora questo è anche il racconto di una disfunzione narrativa: di un
dolore che viene preso a oggetto del libro fin troppo letteralmente; di
un’intossicazione romanzesca. Non è un caso che nel testo di Nelson non si parli
quasi mai di cibo, di ciò che dovrebbe (potrebbe) alimentare quei due corpi che
si sovrappongono continuamente: quello di carne e quello di cellulosa.
In questa collana di patemi e paure ipocondriache, che luccicano come perle o,
meglio, come i denti di un mostro nel buio di una camera da letto, Nelson ci
guida dentro e fuori dalla fessura tra le sue labbra, continuamente: proprio
come se fossimo la sua lingua, i suoi denti, il suo fiato o le sue parole; uno
spiffero, un passaggio, tra le memorie della sua bocca. Facciamo avanti e
indietro senza sosta, tra passato e presente, diagnosi e controdiagnosi, tra
prima e dopo il Covid-19, prima e dopo un sogno movimentato da appuntarsi in
dormiveglia. Il rischio però che il libro possa essere solo o poco più che
testimonianza di un dolore ben localizzato ma inspiegabile resta molto forte.
Specie se lo paragoniamo a Lo sbilico (2025) di Alcide Pierantozzi, un altro
recente testo che parla (al maschile) di malattia, raccontata dal punto di vista
privilegiato e claustrofobico di uno scrittore e che, appunto, molto più che
Nelson, sfida tanto la forma del referto medico quanto quella romanzesca.
> Se i denti, la lingua, il palato, la mandibola servono a masticare, triturare,
> e infine digerire ciò che entra nel corpo, allora questo è anche il racconto
> di una disfunzione narrativa: di un dolore che viene preso a oggetto del libro
> fin troppo letteralmente; di un’intossicazione romanzesca.
Ma basta anche pensare ad altri due titoli, per certi versi ancora più simili a
quello di Nelson: Storia della mia lingua di Claudia Apablaza (2023) e La storia
dei miei denti di Valeria Luiselli (2016). Titoli (e dolori) simili, soprattutto
i primi due, ma su quello di Luiselli in particolare vale la pena soffermarsi: è
infatti un romanzo che utilizza una forte voce narrante, quella di Gustavo
Sánchez Sánchez, “il miglior banditore d’asta del mondo”, per costruire
un’impalcatura romanzesca solida e piena d’inventiva. A partire dai suoi denti
finti, incastonati, appartenuti un tempo a Marilyn Monroe (sic!), La storia dei
miei denti si trasforma infatti in una serie di racconti incastonati tra le
gengive di Gustavo e del lettore, per ricostruire una “collezione dentale” da
battere all’asta come un geniale prodotto da collezione: il lotto 49 di Luiselli
è infatti la dentiera che Gustavo decide di battere come solo un romanziere
potrebbe fare. Sono i denti che la costituiscono ma sono anche i racconti che
animano le pagine del libro: “Se ne avessi parlato come Svetonio narra la vita
dei dodici cesari sarebbe stata tutta un’altra storia. Non racconti falsi, ma
ispirati ad alcuni dei miei scrittori preferiti”. Non stupisce allora che il
titolo del libro di Luiselli corrisponda esattamente a ciò che si trova al suo
interno: storie meravigliose di singoli denti.
Nel libro di Nelson, invece, non c’è affatto questa invenzione e alla parola
“storia” del sottotitolo dobbiamo dare un significato metaforico, probabilmente
metaletterario. Del resto, basta arrivare a p. 12 per capire che anche Pathemata
parla di lingua e di bocca per parlare di altro: nello specifico, del “ruolo
letterale e simbolico della bocca nella vita di una scrittrice”. Proprio nella
sua “lingua”, visionaria e concreta (in una parola, appunto: letteraria),
Pathemata è un libro esile ma “squilibrato, lercio, come una muffa che cresce
sotto il coperchio di un barattolo di marinara”. Un piccolo libro pieno di
pagine che “schizzano dalle crepe” di un corpo pulsante dal dolore e dal piacere
masochistico di provare qualcosa; un corpo che si struscia a terra come Britney
Spears nelle sue performances più disperate, fatte apposta per disgustarci e
sedurci (“è come se una zampa ispida avesse frugato nel mio cervello e avesse
tirato fuori questa macchia di gelatina”). Di una parola che spinge, spinge,
spinge contro i nostri occhi come la lingua della protagonista da bambina
spingeva contro il suo palato.
