“L a mia lingua era sbagliata”, scrive Maggie Nelson in Pathemata. O, la storia
della mia bocca (2025), edito da Nottetempo e tradotto da Alessandra
Castellazzi, un libro in cui l’autrice californiana racconta un decennio di
dolore alla mascella. La lingua ‒ come organo ‒ sbagliata attiva una riflessione
sull’inadeguatezza dell’altra lingua, quella letteraria, nel raccontare il
dolore fisico. Nelson fa parlare il corpo malato per indagare attraverso esso la
relazione con gli altri e la postura di una scrittrice nel contesto linguistico
e sociale in cui il suo gesto grafico si esprime. “I miei denti continuano a
spostarsi”, scrive Nelson, e così avviene con il dolore che in Pathemata vive lo
smottamento del lutto per la morte dell’amica C, il travaglio del parto, la
gestione solitaria della malattia imposta dalla pandemia. Più che spostarsi nel
corpo, il dolore sposta il corpo, lo muove da dentro, lo fa esistere. E fa
esistere l’opera di Nelson, la fonda, la genera. L’autrice fa sua la visione del
filosofo Byung-Chul Han secondo cui “Il dolore regge l’esistenza umana. È un
organo percettivo che oggi abbiamo smarrito”.
I sintomi della lingua “fatta di sangue” interrogano la lingua con cui Nelson
scrive. Il libro diventa così un’anatomia del linguaggio che non ha un intento
terapeutico della scrittura come cura, ma al contrario proietta l’io narrante
verso fuori per far sentire al lettore l’esperienza del dolore. La malattia di
Nelson non ha diagnosi. La cronicità allora diventa ossessione che viene
tradotta in una forma letteraria. È stato più volte detto che è la
frammentazione a caratterizzare la forma di Pathemata. Ma più che pezzi e
schegge di un racconto, la scrittura di Nelson produce cerchi d’acqua: il dolore
fisico è un sasso appuntito gettato in uno stagno; il cerchio prodotto da questo
sasso si allarga sulla superficie intersecandosi con i cerchi degli altri
sintomi. La superficie del testo è cosparsa di passaggi letterari ‒ più che di
paragrafi ‒ collegati tra loro da una ricerca di senso e dalla produzione di
immagini: come cerchi d’acqua, si intersecano e si dilatano nella mente del
lettore. La profondità della riflessione letteraria di Nelson viene trovata nei
sassi precipitati sul fondo che, durante la caduta verso la zona non controllata
dalla mente, da dolori fisici diventano esistenziali. Come scrive Chul Han, il
dolore è “la forza di gravità dell’esistenza” e dell’opera di Nelson.
> Nelson fa parlare il corpo malato per indagare attraverso esso la relazione
> con gli altri e la postura di una scrittrice nel contesto linguistico e
> sociale in cui il suo gesto grafico si esprime.
Superficie e profondità rimandano a sogno e realtà tra cui si compie la tensione
comunicativa dell’autrice: “Proprio come nella storia dei sogni di Freud ‒ non è
il sogno che conta, ma il racconto del sogno ‒ le parole che scegli, i rischi
che corri nell’esternare la tua mente”, scrive Nelson. “Questa è la ‘cura della
parola’ di Freud ‒ Freud, che morì di cancro alla mandibola, per cui si
sottopose a più di trenta interventi chirurgici orali debilitanti e sfiguranti”.
La dimensione onirica, però, non si esprime in una scrittura rarefatta. Le acque
in cui Nelson immerge il lettore sono scure e immobili. E l’immobilità è
l’aspetto più terrificante del dolore: “L’unica cosa che mi spaventa più del
dolore e della sua ferocia è il torpore, la paralisi”.
“Al mattino è come se la mia bocca fosse sopravvissuta a una guerra”, scrive
nell’incipit. Un cerchio d’acqua si allarga: il rapporto tra dolore e metafora
su cui Susan Sontag in Malattia come metafora (1978) si è espressa nei termini
di liberare il racconto della malattia dai pensieri metaforici. Sul terreno
delle immagini si addentra invece Virginia Woolf che nel 1926 pubblica il saggio
Sulla malattia. Per Woolf la malattia mette in crisi il linguaggio: “Basta che
il malato tenti di spiegare a un medico la sofferenza che ha nella testa perché
il linguaggio si prosciughi di colpo”. Esiste una lingua letteraria del dolore
diversa dal linguaggio scientifico della malattia? Secondo Woolf, abbiamo
bisogno di “una lingua nuova, più primitiva, più sensuale, più oscena”.
In Nelson il dolore aggredisce la lingua fisica e deforma la lingua letteraria:
la creazione artistica avviene a partire dalla sensazione del corpo trovando nel
linguaggio un esito non convenzionale. L’uso dei trattini riproduce il movimento
di un dolore cronico che non si spezza, non frammenta, ma ritorna: c’è sempre
anche quando non si sente. Il sintomo in Nelson è l’intenzione letteraria,
l’istinto a narrare. La circolarità della costruzione narrativa ‒ i passaggi che
costruiscono il flusso della storia ‒ parte da dentro. Il dolore anche quando è
silente si sta raccontando. Negli intervalli tra un sintomo e l’altro il dolore
continua a esserci. Diventa verticale, profondo, abissale. Questo movimento di
caduta circolare in cui il dolore ritorna e si avvita su sé stesso si compie
anche nell’estetica scelta dall’autrice: “Dico che C mi ha stretto la mano, ma
in realtà l’incidente le ha tolto la presa delle dita; perciò, è più come se
formasse una culla in cui la mia mano può riposare ‒ una Pietà in miniatura ‒
evocando il suo apprendistato giovanile nella lavanda dei piedi”.
> La dimensione onirica non si esprime in una scrittura rarefatta. Le acque in
> cui Nelson immerge il lettore sono scure e immobili. E l’immobilità è
> l’aspetto più terrificante del dolore.
Il linguaggio metaforico riproduce anche un suono grazie all’attento lavoro di
traduzione di Alessandra Castellazzi che già in Bluets (2023), il precedente
libro di Nelson, si era posta la questione di restituire al lettore l’esperienza
musicale della lingua della scrittrice di San Francisco. A questo proposito
Woolf scrive: “Quando si è malati le parole sembrano possedere una qualità
mistica. Afferriamo ciò che va oltre il loro significato superficiale,
comprendiamo istintivamente questo, quello e quell’altro ‒ un suono, un colore,
qua un accento, là una pausa”. Per Woolf la poesia esprime meglio della prosa
l’urgenza comunicativa della malattia. In questo senso i passaggi letterari di
Pathemata risuonano come versi di una lunga poesia, un cerchio d’acqua vibrante,
sensuale, enigmatico, carico di attrazione verso l’esperienza del dolore:
“Rinunciare all’enigma del dolore non è facile”, scrive Nelson.
Secondo il filosofo Hans Georg Gadamer, la salute è silenziosa, è la malattia a
determinarla “come ciò che si oggettiva da sé e che ‘ci viene incontro’, in
breve ‘ciò che ci invade’”. La scrittura di Nelson come il dolore ci viene
incontro, ci invade, avvolge, disturba: “dieci anni fa un’equipe medica
rimuoveva una ciste del mio ovaio sinistro, contenente ‒ come speravamo ‒
soltanto capelli, denti e globuli di grasso, la creazione aggrovigliata di un
figlio delle fate. È più difficile operare sulla parte del corpo responsabile
della masticazione e della produzione del linguaggio. Specialmente se nessun
esame ha rivelato una putrefazione”.
> In Nelson il dolore aggredisce la lingua fisica e deforma la lingua
> letteraria: la creazione artistica avviene a partire dalla sensazione del
> corpo trovando nel linguaggio un esito non convenzionale.
L’anamnesi della doppia lingua tracciata da Nelson si fa idioma corporeo
confondendo il genere del testo, che non può definirsi un diario, né un saggio,
né un memoriale. Nelson restituisce il “corpo come memoriale”, concetto
elaborato dall’antropologa Mariella Pandolfi: “Nel corpo un reticolo di tracce
inscrivono una sorta di memoriale che sembra rispondere ad altre logiche
simboliche”, scrive la studiosa, “un corpo che diventa ‘memoriale’ e in cui la
storia esterna e il vissuto interno di essa si iscrivono”. Qui sta la
sperimentazione della scrittrice californiana: non scrivere un memoriale ma
scrivere con il corpo come memoriale:
> consento all’arazzo di allargarsi, intrecciandovi i miei primissimi trascorsi
> con la logopedia, i miei eterni problemi di tonsillite, le mie avventure
> adolescenziali con l’ortodonzia, le precedenti radiografie all’apparato
> digerente superiore e le infiammazioni all’articolazione temporomandibolare,
> lo svezzamento di mio figlio, la perimenopausa, i fattori di stress domestici,
> il ruolo letterario e simbolico della bocca nella vita di una scrittrice.
Secondo Chul Han, nella nostra epoca caratterizzata da “una algofobia, una paura
generalizzata del dolore, […] un’anestesia permanente, nulla deve più far male”.
Anche nell’arte. “I prodotti culturali”, scrive il filosofo, “devono assumere
una forma che li renda consumabili, cioè compiacenti”. Accade anche in
letteratura, ma Pathemata va in altra direzione: è un libro che fa male perché
non offre alcun rimedio al dolore. Il dolore cronico non insegna nulla. Nelson
ha agito nella scrittura quanto diceva Adorno: far diventare eloquente il dolore
come condizione di verità. Il dolore di Nelson è il modo di stare al mondo di
questa scrittrice, di indagare significati che sarebbero stati inaccessibili se
non avesse fatto esperienza della malattia.
La verità letteraria toccata da Nelson è forse questa: il dolore è una forma
allucinata e allucinante di conoscenza preclusa a chi non sente l’immobilità
fisica lancinante, a chi non vive la crisi della presenza demartiniana connessa
al corpo malato, a chi non si sente in quanto malato estraneo a sé stesso (“una
situazione fisica straniante”, scrive Nelson), a chi non ha smarrito la propria
capacità di agire perché infermo, a chi non esperisce quella rottura drammatica
dei sensi e delle percezioni da cui parte la narrazione. “È il dolore a mettere
in moto il racconto”, secondo Chul Han. E nel caso di Pathemata a farsi
“fantasia estetica”.
Scrive Nelson: “Tra me e me penso: Non mi sento mai bene, non sto mai bene. C’è
qualcosa di sistemicamente sbagliato in me, forse sono sistemicamente malata”. E
qui l’autrice trasforma l’io narrante in personaggio letterario iscrivendosi
nella tradizione del rapporto tra letteratura e malattia, da Dostoevskij che
inizia Memorie del sottosuolo con: “Sono un uomo malato” a Kafka che nei suoi
diari scrive: “Io volevo rimanere indipendente, non distratto dalla gioia di
vivere che può trovare un uomo utile e sano”. Per Nelson come per questi
scrittori forse la malattia attraverso la creazione di un linguaggio non
convenzionale diventa un modo di vivere fuori dalle regole.
> Il dolore è una forma allucinata e allucinante di conoscenza preclusa a chi
> non sente l’immobilità fisica lancinante, a chi non vive la crisi della
> presenza demartiniana connessa al corpo malato, a chi non si sente in quanto
> malato estraneo a sé stesso.
“C’è una foresta vergine in ognuno. […] Qui procediamo da soli, e ci piace di
più così. […] nel mondo dei sani, la cortese finzione va mantenuta, e lo sforzo
rinnovato ‒ per comunicare, per civilizzare, per condividere, per coltivare il
deserto ed educare il selvaggio, per lavorare insieme il giorno e per
spassarsela la sera. Nel mondo dei malati questa messa in scena si interrompe.
[…] Non più soldati nell’esercito degli eretti, diventiamo disertori”, scrive, a
proposito dell’antagonismo del dolore, Virginia Woolf che si riempì le tasche di
sassi per lasciarsi andare a fondo in un unico grande cerchio d’acqua,
tracciando il destino simbolico delle scrittrici che ieri e oggi fondano
nell’indagine letteraria sul dolore e sulla malattia, la loro ribellione.
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T utto ciò che so dei Novanta non l’ho vissuto, mi ha impregnato come un residuo
ectoplasmatico, attraverso i palinsesti televisivi e i VHS graffiati dal
Telefunken di mio padre. Ciò che possiedo non è memoria, si tratta piuttosto di
possessione, di un corpo estraneo che mi abita. Per questa ragione Novanta
(2025) di Valerio Mattioli ha agito sul mio immaginario come un esorcismo,
perché è stato capace di sottrarre quegli anni all’iconografia stantia a cui li
ha relegati la retorica ufficiale.
Novanta non accetta la liturgia storico-mediatica che comprime il decennio tra
il 9 novembre 1989 e l’11 settembre 2001; segue infatti un’altra logica, senza
filtrare gli anni Novanta italiani con i grandi eventi globali, ma con il lavoro
di una generazione che ha reinventato il conflitto e ne ha spettacolarizzato la
forma. Se da una parte la storia ufficiale sembrava essersi interrotta con la
fine della guerra fredda, dall’altra parte, come in una dimensione parallela,
riemergeva dalle nebbie del passato una controstoria che con pratiche, gesti,
linguaggi, era pronta a edificare un altro mondo sulle ceneri di un’altra epoca.
Quelle pratiche e quei linguaggi attraversano ancora oggi il nostro presente,
continuano a pulsare, vivi, come un’eredità che reclama attenzione e
riconoscimento. Il risultato del libro è un’archeologia del recente passato che
rimette in moto correnti sotterranee date per disperse.
> Seguendo lo sprofondamento psicoanalitico di Novanta si è costretti a fare i
> conti con un decennio fondativo, solare; il lungo Sessantotto è stato una
> realtà brulicante di sperimentazioni che faranno da terreno di coltura ai
> movimenti successivi.
Ma il decennio dimenticato non è possibile da decifrare se non si fanno i conti
con la sua preistoria, il lungo Sessantotto, il decennio bandito, i Settanta.
Mattioli li descrive come la preistoria del Movimento. Il biennio 1977-78
rappresentava un nodo irrisolto della storia e della controstoria italiana.
Un’epoca di gioia feroce e di rigetto dell’autoritarismo, che vide la
convergenza tra studenti e operai, veniva ridotta in superficie ai toni grigi
scuri di La notte della Repubblica di Sergio Zavoli. Seguendo lo sprofondamento
psicoanalitico di Novanta si è costretti a fare i conti con un decennio
fondativo, solare; il lungo Sessantotto è stato una realtà brulicante di
sperimentazioni che faranno da terreno di coltura ai movimenti successivi. Gli
anni Novanta furono un esorcismo collettivo della memoria ingombrante degli
“anni di piombo”, così come il libro di Mattioli è “l’ennesimo esorcismo
rituale” dei Novanta stessi.
È nella preistoria dei Novanta che nacquero i centri sociali autogestiti (CSA)
come il Leoncavallo a Milano e furono proprio i CSA, pur con le loro profonde
divergenze di vedute, a tenere insieme le due età. Funzionarono come dispositivi
politici e culturali, come comuni eterodosse dentro fabbriche dismesse, furono
laboratori di musica e militanza, zone di sperimentazione a partire dalle quali
si è tentato di assaltare il cielo della cultura mainstream.
Le due anime che caratterizzano la geografia dei centri sociali furono la
militanza e la controcultura, due direttrici che si sono incontrate e scontrate.
La militanza di chi è cresciuto nei Novanta risaliva all’eredità dell’Autonomia
del 1977: la Pantera ad esempio, il movimento studentesco che da Palermo unirà
l’Italia in una intensa opposizione alla riforma Ruberti dell’università. Le
università occupate faranno infiammare la ferita mai sanata del potere
costituito, obbligato dal trauma a vivere quella eco come un ritorno del
rimosso, con le sirene spiegate della paranoia, dell’allarme e della
repressione. Ma sebbene negli anni Novanta i CSA attingessero abbondantemente al
lessico e alle pratiche dell’Autonomia, da cui derivavano specificamente il
rifiuto del lavoro, l’ironia, l’azione diretta e l’uso creativo dei media, anche
e soprattutto attraverso la provocazione, il decennio dimenticato, ironia del
destino, era “profondamente estraneo” a sentimenti quali la “nostalgia”, per cui
il legame con il passato diventava più una riserva di carburante “necessaria a
proiettarsi a velocità supersonica verso il futuro”.
> Gli anni Novanta furono un esorcismo collettivo della memoria ingombrante
> degli “anni di piombo”, così come il libro di Mattioli è “l’ennesimo esorcismo
> rituale” dei Novanta stessi.
La controcultura d’altra parte non sbucò dal nulla e risaliva anch’essa alle
esperienze di estrema sperimentazione degli anni Settanta, centrali per
l’intersezione tra psichedelia e rivoluzione La politica rivoluzionaria e
l’underground artistico finirono per toccarsi, generando una iridescenza
difficile da classificare. Riviste come Re Nudo organizzarono festival
all’aperto che somigliavano a grandi comuni temporanee: “La Festa del
proletariato giovanile” era un happening hippie rivestito di parole d’ordine
marxiste, un luogo dove l’etica operaia si sgretolava davanti al richiamo del
piacere immediato. L’idea del “tutto subito”, nel suo mix di edonismo e
militanza, lasciò una scia che avrebbe continuato a brillare sotterranea per
decenni.
Per certi versi la controcultura tenne in vita la fiamma della militanza, in
particolare negli anni Ottanta: mentre il riflusso dell’eroina e la repressione
svuotavano le piazze, alcune sottoculture riuscirono a tenere accesa quella
brace. L’anarcopunk, con spazi come il Virus di Milano, recuperò principi della
controcultura hippie, dall’ecologismo al pacifismo, traducendoli però in un
ethos separatista, rigido, antisistema fino al midollo. Poco dopo, il circuito
post-punk e industrial legato all’Helter Skelter nel Leoncavallo avviò
un’operazione quasi archeologica: riportare in vita l’eredità psichedelica degli
anni Settanta e farne materia di nuove comunità, nuove estetiche, nuove liturgie
del “vivere insieme”. La memoria hippie veniva riscritta attraverso suoni più
cupi, macchine rumorose e visioni distopiche, ma il nucleo rimaneva quello,
l’idea che un’altra forma di società fosse possibile.
> Per certi versi la controcultura tenne in vita la fiamma della militanza, in
> particolare negli anni Ottanta: mentre il riflusso dell’eroina e la
> repressione svuotavano le piazze, alcune sottoculture riuscirono a tenere
> accesa quella brace.
Questa danza tra arte e politica si slanciò nello scontro diretto contro
l’ordine globale attraverso il rituale dello scontro di piazza brevettato dalle
Tute bianche, emerse a metà degli anni Novanta, nella Padova di Toni Negri e del
postoperaismo, che si proposero come diretti eredi della militanza. Vestiti come
“fantasmi”, le Tute bianche avevano come obiettivo il superamento della
dimensione intermittente dell’agire politico e affermare il principio di
“conflitto e consenso”, preparando la strada per le contestazioni globali di
fine decennio. Nella continua dialettica tra militanza e controculture
artistiche riprese corpo il Movimento, con la sua denuncia-profezia del
capitalismo della sorveglianza, le lotte per il reddito di base universale, il
rifiuto del lavoro, i pericoli dell’abbraccio morale tra nuove tecnologie e
ideologie ultraliberiste.
La militanza politica venne tradotta in nuove forme di contestazione culturale.
Sotto la spinta all’azione diretta nacque l’hip hop militante e l’Onda Rossa
Posse tra 1989 e il 1990 incarnò la voce dell’intero movimento. Militant A, una
delle anime del gruppo, cercava una moralità superiore e l’euforia collettiva
che aveva animato il movimento degli anni Settanta. Il libro è inevitabilmente
anche una storia del panorama underground legato ai CSA e delle sue incursioni
nel mondo commerciale. Dal rap in italiano al tarantamuffin, dalla techno del
“suono di Roma” alla teoria della pompa suprema di Lori D., i capitoli del libro
sembrano i quadri di Hieronymus Bosch, carichissimi di personaggi e situazioni,
di cui rimangono impresse le pennellate con cui vengono dipinte la rabbia
militante e di provincia dell’abruzzese Lou X, lo stile bolognese di Dee Mò e
dell’Isola Posse All Star, fino a SxM, l’album di culto dei Sangue Misto. Si
trattò di strumenti di lotta ed egemonia, parti di una guerra asimmetrica
diffusa e capillare, condotta da “coindividui” come Luther Blissett, ed
esperienze radicali come la rivista Torazine e lo sfondo queer e transfemminista
che le aveva rese possibili.
> La militanza politica venne tradotta in nuove forme di contestazione
> culturale. Sotto la spinta all’azione diretta nacque l’hip hop militante e
> l’Onda Rossa Posse tra 1989 e il 1990 incarnò la voce dell’intero movimento.
Dopo l’ennesimo tentativo di sgombero del Leoncavallo nel 1994, i movimenti
sembravano sempre più un unico Movimento, riuscendo a trarre una lezione
importante dai femminismi degli anni Settanta e dalla loro avversione al
maschiocentrismo della sinistra rivoluzionaria. Dopo che certi steccati furono
scavalcati, la lotta sembrava unire personaggi diversissimi tra loro,
darkettoni, militanti nerd, profeti con il microfono in mano, attivisti
transgender e teorici della lotta omossessuale marxista.
Novanta potrebbe valere come appendice dell’Escatologia occidentale, scritta dal
rabbino Jacob Taubes. Eredi di una tradizione che, come nota Taubes, si muove
sul crinale dove apocalittica e gnosi si incontrano, sotto la superficie delle
occupazioni, dei cortei, delle comuni fricchettone, pulsa la stessa corrente
che, nei secoli, ha animato profeti, settari, comunità perseguitate. I festival
di Re Nudo, le comuni, la psichedelia, e poi la Pantera, con il suo improvviso
accendersi e il suo immediato propagarsi, ha qualcosa delle ondate messianiche
luriane: un’energia collettiva che prende fuoco perché riconosce nel presente la
stanchezza di un eone in dissoluzione. Il cyberpunk di Decoder, con il suo “i
piedi sulla strada, la testa nei computer”, aggiorna l’antico dualismo gnostico:
materia e spirito, corpo e rete, qui e altrove. I rave illegali, contaminati
dalle tribù tekno-travellers, recuperano la matrice nomade e comunitaria degli
antichi movimenti ereticali, dal manicheismo fino ai Mandei. La militanza degli
anni Novanta, dal rap militante dell’Onda Rossa Posse alle Tute bianche,
riprende un’eredità che ricorda da vicino la dialettica di Münzer o degli
spirituali francescani: la convinzione che un altro ordine sia possibile non per
evoluzione graduale, ma per rottura.
Ogni movimento descritto, dal 1977 agli anni Novanta, dalle occupazioni ai rave,
dalle autoproduzioni alla controinformazione digitale, funziona come un episodio
della stessa storia lunga, la storia delle minoranze che rifiutano l’eone
presente e tentano di costruire un regno a venire. In questa luce, i centri
sociali assumono un profilo quasi conventuale: piccoli laboratori di apocalissi
quotidiane, dove la vita comune è un gesto di opposizione e insieme di attesa.
Come nelle comunità gnostiche, la salvezza non è rimandata al futuro: si pratica
nel qui e ora, nella condivisione dei mezzi, dei linguaggi, dei corpi. È questa
la ragione profonda per cui vengono percepiti come minaccia: come gli eretici
medievali, i movimenti degli anni Novanta non contestano solo il potere, ma la
forma stessa del mondo.
L’epica tragica di Novanta mi ha riportato in mente un cult videoludico della
seconda metà degli anni Novanta, la saga per Playstation Legacy of Kain. Nel
1999 il secondo capitolo della storia ci introduce a Raziel, il
vampiro-lieutenant di Kain, il “padre” tirannico che lo punisce per la sua
superbia, gettandolo nel lago dei morti. Contro ogni aspettativa, Raziel
riemerge come wraith: un essere spettrale, nutrito e manipolato dal Dio anziano,
una divinità lovecraftiana degli abissi, che rende il protagonista capace di
oscillare tra il piano materiale, corrotto e decadente, e quello spettrale, un
piano dimensionale capovolto, dove l’acqua perde consistenza e il tempo scorre
più lentamente. Quando il protagonista ritorna nel piano materiale, Nosgoth, un
tempo impero vampirico, è ora una landa desolata, in rovina, i clan e i fratelli
di Raziel che la reggevano si erano dissolti in orrende mutazioni, le sue terre
desolate erano state ferite dall’equilibrio spezzato dalla hybris di Kain.
> Ogni movimento descritto, dal 1977 agli anni Novanta, dalle occupazioni ai
> rave, dalle autoproduzioni alla controinformazione digitale, funziona come un
> episodio della stessa storia lunga, la storia delle minoranze che rifiutano
> l’eone presente e tentano di costruire un regno a venire.
Più ci penso e più i centri sociali mi appaiono come “regni vampirici” dove si
praticavano riti di resistenza collettiva contro il capitalismo neoliberale.
Erano luoghi di iniziazione politica, con musica underground, rave, assemblee e
azioni dirette che incarnavano una controcultura viva. Ma come Raziel questo
movimento si spinse troppo vicino al sole: la proclamazione di guerra consegnata
alla stampa dalle Tute bianche al Genoa Social Forum all’alba di un appuntamento
con la storia che avrebbe dovuto certificare la forza del movimento fu l’apice
della hybris della militanza degli anni Novanta.
