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Sotto il vulcano
M i sono sempre immaginata Emily Dickinson di spalle. Una donna senza volto con la schiena curva su plichi di scritti, la grafia nervosa, gli occhi stanchi dalle letture voraci. Oppure distesa sul letto, senza forze e con le braccia penzoloni. La porta chiusa con un enorme chiave in ferro battuto. Isolata, sola, possibilmente triste. Leggendo l’ultimo saggio di Sara De Simone, Una tranquilla vita da vulcano: una storia di Emily Dickinson (2025), mi sono resa conto che probabilmente non sono l’unica a immaginarla così, ma che è ora di rileggere le sue poesie con occhi più attenti. Tornare ai testi, dice sempre De Simone. Il saggio è pubblicato da Solferino per Genealogie, collana nata in collaborazione con il Festival di scrittrici InQuiete. Il progetto si fonda sulla necessità di restituire alle scrittrici del passato una complessità che il canone ha spesso semplificato o completamente escluso. Raccontare daccapo, disegnare i volti mancanti (le copertine non a caso sono sempre ritratti), farle alzare dalle scrivanie e dai letti (luoghi importantissimi, ma non gli unici abitati dalle scrittrici) e farle muovere nel mondo. > L’operazione di De Simone va in due direzioni: raccontare i primi anni di vita > della scrittrice (il suo rapporto con il mondo fuori dalla porta) e riscrivere > il concetto di isolamento di cui tanto abbiamo sentito parlare. De Simone, già abilissima nel raccontare l’amicizia e lo scambio intellettuale tra Katherine Mansfield e Virginia Woolf (Nessuna come lei, 2023), torna a fare un esercizio di archeologia dei testi e ci porta ad Amherst, in Massachusetts, nella prima metà dell’Ottocento. C’è una bambina che diventerà una ragazza dai capelli “arditi come il riccio della castagna” a cui piace leggere, cogliere fiori e raccoglierli in piccoli erbari. Il ritratto tratteggiato dall’autrice è vitale, curioso, fatto di tanti spostamenti, trentasei anni di vita in cui Dickinson ha viaggiato e intrecciato relazioni prima della blasonata reclusione. Anni luminosi in cui ha coltivato amicizie, fatto lunghe passeggiate con il cane Carlo, vinto il secondo posto per la miglior pagnotta del paese, praticato l’intellettuale e vissuto un’esperienza simile a quella che avrebbe fatto Virginia Woolf nel circolo Bloomsbury. Improvvisamente Emily Dickinson non è più curva sulla scrivania (che esiste ed è fatta in legno di ciliegio), ma le sue gambe prendono forma, camminano, creano coreografie nello spazio. L’operazione di De Simone va in due direzioni: raccontare i primi anni di vita della scrittrice (il suo rapporto con il mondo fuori dalla porta) e riscrivere il concetto di isolamento di cui tanto abbiamo sentito parlare. “Non conosciamo, e probabilmente non conosceremo mai, tutte le ragioni del ritiro di Emily Dickinson. Quello che sappiamo, e che è importante ricordare, è che non si trattò di un ritiro dalla vita, contro la vita. Ma in ascolto della vita. Di una solitudine ricca, fertile, in aperto dialogo con il mondo e le sue creature”. Dickinson continuerà a leggere i quotidiani, a scrivere poesie e lettere, a cucinare dolci. La sua stanza è il luogo necessario per praticare la libertà, per dedicarsi totalmente alle sue poesie, è una scelta, “la difesa di uno spazio di autonomia, la protezione della stanza della scrittura”. > Dickinson è come la sua poesia, è qui e altrove, in grado di unire il basso e > l’alto, la morte e la vita, quello che c’è dentro e quello che c’è fuori la > porta. E il saggio riesce a tenere insieme tutto. Dickinson è come la sua poesia, è qui e altrove, in grado di unire il basso e l’alto, la morte e la vita, quello che c’è dentro e quello che c’è fuori la porta. E il saggio, seguendo pedissequamente la biografia dell’autrice, citando moltissimi testi e arricchendosi di un sostanzioso apparato