> Pathemata diventa un libro sul rapporto tra interiorità e assimilazione:
> succede quando uno spazio intimo, domestico e sociale insieme come la bocca
> (per statuto luogo di confine, tra dentro e fuori) diventa giorno dopo giorno
> un’istanza di pericolo e mostruosità; di solitudine, di isolamento sociale.
Ma il fastidio alla mandibola, come ogni dolore profondo e sordo, è anche altro
da sé: in questo caso, è ciò che impedisce l’alimentazione e quindi la
digestione. Pathemata diventa così un libro sul rapporto tra interiorità e
assimilazione: succede quando uno spazio intimo, domestico e sociale insieme
come la bocca (per statuto luogo di confine, tra dentro e fuori) diventa giorno
dopo giorno un’istanza di pericolo e mostruosità; di solitudine, di isolamento
sociale. La domanda che ci pone è, cioè: cosa succede se non sappiamo più
trasformare ciò che ci accade? Se siamo solo bocche che parlano, e non stomaci
che elaborano? Il mostro in camera da letto, suggerisce il libro, potremmo
essere proprio noi. O, dice Nelson, peggio ancora: noi scrittori. Quelli che
continuano a parlare d’altro solo per non dire che non sappiamo più dire. Come
se scrivere fosse ormai solo un atto orale bloccato a metà tra la masticazione e
il rigetto.
La protagonista di Pathemata ha un’amica che dopo aver assunto un farmaco
sperimentale defeca i pasti esattamente come li ha ingeriti: “gli escrementi
uscivano come pasti completi, ogni boccone riconoscibile per quello che era
stato al momento di ingerirlo. Potevi rimetterlo su un piatto e servirlo, mi
dirà”. Ecco la domanda che Pathemata pone con più forza: cosa succede se anche
la scrittura diventa così? Se anche noi abbiamo ingerito un farmaco che ci fa
defecare il dolore così com’è, senza digerirlo? Se raccontiamo solo per
ripetere, e non per trasformare?
Forse la colpa è del Covid: “la pandemia sta uccidendo il caso, la coincidenza,
la sorpresa, lo straniamento ‒ in poche parole, tutte le condizioni che rendono
possibile la magia” (leggi: la scrittura)? E, a onor del vero, la protagonista
ci prova a resuscitare quella magia. Lo fa osservando per una volta
un’interiorità che non sia la sua propria: così, inizia a osservare la
lavastoviglie.
> Esamino i gusci d’uovo rimasti incastrati nel braccio girevole,
> l’imperscrutabile disco d’argento che galleggia all’ombelico della macchina.
> Mi chiedo se potrei rendere interessante la lavastoviglie grazie alla pura
> forza dell’attenzione.
Ma è tutto inutile, dopo una breve fase d’entusiasmo la magia non è ancora
tornata. La scrittrice sa essere solo una mandibola intorpidita, un muscolo
orofacciale paralitico, dei denti che perdono contatto gli uni con gli altri.
La bocca, del resto, non è solo l’organo della parola: è il luogo dove la parola
incontra il limite del corpo. Se i denti sono la parte più dura e affilata,
Pathemata ci ricorda che anche loro si consumano, si spezzano, scricchiolano.
Come la lingua; come la scrittura. Ed è proprio qui, però, che il libro
barcolla: Maggie Nelson resta fin troppo fedele alla sua lingua ‒ precisa,
dolorante ‒ e raramente osa immaginare deviazioni dalla propria traiettoria.
Manca l’invenzione, la storia, che dia al dolore una seconda bocca: insomma, una
lingua che non sia solo ‒ letteralmente ‒ la sua. Proprio qui si gioca il
confine tra vulnerabilità e vittimismo, tra scrittura del dolore e dolore come
alibi per non provare a inventare altro. Inventare, digerire, trasformare. E poi
servire. Sa farlo ancora Nelson? Sanno farlo ancora le scrittrici? E
soprattutto: sappiamo farlo noi?
> Maggie Nelson resta fin troppo fedele alla sua lingua ‒ precisa, dolorante ‒ e
> raramente osa immaginare deviazioni dalla propria traiettoria. Manca
> l’invenzione, la storia, che dia al dolore una seconda bocca: insomma, una
> lingua che non sia solo ‒ letteralmente ‒ la sua.