Furio Jesi nel suo saggio sulla metamorfosi del vampiro nella cultura tedesca
contenuto in L’accusa del sangue, vede nel vampiro un aspetto che va oltre il
mostro folkloristico puro, interpretandolo come un’immagine mitologica distorta
imposta come marchio su quei movimenti ereticali combattuti dall’ortodossia
cristiana. Sconfitti e repressi, gli eretici sono diventati “mostri” notturni,
residuati di pratiche rese incomprensibili dopo che il potere costituito ha
pronunciato la sua damnatio memoriae. Il vampiro jesiano diventa il volto
sfregiato dell’Iniziato, colui che, in società arcaiche, attraversava prove di
morte e rinascita per accedere a un piano superiore di conoscenza o potere. La
volontà di sfondare la mitologica “zona rossa”, cuore dell’ordine mondiale,
portarono rapidamente al crollo di quella fase della storia del panorama
antagonista. Il movimento si frantumò e l’equilibrio precario tra autonomia e
integrazione si corruppe in un paesaggio di rovine, monumenti di una crisi
identitaria, simboli di cooptazione da parte del mainstream, o semplice oblio
degli anni Duemila. Come Nosgoth dopo la corruzione di Kain, l’Italia post-G8
vide i suoi “pilastri” crollare in un’era di sorveglianza e securitarismo,
oramai non più allucinazioni dei collettivi eretici degli anni Novanta ma realtà
effettive.
Come già in Remoria (2019), in cui la città di Remo ha la sua occasione di
emergere a discapito della città di Romolo, Valerio Mattioli riusa questo schema
di ribaltamento negromantico della damnatio memoriae e assume le sembianze del
Dio anziano di Legacy of Kain, diventando un narratore sotterraneo, manipolatore
di memorie, che risveglia il lettore dal torpore delle litanie della retorica
ufficiale. Lo trasforma così in un’arma vendicativa atta a mondare il
doppelganger edonista e berlusconiano del decennio perduto. Mattioli è capace di
liberare il lettore dal piano spettrale, l’immagine ufficiale degli anni
Novanta, fatta di MTV, consumismo e pacificazione, per farlo riemergere sul
piano materiale, ossia la memoria militante dei riti sotterranei di resistenza,
le lotte dimenticate.
> Come già in Remoria Valerio Mattioli riusa lo schema del ribaltamento
> negromantico della damnatio memoriae, diventando un narratore sotterraneo,
> manipolatore di memorie, che risveglia il lettore dal torpore delle litanie
> della retorica ufficiale.
Mentre il tempo culturale sta iniziando a rigettare il decennio perduto per
produrre cultura rediviva, il lettore di Novanta dovrebbe oggi porsi un
interrogativo dirimente: questa rinascita culturale è vera redenzione o solo un
altro ciclo di predazione mitica? Di sicuro libri come quelli di Mattioli devono
essere visitati non come mausolei della storia antiquaria, perché si tratta
piuttosto di modi per comprendere come ciò che è accaduto nel tempo sociale può
sempre accadere di nuovo. Novanta è un atto di vendetta che rimette in piedi uno
Sheol, la cui geometria costituisce un itinerario di attimi messianici che
rendono il passato ancora rivedibile e a disposizione del presente. Il libro
riattiva presenze sepolte, restituisce corpo alle possibilità negate, riaccende
lampi di un’epoca che non ha mai davvero smesso di bussare. Nei raver che
assaltano lo Spaziokamino, nella techno come tamburo di guerra, nelle T.A.Z. di
Bey, si intravede un’idea impossibile che ritorna, stavolta non come fantasma,
ma come promessa.
L'articolo Ciao proviene da Il Tascabile.
L a prima volta in cui con coscienza dell’illegalità della faccenda ho scattato
una foto all’interno di un museo è stato al MoMa, una quindicina di anni fa, per
immortalare La jungla di Wifredo Lam: con tenacia, fregandomene
dell’obsolescenza che mi spingeva a cambiare smartphone, sarebbe rimasta
l’immagine di sfondo per lustri. Poi, molto tempo dopo, al Museo nacional de
Bellas artes di L’Avana, ho visto La silla: stavolta ho acquistato una
riproduzione, che se ne sta appesa nello studio. I quadri di Wifredo Lam sono
quelli che più mi restituiscono, in immagini, il diorama che mi si scatena in
testa quando leggo certi libri di certi autori sudamericani. Non è un caso che
parli di Lam anche Alejo Carpentier nell’introduzione a Il regno di questo mondo
(1949; trad. it. 1959), in cui lo definisce “il migliore insegnante della magia
della vegetazione tropicale, della sfrenata Creazione di Forme della nostra
natura, con tutte le sue metamorfosi e simbiosi”.
Si tratta di una vertigine che non si spalanca facilmente, ma che si appalesa
fortemente, viva e verdeggiante, ogni volta che mi capita di leggere un romanzo
di Miguel Bonnefoy, per ultimo Il sogno del giaguaro, recentemente pubblicato da
66thand2nd. Anche se Bonnefoy sudamericano strictu sensu non è, ma ci arriviamo.
La “rigogliosità” di Bonnefoy è tanto più vistosa quando si realizza, per
giunta, che i rameggi, le radici, affondano l’una nell’altra: quando ci si rende
conto, cioè, che ogni sua opera è intrecciata, impegnata nel disegno di un
Grande Mosaico Latino. Quando ne ho parlato con Francesca Bononi, che di
Bonnefoy è la traduttrice in Italia, mi ha detto:
> la prima immagine che mi viene in mente è senza dubbio una foresta tropicale,
> non tanto per l’esotismo quanto per la densità e la continua proliferazione di
> forme, dettagli, linee narrative che si attorcigliano e aggrovigliano. In ogni
> romanzo c’è una struttura solida, ben intrecciata: ma lo spazio di espansione
> è potenzialmente infinito. Una rigogliosità data sia dalle parole, scelte per
> la loro forza evocativa, per il colore e la musicalità che portano con sé, sia
> dalla densità sintattica.
In Italia di Bonnefoy sono stati tradotti cinque romanzi, tutti editi da
66thand2nd: Zucchero nero (2018), Eredità (2021), L’inventore (2023), Il
meraviglioso viaggio di Octavio (2023) e appunto Il sogno del giaguaro. Ci
mancano i suoi racconti, e un memoir di viaggio, Jungle. Ognuno dei romanzi è un
tuffo vorticoso in epopee popolate da miriadi di personaggi, memorie invisibili,
incroci, morti che parlano con i vivi e viceversa, edifici dalle architetture
ardite e primordiali al contempo, innalzati con una lingua universale,
mitopoietica, immarcescibile, che rifugge – ma allo stesso tempo si serve – di
sensazionalismi esotici e sentimentalismi assurti a meravigliosi pretesti di
narrazione. Quando Ana María, in Il sogno del giaguaro, dice ad Antonio “sposerò
soltanto l’uomo che mi racconterà la storia d’amore più bella” e Antonio va alla
stazione delle corriere, estrae un cartello con su scritto “Ascolto storie
d’amore”, le raccoglie e si presenta da Ana María dicendo “Non so quale sia la
più bella, ma eccotene mille. Ti va di scrivere la nostra?”, ecco: Bonnefoy crea
un multiverso di pretesti per raccontare storie. Mille, ognuna delle quali è
l’incipit alla loro. Casomai la più bella.
> La “rigogliosità” di Bonnefoy è tanto più vistosa quando si realizza, per
> giunta, che i rameggi, le radici, affondano l’una nell’altra: quando ci si
> rende conto, cioè, che ogni sua opera è intrecciata, impegnata nel disegno di
> un Grande Mosaico Latino.
La strizzata d’occhio di Bonnefoy, rea confessa anche in ogni bandella delle
edizioni italiane, sembrerebbe essere quella al realismo magico di Gabriel
García Márquez. Dopotutto, in Il meraviglioso viaggio di Octavio, scrive: “le
cose erano talmente nuove che non avevano nome e bisognava indicarle con un
dito”, un’istantanea che ricorda davvero la fondazione di Macondo. A me, però,
la questione sembra un po’ più complessa.
Se c’è una fallacia classica dirimente, nell’interpretazione della letteratura
latinoamericana dal boom in poi, è questa riconducibilità al canone del realismo
magico. Mondi straordinari, personaggi venuti da chissà dove pronti a spiccare
il volo, sono in realtà stati declinati in maniere molto diverse. Samanta
Schweblin, per esempio, ne ha esacerbato il lato contemporaneo con sfumature
weird. Salomé Esper, Mariana Enriquez, Monica Ojeda, Gabriela Cabezón Camara –
interessante il fatto che molte “eredi” di questo che continuiamo a chiamare
realismo magico siano donne – hanno proiettato i meccanismi narrativi che
affondano nel sostrato surreale e intrinsecamente magico del Sudamerica per
trasportarne gli effetti nel presente, anche quando il materiale narrativo
appartiene al passato: Gabriela Cabezón Camara, per esempio, nel suo Le
avventure della China Iron (2023) prende il Martin Fierro, quindi una storia di
un altro secolo, ma fonde i Remington per forgiarci armi cyberpunk. Quel che fa
Miguel Bonnefoy, invece, è lasciare le storie a galleggiare nel loro tempo:
anzi, meglio, le allaccia a un tempo mitico, irrorato di una luce che suona
primordiale, anche se magari è quasi contemporanea.
Alejo Carpentier, ancora nell’introduzione a Il regno di questo mondo, è
abbastanza critico nei confronti di quel “meraviglioso ottenuto con trucchi di
prestidigitazione, riunendo oggetti che non sogliono mai incontrarsi”, perché “a
forza di voler suscitare senza tregua il meraviglioso, i taumaturghi diventano
burocrati”. E qua traccia una linea di distinzione molto netta: spiega come nel
realismo magico si inseriscono elementi fantastici per rendere più chiara la
differenza tra realtà e magia, con l’intento di mostrare non come la magia sia
reale, ma come la realtà sia magica. Una condizione che però è preesistente
nell’America Latina, che non ha bisogno di forzature, ma solo di uno show, don’t
tell: questo perché a quelle latitudini “il reale-meraviglioso si trova di
continuo, per la verginità del paesaggio, per la formazione, per l’ontologia,
per la compresenza dell’indiano e del negro, per la Rivelazione che costituì la
sua scoperta, per i fecondi meticciati che favorì”; “Che cosa è, la storia
dell’America tutta, se non una cronaca del reale meraviglioso?”.
Ecco: Miguel Bonnefoy non è uno scrittore che si serve del realismo magico.
Bonnefoy è un cantore del reale meraviglioso.
Per meravigliarsi bisogna innanzitutto credere. Chi non crede nei santi non può
guarire grazie ai miracoli dei santi. In ogni libro di Bonnefoy la fede svolge
un ruolo importante: Il meraviglioso viaggio di Octavio, dopotutto, si apre con
una processione, una statua del Nazareno che si incastra in un albero di limone,
e qualcuno che spara dei colpi di fucile facendo cadere tutti i limoni
dall’albero: “la polpa giallognola venne usata per le infezioni, le scorze
furono fatte essiccare e poi cosparse sul pesce […]. In dieci mesi furono
respinti dieci anni di peste”. Il rapporto tra fede e realtà (meravigliosa) è
ovviamente figlio delle acredini tra cattolicesimo e laicismo rivoluzionario da
una parte, animismo indigeno dall’altra. Nei libri di Bonnefoy ci sono tanto
Vergini Dorate quanto figure sciamaniche che levitano e aspirano il fumo dei
semi parlanti divinatori degli zapotechi, entrambi portatori di un messaggio di
salvazione diretto essenzialmente a uomini solitari, umili, che Eduardo Galeano
avrebbe definito “nadie, sin nada”: i nessuno, i senza niente.
> “Che cosa è, la storia dell’America tutta, se non una cronaca del reale
> meraviglioso?”. Ecco: Miguel Bonnefoy non è uno scrittore che si serve del
> realismo magico. Bonnefoy è un cantore del reale meraviglioso.
A partire da Octavio, uno che “evitava i litigi e la violenza perché non
conosceva i suoi diritti e non poteva difenderli”, c’è tutto uno stuolo di
fantastici (e felici) ignari: “non erano più una tribù, ma non erano ancora un
popolo. E così nascevano e morivano vivendo una sorta di esistenza immobile”
(Zucchero nero). Il sottoproletariato che è il brodo cosmico da cui sorgono
molti dei personaggi di Bonnefoy non basta di per sé per identificare chi siano
i buoni e chi i cattivi – a dirla tutta, neppure appartenere alla borghesia: ad
assegnare il posto nella storia ci pensano la storia, e la Storia, stesse. Che
siano banditi, poveracci, ladri, ubriaconi o possidenti terrieri, inventori,
parvenues, ognuno è però abitato dai suoi demoni, dannato (o baciato) dai
ricordi e dal destino, e tutti covano il sogno di fare qualcosa di strepitoso,
che è poi il movente – e il carburante propellente – di tutti i personaggi
bonnefoyani, moderni Icaro che si avventurano in progetti altisonanti coscienti
del fatto che il destino li metterà di fronte a un potenziale fallimento.
In L’inventore, unico romanzo non ambientato in America Latina ma in Francia,
basato sulla storia dell’inventore Augustin Mouchot, autore delle prime macchine
a energia solare, scrive: “Mouchot sapeva, come Icaro, sin dal primo momento,
che prima o poi la sua scoperta lo avrebbe sollevato a un’altezza troppo
pericolosa, che si stava avventurando in un terreno minato dal quale non avrebbe
fatto ritorno”. Quello di perseguire i propri intenti per restituire al mondo
qualcosa che la meravigliosità del mondo ha donato loro è una costante: in fondo
anche Antonio Borjas Romero, in Il sogno del giaguaro, è un romantico sognatore,
caparbio e testardo, che di fronte al disastro aereo che distrugge l’aeroporto
di Maracaibo si dice, come fosse la cosa più normale del mondo: “è qui che
bisogna seminare la luce”, e fonda la prima università di Maracaibo.
Chissà che non sia stata la luce, il racconto di quella luce che ha solo il
Sudamerica, a spingere Bonnefoy a parlare di un inventore ossessionato dai raggi
solari, dalla loro capacità di cambiare i destini dell’umanità: in effetti
Mouchot stupirà tutti con la sua invenzione, conquisterà Napoleone III e troverà
spazio all’Esposizione universale di Parigi del 1878 producendo, a partire dalla
luce, un blocco di ghiaccio – “quando crea il ghiaccio Mouchot sente l’emozione
proibita di un deicidio”, lo stesso friccico che sovviene al colonnello
Aureliano Buendía il giorno in cui prima di essere fucilato si ricorda di quando
il padre lo aveva portato a scoprire, esatto, proprio il ghiaccio. Più che
essere epigono di Marquez, però, Bonnefoy (qua e altrove) ha in Gabo una sorta
di pater familias ai feralia: “trent’anni dopo, nella sua camera polverosa di
rue de Dantzig, si sarebbe ricordato di quel pomeriggio misterioso e onirico”,
scrive, ma non è l’unica immagine che paga tributo all’immaginario di Cent’anni
di solitudine. In Il sogno del giaguaro, per esempio, Lazare riceverà visita dal
fantasma di Helmut Drichmann proprio come quello di Fulgenzio si presenta a José
Arcadio: “non uno di quei fantasmi che vagano, si nascondono in mezzo alle
camelie o si intrufolano come gnomi fuggitivi e subdoli sotto le lenzuola, no:
era un essere seducente e pacifico, che chiedeva sempre il permesso prima di
ritirarsi”.
> Il sogno di fare qualcosa di strepitoso è il movente – e il carburante
> propellente – di tutti i personaggi bonnefoyani, moderni Icaro che si
> avventurano in progetti altisonanti coscienti del fatto che il destino li
> metterà di fronte a un potenziale fallimento.
Pur estraneo al Sudamerica, in L’inventore personaggi e traiettorie seguono lo
stesso tragitto dei ceppi di vite francesi diretti in America Latina per
scappare dalla filossera: impiantati là trovano nuova vita. Benoit Bramont,
l’aiutante di Mouchot, per esempio, giunto in Sudamerica con una carambolesca
traiettoria, “mise incinta una giovinetta della bidonville di San Paolo del
Limone, la quale diede alla luce un gigante, anche lui predestinato a un
meraviglioso viaggio. […] ‘Lo chiamaremo Ottaviano’. ‘Troppo esotico’, disse la
ragazza tenendo in braccio il bambino. ‘Lo chiameremo Octavio’”. Ed è ancora in
L’inventore che scopriamo qualcosa di più di Michel René, figura centrale in
Eredità, personaggio fondamentale per il suo essere punto di raccordo tra i due
continenti, tra le due sponde, tra le radici delle mangrovie attecchite nei
Caraibi e quelle solide in Francia.
L’inventore è l’esplicitazione del lato oscuro della luna, quello europeo, di
tutta la storia narrata in Eredità, il romanzo di Bonnefoy che più salda i
legami tra i due continenti – prerogativa anche della sua biografia, alla fine –
raccontando appunto la storia di una famiglia, i Lonsonier, che si dipana tra
Cile e Francia a cavallo di quasi due secoli, tra parti surreali all’interno di
voliere in giardino, donne che coltivano il sogno di diventare aviatore, dilemmi
e avventure che affondano anche nel sostrato doloroso della dittatura di
Pinochet.
In Eredità c’è una frase che spiega bene il ribaltamento percettivo: Lazare, in
procinto di partire dal Cile per arruolarsi volontario per la Prima guerra
mondiale in Francia, scrive Bonnefoy, “immagina il paese d’origine della sua
famiglia con la stessa inventiva con cui i cronisti delle Indie dovevano aver
immaginato il Nuovo Mondo”. Il ribaltamento è anche del canone estetico:
un’immagine come “Si diceva che al fronte piovessero cadaveri di uccelli, che la
febbre nera facesse germinare lumache nella pancia, che i tedeschi incidessero
le proprie iniziali sulla pelle dei prigionieri” trasporta il real maravilloso
dall’altra parte dell’Oceano, in quel Vecchio continente che, per chi non lo
conosce, è sempre Nuovo. E il fatto che, di fronte all’opportunità di poter
incontrare questo zio Michel René, alla domanda “e dove vive?” si senta
rispondere “‘Qui’, disse il padre, posandogli un dito sul cuore” spiega bene la
sinusoide della geografia sentimentale dei suoi personaggi, oltre che quella
stessa di Bonnefoy.
Credo sia profondamente significativo che nel mondo tessuto da Bonnefoy, un
mondo in cui la parola ha un potere pantocratico, molti dei personaggi abbiano a
che fare con il mutismo, o con suoni che appartengono a un mondo diverso,
misterioso, incomunicabile. Margot, in Eredità, viene al mondo “in mezzo a un
concerto di pigolii, gridi e garriti”. Antonio Borja Romero, in Il sogno del
giaguaro, abbandonato sulle scalinate di una chiesa, viene allevato da una donna
muta. Octavio, in Il meraviglioso viaggio, attraversa l’umanità “indovinando
certe parole dalla somma delle lettere, leggendo la mimica, ripetendo quello che
sentiva per imitazione, pronunciando a orecchio”.
La loro emancipazione, la loro elevazione, la ricerca del loro posto al mondo
passa allora anche attraverso l’educazione alla parola, che non consiste in un
rifiuto del mondo primigenio ma avviene solo grazie a una sua conoscenza
profonda. Antonio, con la parola, da “una grande palude oppressa dalla calura”
dove nessuno più “immaginava una nazione prima delle nazioni, uomini travestiti
da aquile, bambini che parlavano con i morti e donne che si trasformavano in
salamandre” passerà a fondare un’università a Maracaibo. Octavio, grazie
all’incontro con Doña Venezuela, emancipata, acculturata, imparerà a leggere e
scrivere. Ma l’educazione sentimentale di tutti i personaggi passa comunque
attraverso la scoperta esperienziale (vedere più che leggere) di quel sostrato
onirico, avventuroso, indomabile, ancestrale della propria terra, dove storia,
mito, ragione e irrazionalità si fondono.
> Credo sia profondamente significativo che nel mondo tessuto da Bonnefoy, un
> mondo in cui la parola ha un potere pantocratico, molti dei personaggi abbiano
> a che fare con il mutismo, o con suoni che appartengono a un mondo diverso,
> misterioso, incomunicabile.
Tra le righe dei romanzi di Bonnefoy serpeggia sempre assai vivace la caducità
dell’universo latinoamericano. In Il meraviglioso viaggio fa dire a un
personaggio “questo è un paese del por ahora, un paese di passaggio per gli
imperi. […] Non c’è niente che abbia in sé l’avvenire, la memoria. È stato tutto
costruito por ahora… por ahora prima di scendere a Potosì e trovarci le miniere
più ricche… por ahora prima di fondare i grandi vicereami di Colombia”. “È un
paese di bivacchi”.
In questa caducità morale, in questa continua delocalizzazione anche emozionale,
le lettere, i libri, costituiscono un punto fermo. Quando Cristóbal, uno dei
personaggi di Il sogno del giaguaro, si sente dire dalla madre che “leggere
significa viaggiare” constata invece come per lui “la cui infanzia era stata un
viaggio continuo, leggere significava restare. Le città cambiavano, le lingue si
moltiplicavano, le culture sfilavano davanti ai suoi occhi mentre i libri
restavano sempre uguali a se stessi”. Per lui “le pagine hanno l’immobilità del
metallo e dell’agata”, o chissà la consistenza rocciosa della stele sulla quale
Doña Venezuela insegna a Octavio a scorgere i pochi tratti che bastano per
disegnare le cose, e in quel disordine Octavio “vedeva il tessuto umano della
sua bidonville, come un mondo appena nato, preceduto dal nulla. Il sapore di
quella lingua aveva inizio lì, con la guiava, il mais, l’araguaney”. Una
scrittura non nata dall’uomo, ma “da una natura senza logica, dove niente
impedisce alla sete tropicale di crescere, espandersi e ampliarsi nell’ebbrezza
più smisurata”, che è anche un invito alla vita: “Non è vivere nella miseria che
rende miserabili, ma il non saperla descrivere”, capisce Octavio.
E descrivere il proprio mondo straordinario, per i personaggi, per Bonnefoy
stesso, è affondare nelle storie “di un universo abitato da comunità di donne
guerriere dove i giganti si trasformavano in statue di legno e le bambine
nascevano dal fuoco delle canne da zucchero”, come scrive in Eredità. Storie che
sono cosmogonie disperate, fatte di elefanti arrivati dal Nepal, sapore di
cannella, gusci di diamante delle tartarughe, ritrovamenti di pinguini a mille
chilometri da dove è normale che siano: pretesti fantastici che, come dice uno
stregone cacicco in Eredità, normalmente si trovano solo nei libri.
La lingua, il prisma della cultura, è un aspetto interessante in Bonnefoy nella
misura in cui il racconto di questo retroterra mitico è comunque, e non va
dimenticato, affidato al francese, la lingua natale dello scrittore (e quella
adottiva di Octavio Paz, Romulo Gallegos, Arturo Uslar Pietri, Gustavo Pereira,
autori che spesso cita come punti di riferimento): la traduttrice Francesca
Bononi, giustamente, lo sottolinea. “La cifra più interessante del suo stile è
il francese atipico, nel quale in filigrana si avverte il respiro ampio della
lingua spagnola e delle narrazioni latinoamericane, con la loro capacità di
moltiplicare immagini”. “Tradurre Bonneofy”, mi ha detto, “significa misurarsi
con un testo al confine tra due mondi, che non si limita a un registro francese
classico e che continuamente apre varchi verso un immaginario e una musicalità
altri, una sorta di sinfonia in cui la norma francese convive con l’eco del
realismo magico dando vita a una prosa densissima, vegetale, che cresce e si
ramifica”. In un’intervista Bonnefoy ha detto: “Il francese è la lingua del mio
cervello, mentre lo spagnolo è la lingua del mio cuore, della pancia”. Il peso
specifico della lingua, per lui, assume anche connotati politici: “Il mondo si
divide in dominati e dominanti. Il francese mi permette di essere letto nel
primo mondo, il mondo dominante”. Ma anche, mi sento di aggiungere, di
raccontare – anche in maniera cruda – quello dei dominati.
> La traduttrice Francesca Bononi sottolinea: “La cifra più interessante del suo
> stile è il francese atipico, nel quale in filigrana si avverte il respiro
> ampio della lingua spagnola e delle narrazioni latinoamericane, con la loro
> capacità di moltiplicare immagini”.
Nei romanzi di Bonnefoy la politica essuda, più che prorompere. Ma è sempre
presente, non foss’altro perché la storia del continente che racconta, da cui
provengono i suoi genitori, ne è intrisa in maniera indissolubile. Ilario Da,
uno dei personaggi di Eredità, quando impara a scrivere la prima parola che
riesce a riprodurre è Revolución. Entrerà nei MIR (Movimiento de Izquierda
Revolucionaria), assisterà al bombardamento de La Moneda e alla destituzione di
Allende, al golpe di Pinochet, alla repressione. Subirà la tortura brutale che
lo spingerà a lasciare il suo Paese per trasferirsi in Francia dove “in una
minuscola mansarda, senza condor e senza auracarie, avrebbe scritto il racconto
delle torture subite”. La storia delle Americhe, che è anche una “sinfonia
dell’insurrezione”, irrompe nelle sue pagine con un potere evocativo detonante.