bibliografico, riesce a tenere insieme tutto. Ricorda la bambina che s’inzuppa di fango per cogliere fiori scarlatti, l’adolescente insofferente che alle pulizie di casa preferisce “la peste, più classica e meno mortale”, e la donna che vive con passione travolgente le sue relazioni. Ricama un paio di giarrettiere e le invia alla sua amica Kate, scrivendo: > Quando Katie cammina, questo semplice paio il fianco cinge, > Quando agile corre, insieme a lei corrono per la via, > Se Katie s’inginocchi, quelle mani amorose ancora serrano le sue ginocchia pie > ‒ > Oh! Katie! Alla Fortuna puoi sorridere, se due ti avvincono così! E pensare che nella prima edizione del 1890 Dickinson veniva definita nella prefazione dal letterato Thomas Wentworth Higginson come “una donna reclusa […] invisibile al mondo come vivesse in un convento” e si prodigò persino per eliminare tutte le dediche alla sua amata Susan perché “i maligni potrebbero leggervi dentro più di quanto quella vergine reclusa si sia mai sognata di mettervi”. Allora qui è utilissimo il movimento critico che fa De Simone, tornare ai testi, sempre. > Notti selvagge – Notti selvagge! > Se fossi accanto a te > Notti selvagge sarebbero > La nostra estasi! > Futili – i venti – > Per un cuore in porto – > Via la Bussola – > Via la Mappa! > Vogare nell’Eden – > Ah, il mare! > Potessi soltanto ormeggiare –Stanotte – > In Te! Questa poesia si intitola Wild Nights e viene cancellata dalla prima edizione. La stessa edizione in cui tutti i versi vengono normalizzati: la punteggiatura addomesticata, le poesie ordinate per grandi temi (Amore, Dio, Natura), aggiunti titoli (a volte didascalici). La costruzione è pronta: una poeta vergine, reclusa, decorosa, quasi una santa. Il volto si sbiadisce sempre più, la chiave della porta viene buttata via. Il saggio, invece, ci restituisce l’ingresso per quella stanza, ci delinea il volto della poeta. E nella storia di Emily Dickinson centrale è il rapporto con la già citata Susan. L’amatissima Susan Gilbert, la prima compagna di avventure e di esercizi immaginifici per costruire mondi in cui la poesia è materica, perché se Dickinson è un vulcano, le sue parole sono la lava dormiente che aspetta di esplodere. Un legame che trattiene amore, amicizia, scambio intellettuale e artistico. Un dialogo instancabile che è durato per più di trent’anni, che è fondativo, che nutre i versi della poeta. Sue è la sua prima lettrice, la destinataria della sua prima poesia e di quasi trecento componimenti. La loro è un’alleanza che le eleva: “Susie, io e te siamo gli unici poeti ‒ mentre tutti gli altri sono prosa” scriverà Dickinson. È a lei che sempre Emily scriverà: “cara Sue, con l’eccezione di Shakespeare mi hai insegnato più cose tu di ogni altro essere vivente”. Susie è sì, lettrice attenta, ma è anche editor. > Nella storia di Emily Dickinson centrale è il rapporto con l’amatissima Susan > Gilbert, la prima compagna di avventure e di esercizi immaginifici: la loro è > un’alleanza che le eleva: “Susie, io e te siamo gli unici poeti ‒ mentre tutti > gli altri sono prosa”. E De Simone è particolarmente attenta ai carteggi intellettuali tra scrittrici, sottolineando quanto lo scambio con le altre è fondamentale (Dickinson corregge, scrive, rimanda a Susan), uno sguardo attento e critico che difficilmente si trova nel mondo esterno, maschile e dominante. Soprattutto per la sorprendente modernità dei versi di Dickinson: l’uso spasmodico di trattini, il quotidiano che fa capolino nell’infinito, scriveva De Simone in un pezzo uscito nel 2020: “Ancora in una lettera all’amica Elizabeth Holland, nel 1878, scriveva: ‘Dicono che Dio sia in ogni luogo, eppure pensiamo sempre a Lui come a una specie di eremita’. Verrebbe da rigirare la frase: pensiamo sempre ad Emily Dickinson come a una specie di eremita, eppure lei è in ogni luogo.” De Simone ha la capacità di