Eppure, quel ventre sporco ‒ la lavastoviglie ‒ su cui la protagonista riversa
invano per un istante i suoi sforzi poetici, apre a un’altra interpretazione. In
queste “sessantamila battute di cronologia del […] dolore”, infatti, riaffiora
anche un tema laterale ma persistente: la maternità, la creazione, il parto. I
denti parlano anche di questo. La protagonista stessa lo rivela in più punti:
> Provi a non pensare la mia lingua è troppo grande per la mia bocca ma,
> piuttosto, il mio palato è troppo stretto per la mia lingua, ha detto il
> dentista specializzato in taping notturno. […] (Che cos’è poi un palato?) Mi
> ha ricordato di quando i dottori erano preoccupati per le dimensioni del
> bambino nel mio utero.
Il corpo di una scrittrice è sempre troppo o troppo poco. In Pathemata, Nelson è
una bocca, un utero, una figlia (un dentro), che riesce a riprendere contatto
con il suo fuori solo nelle ultimissime pagine, quando cede nuovamente alla
richiesta di una psicoterapeuta che, prima, non aveva voluto affatto ascoltare:
quando, cioè, assume il punto di vista del padre defunto per assolversi dalle
proprie colpe, per sentirsi orgogliosa nonostante questo stallo nella scrittura,
questo fastidio orofacciale. Per tornare insomma madre, scrittrice. Allora, “il
divario tra la mia esperienza interiore e le statistiche esteriori del mio
corpo” (una sorta di Sbilico, in effetti, tra dentro e fuori) non è più un
abisso ma una possibilità narrativa: un principio regolatore, come il respiro di
chi mastica piano o, appunto, la contrazione di un utero in travaglio.
L'articolo Prima digerire, poi raccontare proviene da Il Tascabile.
M i sono sempre immaginata Emily Dickinson di spalle. Una donna senza volto con
la schiena curva su plichi di scritti, la grafia nervosa, gli occhi stanchi
dalle letture voraci. Oppure distesa sul letto, senza forze e con le braccia
penzoloni. La porta chiusa con un enorme chiave in ferro battuto. Isolata, sola,
possibilmente triste. Leggendo l’ultimo saggio di Sara De Simone, Una tranquilla
vita da vulcano: una storia di Emily Dickinson (2025), mi sono resa conto che
probabilmente non sono l’unica a immaginarla così, ma che è ora di rileggere le
sue poesie con occhi più attenti. Tornare ai testi, dice sempre De Simone.
Il saggio è pubblicato da Solferino per Genealogie, collana nata in
collaborazione con il Festival di scrittrici InQuiete. Il progetto si fonda
sulla necessità di restituire alle scrittrici del passato una complessità che il
canone ha spesso semplificato o completamente escluso. Raccontare daccapo,
disegnare i volti mancanti (le copertine non a caso sono sempre ritratti), farle
alzare dalle scrivanie e dai letti (luoghi importantissimi, ma non gli unici
abitati dalle scrittrici) e farle muovere nel mondo.
> L’operazione di De Simone va in due direzioni: raccontare i primi anni di vita
> della scrittrice (il suo rapporto con il mondo fuori dalla porta) e riscrivere
> il concetto di isolamento di cui tanto abbiamo sentito parlare.
De Simone, già abilissima nel raccontare l’amicizia e lo scambio intellettuale
tra Katherine Mansfield e Virginia Woolf (Nessuna come lei, 2023), torna a fare
un esercizio di archeologia dei testi e ci porta ad Amherst, in Massachusetts,
nella prima metà dell’Ottocento. C’è una bambina che diventerà una ragazza dai
capelli “arditi come il riccio della castagna” a cui piace leggere, cogliere
fiori e raccoglierli in piccoli erbari. Il ritratto tratteggiato dall’autrice è
vitale, curioso, fatto di tanti spostamenti, trentasei anni di vita in cui
Dickinson ha viaggiato e intrecciato relazioni prima della blasonata reclusione.
Anni luminosi in cui ha coltivato amicizie, fatto lunghe passeggiate con il cane
Carlo, vinto il secondo posto per la miglior pagnotta del paese, praticato
l’intellettuale e vissuto un’esperienza simile a quella che avrebbe fatto
Virginia Woolf nel circolo Bloomsbury. Improvvisamente Emily Dickinson non è più
curva sulla scrivania (che esiste ed è fatta in legno di ciliegio), ma le sue
gambe prendono forma, camminano, creano coreografie nello spazio.