In Il sogno del giaguaro c’è un passo bellissimo che racconta la venuta al mondo
della figlia di Antonio e Ana María:
> A un tratto sentì la testa squarciarle le pareti interne. Viva il Venezuela,
> quella testa che entrava nelle ore fertili della storia di un continente, che
> affiorava dal tumulto della strada, che le fece ripercorrere i secoli
> latinoamericani, fino alla conquista spagnola e all’eredità colonialista dei
> padroni delle valli, fino agli imperi dei sacerdoti indigeni e alle dinastie
> arcaiche. Viva il Venezuela!, quella testa che attraversava le battaglie
> navali del golfo […] sino allo splendore primitivo della lucertola spuntata
> con il suo musetto da un guscio preistorico, Viva il Venezuela!, e Ana María
> […] provò un dolore così intenso da essere trascinata in un tempo in cui non
> esistevano rocce né sabbia, né oppressori né oppressi, ma soltanto, sospeso
> nel nulla, il vuoto magnifico di una prima stella. “Che nome vuole dare a sua
> figlia?”. “Si chiamerà Venezuela”.
La scena è ambientata durante uno dei colpi di Stato rivoluzionari venezuelani:
ne compariranno altri, perché tutta la storia del Sudamerica è un fare e
disfare: “la canna da zucchero è come la speranza, se vogliamo che cresca più
forte bisogna bruciarla”, dirà un personaggio di Zucchero nero. Il fil rouge
della condanna politica di Bonnefoy è nel racconto di come la ricchezza
trasformi le persone, che è poi lo stesso pattern di quel che succede agli
Stati: i soldi comprano tutto, anche l’anima. Nonostante ciò, l’afflato politico
di Bonnefoy, che non è mai vistoso: è però nondimeno presente nelle minuzie, in
quel coacervo di particolari che concorre ai grandi moti rivoluzionari, in
fondo.
In un’intervista, schermendosi, Bonnefoy ha risposto a una domanda su quale
musica lo ispirasse citando quella del sistema di orchestre Simon Bolívar. Anche
Francesca Bononi ha detto “accosterei la sua scrittura a una sinfonia, con i
suoi movimenti, le sue variazioni, i suoi crescendo”. In effetti Bonnefoy
ricorre spesso, oltre che alla musicalità intrinseca della sua lingua, a
immagini collegate con la mise en scene di opere, in cui la musica, il teatro,
“la teatralità” hanno il loro peso. In Il meraviglioso viaggio di Octavio si
cita un Requiem di Berlioz con “centinaia di strumenti a corde, quattro
orchestre spazializzate con quasi trecento cantanti e un tenore russo”. Thèrese,
una delle protagoniste di Eredità, è figlia di un maestro di musica e direttore
di banda: studia da cantante fin quando non incontra, sulle Ande, un condor,
leggendo in quell’incontro un avvertimento, “la consapevolezza splendida e turpe
che quell’animale racchiudeva, nella profondità della sua gola, tutto ciò che
l’opera tentava di imprimere nella sua”.
> Il fil rouge della condanna politica di Bonnefoy è nel racconto di come la
> ricchezza trasformi le persone, che è poi lo stesso pattern di quel che
> succede agli Stati: i soldi comprano tutto, anche l’anima.
In questa delirante ricerca dell’orchestralità è affascinante scorgere la stessa
magniloquente volontà di costruire un teatro nel cuore dell’Amazzonia del
Fitzcarraldo di Werner Herzog, animato dalla stessa tigna dei protagonisti di
Bonneofy di perseguire i propri obiettivi dimenticandosi, a tratti o
perennemente, della maestosa impossibilità del successo. Il sogno febbrile di
Antonio di costruire l’università a Maracaibo in Il sogno del giaguaro è lo
stesso che ha Lazare in Eredità quando parte per la guerra, che ha L’inventore
Mouchot tutto preso dalla costruzione del suo meraviglioso marchingegno per
catturare i raggi solari, che ha Octavio al termine di Il meraviglioso viaggio
quando scolpisce la statua del Nazareno o i personaggi di Zucchero nero nella
ricerca, e nella custodia, del tesoro segreto di Henry Morgan. Tutte persone
animate, come Fitzcarraldo, dalla consapevolezza che un atto, o un atto mancato,
possono determinare la storia di un continente intero.
Nel corpus dei romanzi di Bonnefoy ci sono molteplici giochi di specchi, tanto
centrifughi quanto centripeti: un costante “contrappunto” tra personaggi,
storie, apparizioni fugaci che si incastrano l’una nell’altra, arpeggi in un
libro che diventano lunghe sonate in un altro. Frammenti, riferimenti interni
che sono un continuo occhieggiare – o chissà “ingannare” – il lettore, con
l’obiettivo finale di intessere un dialogo intimo, a due, quasi segreto.
Bonnefoy, da pescatore esperto, tesse lenze lunghe chilometri che dipana tra i
suoi libri, consapevole che il lettore, prima o poi, finirà per essere infilzato
da uno degli ami. In Il sogno del giaguaro non dico tutte, ma buona parte delle
parentesi aperte da Bonnefoy lungo il corso della sua produzione si chiudono,
trovano compiutezza, assumono contorni precisi, fissano coordinate. Non sarò io
qua a svelarle, dopotutto la lettura dell’opera omnia di Bonnefoy vale tutta la
fatica di scoprirle da voi, a partire da cosa sia, poi, questo sogno del
giaguaro.
In un’intervista lo scrittore ha detto di essere attratto dalla letteratura di
Borges, dal perdersi, dal trucco della scrittura segreta, dai labirinti
narrativi, dalle lunghe traversate, dal lungo errare in cui i motivi si ripetono
incessantemente, ma sono sempre diversi. In Zucchero nero Eva Fuego, la
protagonista principale, sul finire del romanzo indice un grande banchetto. A un
certo punto, però, deflagra un incendio. “Era già cominciato l’incendio delle
sue fattorie, delle sue masserie e dei suoi campi di canne […]. Una fiammata si
era aperta nel magazzino delle granaglie, scagliando travi rossonere sul
fienile. […] Si incendiarono gli specchi del palazzo, i miragli, le cornici di
cristallo, il cristallo nelle coppe, il cristallo delle lampade, i bicchieri, i
vetri, la madreperla dei tavolini”. Quando parlavo di giochi di specchi
centrifughi intendevo proprio questo: se non siete riusciti a pensare per un
attimo che queste righe non fossero di Bonnefoy, ma di Alejo Carpentier quando
descrive l’incendio della residenza del re haitiano Henri Christophe in Il regno
di questo mondo, ecco, questa è la dimostrazione che Bonnefoy non solo è l’erede
più fulgido del real maravilloso, ma anche – ancora una volta – vi ha fregati.
> Nel corpus dei romanzi di Bonnefoy ci sono molteplici giochi di specchi, tanto
> centrifughi quanto centripeti: un costante “contrappunto” tra personaggi,
> storie, apparizioni fugaci che si incastrano l’una nell’altra, arpeggi in un
> libro che diventano lunghe sonate in un altro.
C’è una frase, in Il sogno del giaguaro, che recita: “potrei provare a
raccontarti il mio viaggio, ma sarebbe come descrivere l’oceano dicendo che è
semplicemente acqua salata”. Ecco il punto: come potremmo rendere giustizia alla
scrittura di Bonnefoy se dicessimo soltanto che è una declinazione del realismo
magico? Il suo carattere strabordante, e forse incomprensibile, forse allora è
davvero tutto nell’epigrafe di William Ospina che ha scelto di mettere in limine
al suo ultimo libro: “A nord c’è la ragione che studia la pioggia, che
interpreta i lampi. A sud c’è la danza che genera la pioggia, che inventa i
lampi”.
È da queste coordinate, che in Bonnefoy sono soprattutto emozionali, che
dovremmo partire.
E poi fare come fa il vaso di fiori ne La silla di Wilfrido Lam: sederci su una
sedia, circondati dalla foresta, e lasciare che la rigogliosità finisca per
ingoiarci, insieme a tutto il resto del mondo.
L'articolo Il reale meraviglioso proviene da Il Tascabile.
N on passa praticamente settimana senza che qualche inchiesta, ricerca o
statistica, non certifichi lo stato di crisi, in alcuni casi comatoso, che
colpisce la lettura e l’editoria in generale. Dopo i consueti desolanti dati
sulla vendita dei libri che da anni indicano un calo continuo, la cui rotta
appare impossibile da essere invertita, ora secondo una ricerca guidata
dall’Università della Florida e dall’University College di Londra, la lettura
quotidiana per piacere negli Stati Uniti, risulta essere diminuita del 40% negli
ultimi due decenni. I risultati pubblicati da iScience indicano un vero e
proprio disamoramento alla lettura: non solo si legge meno, ma soprattutto se ne
ha meno piacere. Abbiamo così interpellato Chiara Faggiolani, docente di
biblioteconomia presso l’Università la Sapienza di Roma, dove dirige il
Laboratorio di biblioteconomia BIBLAB e il master in editoria. Presidente del
Forum del libro, Chiara Faggiolani ha recentemente pubblicato, Libri insieme
(2025). Il suo ultimo libro è un interessantissimo e colto saggio/reportage
sulle comunità della conoscenza. Un viaggio e un’indagine nei luoghi dove non
solo si sta resistendo, reinventando e immaginando nuovi spazi per la lettura,
mentali e reali, architettonici e sociali insieme, ma dove si sta anche
promuovendo in maniera capillare e dal basso un piacere essenziale e una pratica
necessaria per il nostro benessere e per la nostra vita in generale.
COME È CAMBIATO IL CONCETTO DI PIACERE RISPETTO ALL’APPROFONDIMENTO CULTURALE
SECONDO LEI?
La lettura è un vizio e non una virtù, aspetto che tende a essere dimenticato.
Il piacere della lettura non è scomparso ma compete con forme di intrattenimento
più immediate: negli anni Sessanta ad esempio la lettura era legata a una
dimensione di piacere, scoperta e persino emancipazione che oggi sembra non
avere. I libri rappresentavano un varco verso mondi lontani, una forma di
accesso al sapere in un’epoca in cui però le alternative di intrattenimento e di
informazione erano decisamente più limitate. Il libro era un oggetto più “raro”,
per questo forse più desiderato, simbolo di crescita culturale e di libertà
individuale. Quello della lettura è un piacere che ha bisogno di lentezza e di
immersione esattamente come allora, ma sentiamo di vivere in un’epoca che
celebra la velocità e l’accumulo. Per questa ragione sembra una pratica
controcorrente… la mia personale idea è che proprio per questo la lettura sia
esattamente ciò di cui abbiamo bisogno.
SECONDO I DATI PROPOSTI DA UNO STUDIO CONDOTTO DA RICERCATORI DELLO UNIVERSITY
COLLEGE DI LONDRA E DELL’UNIVERSITÀ DELLA FLORIDA, SI EVIDENZIA ‒ OLTRE CHE UN
GENERALE E ANCHE SOSTANZIALE CALO DELLA LETTURA ‒ UN VERO E PROPRIO CROLLO DELLA
LETTURA COME FORMA DI PIACERE. IL LIBRO NON È DUNQUE PIÙ UN’OCCASIONE DI SVAGO E
APPROFONDIMENTO INSIEME?
I dati sulla lettura, anche in Italia, non sono incoraggianti. Ma con le
statistiche bisogna essere prudenti: la prima domanda da porsi è sempre che cosa
stiamo misurando e come. I numeri non sempre restituiscono la portata della
trasformazione che stiamo vivendo. Dal mio punto di vista, il libro resta ancora
un luogo di piacere e di approfondimento, ma non più in maniera lineare. Oggi il
libro è diventato una soglia: leggerezza e profondità non si escludono, anzi
coesistono e si contaminano. Il nodo non è il libro, ma il tempo che siamo
disposti a concedergli. Si è già affermata una nuova forma di lettura
“aumentata”, che alterna al libro l’uso di secondi schermi e linguaggi diversi,
intrecciando tempi lenti e tempi veloci. A questa si affianca la lettura
“socializzata”, che trova nei gruppi di lettura, ad esempio, la possibilità di
moltiplicare e trasformare l’esperienza individuale. Forse la sfida, oggi, non è
difendere un modello unico di lettura, ma imparare a coglierne la metamorfosi.
Proprio su queste trasformazioni si concentrano due ricerche che sto conducendo:
la prima, nell’ambito del progetto PRIN NEREIDE (NEw Reading Experiences in the
Digital Ecosystem), insieme a Gino Roncaglia, dedicata alle forme della lettura
aumentata; la seconda, S.T.O.R.I.E. (Storie Trasformative, Opportunità,
Relazioni, Inclusione ed Emozioni), che indaga la lettura come esperienza
condivisa e generativa di comunità. Una ricerca promossa dall’Associazione degli
editori indipendenti (ADEI) e dal Centro per il libro e la lettura (Cepell), e
realizzata dal Laboratorio di biblioteconomia sociale e ricerca applicata alle
biblioteche (BIBLAB) della Sapienza, che dirigo.
APPARE INVECE ANCORA SOLIDO IL MONDO DELLA LETTURA PER L’INFANZIA. QUALI
DINAMICHE SI POSSONO ATTIVARE PER EVITARE DI PERDERE LETTORI NELL’ADOLESCENZA E
SUCCESSIVAMENTE NELL’ETÀ ADULTA?
La mia sensazione è che negli ultimi venticinque anni sia stata dedicata
un’attenzione straordinaria alla promozione della lettura e, più in generale,
alla salute culturale della prima infanzia. Penso al lavoro prezioso di Nati per
leggere e a esperienze come Cultura per crescere della Fondazione Compagnia di
San Paolo in Piemonte: oggi le giovani famiglie e i nuovi genitori hanno piena
consapevolezza di quanto sia fondamentale inserire la lettura nella quotidianità
dei bambini nei primi mille giorni di vita. In questa fase, la lettura è
accompagnata: diventa un rituale intimo e familiare, un’esperienza condivisa che
segna i ritmi della crescita e che si colloca pienamente in quella che potremmo
definire una “zona prossimale di sviluppo”, per richiamare Vygotskij.
Quando però si entra nell’adolescenza, il quadro cambia radicalmente. La lettura
smette di essere un gesto accompagnato e si trasforma in un atto solitario. Se
non ci sono modelli adulti di riferimento, se mancano comunità e spazi dedicati,
il libro rischia di perdersi, lasciando un vuoto difficilmente colmabile. È in
questa frattura che si gioca la grande sfida del nostro tempo. Per questo, con
il Forum del libro, da molti anni portiamo avanti una vera e propria battaglia a
favore delle biblioteche scolastiche: è lì che nascono e crescono i lettori. La
mia sensazione è che manchi una continuità sociale della lettura: luoghi,
gruppi, comunità capaci di trasformare un gesto individuale in un’esperienza
collettiva, che dia senso, sostegno e riconoscimento al lettore. Senza questa
continuità, la lettura rischia di restare confinata a un tempo fragile, esposto
alla dispersione.
NEL SUO ULTIMO SAGGIO LIBRI INSIEME, LEI INDICA NELLA VISIONE CONTEMPORANEA DEL
TEMPO FINANZIARIZZATO COME LOGICA E MERO STRUMENTO, UNO DEGLI ELEMENTI DI CRISI
ANCHE DELLA LETTURA. COME LIBERARE DUNQUE IL TEMPO? È POSSIBILE RITORNARE AL
PIACERE DEL TEMPO PERSO?
Sì, come ho già anticipato, sono fermamente convinta che il vero problema della
lettura oggi sia la mancata valorizzazione di un tempo umano. È sotto gli occhi
di tutti: il tempo libero è lasciato al caso, disperso, consumato senza
direzione. Negli anni Sessanta non era così, e da quel periodo abbiamo ancora
molto da imparare. Liberare il tempo significa restituirgli un valore autentico.
La lettura, infatti, viene spesso percepita come un’attività improduttiva,
perché non “serve” a nulla nell’immediato. Ma è proprio lì che risiede il suo
potere: nel suo sottrarsi alla logica della performance. Parlare di tempo perso
è, in realtà, un paradosso, perché ciò che appare improduttivo ci restituisce
pienezza, densità e respiro. È esattamente ciò che accade con quelle che nel mio
libro chiamo “comunità della conoscenza”: gruppi, spazi, rituali che non
producono utilità immediata, ma che hanno la forza di “prendere tempo al tempo”,
di piegarlo, trasformarlo e renderlo abilitante.
L’ASSENZA DI CONCENTRAZIONE CHE SEMBRA ESSERE DENOTATA COME UN ECCESSO DI
DISTRAZIONE, NON È INVECE FRUTTO DI UNA REALE IMPOSSIBILITÀ ALLA DISTRAZIONE?
ESISTE FORSE UNA DISTRAZIONE BUONA E UNA CATTIVA? PENSO ANCHE ALL’INFINITO
SCROLL SUI SOCIAL CHE SEGNA LE GIORNATE DI MOLTI: UNA DISTRAZIONE CATTIVA, SE
VOGLIAMO, CHE DIVIENE IN REALTÀ UN’IMPOSSIBILITÀ ALLA DISTRAZIONE.
Ricordiamoci sempre che, quando abbiamo a che fare con gli strumenti, è da noi
che dipende l’uso che ne facciamo. Io credo che sia esattamente come stava
dicendo: esiste una “distrazione buona”, quella che permette alla mente di
divagare, di aprire connessioni inaspettate, di generare visioni nuove. Non a
caso parlavo prima di lettura aumentata: leggere significa anche lasciarsi
attraversare da pensieri laterali, da deviazioni che non interrompono il senso,
ma lo arricchiscono. Per questo trovo sbagliatissimo il divieto assoluto degli
smartphone a scuola. Non entro qui nel merito – sarebbe un discorso lungo – ma
credo che quella proibizione rappresenti un enorme fallimento educativo.
Certo, esiste anche una “distrazione cattiva”: quella del rumore incessante,
dello scrolling infinito che ci tiene agganciati senza darci alcun nutrimento.
Ma attenzione: non è corretto pensare che questa forma di distrazione sia legata
solo al digitale. Non è così. Ci si può disperdere anche in altre attività
apparentemente “innocue” se mancano attenzione, coinvolgimento e presenza
mentale. La vera differenza non sta nello strumento, ma nel livello di
attivazione e di protagonismo che riusciamo a mettere in ciò che facciamo. Una
distrazione è sterile quando ci rende del tutto passivi, fertile quando ci apre
possibilità, connessioni e immaginazione. Ed è proprio qui che entrano in gioco
gli educatori, i mediatori, la scuola: non per proibire, ma per guidare, per
aiutare a trasformare gli strumenti in occasioni, per insegnare a distinguere
tra dispersione e divagazione creativa. Ma se non lo fa la scuola chi lo deve
fare?
LA CRISI DELLA LETTURA E DEL LIBRO COME PIACERE FORSE INDICA ANCHE UN DISAGIO
CULTURALE PIÙ TRASVERSALE, CHE VA OLTRE LE DINAMICHE TECNOLOGICHE ODIERNE?
Sì, la crisi della lettura rivela una difficoltà più profonda: abbiamo confuso
il piacere con il consumo. Leggere, invece, non intrattiene soltanto, moltiplica
il pensiero. È un gesto esigente – il nostro cervello non è nato per leggere, lo
ha imparato con fatica, va ricordato – ma proprio per questo è anche un piacere
che apre, sorprende, talvolta inquieta e che ci restituisce complessità. La
lettura di libri ci educa a sostare nella complessità delle storie. Questo
aspetto è fondamentale rispetto alla nostra essenza di esseri narrativi.
IN LIBRI INSIEME LEI CITA IL CASO DEI SILENT BOOK CLUB. COME FUNZIONANO E COME
AGISCONO SULLA VITA DELLE PERSONE E SULLA QUALITÀ DI LETTURA QUESTE NUOVE
COMUNITÀ DELLA CONOSCENZA?
È uno degli esempi più interessanti di comunità della conoscenza. Spesso
descritti come una moda – Silent reading party o Silent book club che dir si
voglia – sono invece una pratica molto seria. Si tratta di persone che si
ritrovano per leggere in silenzio, insieme. Ognuno con il proprio libro, ma
immersi nello stesso spazio-tempo: quello della lettura profonda. Non si discute
del libro letto come avviene con i gruppi di lettura: l’esperienza principale è
proprio la condivisone del silenzio della lettura profonda. Si tratta quindi di
un rituale semplice che restituisce alle persone la possibilità di entrare nello
stato di flusso di cui parla Mihály Csíkszentmihályi, quel momento in cui la
mente si concentra, il tempo si contrae e si espande allo stesso tempo e ci si
sente pienamente presenti. Alla fine, magari, si condividono piccoli pezzi di
brani letti, si scambiano riflessioni e impressioni. È un piccolo miracolo: se
fatto bene è una forma contemporanea di resistenza al rumore del mondo.
GLI EDITORI E GLI STESSI QUOTIDIANI COSÌ COME LE RIVISTE SEMBRANO NON RIUSCIRE ‒
NONOSTANTE QUALCHE SFORZO ‒ A COGLIERE LA SPECIFICITÀ DEI GRUPPI DI LETTURA E IN
SENSO PIÙ AMPIO LE COMUNITÀ DELLA CONOSCENZA INTEGRANDOLE IN DISCORSI PIÙ AMPI.
COME PUÒ IL LIBRO ESISTERE ALL’INFUORI DI UN MERCATO? QUALI PROSPETTIVE SI
POSSONO IMMAGINARE CONSIDERATO CHE PARLIAMO DI UN MOVIMENTO MOLTO DIFFUSO E NATO
DAL BASSO?
Il libro è certamente un prodotto, l’editoria un’impresa e un mercato. Non
dobbiamo dimenticarlo. Ma il libro non è solo un bene da vendere: è un bene
relazionale. Ogni libro porta con sé idee che circolano, immaginari che si
condividono, legami che si creano. I gruppi di lettura e le comunità della
conoscenza lo dimostrano chiaramente. Con la ricerca S.T.O.R.I.E. che ho citato
prima, abbiamo mappato in un mese e mezzo 1.253 gruppi di lettura in Italia, che
a mio avviso rappresentano circa il 10% di quelli esistenti. Per il 95% di
questi, la partecipazione al gruppo genera benefici che vanno oltre la lettura
stessa, con ricadute positive sulla salute mentale, sul benessere individuale e
collettivo. Credo che sia questa la prospettiva nuova da abbracciare: guardare
non solo al libro come oggetto, ma alle relazioni e agli effetti che la lettura
è in grado di generare. Il suo potere trasformativo.
MOLTI ESEMPI CHE LEI PORTA IN AMBITO DI CULTURA DELLA LETTURA RAPPRESENTANO
NICCHIE DI UN SISTEMA ESTREMAMENTE DIFFUSO LA CUI COMPLESSITÀ È DIFFICILE PERÒ
DA SINTETIZZARE E QUINDI DA MODELLARE. ECONOMICAMENTE ABBIAMO A CHE FARE CON
ELEMENTI FRAGILISSIMI EPPURE CAPACI DI MUOVERE LETTORI E DARE CORPO A PERCORSI
DI ELABORAZIONE MAI BANALI. UN PENSARE I LIBRI CHE PRECEDE IL FARLI, COME
AVREBBE DETTO ROBERTO CERATI. MA ORA COME FARLI PER DAVVERO?
Ripartire dal pensiero, dal progetto culturale, e non dalla produzione “in
serie”. Roberto Cerati, straordinario e storico direttore commerciale di
Einaudi, sosteneva che una casa editrice dovesse essere pronta a perdere
economicamente su alcuni libri, perché erano necessari per la cultura e per il
sistema del libro stesso. In Einaudi, il tavolo del mercoledì, dove si discuteva
dei libri, si dice fosse separato da quello del giovedì, dove si parlava di
conti: un gesto che mostrava chiaramente come il profitto non potesse essere
l’unico criterio. Chi legge potrà obiettare che, da questo punto di vista, la
storia della Einaudi non è stata certo brillante. Ma è un rischio da considerare
a partire dalla convinzione che la qualità paga sempre.
Nel libro che uscirà a breve, esito della ricerca S.T.O.R.I.E., scrivo che i
gruppi di lettura vanno considerati attori autonomi del sistema del libro, non
appendici di biblioteche o librerie. Proprio per questa ragione: possono
diventare laboratori di pensiero collettivo, spazi in cui il libro diventa
esperienza condivisa, generativa di relazioni, idee e innovazione culturale,
dimostrando che il valore di un libro non si misura solo in copie vendute, ma
nella capacità di connettere e trasformare.
L’INEVITABILE CRISI DELLE LIBRERIE UNITA ALLA CAPILLARITÀ DEI CANALI ON-LINE E
ALLA VELOCITÀ DI STAMPA ‒ ANCHE DI POCHE COPIE ‒ IMPONGONO FORSE UNA NEGAZIONE
DI QUELLO CHE È STATO IL MANTRA NEL NOVECENTO, OVVERO LA NECESSITÀ DI DIFFONDERE
IL LIBRO? IN FONDO OGGI POCHE COPIE POSSONO GIÀ DETERMINARE UN MOVIMENTO
CULTURALE IMPORTANTE E AGIRE SOTTERRANEAMENTE. I GRUPPI DI LETTURA SONO COME GLI
UOMINI LIBRO IMMAGINATI DA RAY BRADBURY IN FAHRENHEIT 451? CONNETTERE I LETTORI
FORSE OGGI È PIÙ URGENTE IN SOSTANZA CHE DIFFONDERE I LIBRI?
Non credo che la crisi delle librerie ‒ anche legata al caro affitti e alla
trasformazione delle città, credo vada ricordato ‒, la capillarità dei canali
on-line e la velocità di stampa impongano una negazione della necessità di
diffondere il libro. Al contrario, credo che ci obblighino a ripensare cosa
significa “diffusione”. Il libro non è solo un oggetto da vendere, come dicevo
prima, è un veicolo di idee, visioni e relazioni. I gruppi di lettura svolgono
oggi un ruolo cruciale in questo ecosistema rendendo viva la circolazione
culturale. Connettere i lettori, creare comunità in cui il libro diventa
esperienza condivisa, è oggi più urgente che mai. Nel mio libro ho cercato di
mostrare il potenziale trasformativo della lettura in questo senso: il ruolo che
può avere nel contrasto alla solitudine, nella rigenerazione urbana e nel
ripensare la costruzione della salute.