tornare sui testi con uno sguardo puro, come se li leggesse sempre per la prima volta. È in grado di coglierne le linee d’ombra e si sa muovere su questo margine. E proprio l’ancoraggio ai testi (i tantissimi carteggi, le poesie spesso tradotte da De Simone stessa) è uno dei pregi più grandi di questo saggio. Non c’è l’inserimento di una voce all’interno di una storia editoriale, ma c’è una volontà precisa di eludere il mito e far emergere la voce originale di Dickinson. E ci riesce. Ci porta così vicini alla poeta da farcela sentire compagna, amica, confidente. La sua poesia diventa concreta. > E proprio l’ancoraggio ai testi è uno dei pregi più grandi di questo saggio. > Non c’è l’inserimento di una voce all’interno di una storia editoriale, ma c’è > una volontà precisa di eludere il mito e far emergere la voce originale di > Dickinson. Nella parte finale del saggio c’è un bellissimo capitolo intitolato “Zia Emily”, nel quale racconta il rapporto con i suoi nipoti Ned, Marty e Gib. Sono gli unici che, nel periodo della reclusione, possono varcare la soglia della sua stanza, origliare le conversazioni degli altri adulti, mangiare dolcetti cucinati da lei, praticare insieme la fantasia. Dickinson crea un gioco tutto per loro: prima si mette in cucina a sfornare qualche prelibatezza, poi lascia un bigliettino all’interno del cesto pieno di dolcetti e infine lo fa trasportare dall’altra parte del giardino, dove vivono i suoi nipoti e loro madre Susan. Questa è l’immagine che vorrei mi tornasse alla mente tutte le volte che in futuro leggerò Emily Dickinson. Il testo si chiude con un capitolo intitolato “Il mito” in cui si ribadisce la volontà non tanto di una contronarrazione, che sarebbe quasi un termine riduttivo, ma di una visione di “sbieco”. Scriveva Dickinson: “Di’ tutta la verità / ma dilla sbieca” e aggiunge De Simone: “per “sbieca” non s’intenda ambigua, equivoca, parziale: no, la verità va detta “tutta”, ma per traverso, inclinata, passando per quelle linee diagonali che sempre uniscono l’alto e il basso, la felicità e il dolore, la vita e la morte”. Ed è ciò che riesce a fare questo saggio, a unire i puntini (come fosse un gioco), e ricordare chi è stata Emily Dickinson. Una poeta, un’amante, una sorella, una zia, un corpo curioso e desiderante, misterioso e tangibile: > in fondo, quale immagine, chiarisce e mantiene il mistero di Emily Dickinson > più di quella di un uccello che canta, non visto, nei boschi? Il suo canto è > inevitabile, ci raggiunge, ci riguarda da vicino, eppure la sua origine rimane > segreta. Sicura presenza che non vediamo, ma ci attraversa. Come la poesia. > Come la vita. Raccontabile e irraccontabile. Perché, che cosa si può > aggiungere al canto di un uccello? Forse solo l’impressione verde di un ramo, > il lampo di una piuma che ci pare di aver visto nel fitto del fogliame. Era > lì? Era vera? Mentre il canto continua. L'articolo Sotto il vulcano proviene da Il Tascabile.
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La casa perduta
T ra il 1966 e il 1967 lo scrittore palestinese Mourid Al-Barghouti si trasferisce in Egitto per completare il suo percorso universitario. Gli mancano pochi esami e, a Ramallah, la madre lo aspetta, impaziente di vedere finalmente l’unico dei suoi figli laurearsi. Nelle prime pagine del suo testo più celebre, Ho visto Ramallah (2003), emerge da subito un’immagine familiare: quella delle pareti di casa, dove – a università terminata – si appende il diploma in bella mostra. Ma nel giugno 1967 ha inizio una nuova guerra, passata poi alla storia nel mondo arabo come Naksa, ovvero ‘ricaduta’. Israele occupa anche i territori della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, aggravando la crisi dei rifugiati iniziata con la Nakba del 1948: centinaia di migliaia di palestinesi sono nuovamente sfollati. > Mi consegnarono il diploma in