L’operazione di De Simone va in due direzioni: raccontare i primi anni di vita
della scrittrice (il suo rapporto con il mondo fuori dalla porta) e riscrivere
il concetto di isolamento di cui tanto abbiamo sentito parlare. “Non conosciamo,
e probabilmente non conosceremo mai, tutte le ragioni del ritiro di Emily
Dickinson. Quello che sappiamo, e che è importante ricordare, è che non si
trattò di un ritiro dalla vita, contro la vita. Ma in ascolto della vita. Di una
solitudine ricca, fertile, in aperto dialogo con il mondo e le sue creature”.
Dickinson continuerà a leggere i quotidiani, a scrivere poesie e lettere, a
cucinare dolci. La sua stanza è il luogo necessario per praticare la libertà,
per dedicarsi totalmente alle sue poesie, è una scelta, “la difesa di uno spazio
di autonomia, la protezione della stanza della scrittura”.
> Dickinson è come la sua poesia, è qui e altrove, in grado di unire il basso e
> l’alto, la morte e la vita, quello che c’è dentro e quello che c’è fuori la
> porta. E il saggio riesce a tenere insieme tutto.
Dickinson è come la sua poesia, è qui e altrove, in grado di unire il basso e
l’alto, la morte e la vita, quello che c’è dentro e quello che c’è fuori la
porta. E il saggio, seguendo pedissequamente la biografia dell’autrice, citando
moltissimi testi e arricchendosi di un sostanzioso apparato bibliografico,
riesce a tenere insieme tutto. Ricorda la bambina che s’inzuppa di fango per
cogliere fiori scarlatti, l’adolescente insofferente che alle pulizie di casa
preferisce “la peste, più classica e meno mortale”, e la donna che vive con
passione travolgente le sue relazioni. Ricama un paio di giarrettiere e le invia
alla sua amica Kate, scrivendo:
> Quando Katie cammina, questo semplice paio il fianco cinge,
> Quando agile corre, insieme a lei corrono per la via,
> Se Katie s’inginocchi, quelle mani amorose ancora serrano le sue ginocchia pie
> ‒
> Oh! Katie! Alla Fortuna puoi sorridere, se due ti avvincono così!
E pensare che nella prima edizione del 1890 Dickinson veniva definita nella
prefazione dal letterato Thomas Wentworth Higginson come “una donna reclusa […]
invisibile al mondo come vivesse in un convento” e si prodigò persino per
eliminare tutte le dediche alla sua amata Susan perché “i maligni potrebbero
leggervi dentro più di quanto quella vergine reclusa si sia mai sognata di
mettervi”. Allora qui è utilissimo il movimento critico che fa De Simone,
tornare ai testi, sempre.
> Notti selvagge – Notti selvagge!
> Se fossi accanto a te
> Notti selvagge sarebbero
> La nostra estasi!
> Futili – i venti –
> Per un cuore in porto –
> Via la Bussola –
> Via la Mappa!
> Vogare nell’Eden –
> Ah, il mare!
> Potessi soltanto ormeggiare –Stanotte –
> In Te!
Questa poesia si intitola Wild Nights e viene cancellata dalla prima edizione.
La stessa edizione in cui tutti i versi vengono normalizzati: la punteggiatura
addomesticata, le poesie ordinate per grandi temi (Amore, Dio, Natura), aggiunti
titoli (a volte didascalici). La costruzione è pronta: una poeta vergine,
reclusa, decorosa, quasi una santa. Il volto si sbiadisce sempre più, la chiave
della porta viene buttata via.
Il saggio, invece, ci restituisce l’ingresso per quella stanza, ci delinea il
volto della poeta. E nella storia di Emily Dickinson centrale è il rapporto con
la già citata Susan. L’amatissima Susan Gilbert, la prima compagna di avventure
e di esercizi immaginifici per costruire mondi in cui la poesia è materica,
perché se Dickinson è un vulcano, le sue parole sono la lava dormiente che
aspetta di esplodere. Un legame che trattiene amore, amicizia, scambio
intellettuale e artistico. Un dialogo instancabile che è durato per più di
trent’anni, che è fondativo, che nutre i versi della poeta. Sue è la sua prima
lettrice, la destinataria della sua prima poesia e di quasi trecento
componimenti. La loro è un’alleanza che le eleva: “Susie, io e te siamo gli
unici poeti ‒ mentre tutti gli altri sono prosa” scriverà Dickinson. È a lei che
sempre Emily scriverà: “cara Sue, con l’eccezione di Shakespeare mi hai
insegnato più cose tu di ogni altro essere vivente”. Susie è sì, lettrice
attenta, ma è anche editor.