COME DEVE ESSERE OGGI UN LUOGO PER LA LETTURA?
Tutti i luoghi possono diventare luoghi di lettura. Questa è una delle lezioni
principali che ho imparato nel mio viaggio tra le nuove comunità della
conoscenza: parchi pubblici, portinerie dei condomini, e così via. I veri luoghi
della lettura sono quelli in cui il tempo della lettura viene rispettato, dove
leggere significa poterlo fare senza fretta e senza distrazioni, trasformando
l’atto in un’esperienza piena e condivisa.
Questa consapevolezza sembra quasi ovvia, eppure apre una prospettiva nuova: la
lettura, quando diventa protagonista di un luogo, può riabilitarlo e
restituirgli un significato completamente nuovo. Nel libro parlo, per esempio,
della lettura nei luoghi di cura: cosa accade quando, in un reparto ospedaliero,
la domenica pomeriggio che non passa mai per i pazienti ricoverati si riempie di
storie e di incontri attorno ai libri?
Ci sono però spazi che più di altri dovrebbero porsi l’obiettivo di rendere
evidente il potenziale trasformativo della lettura, e di volerla dinamizzare:
penso alle librerie, alle biblioteche, e in particolare alle biblioteche
scolastiche. Per quanto riguarda le biblioteche, inutile dirlo, una riflessione
sugli orari di apertura diventa persino più urgente della progettazione dello
spazio, su cui invece, mi pare, siamo più attrezzati.
E INFINE COSA È PER LEI IL PIACERE DI LEGGERE UN LIBRO? E IL PRIMO LIBRO CHE
RICORDA E L’ULTIMO CHE LE HA DATO PIÙ PIACERE E PERCHÉ?
Leggere per me significa riconnettermi autenticamente con me stessa, riscoprire
parti di me che la vita quotidiana a volte non mi permette di frequentare. Avere
una profonda consapevolezza del potere della lettura e di ciò che attiva dentro
di noi mi ha permesso di rendermene conto pienamente… ed è esattamente ciò che
vedo accadere spesso con i miei studenti e le mie studentesse.
Leggere mi aiuta ad allenare la mia capacità di comprendere il mondo, le
persone, le emozioni. Mi permette di sperimentare sensazioni e stati d’animo,
anche quelli sgradevoli o inquietanti, che pur non volendo sentire mi
arricchiscono profondamente. Mi piace la sensazione di essere messa in
difficoltà da una lettura: a volte è come una caduta libera, ma sapendo di avere
un paracadute.
Il primo libro che ricordo nitidamente da bambina è Il giro del mondo in 80
giorni di Jules Verne: un’avventura piena di descrizioni e meraviglia, che mi
lasciò con una sensazione di stupore e di entusiasmo difficile da dimenticare.
Pur essendo un amante della saggistica, tra gli ultimi libri letti, voglio
citare due romanzi molto diversi che mi hanno nutrita di emozioni completamente
contrastanti: Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, romanzo
d’esordio di Michele Ruol pubblicato da TerraRossa, è un libro che mi ha
profondamente emozionato, provocando quell’effetto scomodo al quale facevo
riferimento che a volte la lettura riesce a dare. L’anno in cui parlammo con il
mare di Andrés Montero, pubblicato da Edicola Ediciones, è stato come una
medicina: celebra il valore delle storie, esattamente quello che hanno per me.
L'articolo La lettura e la crisi del piacere proviene da Il Tascabile.
P artiamo da qui: “Vivono, indifesi sotto la notte”, in cui si intrecciano i
titoli di due realtà diverse che, per uno di quei rari casi della vita, si sono
incontrate in una coincidenza di tempi e spazi. Io e Michele Bertolino, dopo
esserci sfiorati grazie a Marea, la residenza artistica curata da Imma Tralli e
Roberto Pontecorvo a Praiano, in Costiera amalfitana, ci siamo ritrovati di
nuovo, molto tempo dopo e del tutto per caso, alla Fondazione Marisa, che
custodisce l’immenso patrimonio letterario e non solo dello scrittore Luca
Scarlini.
“Senza dire niente, io metto insieme le persone che hanno qualcosa da dirsi”,
disse Luca quel giorno. Né io né Michele avremmo mai potuto immaginare quanto
quelle parole fossero vere. Entrambi, infatti, stavamo lavorando, ciascuno per
conto proprio e con linguaggi diversi, a un tema rimosso della nostra società,
che ancora oggi brucia e resta irrisolto: l’AIDS, l’epidemia che tra gli anni
Ottanta e Novanta ha portato via, nella solitudine, migliaia e migliaia di vite.
Vivono. Arte e affetti, HIV-AIDS in Italia. 1982-1996 è il titolo della mostra,
a cura di Michele Bertolino, che è stata inaugurata al Centro per l’arte
contemporanea Luigi Pecci di Prato sabato 4 ottobre 2025, la prima mostra
istituzionale che ricompone la storia dimenticata delle artiste e degli artisti
italiani colpiti dalla crisi dell’HIV-AIDS. Indifesi sotto la notte è invece il
titolo del mio nuovo saggio (in uscita per minimum fax nel 2026) che prova a
tracciare la narrazione dell’AIDS nelle opere letterarie pubblicate nello stesso
periodo.
> Fin dall’inizio della crisi dell’AIDS il teatro, la danza e il cinema furono
> additati dalla stampa come luoghi sospetti, quasi focolai di colpa e di
> contagio, e questa stigmatizzazione incise profondamente sulle produzioni
> artistiche di quel tempo.
Ma partiamo da Luca Scarlini, che in questa storia ha il ruolo di testimonianza
ed eredità, di voce narrante e deus ex machina. Come lui racconta, l’AIDS in
Italia è rimasto soprattutto una presenza fantasmica, un’ombra costante ma
raramente nominata: tutti lo vedevano, ma pochi osavano davvero affrontarlo.
Questa rimozione non riguarda solo la letteratura o le arti visive, ma assume un
peso specifico enorme nel mondo dello spettacolo, che negli anni Ottanta e
Novanta subì perdite irreparabili e insieme un’accusa pubblica costante. Fin
dall’inizio della crisi, infatti, il teatro, la danza e il cinema furono
additati dalla stampa come luoghi sospetti, quasi focolai di colpa e di
contagio, e questa stigmatizzazione incise profondamente sulle produzioni
artistiche di quel tempo.
I tentativi di portare in scena il tema dell’AIDS furono pochissimi e si
scontrarono con ostacoli enormi; non era una censura esplicita, fatta di divieti
chiari e immediati, era piuttosto un sistema più sottile e insidioso, costruito
attraverso tagli ai finanziamenti, rifiuti amministrativi, ostacoli burocratici
che, col passare degli anni, divennero via via più rigidi e soffocanti. A questo
si aggiungeva un clima diffuso di autocensura: molti artisti, percependo il tabù
sociale, scelsero di non affrontare il tema per paura di isolamento o
ritorsioni. La società, in fondo, non voleva specchiarsi in una realtà tanto
dolorosa e disturbante e la memoria di quella stagione culturale resta oggi
frammentaria, poco indagata.
Eppure, se si recuperano le tracce di quegli spettacoli dimenticati, emerge
chiaramente un quadro eloquente: i momenti più significativi non nacquero nei
grandi teatri istituzionali, che preferirono voltarsi dall’altra parte, ma nelle
periferie artistiche, nei luoghi minori, negli spazi indipendenti. Lì, il teatro
seppe assumere forme di agit-prop, teatro di intervento politico e sociale, come
avvenne per esempio a Firenze durante la VII Conferenza internazionale sull’AIDS
del giugno 1991, quando il palcoscenico divenne strumento di denuncia
collettiva.
> I tentativi di portare in scena il tema dell’AIDS furono pochissimi e si
> scontrarono con ostacoli enormi; non era una censura esplicita, fatta di
> divieti chiari e immediati, era piuttosto un sistema più sottile e insidioso a
> cui si aggiungeva un clima diffuso di autocensura.
I frammenti che ci restano da quella stagione ci consentono di leggere oggi, a
distanza, un’epoca segnata dal buio e dalla paura, ma anche dalla forza di chi
seppe trasformare la scena in testimonianza. Il teatro registrò, con
un’intensità che i media non riuscirono o non vollero restituire, le
contraddizioni e i dolori di quegli anni. In quel passaggio cambiò radicalmente
lo spirito di un’intera generazione: il teatro, che nel decennio precedente era
stato specchio della realtà, venne costretto a ridefinire il proprio ruolo,
aprendosi a un compito nuovo, più urgente e più scomodo.
Vivono. Arte e affetti, HIV-AIDS in Italia, 1982-1996 è una mostra che mette
insieme archivi, opere d’arte, testi, immagini in movimento e tante voci
diverse, creando un percorso capace di riportare alla luce esperienze che
sembravano sepolte. È un progetto che invita non solo a riflettere sul ruolo
dell’arte e della cultura tra anni Ottanta e Novanta, ma anche a confrontarsi
con i nodi ancora vivi: l’educazione sentimentale e sessuale, lo stigma che
colpisce chi è percepito come “altro”, chi vive corpi o desideri fuori dalle
norme.
Il direttore del Centro Pecci di Prato Stefano Collicelli Cagol sostiene che la
domanda da cui nasce l’esposizione è duplice: quale urgenza c’è oggi, nel 2025,
di raccontare la risposta delle artiste e degli artisti italiani alla crisi
dell’HIV-AIDS tra il 1982 e il 1996? E, parallelamente, che cosa sappiamo
davvero di quegli anni, anni in cui mancavano ancora terapie efficaci e la
diagnosi equivaleva spesso a una condanna? L’essenza della mostra, curata da
Michele Bertolino, sta proprio in questo scarto: da una parte l’urgenza è
enorme, dall’altra la consapevolezza collettiva resta sorprendentemente fragile.
In Italia, negli ultimi tre decenni, il tema dell’HIV e dell’AIDS è quasi
scomparso dal discorso pubblico. Se ne parla poco, pochissimo, nonostante chi
vive con il virus continui a sperimentare forme di discriminazione sotterranee e
quotidiane. La maggioranza ignora che i contagi, dopo anni di calo, sono tornati
a crescere anche nei Paesi del Nord globale, mentre nel Sud del mondo non si
sono mai fermati, aggravati dalla scarsità di cure accessibili. È vero: oggi il
livello di consapevolezza è maggiore rispetto agli anni Ottanta e la mortalità
non è più paragonabile, eppure l’AIDS non è scomparso e ancora si muore,
soprattutto quando la diagnosi arriva troppo tardi o le cure non sono garantite.
Affrontare questo tema significa assumersi una responsabilità duplice: non solo
narrativa, ma anche istituzionale. Serve un contesto che sappia accogliere e
restituire storie altrimenti dimenticate: con Vivono una comunità che per troppo
tempo era stata cancellata riemerge e trova un posto, attraversando classi
sociali, luoghi, memorie personali e collettive.
> In Italia, negli ultimi tre decenni, il tema dell’HIV e dell’AIDS è quasi
> scomparso dal discorso pubblico. Se ne parla poco, pochissimo, nonostante chi
> vive con il virus continui a sperimentare forme di discriminazione sotterranee
> e quotidiane.
La memoria, sostiene Bertolino, è sempre un atto di resistenza, non segue mai
linee rette, non è trasparente né definitiva: assume forme diverse, modellate
dalle urgenze del presente, individuali e collettive. È un processo creativo,
capace di immaginare futuri possibili, un’utopia concreta: sogno condiviso,
responsabilità comune, possibilità di dare sostanza a ciò che un tempo sembrava
impensabile. La memoria non rispetta il tempo cronologico ma lo comprime, lo
piega, lo fa vibrare di affetti e di passioni. Custodisce le esperienze di chi
non c’è più, trasformandole in eredità viva.
Tra il 1982 e il 1996 l’Italia attraversa trasformazioni profonde: il corpo, che
negli anni Settanta era stato terreno di conflitto politico e sociale, diventa
ora il segno di un apparente disimpegno, nel tramonto delle ideologie e nella
crisi di una politica svuotata e corrotta. In questo scenario irrompe la crisi
dell’HIV-AIDS, che ridisegna i rapporti: è una politica scritta nei corpi, negli
sguardi che si incontrano, nei legami amorosi vissuti come pratiche di
riconoscimento reciproco, come appoggio necessario per riuscire a guardare oltre
l’orizzonte immediato. In quegli stessi anni, alcuni poeti e scrittori vivono
direttamente l’esperienza del virus; non sempre lo dichiarano apertamente, ma la
loro scrittura porta il segno di quella condizione: una lingua lucida,
implacabile, che scava nei silenzi della società e li infrange.
In questa prospettiva, il corpo del poeta diventa strumento e bandiera: la
poesia stessa si fa carne, denuncia, resistenza. È una lingua che devia e rompe,
che si fa queer, storta, deviata, nelle sue fratture, nelle sue irregolarità
sintattiche, nelle sue associazioni impreviste, un linguaggio che usa l’ironia
come arma per affrontare il dolore, che rifiuta la normalizzazione.
Quando Leonardo Sciascia, nel suo Fine del carabiniere a cavallo, si domandava
“Quale rappresentazione daranno dell’Aids gli scrittori e gli artisti del nostro
tempo?”, poneva una questione più che attuale. Io però ho scelto di partire da
un’altra prospettiva: quale immagine dell’AIDS emerge dalle parole di chi l’ha
vissuto in prima persona? A questa domanda cerca di rispondere il mio lavoro
Indifesi sotto la notte, attraverso le opere di Giovanni Forti e Brett Shapiro,
Dario Bellezza, Pier Vittorio Tondelli, Nino Gennaro, Patrizia Vicinelli e
Simona Ferraresi.
> In quegli stessi anni, alcuni poeti e scrittori vivono direttamente
> l’esperienza del virus; non sempre lo dichiarano apertamente, ma la loro
> scrittura porta il segno di quella condizione: una lingua lucida, implacabile,
> che scava nei silenzi della società e li infrange.
L’AIDS era una malattia sconosciuta, che si è imposta subito non solo come
realtà clinica ma come costruzione simbolica, caricata di paure e pregiudizi.
L’AIDS è stato identificato come un’entità riconoscibile, con un volto preciso,
perché legato a cause individuabili: rapporti sessuali, pratiche di consumo di
droghe, trasfusioni. Proprio questa origine “chiara” ha reso possibile
associarlo a narrazioni morali, costruendo attorno al virus un discorso di
colpa. Susan Sontag ha spiegato bene come la narrazione mediatica, sociale e
politica dell’AIDS erediti due grandi linee di significato: da un lato la
vicinanza al cancro, vissuto come invasione interna e progressiva distruzione
del corpo, dall’altro l’eco della sifilide, per il suo legame con il contagio e
con la sessualità. In entrambi i casi, il malato viene posto al centro di
immagini di impurità e peccato, diventando bersaglio di una società che non
cerca tanto di comprendere, quanto di identificare un responsabile.
Diversamente dal cancro, l’AIDS non era percepito come una disgrazia che può
colpire chiunque ma come la conseguenza di scelte o identità facilmente
riconoscibili: l’omosessualità, la tossicodipendenza, la marginalità sociale. Il
suo esito era inevitabilmente l’emarginazione e, ancor più devastante, una
solitudine profonda e invalidante. Per questo la diagnosi era vissuta come una
doppia condanna: alla malattia si aggiungeva lo stigma, la vergogna, l’accusa di
essersela cercata. In Italia come negli Stati Uniti, l’AIDS ha reso visibile ciò
che spesso era nascosto: l’orientamento sessuale, l’uso di droghe e la povertà.
Eppure, dentro quella tragedia, molte comunità hanno trovato nuove forme di
resistenza e solidarietà. L’emergenza, pur segnando i corpi con la morte e la
paura, ha anche generato la forza di unirsi, di opporsi all’esclusione e di
creare appartenenze nuove.
> Il malato di AIDS non era soltanto un paziente: diventava un segnale di
> allarme sociale, la prova di una corruzione morale e biologica.
L’AIDS si è accanito su bersagli già fragili, riattivando paure arcaiche legate
alla contaminazione, alla divisione tra un “noi” sano e un “loro” malato. Il
malato di AIDS non era soltanto un paziente: diventava un segnale di allarme
sociale, la prova di una corruzione morale e biologica. Questa percezione ha
alimentato l’idea dell’AIDS come condanna inevitabile perché, a differenza di
alcuni tumori che ammettono possibilità di remissione, l’infezione da HIV è
stata a lungo una sentenza definitiva. Nel 1988 su Avvenire, Carlo Striano
scrive quella che reputo forse l’osservazione più precisa e ancora valida alla
base della discriminazione nei confronti delle persone con AIDS:
> C’è una frase pronunciata […] che mi ha colpito: gli ammalati di Aids non sono
> pazzi che si possono recuperare, questi sono morti. Nel senso che il loro
> posto è al cimitero, non tra i vivi […]. Nell’ammalato di Aids forse avete
> visto lo specchio della morte e non lo sopportate, perché lo temete. […] voi
> non avete paura dell’Aids, avete paura della morte, e la morte non si vince
> con una cura medica, si vince […] immergendosi nella morte.
Per una società improntata sul bello e sull’apparenza, una società che, allora
come adesso, non vuole sentire nominare la morte, che fa di tutto per negarla,
affrontare l’AIDS significa non solo misurarsi con una malattia, ma con ciò che
la nostra società più rimuove: la consapevolezza della fine, la fragilità che ci
accomuna, la necessità di guardare in faccia la mortalità senza ridurla a stigma
o punizione. L’ombra dell’AIDS ci ricorda che non esistono corpi “puri” e corpi
“impuri”, che la distinzione tra “noi” e “loro” è una costruzione fragile e
crudele. Solo accettando la morte come parte della vita diventa possibile
costruire un orizzonte diverso, in cui la diagnosi non è più un marchio ma
un’occasione per ridefinire comunità, affetti e possibilità di cura.
L'articolo Vivono, indifesi sotto la notte proviene da Il Tascabile.
N el 1993 esce Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine,
reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, il saggio di
Francesco Orlando che hanno definito un’opera-mondo. Supportato da un elenco di
esempi letterari, Orlando crea una categorizzazione del valore che hanno gli
oggetti quando diventano letteratura. Realizza un albero con dodici categorie di
ruoli e significati che gli oggetti fisici, nel loro rapporto con il tempo,
hanno all’interno di un testo scritto. Una delle prerogative degli oggetti
studiati da Orlando è che essi abbiano una “corporeità”; l’altra che siano
legati in qualche modo al passato. Tra le dodici categorie esiste quella che il
critico chiama del “memore-affettivo”, che si ha quando l’oggetto contiene un
ricordo “sentito soggettivamente e presentato con compiacenza”.
A livello storico Orlando rileva che il “memore-affettivo” subentra, come
modello, al “monitorio-solenne” e nasce insieme al senso moderno della memoria,
che si sviluppa dall’individualismo preromantico e dall’indebolimento delle
concezioni religiose del passato e dei morti. Gli oggetti in letteratura hanno
l’attributo di “memore-affettivo” quando mantengono una sopravvivenza oltre lo
spazio della memoria stessa e quando la loro elencazione crea – con la
definizione di Orlando – un “pellegrinaggio sentimentale”. Si contrappone al
ricordo a occhi chiusi, che invece cerca di far rivivere il passato senza
guardare qualcosa di specifico, e questo pellegrinaggio poche righe più avanti
viene definito “tesorizzazione di reliquie”: cioè una modalità letteraria di
ricordare il passato tramite l’accumulazione di oggetti e immagini.
> Gli oggetti in letteratura hanno l’attributo di “memore-affettivo” quando
> mantengono una sopravvivenza oltre lo spazio della memoria stessa e quando la
> loro elencazione crea – con la definizione di Orlando – un “pellegrinaggio
> sentimentale”.
Nel libro Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia di Michele
Ruol, uscito per TerraRossa nel 2024 e nella cinquina di finalisti allo Strega
2025, ritrovo gli stessi elementi che mi hanno colpito della teoria di Orlando:
il senso del tempo e la percezione dell’affetto a partire da un “assortimento di
merci”. La parola “inventario” nel titolo lega subito il romanzo di Ruol al
saggio del 1993 che Orlando, in epigrafe, dedicava proprio “Alla memoria dei
miei genitori e della loro casa”. Inventario di quel che resta è infatti un
libro sulla memoria di due genitori – che nel libro si chiamano Padre e Madre –
dei figli Maggiore e Minore morti in un incidente.
La casa che fu della loro famiglia unita viene scandagliata nei suoi più piccoli
oggetti e ognuno di essi, dando il titolo ai capitoli, contiene archiviato un
frammento di vita del passato o del presente dei protagonisti. Alla fine il
libro è un vero e proprio elenco, e il romanzo ci fa percepire quella che
Umberto Eco chiama Vertigine della lista in un saggio del 2009. Se la teoria di
Orlando torna in Inventario di quel che resta per la funzione degli oggetti e
del loro legame con il tempo in letteratura, Eco è utile per approfondire la
forma-elenco che Ruol utilizza nel suo romanzo. Proprio Ruol, infatti, dirà in
un podcast di TerraRossa: “Mi appoggio alle immagini, per questo stile e
struttura vanno nella stessa direzione”. La forma-elenco, quindi, non è soltanto
la struttura di Inventario ma anche il tratto più caratteristico dello stile di
Ruol, che fa coincidere l’organizzazione del libro con l’originalità della sua
voce.
Umberto Eco ‒ che come Orlando realizza un elenco di esempi letterari nel saggio
in cui parla di liste e oggetti ‒ parte dallo scudo di Achille, perché la
descrizione che ne fa Omero gli sembra “l’epifania della Forma, del modo in cui
l’arte riesce a costruire rappresentazioni armoniche in cui viene istituito un
ordine”. Dare una forma armonica, gerarchica e strutturata all’espressione,
permette – secondo Eco – di concentrare l’attenzione solo su quello che viene
rappresentato: la forma “limita l’universo del ‘detto’”. Sul piano opposto si
trovano le liste: a differenza delle forme limitate che danno confini alla
materia, Eco spiega che l’elenco o la lista espandono la possibilità di
oggettivare qualcosa di potenzialmente infinito. La forma dà uno spazio finito
alla materia, l’elenco invece approssima continuamente la finitezza dell’oggetto
di cui si parla e restituisce un’idea di infinito inesauribile.
> A differenza delle forme limitate che danno confini alla materia, Eco spiega
> che l’elenco o la lista espandono la possibilità di oggettivare qualcosa di
> potenzialmente infinito.
In questo senso il romanzo-inventario di Ruol permette al lettore di percepire
oggettivamente il passato vivo e umano di Padre, Madre, Maggiore e Minore e il
dolore che riconfigura il presente dei due genitori; allo stesso tempo di
sentire che c’è dell’altro di indicibile, impercettibile e sfuggevole alla
narrazione, cioè la forza dei loro sentimenti e la presenza infinita e
incontenibile dell’umano. Non a caso Ruol ha dichiarato di voler esplorare,
attraverso questo libro, le dinamiche umane che investono soprattutto i due
adulti, prima e dopo il dolore capace di rivoluzionare le loro vite. Insistendo
su Omero, Eco si serve dell’esempio del II canto dell’Iliade dove l’elenco dei
generali greci serve a dare l’idea della grandezza immensa dell’esercito:
“apparentemente l’elenco è finito, ma siccome non si può dire quanti uomini ci
siano per ogni duce, il numero a cui si allude è comunque indefinito”. Poi Eco
spiega in quali casi la completezza della Forma è così poco adattabile alla
composizione da dover ricorrere all’elenco:
> Esiste un altro modo di rappresentazione artistica, quando di ciò che si vuole
> rappresentare non si conoscono i confini, quando non si sa quante siano le
> cose di cui si parla e se ne presuppone un numero, se non infinito,
> astronomicamente grande; o quando ancora di qualcosa non si riesce a dare una
> definizione per essenza e quindi, per parlarne, per renderlo comprensibile, in
> qualche modo percepibile, se ne elencano le proprietà.