Lingua e Letteratura inglese, ma non avevo più > una parete a cui appenderlo. La città era caduta e non avrei mai potuto > tornarvi. Ho visto Ramallah è la storia del ritorno, dopo trent’anni, dell’ormai adulto Al-Barghouti nella sua città natale. Un ritorno segnato dalla sofferenza di chi ha vissuto la ghurba, l’esilio. Una volta che l’hai provata, ne resti segnato per sempre. La ghurba “è come un’asma”, come una malattia di cui si inizia a soffrire e dalla quale non si può guarire. Introduce nell’esistenza una dimensione tragica, priva la vita di una casa cui tornare, ne fa un ricordo doloroso e inesorabile, nonché un dovere di memoria da custodire. Elisabetta Bartuli in The Passenger. Palestina (2023), sottolinea come, “nonostante le enormi diversità nelle condizioni di vita, di contesto amministrativo ed economico di cui raccontano” i romanzi degli scrittori palestinesi presentino caratteristiche comuni che li rendono “un unicum compatto e coeso all’interno della letteratura araba”. Ecco: la casa, come luogo simbolico di identità e appartenenza, è precisamente uno dei topoi che danno coerenza a questo unicum; un motivo ricorrente che la letteratura palestinese ha contribuito, insieme ad altri, a consolidare, e attraverso cui si esprimono significati che arrivano fino a questi giorni. > La ghurba, l’esilio, introduce nell’esistenza una dimensione tragica, priva la > vita di una casa cui tornare, ne fa un ricordo doloroso e inesorabile, nonché > un dovere di memoria da custodire. Nel tema della diaspora, la casa diventa simbolo di quell’intimità familiare – fatta di oggetti, gesti quotidiani, odori – che l’occupazione e la guerra hanno interrotto in modo fulmineo e traumatico. Con fatica si riesce a immaginare una simile condizione: da un momento all’altro, senza preavviso, abbandonare la propria casa senza potervi più fare ritorno. > Umm ‘Issa nei suoi ultimi giorni di vita non parlava che di un’unica cosa: il > tegame di zucchine. Aveva dovuto abbandonare casa sua, nel quartiere Qatamùn a > Gerusalemme, senza avere il tempo di spegnere il fuoco sotto il tegame di > zucchine. Elias Khoury, recentemente scomparso, è stato uno scrittore e intellettuale libanese tra i più autorevoli del mondo arabo. Il suo romanzo, La porta del sole (2004), è stato definito un’epopea del popolo palestinese. Intorno alla vicenda principale e ai suoi protagonisti si affollano numerose voci e storie. E in molti di questi racconti – anche nei più brevi, affidati a personaggi secondari – si rincorrono immagini di case abbandonate in tutta fretta. > Sono andato nella casa […]. Era deserta. Sono entrato. Delle coperte per > terra, dei sacchi di plastica, delle pentole e odore di cibo ammuffito. Come > se avessero sgomberato in fretta e furia, senza tempo sufficiente per > organizzare il viaggio. […] Sono entrato e mi sono reso conto che stavo > piangendo. Ero nel mezzo del nulla, in mezzo alle lacrime. E ho capito che era > perduta. Nella letteratura palestinese delle origini, il topos della casa è centrale nel raccontare il trauma dell’esilio e della perdita inflitti dalla Nakba. In questa fase, è spesso ancora il fulcro di una nostalgia nella quale struggersi. Della propria casa, si ha nostalgia di tutto. Perfino “della muffa” che ne ricopriva le pareti. E alla casa si desidera soltanto fare ritorno. Anche se ne fosse rimasta solo una pietra. > Della propria casa, si ha nostalgia di tutto. Perfino “della muffa” che ne > ricopriva le pareti. La casa non è un’idea astratta. Non è una metafora, è > questo luogo fatto di cose concrete che si sono perdute. Ghassan Kanafani è stato tra i maggiori esponenti della narrativa della resistenza, assassinato nel 1972 a Beirut da un’autobomba del Mossad. Nel suo Ritorno a Haifa (2001), Said e Safiyya sono una coppia palestinese che, dopo vent’anni di esilio forzato, torna a Haifa: la città