> Nella storia di Emily Dickinson centrale è il rapporto con l’amatissima Susan
> Gilbert, la prima compagna di avventure e di esercizi immaginifici: la loro è
> un’alleanza che le eleva: “Susie, io e te siamo gli unici poeti ‒ mentre tutti
> gli altri sono prosa”.
E De Simone è particolarmente attenta ai carteggi intellettuali tra scrittrici,
sottolineando quanto lo scambio con le altre è fondamentale (Dickinson corregge,
scrive, rimanda a Susan), uno sguardo attento e critico che difficilmente si
trova nel mondo esterno, maschile e dominante. Soprattutto per la sorprendente
modernità dei versi di Dickinson: l’uso spasmodico di trattini, il quotidiano
che fa capolino nell’infinito, scriveva De Simone in un pezzo uscito nel 2020:
“Ancora in una lettera all’amica Elizabeth Holland, nel 1878, scriveva: ‘Dicono
che Dio sia in ogni luogo, eppure pensiamo sempre a Lui come a una specie di
eremita’. Verrebbe da rigirare la frase: pensiamo sempre ad Emily Dickinson come
a una specie di eremita, eppure lei è in ogni luogo.”
De Simone ha la capacità di tornare sui testi con uno sguardo puro, come se li
leggesse sempre per la prima volta. È in grado di coglierne le linee d’ombra e
si sa muovere su questo margine. E proprio l’ancoraggio ai testi (i tantissimi
carteggi, le poesie spesso tradotte da De Simone stessa) è uno dei pregi più
grandi di questo saggio. Non c’è l’inserimento di una voce all’interno di una
storia editoriale, ma c’è una volontà precisa di eludere il mito e far emergere
la voce originale di Dickinson. E ci riesce. Ci porta così vicini alla poeta da
farcela sentire compagna, amica, confidente. La sua poesia diventa concreta.
> E proprio l’ancoraggio ai testi è uno dei pregi più grandi di questo saggio.
> Non c’è l’inserimento di una voce all’interno di una storia editoriale, ma c’è
> una volontà precisa di eludere il mito e far emergere la voce originale di
> Dickinson.
Nella parte finale del saggio c’è un bellissimo capitolo intitolato “Zia Emily”,
nel quale racconta il rapporto con i suoi nipoti Ned, Marty e Gib. Sono gli
unici che, nel periodo della reclusione, possono varcare la soglia della sua
stanza, origliare le conversazioni degli altri adulti, mangiare dolcetti
cucinati da lei, praticare insieme la fantasia. Dickinson crea un gioco tutto
per loro: prima si mette in cucina a sfornare qualche prelibatezza, poi lascia
un bigliettino all’interno del cesto pieno di dolcetti e infine lo fa
trasportare dall’altra parte del giardino, dove vivono i suoi nipoti e loro
madre Susan. Questa è l’immagine che vorrei mi tornasse alla mente tutte le
volte che in futuro leggerò Emily Dickinson.
Il testo si chiude con un capitolo intitolato “Il mito” in cui si ribadisce la
volontà non tanto di una contronarrazione, che sarebbe quasi un termine
riduttivo, ma di una visione di “sbieco”. Scriveva Dickinson: “Di’ tutta la
verità / ma dilla sbieca” e aggiunge De Simone: “per “sbieca” non s’intenda
ambigua, equivoca, parziale: no, la verità va detta “tutta”, ma per traverso,
inclinata, passando per quelle linee diagonali che sempre uniscono l’alto e il
basso, la felicità e il dolore, la vita e la morte”. Ed è ciò che riesce a fare
questo saggio, a unire i puntini (come fosse un gioco), e ricordare chi è stata
Emily Dickinson. Una poeta, un’amante, una sorella, una zia, un corpo curioso e
desiderante, misterioso e tangibile:
> in fondo, quale immagine, chiarisce e mantiene il mistero di Emily Dickinson
> più di quella di un uccello che canta, non visto, nei boschi? Il suo canto è
> inevitabile, ci raggiunge, ci riguarda da vicino, eppure la sua origine rimane
> segreta. Sicura presenza che non vediamo, ma ci attraversa. Come la poesia.
> Come la vita. Raccontabile e irraccontabile. Perché, che cosa si può
> aggiungere al canto di un uccello? Forse solo l’impressione verde di un ramo,
> il lampo di una piuma che ci pare di aver visto nel fitto del fogliame. Era
> lì? Era vera? Mentre il canto continua.
L'articolo Sotto il vulcano proviene da Il Tascabile.