Il caso di Ruol mi pare che sia l’ultimo presentato da Eco: il ricorso alla
lista quando l’argomento di cui si vuole parlare è impalpabile, sfuggente, a
volte incomprensibile come – appunto – la perdita in un incidente di entrambi i
figli adolescenti per due genitori. Se tentare un elenco di qualcosa, anche
parziale, è un modo per rendere oggettivo un infinito, allora ricercare i tratti
del dolore di Padre e Madre in un elenco numerato di cose dei loro luoghi
familiari è un modo per oggettivare l’infinità indicibile del dolore che hanno
vissuto. La prima pagina dell’indice di Inventario di quel che resta appare
proprio così e resta uguale per tutte le altre, dalla cucina all’automobile:
Parte prima
Casa
ingresso
1. cornice in argento, 15×22 cm
2. telefono fisso, marca Sirio, color avorio
3. mensola stile rococò
4. fermaporta in vetro di Murano
5. bomboniera di matrimonio in cristallo
cucina
6. televisore a tubo catodico 14 pollici
7. cesto di vimini
8. tagliacarte
9. raccolta di calamite su frigo
10. pentolino da latte
11. lavastoviglie da incasso
12. cavatappi a leva
13, noci, n. 7
salotto
14. motoscafo in legno Riva Aquarama, modellino 1:10
15. tappeto Yalameh rosso e blu
16. tavolo 8 posti in castagno, primi del ‘900
17. penna stilografica Pelikan MK10
18. Lindor rossi, incarti
Se aprissimo soltanto questa pagina del libro sarebbe veramente difficile
credere che quelle precedenti contengano un romanzo. E invece ogni oggetto
puntualmente registrato come in un vero e proprio inventario – anche con le
specifiche tecniche – contiene dentro di sé una storia di vita della famiglia
protagonista e spostandoci negli angoli della casa, poi dell’automobile,
ricostruiamo tutte le loro esistenze. La stessa incredulità davanti a un libro
fatto di liste si prova davanti all’ultima uscita della casa editrice Quodlibet,
intitolata Guida all’installazione di un futuro me (2025) e scritta da Ugo
Coppari. I primi 14 capitoli del libro si intitolano La vita come quantità e il
protagonista, prima di consegnarci le sue liste di cose quotidiane, si presenta
in questo modo:
> Soprattutto è questa la mia ossessione: fare un elenco di quello che ho, di
> quello che ho fatto, di quello che ho mangiato, di quello che ho prodotto in
> una giornata, in linea con la tendenza generale alla quantificazione di sé
> stessi. […] Magari se uno mi vede camminare pensieroso lungo la strada
> potrebbe credere che sto riflettendo sui massimi sistemi, sul cambiamento
> climatico o cose simili, ma in realtà non faccio altro che elaborare liste che
> mi diano la misura della mia presenza nel mondo.
Gli elenchi di Coppari, proprio come dice Eco, servono al personaggio per darsi
(e poi darci) contezza della sua esistenza del mondo. Limitano e rendono
visibile qualcosa di potenzialmente impercettibile e sconfinato. Se un giorno,
nel futuro, un gemello digitale dovesse essere installato in una nuova persona,
il personaggio del libro di Coppari è sicuro che, per replicare sé stesso,
l’alias dovrà conoscere tutte le sue liste. L’elenco delle cose del
protagonista, alle prese con il tentativo di salvare la sua esistenza
dall’erosione del tempo, diventa un esempio di letteratura lirica, autentica,
proprio perché la forma-elenco di cui parla Eco si riempie di tutto ciò che di
infinito e impercettibile sfugge a un libro scritto per esteso.
> Si ricorre alla lista quando l’argomento di cui si vuole parlare è
> impalpabile, sfuggente, a volte incomprensibile come – appunto – la perdita in
> un incidente di entrambi i figli adolescenti per due genitori.
Tornando a Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, un esempio
dal capitolo 40, “letto singolo con doghe”, ci fa comprendere di cosa si
riempiono le liste di oggetti di Ruol. Nella serata finale dello Strega ha
motivato il suo ricorso alle cose dicendo che, concentrandosi sulla loro
oggettività, voleva non lasciarsi andare a eccessi, sensazionalismi e
spettacolarizzazioni del suo dolore. Una sorta di scudo dalle derive della
narrazione cui è avvezza la letteratura contemporanea, e che proteggendo Ruol ha
permesso agli oggetti di farsi animati, vitali, fantasmatici proprio come le
parole nelle storie. In questo inizio di capitolo conosciamo il nonno, la
nostalgia di Padre per la casa dov’è nato, Maggiore diventare grande e avere
bisogno di un letto più spazioso:
> Quando il nonno paterno era stato ricoverato in una casa di riposo, Padre
> aveva disdetto l’affitto e incaricato una ditta per lo sgombero
> dell’appartamento. Aveva gestito tutto al telefono, raccomandando alla
> residenza di avere un occhio di riguardo per quell’uomo silenzioso, e
> all’impresa di conservare e spedire il suo letto di ragazzo – unico arredo che
> avrebbe tenuto. Era ampio, in legno massiccio, e a parte le doghe che
> scricchiolavano un po’ era ancora in ottime condizioni: sarebbe stato perfetto
> per Maggiore.
Ritroviamo quella filosofia della “cosa-personaggio” di cui più volte ha parlato
Michele Mari a proposito del suo libro Locus desperatus (2024) e che Maria
Giardina ha anche analizzato su Il Tascabile mettendola in dialogo con una “new
wave ‘marie-kondiana’” che ha origine da Il magico potere del riordino. Mentre
nel libro di Mari, però, gli oggetti recuperati contengono il sé di chi li
possiede e permettono al narratore di non allontanarsi dalla propria storia,
come le liste di Coppari, gli oggetti di Ruol invece raccontano la storia di
qualcun altro a chi non la conosce. Per Mari gli oggetti sono una memoria
autoconservativa, che garantisce in un certo senso l’autodeterminazione di chi
li accumula e conserva; Inventario di quel che resta invece racconta ad altri –
i lettori – la storia di qualcuno che, forse, neanche ricorda tutto quello che
il narratore onnisciente ha archiviato nella lista di oggetti.
Ogni cosa è illuminata potremmo dire prendendo in prestito un titolo di Jonathan
Safran Foer che con Inventario di quel che resta ha in comune la ricostruzione
di una storia familiare e il valore di amuleto-raccontastorie delle cose. Lo
studente americano omonimo a Foer intraprende un viaggio in Ucraina alla ricerca
della donna che ha salvato suo nonno, ebreo, dai nazisti durante la Seconda
guerra mondiale. Per ricostruire la storia della sua famiglia si fa aiutare da
Alexander, un ucraino del posto, e suo nonno. Nel libro, in una lettera di Alex
a Jonathan, leggiamo queste righe:
> Caro Jonathan,
> […] Ho imprigionato nella busta gli oggetti che richiedevi, non escludendo le
> cartoline di Lutsk, i registri del censimento dei sei villaggi prima della
> Guerra e le fotografie che tu mi scongiuravi di tenere per cauti propositi.
Qualche pagina più avanti, sempre in una lettera di Alex: “ho imprigionato una
foto della bicicletta in questa busta”. Le buste di cui parla Alex sono ancora
più d’impatto se pensiamo all’omonimo film tratto dal libro di Foer, diretto da
Liev Schreiber nel 2005. Jonathan ha un’intera parete di bustine trasparenti che
racchiudono (in)finiti oggetti contenenti un pezzo della storia di suo nonno e
della sua famiglia. Perché lo fai? – gli chiederà Alex – “ho paura di
dimenticare”, risponde Jonathan. Le cose vanno illuminate, nella loro fisicità,
catalogate, archiviate, inventariate – per tornare a Ruol – perché di esse non
vada persa la storia che contengono, “imprigionata” come ripete Alex nel libro
di Foer.
Una catalogazione, però, può essere di tanti tipi e – riprendendo il titolo di
un capitolo di Eco – “C’è lista e lista”. Dal suo punto di vista semiotico Eco
differenzia la lista pratica (della spesa, di numeri di telefono, di invitati a
una festa) dalla lista “poetica”, cioè che esprime una finalità artistica. Se le
liste pratiche assomigliano quasi a una forma, perché devono corrispondere
rigidamente al contesto che si propongono di servire; le liste poetiche si fanno
“perché non si riesce a enumerare qualcosa che sfugge alle nostre capacità di
controllo e denominazione”. Quella di Ruol, seguendo il ragionamento di Eco,
sarebbe allora un ibrido. È sia una lista pratica, perché è un inventario
strettamente legato alla vera esistenza degli oggetti che popolano la casa dei
protagonisti, sia una lista poetica perché risponde alla mancanza di riferimenti
fattuali con cui poter immaginare la rivoluzione esistenziale del lutto. Da
questo punto di vista l’operazione di Ruol con Inventario rispecchia quella di
Barthes con Frammenti di un discorso amoroso: in quel caso Barthes si chiede
cosa sia l’amore e, per spiegarlo, sceglie di ricostruirne la forma e le
caratteristiche dando le definizioni delle parole che ci si direbbe tra
innamorati. Da una parte una lista finita di situazioni (per Barthes) o di
oggetti (per Ruol), dall’altra l’esplorazione poetica – nel senso di artistica e
psicologica – di quello che è contenuto oltre lo strato fittizio delle parole
(Barthes) e degli oggetti (Ruol). Ecco, infatti, il capitolo 26 “borraccia Gio’
Style Safari 1000”:
> Dimenticata tra le mensole della libreria c’è una borraccia di plastica color
> senape, con la tracolla grigia e il coperchio bianco, che una volta svitato
> diventa un bicchiere. Fino a quando erano andati in vacanza tutti insieme, la
> borraccia li aveva seguiti. I viaggi erano prevedibili nella tempistica e
> nella direzione: primi giorni di gennaio, montagna, e settimane centrali di
> agosto, Puglia, nonno paterno. Viaggiavano sempre di notte, tranne un’estate
> in cui Padre si era fatto convincere dalle proteste congiunte di Madre e figli
> contro la levataccia.
Oltre la borraccia Gio’ Style Safari c’è la storia di un viaggio prima di
quell’incendio nella foresta cui allude il titolo. Oltre la “sedia ergonomica
con rotelle” del capitolo 45 c’è una riflessione sul modo in cui Padre prova a
sviare il dolore attraverso il lavoro. Al di là dell’innaffiatoio – capitolo 52
– il corbezzolo di Madre, fondamentale per il senso filosofico del libro, che
infatti tornerà nel capitolo 99. L’ultimo, corbezzoli.
> Quella di Ruol è sia una lista pratica, perché è un inventario strettamente
> legato alla vera esistenza degli oggetti che popolano la casa dei
> protagonisti, sia una lista poetica perché risponde alla mancanza di
> riferimenti fattuali con cui poter immaginare la rivoluzione esistenziale del
> lutto.
Dalla scelta di Ruol di fermarsi a novantanove oggetti ‒ tanti quanti i voti per
lui alla finale dello Strega ‒ ritorna il concetto di Eco secondo cui la lista è
qualcosa di finito che, però, contiene dentro di sé una tensione perenne
all’infinito e all’impossibilità di contenerlo. La famiglia di Inventario sembra
avere una vita che non finisce più e una storia che continuamente aggiunge
qualcosa al suo svolgimento. È una percezione che, lo dice anche Eco, scaturisce
dall’accumulazione propria delle liste. Accumulare e fermarsi a novantanove
però, senza arrivare alla cifra tonda di cento, dà l’idea di un elenco
incompiuto, imperfetto, che proprio per questo prende vita e si permette di
diventare una storia. L’accumulazione restituisce, quindi, la densità del
concetto, e la scelta della lista è un compromesso con cui dire tutto senza la
pretesa che sia tutto davvero. Perché tutto non si può dire, e allora Ruol si
ferma a 99.
Questo senso di incompleto, di mancata totalità del racconto, è ciò che Eco
riassume con l’indicibilità. In un certo senso sapere di non riuscire a dir
tutto della storia è un modo per rilanciare l’immaginazione del lettore e
lasciare a lui la possibilità di contribuire al racconto – magari attingendo
agli oggetti della propria vita, guardando alla propria esperienza del dolore.
> Di fronte a qualcosa di immensamente grande, o sconosciuto, di cui non si sa
> ancora abbastanza o di cui non si saprà mai, l’autore ci dice di non essere
> capace di dire, e pertanto propone un elenco molto spesso come specimen,
> esempio, accenno, lasciando al lettore immaginare il resto.
Nel caso di una narrazione romanzesca come quella di Inventario di quel che
resta dopo che la foresta brucia di Ruol, accennare e dare un elenco come
esempio è anche, però, un modo per ammettere che quella storia ha una natura
immaginifica – e quindi relativa. L’elenco di oggetti, completo nella sua
incompletezza, è un mezzo con cui svelare le altre infinite possibilità di
storie a partire dalla moltitudine di oggetti alternativi che potevano essere
inclusi nell’elenco. Eco lega il ricorso alle liste al “timore di non poter dire
tutto”: nel caso dei romanzi non solo l’autore teme di non poter dire tutto, ma
forse neanche conosce quel “tutto” della storia immaginata, sapendo che quel
“tutto” non corrisponde mai necessariamente al “reale”. Proprio per questo la
lista è, dalla penna di Ruol, quella che troviamo in Inventario ma potrebbe
essere qualsiasi altra. Questa riflessione quasi ricorda gli esperimenti di
letteratura combinatoria cari, ad esempio, a Queneau o al Calvino di Le città
invisibili o Il castello dei destini incrociati. Una lista è una specie di
combinazione, un tavolo di tarocchi che – se disposti in maniera diversa –
offrono la possibilità di una varietà innumerevole di storie diverse fra loro.
La forma-elenco nel libro di Ruol evidenzia la fantasia combinatoria della
letteratura, capace di scandagliare l’essere umano con la stessa dose di
precisione e imprevedibilità del ragioniere che, nonostante la pazienza con cui
annota gli oggetti nelle stanze, sicuramente ne trascurerà casualmente qualcuno.
> Una lista è una specie di combinazione, un tavolo di tarocchi che – se
> disposti in maniera diversa – offrono la possibilità di una varietà
> innumerevole di storie diverse fra loro.
Se la “copertina di lana rosa” del capitolo 33 fosse verde, che storia
racconterebbe? Se il “dispenser di sapone liquido” fosse una saponetta, e se il
“pallone da football” in cucina fosse invece da pallavolo? La struttura a elenco
di Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia permette di avvertire
l’aleatorietà combinatoria della letteratura che è presente in ogni romanzo
d’invenzione, meglio nascosta quando la forma è più scorrevole e meno
inventariale. L’elenco scoperchia il vaso della “letteratura come menzogna”
direbbe Manganelli e in questo gioco che è l’invenzione ogni registrazione
puntuale si fa beffa di sé stessa e rende consapevole il lettore dell’infinita
quantità di storie alternative – ma altrettanto vere – che potrebbe essere
narrate attraverso altri oggetti concreti. Oltre all’infinita densità della
materia della narrazione, in questo caso l’elaborazione di un lutto, la lista di
Michele Ruol cerca di sfuggire alla delimitazione di un altro infinito: quello
delle storie e della fantasia. “Segno che – dice Eco – alla vertigine
dell’elenco si soggiace per molte e svariate ragioni”.
L'articolo Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia: cosa può
raccontare una lista? proviene da Il Tascabile.
“N on siate imbarazzate e non abbiate paura” dice Frankie “comparso
minacciosamente davanti” a Diane e Susan, diciassettenni appena scappate dal
college per inseguire il sogno scapestrato dei “pirati del Village” a New York.
“Faccia da furetto, capelli lisci neri e pantaloni a sigaretta, studiandoci con
occhi astuti, lucidi per l’eroina. ‘Non siate imbarazzate e non abbiate paura’,
aveva detto lentamente, come se quelle parole avessero qualche profondo
significato cosmico, come se fossero una specie di oracolo”. E loro dunque
seguono Frankie il pappone senza discutere, entrando allo Swing Rendezvous “un
bar per gay gestito dalla mafia in MacDougal Street”. E proprio in quel locale
che diventa il loro rifugio, Diane incontra Ivan con cui in una notte di
febbraio del 1951 perde la verginità; avvenimento che, raccontato nelle prime
pagine del libro, con ovvia valenza simbolica inaugura l’inizio della sua vita
da beatnik (anche perché, essendosi data da fare fin dalla giovane età con
ragazzi e ragazze, sperimentando tutto tranne la penetrazione completa, la
frattura dell’imene diventa il rito che rappresenta il passaggio fenicio a un
nuovo stato di esistenza: una deflorazione poetica più che sessuale). “Dopo
c’era del sangue sul suo cazzo, e quando riuscii di nuovo a muovermi lo leccai
via, ingoiando la mia infanzia, entrando nel mondo dei vivi”.
Diane di Prima (1934-2020) è stata una fra le più importanti scrittrici e
poetesse beat; il suo memoir – non troppo fedele – di gioventù Memorie di una
beatnik, uscito negli States nel 1969, e già pubblicato in Italia da Guanda nel
1994, poi riedito da TEA nel 1996 con il sottotitolo Un diario erotico
spregiudicato e gioioso (che pare quasi un trigger warning per contenuti
sessualmente espliciti), rimane poi fuori edizione fino al maggio di quest’anno,
quando Quodlibet decide di portarlo nuovamente in libreria con la traduzione
originale di Ilide Carmignani e la postfazione Scrivere memorie, postillata
dall’autrice stessa tra il 1987 e il 1988, in occasione della riedizione
americana.
È un libro che pur nel suo erotismo e nella sua scabrezza rimane sempre
leggiadro, come lo è lo sguardo di chi aspira “una boccata di sigaretta con la
consumata durezza di una diciassettenne”, e si fa trapassare da ogni evento come
un velo attraverso cui gli altri fanno l’odio e l’amore, perché “bisognava
essere cool. Non dimentichiamo”. Ci sono gli incesti nella famiglia dell’amica
Tomi, che “credono di essere Fitzgerald, ma in realtà sono un mediocre Henry
James”; c’è la carriera di Diane come modella di foto erotiche; quella come
segretaria del losco pr Ray Clarke, invischiato con la malavita (“Imparai a
supporre che ci fosse sempre un microfono nascosto dovunque”) da cui, assieme
alla fedele amica Susan, si allontanano perché, saggiando l’inizio di una guerra
fra gang, “decidemmo che l’atmosfera non era più cool”; le settimane in cui
squattrinata dormiva tranquillamente al parco, le topaie con i buchi nei
pavimenti, il cesso esterno sempre lercio perché usato spesso dai senza tetto,
il gelo e le orge per scaldarsi, chi bussa alla porta con i polsi squarciati
(“Per essere il mio primo suicidio credo di averla presa molto bene”) e chi con
la febbre a quaranta e un principio di morte addosso (“Ho letto Baudelaire e ho
vomitato”); la gaia promiscuità con prima un padre e poi un figlio, con
giovinetti efebici e jazzisti catramosi, ballerini e criminali (“Da allora ho
scoperto che è di solito un bene essere la donna di molti uomini, o essere una
delle molte donne sulla scena di un uomo, o essere una delle molte donne in una
casa con molti uomini, con una situazione complessiva mutevole e ambigua. […]
Vivi con cinque, e hai le stesse pretese, ma sono allargate, ambigue,
indefinite. Ciò che non è soddisfatto da uno, verrà facilmente soddisfatto
dall’altro, nessuno si sentirà frustrato dai sensi di colpa e di inadeguatezza,
e nessuno verrà messo con le spalle al muro da richieste che non può
esaudire.”); e ancora Vaffanculo la pillola: una digressione (sui metodi
anticoncezionali); e quando lesse per la prima volta Howl di Ginsberg
abbandonando lo stufato in cottura e poi, nel 1958, pubblicò il suo primo libro
di poesie This kind of bird flies backward con l’introduzione di Ferlinghetti, e
finalmente l’incontro di persona con quei beat, folli come lei, in visita a New
York, con i comizi impastati di hashish sulla vita high e le gioie di una
scopata durante le mestruazioni (“Alla fine, tra le ovazioni generali, estrassi
il talismano insanguinato e lo gettai dall’altro capo della stanza”).
> Diane di Prima è soprattutto una poeta; ha sempre preferito il termine neutro
> rispetto alla declinazione femminile poetessa, sebbene con il senno d’oggi
> alcune tra noi vorrebbero forse invece enfatizzare “-essa”, poiché la sua
> scrittura è carica di energia femminile.
Ma Diane di Prima è soprattutto una poeta; ha sempre preferito il termine neutro
rispetto alla declinazione femminile poetessa, sebbene con il senno d’oggi
alcune tra noi vorrebbero forse invece enfatizzare “-essa”, poiché la sua
scrittura è carica di energia femminile, non solo per quanto riguarda
l’erotismo, ma in particolar modo per la sua propensione alla cura – matriarcale
più che materna. Infatti, l’unico altro suo libro tradotto in italiano (per
quanto abbia pubblicato oltre quaranta libri!) è la raccolta del 1968 Lettere
rivoluzionarie (2021, traduzione di Veruska Cantelli). Prendiamo, per esempio,
il finale della #9:
> & nessuno ‘ possiede ‘ la terra
> si può averla
> in uso, nessuno deve averne di più
> di quella che può lavorare, lavorarla lui stesso e la famiglia
> non lasciamo che nessuno lavori per qualcuno
> eccetto per amore, e quello che fai in più del
> necessario darlo alla tribù
> un Common-Wealth, un bene comune
> Nessuno di noi ha risposte, pensa
> a queste cose.
> Verrà il giorno che dovremo avere
> risposte.
“Non lasciamo che nessuno lavori per qualcuno eccetto per amore”, scrive nello
stesso anno in cui, come racconta nella postfazione del memoir, da New York si
sposta a San Francisco con un gruppo di quattordici beatnik e un bebè urlante in
una casona adattata a comune, nessuno di loro lavorava: alcuni cercavano di
disintossicarsi dalla scimmia, altri a sognare oppiosamente sui tappetini di
pecora, altri ancora andavano in giro per la città a improvvisare rapine, o si
intrattenevano dando fuoco agli altari di legno buddisti in giardino, tra i
polpacci bimbetti scorrazzanti nudi dalla cintola all’ingiù masticavano hot dog.
E Diane, “be’, a scrivere per pagare l’affitto e le vettovaglie”.
Poco prima che lasciasse New York, infatti, Maurice Girodias, (“un editore
visionario e spregiudicato, […] che si distinse per aver mandato in stampa
Lolita di Vladimir Nabokov, Naked Lunch di William S. Burroughs, e persino
diverse opere di Guido Crepax, come la celebre Histoire d’O, adattamento grafico
di un classico della letteratura erotica. Non erano romanzi per tutti: erano
opere che sfidavano la morale, la sintassi, la narrazione lineare. Pornografia?
Forse. Dipende da chi guarda. Ma anche alta letteratura mascherata da editoria
da contrabbando” racconta Claudio Castellacci su Doppiozero) per il quale di
Prima aveva già scritto “delle scene di sesso per un paio di romanzi insipidi e
innocui che aveva acquistato come canovacci, e a cui bisognava aggiungere un
interesse lascivo come si fa con l’origano nel pomodoro”, le aveva commissionato
un suo memoir erotico di gioventù; insomma, un potboiler, un libro scritto
unicamente per sbarcare il lunario. Per sostentare gli smandrappati in botta che
le irrompono ciclicamente nello studio insieme a Black Panther, spacciatori,
musicisti rock mentre lei, imperturbabile dea madre, Tara Verde tibetana si
incarna nell’atto compassionevole di aggiungere “PIÙ SESSO” a quei primi
scalzonati anni beatnik della sua vita, e sia fatta dell’editore la santissima
volontà. Una delle svariate prove che anche un libro su commissione può
diventare letteratura, se la penna è di per sé consacrata alla letteratura –
pensiamo a Dostoevskij che dettava furiosamente alla sua segretaria-amante Il
giocatore per pagarsi (ironia della sorte?) i debiti di gioco, tentando di
ritagliarsi quanto più tempo possibile per quello che considerava uno dei suoi
futuri capolavori Delitto e castigo.
E da quelle Lettere rivoluzionarie dedicate a Bob Dylan e a suo nonno anarchico
Domenico Mallozzi (una poeta di origine italiana, tra l’altro, non ci si
aspetterebbe che venga tradotta in Italia con più fulgore?), dicevamo, prodotte
proprio durante la rivoluzione sessantottina, si traccia una delle linee del
pensiero antiestablishment che ci portiamo avanti ancora ora. Frammento della
Lettera #43:
> il primo obiettivo è la salute
> corpi forti creano spiriti forti, la brigata Venceremos
> al ritorno da Cuba scopre di sapere respirare
> si alza con il sole; prima di tutto:
> far fuori il vizio dello zucchero, eliminare la carne
> & le droghe pesanti, non mangiare chimici, niente cibo confezionato
> primo passo:
> riconoscere cosa significa la salute: chiglia uniforme
> energia instancabile che sgorga stabile fino in fondo
oppure, l’inizio della Lettera #13:
> adesso lasciatemi dire
> che cosa è un Brahmastra
> Brahmastra, un’arma da guerra induista
> da quello che ho capito
> un cuneo volante fatto di energia mentale
> scagliato contro il nemico da dio o eroe
> o da tanti eroi
> scagliato a un problema o un nemico
> spezzandolo
> Brahmastra può essere fatto
> da uno o da tutti
> può essere fatto da tutti noi
> sobrio e sotto un trip, pensando insieme
> cioè: fermiamo la guerra
> alle nove di domani, ognuna prende un soldato
> lo guarda con chiarezza, lo ama, prende la pistola
> dalle sue mani, lo porta in un posto tranquillo
> lo fa sedere, si siede con lui mentre prende una canna
> di erba dei viet cong dalla sua tasca…
Soffermiamoci in particolare su questo Brahmastra (arma letale del dio Brahma
invocata attraverso una lunga meditazione): un altro scrittore yippie, Paul
Krassner, dalla fine degli anni Cinquanta è editore del giornale di critica e
satira sociopolitico-religiosa The Realist; in un numero del 1999 ricorda la
recente eutanasia dell’amica e scrittrice Anita Hoffman che il giorno dopo
Natale sceglie di ingerire centocinquanta compresse di barbiturici prima che il
cancro al seno le sottragga la libertà di autodeterminarsi (articolo in cui
viene citata, tra l’altro, anche Diane di Prima, in quanto fu chiamata tra lo
“steady stream of visitors” al capezzale di Hoffamn a leggere preghiere di morte
tibetane per celebrare il suo ultimo mese di vita). Ma, in relazione al
Brahmastra, ciò che ci interessa davvero del pezzo Anita and the Blow-Up Doll
sono due degli atti rivoluzionari di incuneamento dell’energia cosmica che
vengono performati alla fine degli anni Sessanta da – appunto – Anita e suo
marito Abbie, declinati in quella forma satirica “prankster” che ispirerà, tra
l’altro, anche un certo movimento italiano dell’ultimo quinquennio degli anni
Novanta su cui torneremo più tardi.