da cui erano stati cacciati e nella quale avevano dovuto abbandonare il figlio neonato, Khaldun. Quando tornano, scoprono che il figlio è stato adottato da un’ebrea sopravvissuta all’Olocausto, che ora vive nella casa che un tempo era loro. Il figlio, che ora si chiama Dov, milita nell’esercito israeliano, e rifiuta ogni legame con i suoi genitori naturali. Poco prima che il racconto sveli questa sua sconvolgente verità, è descritto il momento in cui Said e Safiyya salgono le scale della loro vecchia casa. Said non vuole dare alla moglie, e neppure a sé stesso, “la possibilità di osservare quelle piccole cose che – lo sapeva – lo avrebbero commosso: il campanello, il pomello di ottone alla porta, gli scarabocchi di matita sul muro, il contatore dell’elettricità, il quarto scalino rotto nel mezzo…”. La casa non è un simbolo, non è un’idea astratta. Non è una metafora, è questo luogo fatto di cose concrete che si sono perdute. Entrando, Said riesce ancora a vedere in casa sua “molte cose che un tempo gli erano state familiari e che anche quel giorno continuava a considerare tali: cose intime, private”, che mai avrebbe pensato che qualcuno potesse toccare o guardare: una fotografia di Gerusalemme, un piccolo tappeto di Damasco. Said ritrova “le sue cose” ma, guardandole, le vede mutate. Come se a osservarle fossero due paia di occhi diversi: quelli del passato e quelli di un presente che non gli appartiene più. Lo stesso accade, in La porta del sole, a Umm Hasan. > Umm Hasan, come tutti coloro che sono tornati a vedere le loro case, diceva: > “Ogni cosa era al suo posto, ogni cosa era rimasta com’era. Persino la brocca > di terracotta.” >  — La brocca. >  — L’ho trovata qui. Non la uso. La prenda, se la vuole. >  — No, grazie. Il passaggio dalla casa abitata alla casa occupata segna una svolta anche nei significati. Da simbolo di perdita e sradicamento – da cui deriva anche il più famoso simbolo delle chiavi lasciate sulla porta – la casa diventa un topos per esplorare la realtà dell’occupazione e della guerra e, da qui, la condizione di estraneità e d’incertezza esistenziale, la frammentazione identitaria, a cui il popolo palestinese è stato condannato. Lì, proprio nel perimetro della casa, dove si tocca “l’essenza più profonda della vita” (Nour Abuzaid), qualcun altro si è insediato con la forza. > Il passaggio dalla casa abitata alla casa occupata segna una svolta anche nei > significati. Lì, proprio nel perimetro della casa, qualcun altro si è > insediato con la forza. È Israele che “con la scusa del cielo, ha occupato la terra”. Il contatore dell’elettricità è al solito posto, la brocca e il tappeto di Damasco anche. Eppure, non si riesce a riconoscerli. Come accade quando, a forza di guardare troppo a lungo una cosa, o di ripetere insistentemente una parola, se ne perde l’essenza: il suono si svuota, l’immagine si spegne. Ora anche chi riesce a tornare a casa si sente fuori posto. Un estraneo. In La porta del sole c’è un passaggio importante in cui Nahila, rimasta a vivere nel suo villaggio diventato territorio israeliano, si oppone con forza al marito Yunis, che invece è un combattente della resistenza e vive in clandestinità dentro le grotte. Alla retorica del sacrificio e del martirio, alle storie di eroismo, che trasfigurano la sofferenza vissuta in mito, Nahila rivendica le vere storie. Quelle che raccontano che le persone sono divenute estranee persino a sé stesse. E che, pur non impugnando le armi, si fanno portavoce di una resistenza più silenziosa e quotidiana. > Tu non sai niente. Secondo te la vita sono queste distanze che attraversi per > arrivare qui col tuo odore di foresta. […] Che storie sono queste dell’odore > di lupo, del profumo del timo selvatico, dell’olivo romano? Sai chi siamo? La vita di coloro che sono rimasti a vivere nella propria casa, in regime di occupazione, è costantemente