Il primo, nel 1967. Krassner racconta:
> Ci fu, ad esempio, la finta orgia che ebbe luogo nel loro appartamento. Per
> attirare l’attenzione sull’esorcismo del Pentagono, Abbie aveva inventato una
> droga immaginaria, LACE ‒ presumibilmente una combinazione di LSD e DMSO ‒
> che, applicata sulla pelle, sarebbe stata assorbita nel flusso sanguigno
> agendo come un afrodisiaco istantaneo. L’intenzione era spruzzarla sulla
> polizia militare e sulla Guardia Nazionale a Washington. In realtà, LACE era
> lo “Shapiro’s Disappearo”, un gadget taiwanese che lascia una macchia viola e
> poi scompare. Fu indetta una conferenza stampa per dimostrare l’effetto di
> LACE su tre coppie hippy. Furono stesi dei materassi sul pavimento del
> soggiorno affinché potessero fare sesso dopo essere stati spruzzati con LACE
> da pistole ad acqua, mentre i giornalisti prendevano appunti. Per qualche
> ragione, Abbie non era nemmeno presente, lasciando la timida Anita ad
> accogliere gli ospiti di questo bizzarro scherzo.
>
>
>
> In origine, io dovevo essere lì come giornalista che veniva spruzzato
> accidentalmente con LACE. Con mia sorpresa, avrei posato il taccuino, mi sarei
> spogliato e avrei iniziato a baciarmi con una bellissima rossa che era stata
> anch’essa spruzzata per sbaglio. Attendevo con impazienza questa combinazione
> tra evento mediatico e appuntamento al buio. Anche se la rivoluzione sessuale
> era al suo apice, c’era qualcosa di eccitante nel sapere in anticipo che avrei
> sicuramente fatto sesso, anche se mi sentivo in colpa per cercare di ingannare
> i colleghi giornalisti. Ma c’era un conflitto di agenda. Ero già impegnato a
> tenere un intervento a una conferenza letteraria all’Università dell’Iowa
> proprio quel giorno. Così Abbie mi incaricò di comprare della farina di mais
> in Iowa, che sarebbe stata usata per circondare il Pentagono come rito
> preparatorio alla levitazione.
(Il riferimento alla levitazione del Pentagono riguarda la marcia che Abbie
Hoffman organizzò insieme ad altre figure cardine della controcultura come
Timothy Leary e Allen Ginsberg quando, per manifestare contro la guerra in
Vietnam, il 21 ottobre 1967 oltre 50.000 yippies si diressero, appunto, verso il
Pentagono con l’obiettivo di farlo levitare con l’energia psichica di Hoffman
mentre Ginsberg intonava canti tibetani).
E il secondo, durante il San Valentino del 1969:
> Loro, insieme a molti altri Yippie, avevano passato il giorno precedente a
> rollare circa 30.000 spinelli, avvolgendo ciascuno in un volantino che
> augurava al destinatario un felice San Valentino e conteneva informazioni
> sulla marijuana. Nell’anno precedente erano stati effettuati oltre 200.000
> arresti per consumo di cannabis, e il sindaco John Lindsay aveva appena
> chiesto al governatore Nelson Rockefeller di aumentare la pena per possesso da
> uno a quattro anni. Gli spinelli di San Valentino furono inviati anonimamente
> a varie mailing list ‒ insegnanti, giornalisti ‒ e a un tizio elencato
> sull’elenco telefonico come Peter Pot. Il progetto fu finanziato da Jimi
> Hendrix. Un conduttore televisivo che mostrò uno di quegli spinelli fu
> raggiunto in diretta da due agenti della narcotici mentre stava ancora
> leggendo il telegiornale: un primato nella storia della TV.
Mentre di un altro Brahmastra racconta la sex worker e porno-performer Annie
Sprinkle che nella raccolta di interviste ad artiste e attiviste della
controcultura del 1991 Cattive ragazze, storie di artiste guerriere (Shake
edizioni), curata da Andrea Juno e V. Vale, all’affermazione “hai una filosofia
del piacere” risponde:
> Per il fatto di darne agli altri? Un monaco buddista una volta ha detto: “Non
> c’è farfalla che batta le ali a Kyoto senza che lo percepisca l’intero mondo”.
> In altre parole, siamo tutti collegati. Quando è scoppiata la guerra del
> Golfo, mi sentivo stimolata ad avere più piacere… era così che potevo aiutare
> di più, non andando a Washington, dato che è un lungo viaggio e non sapevo
> esattamente cosa fare una volta arrivata lì. Così sono stata a casa, ho fatto
> del sesso e ho goduto il più possibile: questa è stata la mia dichiarazione di
> intenti politica.
A cui le intervistatrici commentano: “Se avessero fatto tutti così, non avremmo
partecipato a quella guerra”, e Annie Sprinkle conclude: “Sì! Anche se, forse,
quella che alcune persone considerano una buona esperienza sessuale è proprio la
guerra”. E, in effetti, parlando di Thanatos, l’atto sessuale come rilascio di
energia psichica ha una tradizione millenaria: già, per esempio, come racconta
la fanzine Sexwork e colonialismo di Linda Porn e Frida Trejo (2025), nella
struttura piramidale della società azteca, era cardinale la figura delle
ahuianime (le rallegratrici) che “svolgevano la loro professione al fine di
accrescere l’energia attraverso il sesso. I guerrieri in battaglia venivano
stimolati sessualmente non per raggiungere il culmine del piacere ed eiaculare,
ma come una forma di trasmutazione dell’energia”. Come un Tantra-Brahmastra.
> Nelle Lettere rivoluzionarie di Diane di Prima dedicate a Bob Dylan e a suo
> nonno anarchico Domenico Mallozzi prodotte proprio durante la rivoluzione
> sessantottina, si traccia una delle linee del pensiero antiestablishment che
> ci portiamo avanti ancora ora.
Precedentemente si menzionava quel movimento italiano della fine degli anni
Novanta che agiva in qualche modo ispirato dai prank psichici degli yippies
degli anni Sessanta. Si tratta ovviamente di Luther Blisset, movimento nato a
Bologna e poi espansosi in tutta Italia valicando anche i confini europei, che
teorizzò la morte dell’identità individuale e del diritto d’autore, agglomerando
ogni atto artistico e militante sotto il nome, appunto, di Luther Blisset,
spronando chiunque a prendere parte al movimento senza alcun tipo di
approvazione esterna, semplicemente diffondendo i suoi atti e inscrivendoli
sotto il nome di Blisset. E programmato per autodistruggersi dopo cinque anni
dalla sua creazione, attraverso un seppuku collettivo, perché, come scritto
nell’archivio The Luther Blisset Project:
> Pensiamo alla dottrina buddista della reincarnazione. I seguaci dello
> Svegliato non credono nell’esistenza dell’anima, tuttavia pensano che una
> persona possa raggiungere il nirvana dopo aver attraversato diverse vite. Ciò
> che appare a prima vista contraddittorio, la reincarnazione senza anima, senza
> identità, è possibile perché le azioni degli esseri viventi lasciano una
> traccia, una sorta di potenzialità che alla morte del corpo terreno
> dell’individuo produce la nascita di un nuovo essere.
>
>
>
> Allo stesso modo, affinché la tensione che Blisset ha sprigionato in questi
> anni possa animare nuove (e vecchie) realtà e nuove esperienze, occorre che il
> suo cadavere rilasci spore più che mai infette e taumaturgiche. Tuttavia il
> Multiplo ha un’infinità di corpi, molti dei quali resteranno in vita
> nonostante la morte di alcuni altri.
>
> Grazie al seppuku L.B. darà vita a molteplici rinascite, svincolate dall’uso
> di un nome. Perché per quanto si faccia, alla lunga un nome conduce a
> un’identità. Singola o multipla, reale o virtuale, storica o mitica, fa
> senz’altro differenza ma, dopo un po’, si tratta di qualcosa a cui rinunciare.
Alcune tra le spore esalate dal cadavere di L.B. sono il celeberrimo collettivo
Wu Ming (che ha pubblicato in copyleft per Einaudi libri come Q, Manituana,
Proletkult eccetera) e Daniele Vazquez con lo pseudonimo Associazione
psicogeografica romana, che ha fatto anche parte della redazione della rivista
di ufologia radicale MIR (Men In Red) e ha pubblicato, tra gli altri, Feste
fuori controllo, Corpi ostili e tecniche di repressione psicopolitica (2018), su
cui torneremo brevemente più avanti.
Tra le gesta più famose di Luther Blisset, tra i suoi Brahmastra, (tutto
raccontato nel libro Luther Blisset – Totò, Peppino e la guerra psichica (1996),
scaricabile gratuitamente da Internet Archives) grandi troll mediatici come la
messa in giro della sparizione del fittizio Henry Kipper, un illusionista
smarrito durante un viaggio in bicicletta per l’Europa, durante il quale stava
tentando di tracciare con la traiettoria del suo percorso la scritta ART, caso
che finì su Chi l’ha visto; e l’annuncio durante la Biennale d’arte di Venezia
del 1996 della mostra di quadri della scimmia Loota, in cui poi invece si
trovarono esposti solo dei volantini con su scritto “la scimmia sei tu”. Per non
parlare della “Guerra psichica nella metropoli traiettoriale”, come quando
organizzarono
> Una Festa Nomade a Roma su un autobus notturno, alla quale hanno partecipato
> un centinaio di persone collegate radiofonicamente a Radio Blissett, finita in
> tafferugli con le forze dell’ordine, che avevano bloccato l’autobus. La festa
> (sul 30 notturno) è stata organizzata per “la ricodificazione ludica dello
> spazio urbano”, “contro il caro biglietti” e per “il teletrasporto pubblico e
> gratuito”; dalle 3.00 circa, quando l’autobus è partito, Luther Blissett “ha
> dichiarato che avrebbe pagato un solo biglietto. Ha chiesto in radio di
> pompare la musica e ha ballato, bevuto, fumato, pomiciato, tirato coriandoli,
> giocato a pallone per circa venti minuti, mentre l’autobus seguiva il suo
> percorso abituale raccogliendo gente alle fermate”.
E, similmente alla performance di Abbie Hoffman del 1967, un attacco psichico al
Teatro comunale di Bologna, per l’Associazione psicogeografica locale un
importante omphalos (ombelico energetico) nella mappa della città. Perché
> Lo Stato, secondo la nota formula di Harry Kipper, programmatore di panico
> mediatico e artista punk, “suddivide non il popolo, bensì il territorio”.
> L’esercizio del comando è prima di tutto costruzione totalitaria di una
> rappresentazione geografica che possa essere valida per tutti, unificante, in
> modo da creare popoli e nazioni, ovvero la legittimità stessa del comando.
Già Diane di Prima, del resto, in Memorie di una beatnik racconta di quando nel
1956 “a New York nascevano i primi progetti per una metropoli neofascista, e fu
decisa la distruzione di tutta la zona a nord del nostro appartamento, per far
posto a quello che doveva diventare il Lincon Center” con la demolizione della
casa usata come rifugio dai senzatetto e discarica beat, e la chiusura della
“maggior parte dei gay bar più scandalosi”. Infatti, nell’introduzione al libro,
di Prima riporta una conversazione del 1969 con sua figlia undicenne che,
ricordando la sua prima infanzia, dice alla madre: “Mi mancano terribilmente i
vecchi tempi. Erano duri, ma erano così belli”. E subito dopo Diane riflette:
“Adesso le cose sono più… carine. Una Nuova Epoca, con ancora qualcosa
dell’infanzia”. Un imbellettamento razionalista che dall’urbanismo sviscera
nelle pratiche sociali, questione ben analizzata nel saggio del 2018,
precedentemente menzionato, Feste fuori controllo di quel Daniele Vazquez
psicogeografista ed ex Luther Blisset, che scrive: “Gli storici delle religioni
e gli antropologi confondono la festa con il rituale. Inoltre in quanto
moralisti non riescono proprio ad accettare che la crudeltà e la ferocia erano
costitutive anche delle feste dove vi era il libero gioco degli dèi”; e
continua, più avanti, specchiando limpidamente la nostra contemporaneità:
> La tecnicizzazione psicopolitica della festa fuori controllo è arrivata al
> punto che ormai vi sono staff che ne hanno fatto un business diffuso,
> promettendo di organizzarne apposta per voi e i vostri amici. Pagate e avrete
> una festa fuori controllo, “fino a perdere la voce”. A rassicurare sulla
> natura fittizia di questa perdita di controllo c’è sempre ovviamente la mamma:
> “mamma non preoccuParty”. L’edipizzazione della festa fuori controllo
> ritaglia lo spazio della festa fuori controllo soltanto sotto un certo limite
> di età e per i figli della ricca borghesia, dopo di che occorre mettere la
> testa a posto e far felice la mamma sul proprio percorso di vita. Finché i
> figli della ricca borghesia faranno festa, una festa triste e logora, sulle
> spalle dei giovani proletari che si fanno il mazzo per permetterglielo, solo
> i più audaci che sfideranno il senso di civiltà potranno concedersi feste
> fuori controllo.
La festa, quindi, nel tentativo di regolamentare Thanatos, diventa una specie di
spurgo che, al posto di trasportare lo stato di irrealtà, di caos anarchico,
nella vita quotidiana, ne propone solo la temporanea espiazione, con lo scopo di
tutelare le tradizioni e le gerarchie a cui si farà presto ritorno. E sarebbe
dunque anche interessante riflettere allora su quale sia davvero l’effetto delle
pratiche di cura collettiva dal basso che oggi accompagnano giustamente (?) la
maggior parte delle feste, per lo meno in spazi politicamente schierati
(riduzione del danno, spazi safer, bandane rosa antimolestie…); quella stessa
cura a cui già spronava Diane di Prima nella Lettera rivoluzionaria #9 (“non
lasciamo che nessuno lavori per qualcuno / eccetto per amore, e quello che fai
in più del / necessario darlo alla tribù / un Common-Wealth, un bene comune”)
mentre scriveva il suo potboiler per sostentare la comune di San Francisco, nel
momento in cui Vazquez sottolinea che la crudeltà e la ferocia sono parti
costitutive delle feste e che, i rituali, li dobbiamo abiurare poiché “Il
rituale è una formalizzazione di corpi insorti prima di esso ed è in questa
insurrezione che possiamo trovare la festa fuori controllo, non nel momento
della sua reiterazione, simulazione e conservazione”.
> La festa, quindi, nel tentativo di regolamentare Thanatos, diventa una specie
> di spurgo che, al posto di trasportare lo stato di irrealtà, di caos
> anarchico, nella vita quotidiana, ne propone solo la temporanea espiazione,
> con lo scopo di tutelare le tradizioni e le gerarchie a cui si farà presto
> ritorno.
Ma la cura collettiva operata da di Prima, del resto, non diventa mai rituale
poiché non si fa mai controllare dalla morale, per quanto non ne neghi
l’esistenza (“E io scrivevo, ma fui contenta quando la polizia di San Francisco
venne finalmente a prenderlo, anche se mi battei come al solito: ‘Avete un
mandato di cattura?’ eccetera eccetera”, racconta a proposito di quel tizio che
dava fuoco agli altari buddisti e rapinava i passanti per le strade), e perché
non si ripete infinitamente uguale a sé stessa (come sarebbe assurdo affermare
che chi scrive – letteratura, si intende – esegua durante ogni stesura di un
libro gli stessi identici gesti, pensi gli stessi identici pensieri, e conservi
le stesse identiche gerarchie narrative e stilistiche). Diane di Prima, con i
suoi cinque figli, i suoi tre mariti, i suoi innumerevoli amanti, la sua cucina
macrobiotica, le sue meditazioni buddiste, la sua vita, come la definiva TEA
“spregiudicata e gioiosa”, non è mai fuggita dalla crudeltà costitutiva
dell’esistenza. È stata un corpo insorto, praticando un’anarchia che nella
ferocia si è mossa come una rabdomante in cerca dell’amore. La sua vita, la sua
poetica, una festa fuori controllo.
Il Novecento occidentale, l’ultimo ruggito selvaggio di una fiera colpita sul
fianco da un dardo anestetico; le palpebre sbattono come il tonfo serrato di un
cancello a ghigliottina. Dopo, il buio: un bioparco, la brezza, mani che
accarezzano, e lo sfumato ricordo della sconfinatezza e del dolore.
Come scrive Paul Auster nel 1994 in Mr Vertigo – ode a quell’America di cowboy
urbani nei Roaring Twenties:
> Era tutto diverso, e quello che [..] facevamo allora, oggi non sarebbe più
> possibile. La gente non ci starebbe più. Chiamerebbero la polizia,
> scriverebbero alle autorità, consulterebbero il medico di famiglia. Non
> abbiamo più la scorza dura di un tempo, e forse il mondo di adesso è migliore
> proprio per questo, chi lo sa. […] Forse la sola cosa che veramente contò fu
> proprio la disperazione.
L'articolo Il Brahmastra della rivoluzione proviene da Il Tascabile.
C hi è Heriberto Yépez? Siamo davanti a un genio o a un grandissimo imbroglione
della letteratura? Questa domanda mi è frullata in testa tutto il tempo mentre
leggevo L’impero della neomemoria (2025). All’apparenza una biografia di Charles
Olson, ma nella pratica qualcosa di completamente diverso. Una specie di
saggio-mondo (se vogliamo ritorcere la deplorevole espressione “romanzo-mondo”,
tanto in voga negli ultimi anni) nel quale la storia di Charles Olson è solo la
colonna vertebrale, o l’albero maestro, il tronco ma di un albero tutto storto,
con infinite ramificazioni: digressioni, capitoli di storia e geografia, critica
letteraria, filosofia. E solo alla fine della lettura ho capito cos’è
effettivamente questo libro. Non un “dispositivo”, come si usa tanto dire, ma un
ordigno. Un ordigno esplosivo per far saltare tutto in aria. Un capolavoro
letterario di poetica, in senso aristotelico, ma di antipoetica o di
contropoetica.
La scrittura di Yépez è una scrittura tormentata (ci confesserà in
quest’intervista). Tormentata come forse dovremmo essere tutti noi e come ci
fanno sentire le parole di Heriberto Yépez, autore di oltre trenta libri in
spagnolo e in inglese: saggi, romanzi, poesie, ibridi inclassificabili. Di tutto
e di più. Uno scrittore di Tijuana che ha studiato i classici del pensiero e la
letteratura nordamericana per poterli demolire, in un rapporto di odio e amore
che restituisce lo splendore letterario dell’ambiguità, della contraddizione,
del dubbio. Un miscuglio di Bolaño e geopolitica, Aristotele e Žižek, la cultura
dei Maya e la poesia di Ezra Pound. Una letteratura sincretica, quella di Yépez,
fatta di generi che si mischiano, frammenti, digressioni, tradizioni contaminate
e riutilizzate, riciclate e rielaborate per smascherare le credenze di questi
tempi incerti e tormentarci, tormentarci senza tregua.
L’impero della neomemoria, tradotto da Daniel Di Schüler per Timeo è il suo
primo libro pubblicato in lingua italiana, al quale seguiranno: La colonización
de la voz. La literatura moderna, Nueva España, el náhuatl (Axolotl Ediciones
2018) ed Exofilosofia. Scopriamo insieme l’universo letterario di Heriberto
Yépez e la sua origine caotica e misteriosa.
BASTA UNO SGUARDO ANCHE SUPERFICIALE PER RENDERSI CONTO CHE LA TUA LETTERATURA È
UN ORGANISMO MATURO E PLURIFORME, MOLTO ETEROGENEO, E IN PARTE LEGATO ANCHE ALLA
TUA ATTIVITÀ ACCADEMICA. L’EDITORE TIMEO HA SCELTO DI PRESENTARTI IN ITALIA CON
QUESTO LIBRO INCREDIBILE: L’IMPERO DELLA NEOMEMORIA. NON CERTO IL PRIMO E
NEMMENO L’ULTIMO. COME TI FA SENTIRE QUESTA SCELTA? PUÒ IL LETTORE ITALIANO
FARSI UN’IDEA, SEPPUR PARZIALE, DEL TUO LINGUAGGIO E DELLA TUA OPERA O QUESTO
LIBRO È UN UNICUM, UNA PERLA DIVERSA DALLE ALTRE?
Ho sempre cercato di fare in modo che ogni mio libro avesse un suo spazio, che
fosse diverso da tutti gli altri. Ma in realtà L’impero della neomemoria è molto
legato a tre libri di poesia e poetica che ho scritto in inglese negli anni
Duemila. Forse è anche per questo che è stato tradotto in inglese. E, una volta
uscito in inglese, L’impero della neomemoria ha provocato una polemica molto
interessante negli Stati Uniti, forse unica. Non ricordo un altro caso in cui un
libro scritto originariamente in spagnolo abbia sollevato così tanto scandalo
nella letteratura postmoderna nordamericana contemporanea. Lo vedo anche molto
vicino ai miei libri sulla mescolanza di culture, sul tema del confine, un’idea
che ho esplorato in romanzi, poesia e saggistica. Penso che il lettore italiano
avrà una lettura molto diversa. Capirà che sto interpretando cos’è l’avanguardia
letteraria nordamericana in relazione alla geopolitica, ma da una prospettiva
diversa da quella che hanno avuto i lettori negli Stati Uniti e in Messico. Sono
molto curioso di scoprire l’interpretazione della letteratura italiana.
UNO DEI TUOI TEMI PRINCIPALI È QUELLO POLITICO, O MEGLIO: ANTI-STORICO. FORSE
POTREMMO DIRE MEGLIO CHE LA TUA POSTURA IN GENERALE SIA SEMPRE “ANTI/CONTRO”,
NEL SENSO DI ANTI-COLONIALISTA, CONTRO IL POSTMODERNO E IL MODELLO IMPERIALE
AMERICANO. L’IMPERO DELLA NEOMEMORIA È UN’ODE AL DECOSTRUTTIVISMO, ALLA
NEGAZIONE, FINO AD ARRIVARE A NEGARE PERSINO L’ESISTENZA DELL’UNIVERSO. INOLTRE,
IN QUESTO LIBRO E IN ALTRI TUOI TESTI, TI CONCENTRI SULLA CRITICA DELLA
LETTERATURA STATUNITENSE (A PARTIRE DA CHARLES OLSON MA COINVOLGENDO TUTTI I
GRANDI MAESTRI DELLA LETTERATURA A STELLE E STRISCE: DA MELVILLE A WHITMAN).
COME NASCE QUESTA OSSESSIONE DISTRUTTIVA E FIN DOVE SI ESTENDE?
È il mio amore-odio per gli Stati Uniti. E il mio amore-odio per il Messico.
Questi due amori-odi definiscono chi sono come persona. È Catullo: “Odi et amo”
portato nella geopolitica. Vengo da una famiglia messicana che poi quasi tutta è
emigrata negli Stati Uniti. Solo mia madre rimase in Messico. Mia nonna è morta
negli Stati Uniti. Vivo in una città di confine, Tijuana, che il resto del Paese
considera una città traditrice verso la cultura nazionale, perché innamorata del
nordamericano. Il mio rapporto di amore-odio con gli Stati Uniti mi ha dato
un’identità. L’altro amore-odio della mia vita sono la letteratura e la
filosofia. Dunque, scrivere di poesia nordamericana è uno dei due grandi
amori-odi della mia vita. La mia scrittura è molto tormentata. Vengo da una
famiglia di criminali, carcerati e lavoratrici notturne. Sono stato formato, a
livello intellettuale, dal mio patrigno che era membro della mafia di confine.
Anche questo mi ha definito.
Sono il teorico della famiglia; il primo (da secoli) ad arrivare all’università,
per qualche accidente del destino. Così quando scrivo teoria faccio una
teoria-da-poeta, poet’s theory, per così dire. L’impero della neomemoria è il
libro di un anarchico, in cui cerco di mostrare che la poetica postmoderna,
sperimentale, nordamericana (incarnata da Charles Olson) ha un forte legame con
l’imperialismo. Mostrare questo legame ha causato scandalo tra i poeti
sperimentali statunitensi. Si credevano l’Alternativa, la Controcultura; e io ho
mostrato che erano il lato oscuro del nucleo dell’Egemonia. Non se lo
aspettavano. Credevano di essere l’opposizione all’imperialismo. Non gli è
piaciuto che, dall’altra parte del confine, uno scrittore dimostrasse che anche
loro ne erano parte. Mi piace divertirmi.
NELLA QUARTA DI COPERTINA DI L’IMPERO DELLA NEOMEMORIA SI ANTICIPANO ALCUNE
DELLE PROSSIME PUBBLICAZIONI, TRA CUI LA COLONIZACIÓN DE LA VOZ. LA LITERATURA
MODERNA, NUEVA ESPAÑA, EL NÁHUATL (AXOLOTL EDICIONES 2018). UN TITOLO CHE MI
SEMBRA MOLTO IN LINEA CON IL DISCORSO CHE STIAMO FACENDO. PUR DANDO LA
SENSAZIONE DI CONTENERE UN DISCORSO PIÙ ACCADEMICO E FORSE “ORDINATO” DE
L’IMPERO DELLA NEOMEMORIA. COSA POSSIAMO ASPETTARCI? E QUALI ALTRI TESTI HAI
SCRITTO CHE SI LEGANO A QUESTO DISCORSO PIÙ LETTERARIO IN SENSO STRETTO?
Dopo L’impero della neomemoria e i miei libri di poesia in inglese ho deciso di
studiare a fondo la lingua degli Aztechi: il nahuatl. Ho imparato a leggerlo e
tradurlo. Mi ci sono voluti due anni. Mi sono reso conto che l’invasione
spagnola del 1521, la cosiddetta “scoperta dell’America”, dell’italiano
Cristoforo Colombo, è stata un altro laboratorio di mescolanza culturale, un
altro laboratorio di confine, simile a quello che abbiamo oggi, un altro momento
in cui imperialismo e forma sperimentale avvenivano insieme. Un’altra
ibridazione, una prima modernità, come hanno ben detto Tzvetan Todorov e Serge
Gruzinski. Da questa fase sono nati alcuni testi in cui ho esplorato come la
poesia indigena nata da quell’incontro tra Europa e America abbia creato forme
che uniscono tradizione e innovazione, distruzione di ogni tradizione e
invenzione di nuove forme poetiche. Mi sono talmente immerso nella ricerca che
ho persino trovato un poeta indigeno gay protoavanguardista, messicano,
dell’Ottocento, e ho pubblicato le sue poesie, insieme a uno studio biografico e
critico. Si trattava del poeta che diventò maestro di nahuatl dell’imperatore
Massimiliano d’Asburgo. Studiare il Sedicesimo e il Diciannovesimo secolo mi ha
permesso di capire davvero il Ventesimo e il Ventunesimo. Sono secoli in cui la
mondializzazione ha prodotto forme incredibili. Ma devo confessarti qualcosa,
che mi pare tu abbia intuito: scoprire quel poeta indigeno-gay-messicano
dell’Ottocento è stato talmente delirante che ho cercato di raccontare la sua
storia con un po’ di lucidità. È stato come mediare tra un poeta dionisiaco e
una prosa apollinea. In ogni caso, l’allucinazione è totale.
SEI NATO E CRESCIUTO A TIJUANA, LA CITTÀ CHE È DIVENTATA FAMOSA IN TUTTO IL
MONDO PER EL BORDO. GRAZIE A UN MURO. UNA CITTÀ DI FRONTIERA, UN AVAMPOSTO, UN
LUOGO DI CONFINE. CHE RUOLO HA QUESTA CITTÀ, E PIÙ IN GENERALE LA MESSICANITÀ,
NELLA TUA LETTERATURA? PENSI CHE AVRESTI POTUTO SCRIVERE I TUOI LIBRI SE FOSSI
VISSUTO ALTROVE?
Scrivo praticamente tutti i generi, in due lingue, su molti argomenti, ma vivere
a Tijuana, il confine con più attraversamenti giornalieri al mondo, la capitale
del narcotraffico, mi ha sicuramente segnato come scrittore. Sento di essere in
grado di dialogare con molte altre letterature e contesti, offrendo ciò che
questo confine permette di vedere sul mondo, allo stesso modo in cui uno
scrittore di New York, Roma, Buenos Aires, Barcellona, Dublino, Pechino, ha una
prospettiva unica, che gli permette di dire qualcosa che solo da lì si può dire
sulla nostra esperienza globale. Tijuana è una città radicale. Molto crimine,
molti attraversamenti, molta povertà, molta ricchezza. È la città più mafiosa e
postnazionale d’America. Ringrazio Dio per avermi fatto nascere qui. Ma appena
lo penso, credo che dovrei ringraziare anche il Diavolo. Ma a Satana si deve
dire grazie o vomitargli addosso?
L’ALTRO LIBRO DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE PER TIMEO CHE LA BANDELLA DI L’IMPERO
DELLA NEOMEMORIA VUOLE SVELARE AL LETTORE S’INTITOLA EXOFILOSOFÍA
(“ESOFILOSOFIA”), UN CONCETTO AL QUALE ACCENNI ANCHE NELLA POSTFAZIONE
ALL’EDIZIONE ITALIANA DI L’IMPERO DELLA NEOMEMORIA (CHE CONSIGLIAMO DI LEGGERE
PRIMA DI AFFRONTARE IL LIBRO, AL LETTORE ANCORA POCO CONVINTO). ESSENDO UN
CONCETTO FONDAMENTALE PER COMPRENDERE LA TUA OPERA, PROVEREI A FARE UN PO’ DI
CHIAREZZA E, SE TI VA, A SINTETIZZARE UNA PICCOLA MAPPA NEOLOGISTICA DELLE IDEE
COLLEGATE ALL’ESOFILOSOFIA.
Sono anni che penso a ciò che ho chiamato “esofilosofia”. È uno dei libri che
sto finendo di scrivere. Mi mette ansia che Timeo lo abbia già annunciato come
prossimo libro. In realtà ho troppe pagine e devo ancora condensarle per un
primo libro di “esofilosofia”. In qualche modo è la nuova fase della mia opera.
Per esofilosofia intendo un problema, più che una definizione univoca. Ad
esempio, la poetica fu in Aristotele un ramo della filosofia. Ma quel ramo
presto migrò: si separò dalla filosofia. Secoli dopo, divenne una parte della
letteratura, quasi un genere a metà tra letterario e accademico oggi. La poetica
è diventata esofilosofica: è uscita dalla filosofia.
Ma per esofilosofia intendo anche questo: cosa succede se reincorporiamo la
poetica (e altri rami morti) nella filosofia? L’esofilosofia è un problema, una
domanda e un esperimento. Siccome sono anche psicoterapeuta, mi pongo la stessa
domanda rispetto alla psicologia, per esempio. Ad Alain Badiou interessavano gli
antifilosofi (come Wittgenstein o Lacan); a François Laruelle la non-filosofia.
Ma sono convinto che dobbiamo ancora riflettere su cosa significa esofilosofia.
La filosofia che è uscita dalla filosofia. Una parte dell’esofilosofia non
tornerà più. Un’altra parte minaccia di tornare nella filosofia. Sono convinto
che questo secolo sarà il secolo dell’esofilosofia.
PER UN LETTORE ISPANOFONO CHE SI VOLESSE APPROCCIARE ALLA TUA OPERA, AVENDOLA
PERCIÒ TUTTA DISPONIBILE IN LINGUA, SAPRESTI SUGGERIRE UN PERCORSO DI LIBRI DA
SEGUIRE? SAPRESTI DIRE DA QUALE COMINCIARE E COME PROSEGUIRE, OPPURE IN QUALI
“FILONI” DIVIDERLI (QUELLI DI CRITICA LETTERARIA, I ROMANZI, LE POESIE)?
Ho quasi trenta libri già pubblicati. Sono un autore prolifico, piuttosto
inclassificabile. Dal punto di vista del mercato, questo mi ha penalizzato. Né
critici né agenti letterari sanno come classificarmi o definirmi. È un grosso
problema, oggi. Ma mi piace stare fuori da quei circuiti. E sono convinto che il
mio agente letterario sia Dio. Anche se probabilmente Dio non esiste.
Per un lettore interessato a conoscere la mia opera penso che L’impero della
neomemoria sia un buon inizio. Da lì consiglierei di proseguire con i miei libri
di poesia in inglese e i romanzi in spagnolo. Ora, se chiedi a uno scrittore
quali libri suggerisce per conoscerlo ti diremo sempre che sono i libri più
nuovi. Vorrei che i miei prossimi libri di esofilosofia e il mio nuovo romanzo
fossero i prossimi a essere pubblicati in altre lingue. Ovviamente vorrei che i
lettori mi conoscessero da questo momento attuale e poi scoprissero tutto quello
che ho fatto nelle due decadi precedenti. Vorrei che mi invitassero a leggere
poesia esofilosofica. Vorrei che leggessero i miei prossimi romanzi. Vorrei che
mi invitassero a tenere conferenze. Vorrei che ascoltassero ciò che la Tijuana
più radicale può raccontare a qualsiasi altra città. Se chiedi a uno scrittore
cosa vuole che leggano, ti risponderà sempre che vuole che leggano ciò che sta
scrivendo in questo momento.
QUALI SONO LE AUTRICI E GLI AUTORI CHE SENTI PIÙ AFFINI ALLA TUA LETTERATURA E/O
AL TUO PROGETTO CRITICO E POLITICO, OPPURE ANCORA ALLA POETICA CHE PROPONE
L’ESOFILOSOFIA?
Mi interessano il realismo speculativo e Roberto Bolaño. Ho seguito delle
lezioni di Judith Butler ma mi interessano molto anche i libri recenti di
Catherine Malabou. Mi interessano la Kabbalah (riletta oggi) e l’arte
contemporanea. Penso che dobbiamo ancora leggere bene Borges e Kenneth
Goldsmith. Ad oggi mi interessano anche la postcritica e una critica al
decolonialismo. Credo che questo sia il momento migliore per scrivere
letteratura e filosofia fuori da qualsiasi cornice nazionale. E penso che il
contesto globale, il mercato mondiale delle idee, sia il maggiore rischio. È
affascinante essere scrittore e filosofo oggi.
Una poesia di Heriberto Yépez
(tratta da Transnational Battle Field, 2017)
About me: in English
I am possessed by the most powerful
Revolutionary force in the world today:
The Anti-American spirit.
But I am written and I write in English
I too sing America’s shit.
I am inhabited by imperial feelings
Which arise in my mind as images
Of pre-industrial rivers
Or take some technocratic screen-form.
My hopes are these wounds
Are also weapons. But they may be undead
Scholarly jargon.
I am colonized. I dream of decolonizing
Myself and others. The images of the dream
Do not match up. I am the body
And the archive.
A bomb is ticking in my old soul.
And the life of the bomb
Trembles in the hands of my new voice.
I am a professor in the Third World.
What do I know? Libraries in the North
Do not open their doors. I laugh at myself
Imagining what the newer books state.
Writing is counter
-insurgent. But the counter
-insurgency
Leaders want our body
Believing writing is freedom.
This is as far as my English goes.
L'articolo Dall’altra parte proviene da Il Tascabile.
P er ogni dolore orofacciale c’è una clinica, per ogni clinica c’è una delusione
e una cura e poi di nuovo una delusione; per ogni errore diagnostico c’è
l’aggravarsi del dolore o l’avanzare di un fastidio diverso, nuovo e nuovamente
raccontabile. Pathemata (2025) di Maggie Nelson è la testimonianza di una
malattia per mano ‒ per bocca, cioè ‒ di una scrittrice. Il sottotitolo recita
infatti: O, la storia della mia bocca. Ma se i denti, la lingua, il palato, la
mandibola servono a masticare, triturare, e infine digerire ciò che entra nel
corpo, allora questo è anche il racconto di una disfunzione narrativa: di un
dolore che viene preso a oggetto del libro fin troppo letteralmente; di
un’intossicazione romanzesca. Non è un caso che nel testo di Nelson non si parli
quasi mai di cibo, di ciò che dovrebbe (potrebbe) alimentare quei due corpi che
si sovrappongono continuamente: quello di carne e quello di cellulosa.
In questa collana di patemi e paure ipocondriache, che luccicano come perle o,
meglio, come i denti di un mostro nel buio di una camera da letto, Nelson ci
guida dentro e fuori dalla fessura tra le sue labbra, continuamente: proprio
come se fossimo la sua lingua, i suoi denti, il suo fiato o le sue parole; uno
spiffero, un passaggio, tra le memorie della sua bocca. Facciamo avanti e
indietro senza sosta, tra passato e presente, diagnosi e controdiagnosi, tra
prima e dopo il Covid-19, prima e dopo un sogno movimentato da appuntarsi in
dormiveglia. Il rischio però che il libro possa essere solo o poco più che
testimonianza di un dolore ben localizzato ma inspiegabile resta molto forte.
Specie se lo paragoniamo a Lo sbilico (2025) di Alcide Pierantozzi, un altro
recente testo che parla (al maschile) di malattia, raccontata dal punto di vista
privilegiato e claustrofobico di uno scrittore e che, appunto, molto più che
Nelson, sfida tanto la forma del referto medico quanto quella romanzesca.
> Se i denti, la lingua, il palato, la mandibola servono a masticare, triturare,
> e infine digerire ciò che entra nel corpo, allora questo è anche il racconto
> di una disfunzione narrativa: di un dolore che viene preso a oggetto del libro
> fin troppo letteralmente; di un’intossicazione romanzesca.
Ma basta anche pensare ad altri due titoli, per certi versi ancora più simili a
quello di Nelson: Storia della mia lingua di Claudia Apablaza (2023) e La storia
dei miei denti di Valeria Luiselli (2016). Titoli (e dolori) simili, soprattutto
i primi due, ma su quello di Luiselli in particolare vale la pena soffermarsi: è
infatti un romanzo che utilizza una forte voce narrante, quella di Gustavo
Sánchez Sánchez, “il miglior banditore d’asta del mondo”, per costruire
un’impalcatura romanzesca solida e piena d’inventiva. A partire dai suoi denti
finti, incastonati, appartenuti un tempo a Marilyn Monroe (sic!), La storia dei
miei denti si trasforma infatti in una serie di racconti incastonati tra le
gengive di Gustavo e del lettore, per ricostruire una “collezione dentale” da
battere all’asta come un geniale prodotto da collezione: il lotto 49 di Luiselli
è infatti la dentiera che Gustavo decide di battere come solo un romanziere
potrebbe fare. Sono i denti che la costituiscono ma sono anche i racconti che
animano le pagine del libro: “Se ne avessi parlato come Svetonio narra la vita
dei dodici cesari sarebbe stata tutta un’altra storia. Non racconti falsi, ma
ispirati ad alcuni dei miei scrittori preferiti”. Non stupisce allora che il
titolo del libro di Luiselli corrisponda esattamente a ciò che si trova al suo
interno: storie meravigliose di singoli denti.
Nel libro di Nelson, invece, non c’è affatto questa invenzione e alla parola
“storia” del sottotitolo dobbiamo dare un significato metaforico, probabilmente
metaletterario. Del resto, basta arrivare a p. 12 per capire che anche Pathemata
parla di lingua e di bocca per parlare di altro: nello specifico, del “ruolo
letterale e simbolico della bocca nella vita di una scrittrice”. Proprio nella
sua “lingua”, visionaria e concreta (in una parola, appunto: letteraria),
Pathemata è un libro esile ma “squilibrato, lercio, come una muffa che cresce
sotto il coperchio di un barattolo di marinara”. Un piccolo libro pieno di
pagine che “schizzano dalle crepe” di un corpo pulsante dal dolore e dal piacere
masochistico di provare qualcosa; un corpo che si struscia a terra come Britney
Spears nelle sue performances più disperate, fatte apposta per disgustarci e
sedurci (“è come se una zampa ispida avesse frugato nel mio cervello e avesse
tirato fuori questa macchia di gelatina”). Di una parola che spinge, spinge,
spinge contro i nostri occhi come la lingua della protagonista da bambina
spingeva contro il suo palato.
> Pathemata diventa un libro sul rapporto tra interiorità e assimilazione:
> succede quando uno spazio intimo, domestico e sociale insieme come la bocca
> (per statuto luogo di confine, tra dentro e fuori) diventa giorno dopo giorno
> un’istanza di pericolo e mostruosità; di solitudine, di isolamento sociale.
Ma il fastidio alla mandibola, come ogni dolore profondo e sordo, è anche altro
da sé: in questo caso, è ciò che impedisce l’alimentazione e quindi la
digestione. Pathemata diventa così un libro sul rapporto tra interiorità e
assimilazione: succede quando uno spazio intimo, domestico e sociale insieme
come la bocca (per statuto luogo di confine, tra dentro e fuori) diventa giorno
dopo giorno un’istanza di pericolo e mostruosità; di solitudine, di isolamento
sociale. La domanda che ci pone è, cioè: cosa succede se non sappiamo più
trasformare ciò che ci accade? Se siamo solo bocche che parlano, e non stomaci
che elaborano? Il mostro in camera da letto, suggerisce il libro, potremmo
essere proprio noi. O, dice Nelson, peggio ancora: noi scrittori. Quelli che
continuano a parlare d’altro solo per non dire che non sappiamo più dire. Come
se scrivere fosse ormai solo un atto orale bloccato a metà tra la masticazione e
il rigetto.
La protagonista di Pathemata ha un’amica che dopo aver assunto un farmaco
sperimentale defeca i pasti esattamente come li ha ingeriti: “gli escrementi
uscivano come pasti completi, ogni boccone riconoscibile per quello che era
stato al momento di ingerirlo. Potevi rimetterlo su un piatto e servirlo, mi
dirà”. Ecco la domanda che Pathemata pone con più forza: cosa succede se anche
la scrittura diventa così? Se anche noi abbiamo ingerito un farmaco che ci fa
defecare il dolore così com’è, senza digerirlo? Se raccontiamo solo per
ripetere, e non per trasformare?
Forse la colpa è del Covid: “la pandemia sta uccidendo il caso, la coincidenza,
la sorpresa, lo straniamento ‒ in poche parole, tutte le condizioni che rendono
possibile la magia” (leggi: la scrittura)? E, a onor del vero, la protagonista
ci prova a resuscitare quella magia. Lo fa osservando per una volta
un’interiorità che non sia la sua propria: così, inizia a osservare la
lavastoviglie.
> Esamino i gusci d’uovo rimasti incastrati nel braccio girevole,
> l’imperscrutabile disco d’argento che galleggia all’ombelico della macchina.
> Mi chiedo se potrei rendere interessante la lavastoviglie grazie alla pura
> forza dell’attenzione.
Ma è tutto inutile, dopo una breve fase d’entusiasmo la magia non è ancora
tornata. La scrittrice sa essere solo una mandibola intorpidita, un muscolo
orofacciale paralitico, dei denti che perdono contatto gli uni con gli altri.
La bocca, del resto, non è solo l’organo della parola: è il luogo dove la parola
incontra il limite del corpo. Se i denti sono la parte più dura e affilata,
Pathemata ci ricorda che anche loro si consumano, si spezzano, scricchiolano.
Come la lingua; come la scrittura. Ed è proprio qui, però, che il libro
barcolla: Maggie Nelson resta fin troppo fedele alla sua lingua ‒ precisa,
dolorante ‒ e raramente osa immaginare deviazioni dalla propria traiettoria.
Manca l’invenzione, la storia, che dia al dolore una seconda bocca: insomma, una
lingua che non sia solo ‒ letteralmente ‒ la sua. Proprio qui si gioca il
confine tra vulnerabilità e vittimismo, tra scrittura del dolore e dolore come
alibi per non provare a inventare altro. Inventare, digerire, trasformare. E poi
servire. Sa farlo ancora Nelson? Sanno farlo ancora le scrittrici? E
soprattutto: sappiamo farlo noi?
> Maggie Nelson resta fin troppo fedele alla sua lingua ‒ precisa, dolorante ‒ e
> raramente osa immaginare deviazioni dalla propria traiettoria. Manca
> l’invenzione, la storia, che dia al dolore una seconda bocca: insomma, una
> lingua che non sia solo ‒ letteralmente ‒ la sua.
Eppure, quel ventre sporco ‒ la lavastoviglie ‒ su cui la protagonista riversa
invano per un istante i suoi sforzi poetici, apre a un’altra interpretazione. In
queste “sessantamila battute di cronologia del […] dolore”, infatti, riaffiora
anche un tema laterale ma persistente: la maternità, la creazione, il parto. I
denti parlano anche di questo. La protagonista stessa lo rivela in più punti:
> Provi a non pensare la mia lingua è troppo grande per la mia bocca ma,
> piuttosto, il mio palato è troppo stretto per la mia lingua, ha detto il
> dentista specializzato in taping notturno. […] (Che cos’è poi un palato?) Mi
> ha ricordato di quando i dottori erano preoccupati per le dimensioni del
> bambino nel mio utero.
Il corpo di una scrittrice è sempre troppo o troppo poco. In Pathemata, Nelson è
una bocca, un utero, una figlia (un dentro), che riesce a riprendere contatto
con il suo fuori solo nelle ultimissime pagine, quando cede nuovamente alla
richiesta di una psicoterapeuta che, prima, non aveva voluto affatto ascoltare:
quando, cioè, assume il punto di vista del padre defunto per assolversi dalle
proprie colpe, per sentirsi orgogliosa nonostante questo stallo nella scrittura,
questo fastidio orofacciale. Per tornare insomma madre, scrittrice. Allora, “il
divario tra la mia esperienza interiore e le statistiche esteriori del mio
corpo” (una sorta di Sbilico, in effetti, tra dentro e fuori) non è più un
abisso ma una possibilità narrativa: un principio regolatore, come il respiro di
chi mastica piano o, appunto, la contrazione di un utero in travaglio.
L'articolo Prima digerire, poi raccontare proviene da Il Tascabile.
S i nasce tutti figli. Si cresce promiscui nello stanzone claustrofobico
dell’infanzia. Si trova un fratello e ci si identifica, fino a lasciarsi
penetrare. Poi lo si tradisce: se si ha cara la pelle, bisogna diventare
ladruncoli e puttane. Nascondersi, ingannare e partire: solo allora, si comincia
finalmente a scrivere.
Abdellah Taïa nasce nella biblioteca pubblica di Rabat. Imbastardendo
neocolonizzazione, mondo queer e la crème de la crème della grande littérature
française, Taïa scrive e riscrive, in una dozzina di autofiction, romanzi
autobiografici e simili incroci, la storia infedele di un giovane marocchino
alle prese con il diventare uomo, dall’infanzia esaurita a Hay Salam nella casa
familiare fino all’arrivo in Europa, il dottorato alla Sorbonne e un’ascesa
letteraria che lo porta a essere tra i punti di riferimento della world
literature contemporanea.
Quando ce lo si trova di fronte (mette le mani avanti: “I never present myself
as a writer”), col suo accento francese, un accenno di baffetti e lo sguardo
disponibile e appuntito (“especially in France: they say ohlalà!”), sembra un
po’ un simpatico cantore (“It’s like Victor Hugo is in front of them!”) del
Marocco più povero, autentico e tradizionale: la stessa impressione che ha
portato uno come Edmund White a definire i libri di Taïa “pieni di amore” e il
suo alter ego “fiero, sveglio e flessibile”, “almost feminine in his desire to
please, boyish in his enthusiasm and trusting nature”. Poi, però, si scorge un
profilo un po’ meno pacificato, un’ombra: una fulminazione che fa di lui quasi
un miracolato.
Nel 2006, il magazine marocchino TelQuel chiede a Taïa di parlare della sua
sessualità: le reazioni del pubblico sono forti – sorprendenti, considerando che
il suo primo bestseller in Marocco, la raccolta autobiografica Le rouge du
tarbouche (2004), tutto faceva tranne mistero sull’omosessualità del
protagonista. Non musulmano, infedele, prostituta: insulti, scandalo e minacce
di morte, nel silenzio dell’intellighenzia locale. Taïa persevera in risposta a
una stretta del governo sulla pubblica moralità, nel 2009 pubblica un editoriale
sempre su TelQuel intitolato L’omosessualità spiegata a mia madre, una lettera
sincera e non apologetica in cui auspica una rivoluzione culturale del Paese
contro l’ipocrita e complice tradizionalismo della classe dirigente.
> Non sopporto più l’ipocrisia e le sue devastazioni in Marocco. Non sopporto
> più che venga data di noi un’immagine stereotipata, “folklorizzata” allo scopo
> di attirare turisti. Non sopporto più che non si veda la reale ricchezza di
> questo paese: l’immaginario, le storie, il mistero. LA GIOVINEZZA.
Nello stesso anno, coordina l’opera collettiva Lettres à un jeune marocain, una
denuncia e un auspicato argine contro la demoralizzazione e la disillusione
giovanile, che molti aveva spinto verso l’estremismo islamico. Con la
collaborazione dell’imprenditore e filantropo Pierre Bergé, fa distribuire
gratis in Marocco cinquantamila copie in francese e quarantamila in arabo.
> Imbastardendo neocolonizzazione, mondo queer e la crème de la crème della
> grande littérature française, Taïa scrive e riscrive, in una dozzina di
> autofiction, romanzi autobiografici e simili incroci, la storia infedele di un
> giovane marocchino alle prese con il diventare uomo.
Anche questo è Abdellah Taïa, il primo scrittore arabo apertamente gay. Tanto
amore nelle sue opere, ed entusiasmo prepuberale, ma anche il segno di chi da
solo si è trovato (“I had to find solutions…”) a crescere e sopravvivere come
ragazzo (o meglio, bambino) effeminato e gay in un quartiere povero del Marocco
più tradizionalista degli anni Settanta (“…not to be killed or raped”).
Il racconto di questo viaggio tocca tutti i suoi libri, ma soprattutto il
romanzo breve L’esercito della salvezza, pubblicato in Francia da Seuil nel
2006, poi esportato negli Stati Uniti da Semiotext(e) e in Italia da Isbn
edizioni. Allontanandosi dai resoconti di emancipazione e liberazione più
canonici, il libro intreccia sesso, linguaggio e letteratura postcoloniale per
raccontare in uno stile apparentemente semplice e ritmato (scandito sulla fièvre
dello scrivere, come la chiama Taïa) quell’affastellarsi non definitivo e
irrisolto di coming out, coming of age e profuso cumming che è l’adolescenza. Lo
spazio incestuoso della famiglia, la fusione con il fratello amatissimo e i
primi incontri con altri uomini, fino al difficile arrivo a Ginevra e alla
scoperta di un altro sé: questo è il percorso verso la reinvenzione dall’interno
di ciò che significa devenir un homme, e in particolare un homme arabe et
marocaine; questa, in altre parole, è la rotta di Abdellah verso la creazione di
un proprio esercito della salvezza.