segnata da un senso di precarietà. Anche il rimanere diventa una forma di esilio. Uscire di casa non è un gesto neutro, ma può diventare una scommessa sul ritorno e un desiderio di tornare “per intero”, senza scontare la dispersione dell’identità, la frammentazione del sé che l’occupazione impone ogni giorno. > La vita di coloro che sono rimasti a vivere nella propria casa, in regime di > occupazione, è costantemente segnata da un senso di precarietà. Anche il > rimanere diventa una forma di esilio. Lo scrive con spietata chiarezza Maya Al-Hayat, poetessa palestinese nata a Beirut e cresciuta a Gerusalemme Est, oggi tra le voci più incisive della letteratura contemporanea, capace di raccontare con feroce semplicità l’intimità stravolta del vivere sotto l’occupazione. > Ogni volta che esco di casa > è un suicidio > e ogni ritorno, un tentativo fallito. […] > Voglio tornare a casa intera. Talvolta non resta nemmeno una casa a cui tornare. Solo tende: orizzonte ultimo dell’esilio, dove l’idea stessa di abitare si riduce a un’ombra di stoffa esposta al vento. Scrive Yousef Elquedra, in una poesia dedicata agli accampamenti della zona umanitaria di al-Mawasi: > La tenda è un corpo fragile […] > La tenda non è una casa > è una promessa di attesa > e ogni impeto di vento > ti ricorda che sei di passaggio > su una terra che non porta il tuo nome. Anche la tenda, come la casa, è esposta poi al rischio dell’esproprio. “Ci rendete stranieri nella nostra terra” si sente dire nel documentario No Other Land (2024) di Basel Adra, Yuval Abraham, Rachel Szor e Hamdan Ballal. Anche se “la distanza tra due case è a una fila di alberi”, ci si sente trattati come estranei e persino la lingua madre, che è “tutto ciò che resta a colui che è privato della sua patria” (Friedrich Hölderlin), punto massimo di contatto con le proprie radici e “casa” simbolica` alla quale tornare quando il resto è perduto, è costantemente posta sotto assedio. > Lasciatemi parlare la mia lingua Araba > prima che occupino anche quella. > Lasciatemi parlare la mia madrelingua > prima che colonizzino anche la sua memoria. Così la poetessa e attivista Rafeef Ziadah, nota per la sua poesia performativa, in cui parole e musica si fondono in un atto di resistenza per denunciare l’oppressione e l’oblio. > Mia madre è nata sotto un albero di ulivo > su una terra che dicono non essere più mia. L’ulivo: più di ogni altra, la pianta della Palestina. Cresce nei giardini delle case, le famiglie ne tramandano la cura da generazioni. Le olive si offrivano in dono; con l’olio, le nonne bagnavano il pane per sfamare i nipoti. E con lo stesso olio – fonte di ogni cura – si curavano le malattie. > Noi viviamo di olio. Siamo il popolo dell’olio. Loro invece tagliano gli olivi > e piantano palme. Hanno sradicato gli olivi. Non so perché odiano gli olivi e > piantano le palme. > (La Porta del Sole). Gli olivi si scorgono anche sullo sfondo di un celebre video, diventato virale, in cui la giornalista e attivista Muna Al-Kurd, ferma con i piedi nei confini del suo giardino, grida contro un colono israeliano: “Stai rubando la mia casa.” E il colono risponde freddamente: “Perché mi urli contro? Se non lo faccio io, lo farà qualcun altro”.  Qualcuno potrebbe obiettare: è la guerra. Ma questa è una guerra che mira a cancellare le tracce, a riscrivere la geografia della memoria, e che non si accontenta di distruggere, ma vuole sradicare. Estirpare con la forza cieca di una ruspa. La stessa che ancora campeggia, inquietante, come immagine-simbolo sulla locandina di No Other Land. > Talvolta non resta nemmeno una casa a cui tornare. Solo tende: orizzonte > ultimo dell’esilio, dove l’idea stessa di abitare si riduce a un’ombra di > stoffa esposta al vento. Nel tentativo di spezzare l’intreccio tra le persone e i luoghi, tra la lingua e le radici, si inserisce anche il grottesco