Prima parte. Si comincia da una casa e tre camere: una per il padre Mohamed; una
per Abdelkébir, il fratello maggiore; una, infine, per tutti gli altri:
Abdellah, la madre M’Barka, il fratello minore e le sette sorelle. Zero letti,
solo tre panchine e la naturale vivacità di uno spazio in cui si consuma la vita
di undici persone (e, per inciso, l’infanzia e l’adolescenza del piccolo
Abdellah). M’Barka, una presenza ingombrante, “sempre in mezzo a noi”,
trasversalmente definita in ogni articolo e libro come fiera, straordinaria
dittatrice (“Mia madre è dappertutto”, rivela Taïa in un incontro ad Amsterdam,
“Era più gay e queer di me: ha dominato mio padre, ha programmato mio fratello
per portarci soldi, per salvarci dalla povertà”). Un’assenza: il padre,
diseredato dal fratello, guidato dalla sorella nella scelta matrimoniale,
testimone impotente delle avances del cugino verso la moglie. Mohamed sembra
incapace di agire: anche nelle sere in cui M’Barka non gli accorda il suo corpo,
lui alza la cintura ma non colpisce, al massimo si sfoga staccando la corrente
alla casa: “faceva solo finta, sapeva di esserne incapace”. E infine Abdellah,
felicemente inglobato nell’organismo familiare.
Questa sezione del libro descrive la prima delle tre fasi che il filosofo Paul
Ricouer formula nella costruzione di un’identità narrativa, ovvero la
prefigurazione: “imitare o rappresentare l’azione significa innanzitutto
pre-comprendere cos’è l’agire umano, nella sua semantica, nel suo sistema
simbolico, nella sua temporalità”. L’esperienza non formalizzata dei codici del
vivere tocca Abdellah come parte di un tutto indifferenziato, di cui comincia a
capire le regole ma, per ora, più di tanto non si distingue.
Taïa rappresenta (ma sarebbe meglio dire: Abdellah vive) la forte prossimità dei
corpi e la pubblica intimità negli spazi angusti della casa attraverso un
immaginario vivacemente incestuoso. Nella camera di Mohamed, i genitori fanno
spesso l’amore: “lo sapevamo. In quella casa sapevamo tutto di tutti”. (Dal
romanzo Colui che è degno di essere amato: “sentivamo tutto e anche di più”. Da
La vita lenta: “Il problema era l’intero palazzo. si sentiva tutto”. Da Mon
Maroc: “In Marocco nessuno viene mai lasciato solo, la privacy è inesistente”).
Il giovane protagonista sogna “mio padre dentro mia madre. Il sesso duro e
grande (non poteva non essere grande!) di mio padre penetrava la vagina enorme
di mia madre”. La realtà della famiglia ha un “forte gusto sessuale, come se
tutti ci mescolassimo incessantemente, senza alcun senso di colpa” e Abdellah si
dice pronto “a dare una mano, eccitato, felice e ansimante con loro”.
Nel quadretto familiare rientra anche la zia Fatéma, che allattando al posto di
M’Barka il piccolo Abdelkébir diventa per lui una “seconda madre”. Quando un
giorno Abdellah, che ormai ha compiuto otto anni, viene picchiato da una banda
di ragazzi, Fatéma “estrasse il seno destro e me lo mise in bocca. Mi rivedo
poppare come un bebè, il latte di Fatéma, dal sapore intenso, mi invade la
bocca, il palato, la gola, lo stomaco, gli intestini. Adoravo quel contatto e
quel liquido; ho ancora il suo latte dentro di me; la chiamavo mamma”. Un tema
tipico della scrittura di Taïa, qui come in altri romanzi, è proprio l’assoluta
mancanza di confini tra amanti, figli, fratelli e nipoti, mischiati in
un’orgiastica unione e fusione di nomi, personaggi, persone (specialmente se
madri e figli). Nessun senso di colpa a riguardo, al massimo la delusione quando
l’unione effettiva non si compie. Per ora, si è detto, l’io è un tutto
indistinto.
> Un tema tipico della scrittura di Taïa, qui come in altri romanzi, è proprio
> l’assoluta mancanza di confini tra amanti, figli, fratelli e nipoti, mischiati
> in un’orgiastica unione e fusione di nomi, personaggi, persone (specialmente
> se madri e figli).
Seconda parte: Abdelkébir. Il fratello maggiore di Abdellah è il primogenito, un
maschio, “il simbolo della famiglia, il loro nome per anni e anni a venire”. È
un uomo vero: il suo silenzio è profetico, il suo corpo grande, le spalle forti.
Abdellah sente di non valere nulla rispetto al fratello, che si prende in carico
le sue responsabilità “come un uomo”, che si sposerà “come un uomo” (di certo
non con un uomo), che si comporta da uomo, “dittatore com’è, in questo simile a
mia madre”. Il primo istinto che prova è quello di scomparire (“Non sono più
io”), obbedire (“esisto per lui”), restare per sempre sotto le sue cure (“sono
suo”). In linea con il protagonista di Colui che è degno di essere amato: “Di
fronte a questo fratello maggiore, noi non esistevamo affatto. Con Abdelkébir mi
sarei arreso ovunque, persino tra gli infedeli”.
La dichiarazione di amore per il fratello è riservata a quattro lucidissime e
tenerissime pagine di L’esercito della salvezza, in cui il desiderio sessuale,
l’affetto e il bisogno di protezione si mescolano indissolubilmente. Fin
dall’incipit del capitolo, ritmo, febbre e ripetizione: “È mio fratello! Sì, mio
fratello, mio fratello grande. È mio. Io ho un fratello grande… un fratello
davvero grande! Si chiama Abdelkébir. È grande. È più di un fratello. Abbiamo lo
stesso padre, la stessa madre. È il primo maschio, io sono il secondo”. Nuclei,
accenti e variazioni: “mi ha fatto conoscere i libri, i suoi libri, e la musica,
la sua musica. Il piccolo letto, il nostro letto”. Mosse a tempo di valzer:
“conoscevo la pelle del suo viso, delle sue orecchie, delle sue mani. Libri,
libri, libri. Lo toccavo, lo analizzavo, lo fiutavo. Avevo voglia di chinarmi.
Avevo voglia di allungare la mano. Avevo voglia di un’infinità di cose”.
In questo stile paratattico, semplice e un po’ funkeggiante, Taïa riproduce il
gioioso desiderio di fusione di Abdellah con il fratello, maschio di riferimento
e suo doppio potenziato. Nelle occasionali incursioni clandestine nella camera
di Abdelkébir, il piccolo Abdellah osserva le mutande macchiate di sperma, le
sniffa, assaggia il suo sperma: “quello sperma veniva da lui. Era lui”.
In questa descrizione si esprime il secret gaze tipicamente gay di Abdellah, che
con Abdelkébir si muove sempre e soltanto sul piano del desiderio
irraggiungibile; guardare, ma da una distanza incolmabile, mai potendo toccare
l’oggetto delle proprie fantasie. I due partono per una vacanza insieme a
Tangeri. “Ho l’abitudine di osservarlo con discrezione”. Guardarlo dormire,
rimanere ipnotizzato, nuotare tutto il pomeriggio tra i peli neri della sua
schiena, fino a rivedere nel suo culo nudo la forma delle natiche della madre.
C’è un abisso di desiderio e distanza nei verba volendi che costellano la
seconda parte dell’Esercito della salvezza, nel voler toccare, palpare e vedere
delle chiappe fraterne. “Non che siano belle, ma appartengono ad Abdelkébir”.
Sempre come un voyeur, rubando – si può agire solo “discretamente, venerando di
nascosto con gli occhi”, come Abdellah fa con l’amico Ali in Le rouge du
tarbouche.
Taïa è ossessionato dall’idea di fondersi con l’altro: “La mia idea di amore è
questa: entrer dans la peau de l’autre”. In L’esercito della salvezza, l’insieme
di amore, violenza e tenerezza si nasconde sotto uno stile apparentemente piano,
giocato tra mutande sporche e nomi propri. In un capitolo di Melanconia araba
(2020) troviamo qualcosa di simile quando Abdellah si trova a scrutare il
ragazzino a capo del branco che lo sta stuprando (“puttana, piccola, dammi il
tuo culo”). Cercando in lui delle tracce di affetto e di tenerezza, Abdellah
prima gli dà un nome, quello del cugino Chouaib; poi si arrabbia quando si sente
chiamare con il nomignolo falso, violento e impositivo di Laila. In un altro
romanzo, Colui che è degno di essere amato, il protagonista Ahmed si masturba
insieme a un nuovo amante pronunciando “ana enta”, io sono te, ripetendo a
pappagallo le due parole in arabo, pronto a esplodere di piacere nella sua
lingua di origine. I nomi, insieme al sesso, sono il punto centrale nella
ricerca di una simbiosi amorosa.
> Taïa è ossessionato dall’idea di fondersi con l’altro: “La mia idea di amore è
> questa: entrer dans la peau de l’autre”.
Dopo l’unione, però, bisogna tradire o venire traditi. Abdelkébir, da vero uomo,
deve sposarsi, si sposa, trova una moglie, “una straniera, la nemica, una
baldracca”. Salma pronuncia il nome di Abdelkébir “in modo eccessivamente
sofisticato” – Salma stesso, è inutile dirlo, è un nome che Abdellah detesta.
No, la vera sposa “di quel fratello adorato è mia madre”. Altri motivi spingono
al tradimento: la solitudine; la scoperta del cinema e della letteratura
francese, proprio grazie ad Abdelkébir; l’emergere, quindi, di un mondo che per
il protagonista de L’esercito della salvezza è nuovo. A Tangeri, dunque, si
conclude la prima battaglia di Abdellah, il primo lungo apprendistato:
l’imparare ad amare, seppur in maniera ossessiva, parziale e manchevole. Il
tradimento va consumato: Abdellah entra in un cinema e sperimenta la gioia
clandestina di un corpo più anziano che lo avvolge, lo cerca, prova a toccargli
il sesso e le natiche.
Comincia la seconda fase descritta da Ricouer nella formazione dell’identità
narrativa: la configurazione, il mettere-a-storia la propria esperienza, trovare
una mediazione tra gli eventi individuali e la storia complessiva. Abdellah
impara a manipolare le parole, a farsi spazio tra i dieci corpi che vivono
insieme a lui, a diventare qualcos’altro (ma in realtà questo processo era in
corso già da tempo). La fusione non ha funzionato: è ora di provare a diventare
uomo.
Terza parte. Abdellah si trova presto un nuovo grande fratello, un altro
dittatore: Jean, un professore svizzero in visita a Rabat, che diventa suo
amante. In lui Abdellah vede, in una prospettiva a suo modo controesotica, una
via di salvezza dalla povertà e una porta di accesso al mondo intellettuale: “un
uomo occidentale. un uomo colto, l’uomo dei sogni”. Dopo mesi di fitta
corrispondenza e una fuga romantica in Svizzera, Abdellah decide di spostarsi a
Ginevra per studiare letteratura francese, trasferendosi definitivamente da
Jean. Quando arriva in aeroporto, non trova nessuno: è stato abbandonato. La
prima esperienza dell’Europa consiste proprio nel capire di non essere a casa.
Il critico indiano Homi K. Bhabha la chiama unhomeliness: la condizione di
infamiliarità che prova chi vive delocalizzato, nel mezzo tra due mondi. Se
trovarsi un’identità significa identificarsi-con e identificarsi-contro, con
tutto l’insieme di minaccia, di perdita, di riparazione e di rifiuto che questo
comporta (sto qui utilizzando le parole della studiosa queer Eve Kosofsky
Sedgwick in Epistemology of the closet, 1990), in questo gioco di identità e
domande (cosa vuol dire essere arabo? uomo? gay? europeo? letterato?) Abdellah
si scopre s-casato. Bhabha parla di un’iniziazione extraterritoriale e
crossculturale; Abdellah Taïa, che si trova a lavorare su un piano di urgenza
diverso, si interroga certo sulla questione, ma soprattutto si chiede dove poter
trovare da dormire e da mangiare.
> Se trovarsi un’identità significa identificarsi-con e identificarsi-contro,
> con tutto l’insieme di minaccia, di perdita, di riparazione e di rifiuto che
> questo comporta, in questo gioco di identità e domande (cosa vuol dire essere
> arabo? uomo? gay? europeo? letterato?) Abdellah si scopre s-casato.
“Cercavo un’immagine umana, un segno, mi ritrovai davanti al silenzio. Devo
crescere velocemente, molto velocemente. Essere forte, FORTE”. E a questo fine,
due figure. Prima, un tassista gli indica un ente di accoglienza sul territorio
e gli parla della storia d’amore più importante della sua vita. Seloua (“Voglio
solo ricordare il suo nome, tutto ciò che mi è rimasto”) è una che sa sfruttare
la propria bellezza, ci gioca, conosce il fascino che emana in quanto donna
araba: dopo un’intensa storia d’amore, lascia il tassista per un uomo più
vecchio e più ricco, svizzero-tedesco. Abdellah ha un’intuizione. Poi Mohamed,
un coetaneo incontrato anni prima a Tangeri, con il sogno di andare in Europa
seducendo una donna occidentale: “mostarle di cosa è capace un uomo marocchino;
in altre parole scoparla come una cagna, renderla pazza per lui, e del suo cazzo
soprattutto”. O, perché no, anche prendendolo in culo se serve, pur di salvarsi
– gli uomini, nota, erano più gentili e meno complicati. Solo con gli stranieri,
si intende: “essere scambiato per uno zamel gli avrebbe fatto orrore”. Il
feticismo arabeggiante, il turismo sessuale, l’economia della disperazione (“Non
scordarti di farti pagare bene ‒ e lavati bene il culo dopo, frocio di merda!”):
tutto questo comincia a formularsi in Abdellah nello iato tra l’incontro con
Jean e l’arrivo in Europa.
La prima soluzione è scordare chi si è, tagliarsi fuori dal mondo, diventare
un’ombra (da Melanconia araba: “Sarei stato quello che non si dice, quello che
non esiste” – cosa non molto difficile, per chi si trova in Europa senza soldi
né alloggio). Seguire l’esempio di Samira Said, l’amata cantante e danzatrice
del ventre egiziana che con lo scandalo e il suo ombelico insegnò agli uomini
arabi il fascino della trasgressione; o di Marilyn Monroe, la ragazza orfana
stuprata dal mondo ma eternamente pura. Non si sarebbe trattato di un
cambiamento improvviso: da anni Abdellah, girando per strada in Marocco, viene
chiamato quotidianamente piccolo demone, mostro, prostituta – e quello è solo il
meno. Bisogna imparare a tradire, di nuovo.
In un’espressione ormai classica degli studi postcoloniali, Abdellah comincia a
vivere nell’opacità di Glissant: “smettere, per il momento, di essere
ossessionati da cosa c’è sul fondo della natura”; lasciarsi aperte le
possibilità; essere in pace con l’idea di non capire l’altro, e arrogarsi il
diritto di non farsi capire. Nascondere la verità, anche, e imparare a lanciare
incantesimi: recedere dal mondo. “Ero curioso di stare nei panni di una
prostituta”. Abdellah abbassa la testa e fa il docile, ha compreso la lezione di
Mohamed: in ogni gioco, è necessario che qualcuno si sottometta, faccia lo
schiavo, onori l’altro come colui che ha il potere. Uscendo dalla norma,
negoziando, corteggiando; a volte anche succhiando. “Fingo di sottomettermi a
questo mondo crudele”, scrive Taïa in un articolo per The Queer Arab Glossary:
“dovrò pensare a una vendetta”.
A un certo punto, leggendo L’esercito della salvezza, si ha all’improvviso la
netta sensazione che non si tratti solo di un’operazione letteraria, di un gioco
formale di identità narrative. Certo, c’è anche questo: il libro è un sapiente
intreccio di identificazioni e disidentificazioni tramite il riciclo e il
ripensamento dei significati convenzionali di mascolinità, spiritualità,
nazione. Lo studioso queer José Munoz definisce questo processo come “il
rivelare le macchinazioni universalizzanti ed esclusorie del messaggio
codificato e dirottarle verso l’inclusione e l’emancipazione di identità
minoritarie”. Dare un nuovo significato alle grandi etichette per includere i
margini. Vero.
Ma come anticipato, L’esercito della salvezza, e tutta l’opera di Taïa, racconta
anche e soprattutto la lotta di Abdellah contro chi cerca di sputargli contro,
stuprarlo, lapidarlo. “Now he’s fourteen, he seems to be used to rape. He does
not complain. His ass in an offer. Mi hanno condannato a essere violentato ogni
giorno, ogni notte, dappertutto. A dirty effeminate moroccan, a zamel. Una
puttana”.
Non c’è spazio per piangere, o essere deboli. Un’ombra lo segue, dovunque vada.
Un ragazzino di qualche anno più grande, di nome Naim, anche lui effeminato,
anche lui zamel, anche lui cercato da corpi che non possono attendere, devono
diventare uomini, grandi, potenti. E lo fanno – lo hanno sempre fatto, sempre lo
faranno – proprio attraverso quell’ombra. Un presentimento. Poi, una
fulminazione, che fa di Abdellah un miracolato. A boy to be sacrificed. Ora ha
dieci anni, o dodici quattordici diciassette ventidue, a seconda del libro: è
l’ora di diventare un uomo, di essere grandi, di fare sul serio. “Now I am 38
years old, and I can state without fanfare: no one saved me”. Non Jean, non
M’barka, non Abdelkébir. “Sono diventato un altro, uno sconosciuto. To save my
skin, I killed myself”. In L’esercito della salvezza c’è solo l’incipit: il
processo è appena cominciato.
Quarta parte. Come porto sicuro di innocenza e purezza, il sesso gay. Vagando
sperduto per Ginevra, Abdellah incontra uno sconosciuto che lo accompagna in un
bagno pubblico. Lì, una dozzina di uomini si guardano e toccano con affetto,
senza violenza, come compagni. In una scena di intensa e debordante sensualità
poetica, ognuno di loro tiene la mano destra intorno al proprio sesso, mentre
con la sinistra accarezza le natiche del vicino, in un circolo di reciprocità e
fratellanza. “Questo è l’amore”, dice la voce narrante di Colui che è degno di
essere amato, “avere la possibilità di trovare bello quello che la gente reputa
brutto e indecente. Le palle, una foresta di peli nerissimi e un cazzo”.
Scoprire l’intimità osservando un amico eiaculare latte o vedere, come in Un
pays pour mourir (2015), “due cazzi incontrarsi, toccarsi, venire insieme,
insieme tornare all’infanzia”.
Nella spanna di qualche minuto, l’uomo lo porta in un cubicolo, lo fa venire,
gli regala un’arancia: “nient’altro. Un equo scambio di piaceri”. Qualche ora
dopo, tornando alla sede dell’Esercito della salvezza che lo ha accolto,
Abdellah trova in camera un nuovo compagno di stanza, un giovane ragazzo
tunisino, che, notando la sua gracilità, osserva casualmente: “potresti passare
per il mio fratello più piccolo”. Abdellah, quella sera, divide con lui
l’arancia.
Un secondo incontro chiude il libro. Sul treno, di notte, un marocchino, un
tedesco e un polacco si conoscono in inglese sospesi tra Spagna e Francia.
Rafael, il meraviglioso amante, Mathias, suo innamorato perso, e Abdellah in
procinto di lasciare Jean, in una locomotiva in cui tutti si trovano “lontani
dalle proprie frontiere”. Nudi, insieme e sospesi, “siamo diventati fratelli di
sperma e di sangue”. Un threesome in between, in movimento tra Oriente e
Occidente, senza ancora una storia legittima alle spalle. Verso il
riconoscimento reciproco. Verso, finalmente, una fratellanza vera.
> Il francese semplice della sua prosa nasce dallo scontro tra il rifiuto della
> sottomissione all’académie française e dei suoi chic e dotti membri e la
> consapevolezza del potere della lingua colonizzatrice, “falsamente dolce e
> incredibilmente fredda”.
Quinta e ultima parte: la letteratura. Nel racconto di questa evoluzione, di
questo viaggio tra famiglia, doppi, opacità e amore, il rischio di diventare un
frocetto parigino settario imborghesito doc è ben presente a Taïa. Il francese
semplice della sua prosa nasce dallo scontro tra il rifiuto della sottomissione
all’académie française e dei suoi chic e dotti membri e la consapevolezza del
potere della lingua colonizzatrice, “falsamente dolce e incredibilmente fredda”.
Abdellah, l’abbiamo visto, ha rinunciato fin dall’infanzia al suo residuo
selvatico: era questione di vita e di morte. “Per me la vera felicità”, ammette
all’Universiteit van Amsterdam, “era quando a sette anni ballavo per le mie
sorelle. Le contaminavo, le rendevo gay, sia nel senso di gaie felici che gay
gay”. Ride di gusto. Si ferma: una piccola pausa. Ci pensa. Riprende. “Sono
dispiaciuto per quel piccoletto che non sono più io. Quel bambino effeminato
l’ho perso per sempre”.
La letteratura non è che vampirismo: “siamo completamenti divorati dalle parole,
dallo stile”. Non c’è salvezza o terapia nello scrivere. Ci si sacrifica nello
stesso modo in cui si è morti in vita, si perdono parti di sé, della memoria e
delle proprie tragedie. Il massimo che si può fare è fulminarsi di nuovo,
inseguire quell’ombra e raccontare il mix di violenza, amore e tenerezza che ne
è risultato. Si espone la contraddizione.
Contro i rischi di un’eccessiva intellettualizzazione, lo scrittore tiene sempre
vicino a sé le voci polifoniche dell’infanzia: il mondo invisibile degli
incantesimi e della religione di M’Barka (“your language, mother, is my
language”), le sorelle, i jinns e gli spiriti dell’oltretomba, che molto più gli
fanno scuola rispetto ai pur amati Genet, Proust o Pasolini. Queste voci, queste
identità mescolate e rimescolate, hanno permesso ad Abdellah di parlare, creando
un punto di unione tra individuo, società e mondo, mai accennando a pose
vittimistiche o narrazioni autocelebrative. Sempre scongiurando il rischio di
diventare una checca francese fatta e finita, di quelle che “si dimenticano dei
poveri quando diventano intellettuali”. “Io un intellettuale? Una puttana sì,
ufficialmente una puttana, mai un intellettuale”.
Per un progetto letterario di questo tipo, l’autofiction è la scelta di
elezione: Taïa, che ha imparato fin da bambino le strategie narrative più forti
per persuadere con le storie, nei suoi libri propone diverse configurazioni
dello stesso narratore, che viene costantemente dislocato, ricollocato,
reinventato. “Nonostante da Ho sognato il re i miei libri tecnicamente non
riguardano me, sono tutti me”. Lui la chiama group autofiction: tutti i
personaggi dei libri di Taïa sono in qualche modo momenti e riflessi diversi
dell’identità narrativa di Abdellah. Reinventare il soggetto autobiografico e
insieme il mondo, cercando di dire qualcosa di nuovo sulla realtà
extraletteraria. Dare spazio alle voci.
> Nel sottile interstizio tra urgenza materiale, costruzione autobiografica e
> polifonico altoparlante di voci e visioni sta la tensione di Abdellah Taïa,
> per i più primo scrittore maschio arabo gay; ma insieme, profondo e vivace
> rivisitatore di tutte e quattro le categorie.
In questo accostamento, nell’esperienza della lettura, si esaurisce il terzo
passaggio ipotizzato da Ricoeur, la rifigurazione: l’intersezione tra il mondo
del testo e il mondo del lettore, tra il mondo della letteratura e il mondo
dell’azione reale. In questo sottile interstizio, tra urgenza materiale,
costruzione autobiografica e polifonico altoparlante di voci e visioni sta la
tensione di Abdellah Taïa, per i più primo scrittore maschio arabo gay; ma
insieme, profondo e vivace rivisitatore di tutte e quattro le categorie.
Da figli e fratelli a ladruncoli e amanti: solo allora si comincia finalmente a
scrivere. Arrivato ormai ai cinquant’anni, lo scrittore marocchino con la
passione per il silenzio non è più da tempo l’eccitante ed esotico oggetto
sessuale francese; ha smesso la ricerca della letteratura come salvezza e
riscatto sociale; ha pure sviluppato negli anni una diffidenza per la borghesità
intrinseca del romanzo, sebbene continui a pubblicare con cadenza biennale. Ora
si dedica, tra le altre cose, alla prima passione della giovinezza, quella per i
film e i blockbuster, e il loro linguaggio popolare: dopo l’adattamento di
L’esercito della salvezza, sta presentando in questi mesi un nuovo corto, Cairo
streets, a diversi festival europei. A dicembre esce il suo secondo
lungometraggio, Cabo Negro, la storia di due ragazzi LGBTQ+ marocchini in cerca
di libertà.
“Nell’avvicinarmi ai quarant’anni volevo essere visto. Il silenzio è una forma
di viltà. La solitudine è la morte”. Dopo aver perso sé stesso, essersi
invisibilizzato, avere cercato di riformulare dall’interno l’esperienza di un
giovane uomo arabo e gay spatriato in Francia, Taïa ha ora un nome, è
ufficialmente qualcuno. Ma lui lo sa, “non portiamo niente con noi nella vita
lenta”. Libertà, uguaglianza e fraternità, in qualche modo, sono state trovate,
discusse o abbandonate per sempre. Quello che rimane è la gioia di uno scrittore
che ama presentarsi come non-scrittore, la tristezza di chi sa che scrittore lo
sarà comunque per sempre, e la caparbia ostinazione di chi sullo scrivere del
perdersi e del ritrovarsi ci ha costruito una carriera. “Non serve che capisci
tutto. L’importante è continuare a muoversi”, senza mai fermarsi. “E poi un
giorno, senza saperlo, capirai”.
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Il Tascabile.