video generato dall’intelligenza artificiale e diffuso da Trump, dove Gaza è ridotta a un resort. Un luogo artificiale su un lungomare costellato di palme. Palme al posto degli olivi. Ma gli alberi, in Palestina, non sono solo alberi. Sono “costole d’infanzia”, come scrive Mahmoud Darwish. E la rimozione dell’olivo non è solo distruzione agricola: è simbolo di perdita radicale. È la cancellazione della storia, della terra e soprattutto dei diritti che vi erano radicati. In La porta del sole Yunis attraversa l’oliveto di Tarshìha e si rende conto che il “suo” olivo romano, testimone di ogni momento importante della sua vita e di quella dei suoi avi, non c’è più. Con l’albero antichissimo, cade anche la memoria viva della terra. > Yunis indossò il lutto per l’albero. Un sentimento di disorientamento, impotenza politica e frustrazione emerge quando si cerca di comprendere la realtà che stiamo vivendo. La maggior parte di noi non sa cosa possa significare “mettersi la guerra in bocca come fosse una gomma da masticare” quando sei poco più che un ragazzo. Questa distanza non si risolve informandosi o nel tentativo di partecipare al dibattito pubblico. Specialmente di fronte alla questione palestinese, la distanza tra ciò che si legge e ciò che realmente si riesce a comprendere sembra incolmabile. Per questo motivo, la letteratura diventa una risorsa, una “porta del sole” verso la complessità del mondo. Un modo per affinare empatia e consapevolezza, per esplorare ciò che travalica il nostro vissuto personale. La letteratura restituisce profondità a ciò che il discorso mediatico tende a semplificare e uniformare. Scrive Mourid Al-Barghouti che “a forza di sentire certe espressioni, sui giornali e sulle riviste”, si finisce per pensare ai Territori Occupati “come a un luogo immaginario alla fine del mondo”. E ci si convince che non esista nessun modo per raggiungerlo. Al-Barghouti rivendica con forza la necessità di non ridurre la Palestina a una pura astrazione. Ci ricorda come i palestinesi siano prima di tutto degli individui. L’occupazione ha creato “intere generazioni che non hanno un luogo in cui ricordare suoni e profumi”, generazioni “che non hanno mai coltivato, né costruito, né commesso neppure il più piccolo errore umano nella propria terra”, e ha trasformato la patria in un simbolo inchiodato al passato. Ma la patria non è un arancio, non è un ulivo. La patria è fatta di persone. > “A forza di sentire certe espressioni, sui giornali e sulle riviste”, alla > fine si finisce per pensare ai Territori Occupati “come a un luogo immaginario > alla fine del mondo”. E ci si convince che non esista nessun modo per > raggiungerlo. Un popolo, scrive ancora Al-Barghouti, cui sono stati tolti diritti e futuro, e a cui è stata “bloccata l’evoluzione delle società e delle vite”, impedendo lo sviluppo. La Palestina non è (o non è solo) “la questione inserita nei programmi dei partiti politici, non è un argomento di discussione”. Non è “la catenina che adorna il collo delle donne in esilio”. Non è “la prima pagina di apertura di un giornale”. Non è l’anguria esposta a una manifestazione. È invece un luogo “concreto come uno scorpione”, che ha “i suoi colori, una temperatura, e arbusti che crescono spontanei”. E gli insediamenti non sono costruzioni “fatte da bambini con i Lego”. Sono invece la diaspora palestinese. In La porta del sole c’è un passo in cui si dice che gli scrittori e gli intellettuali non combattono, ma piuttosto “osservano la morte, scrivono, e credono di morire”. È vero, la guerra ci passa accanto e noi, forse, ci “aggrappiamo a una poesia”. Pure, questa rimane ancora una forma importante per la verifica delle nostre qualità umane. Una risposta che possiamo darci alla domanda “Se questo è un uomo”. L'articolo La casa perduta proviene da Il Tascabile.
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