
Animali in guerra
Il Tascabile - Monday, December 15, 2025U n rivolo di sangue sgorga dal muso di una capra. È distesa su un fianco, sul terreno umido a tratti tappezzato di muschio e ricoperto da una pioggia di frammenti di legno, metallo e vetro. Un occhio aperto, lo sguardo nel vuoto, la pelliccia sporca e la pelle squarciata. Poco più lontano è visibile un altro esemplare, perso tra i detriti, anche lui privo di vita. Intorno a loro c’è neve e distruzione: finestre rotte, tetti divelti da cui spuntano murature decorate e totem colorati. Il Feldman Ecopark, uno zoo alla periferia di Charkiv, in Ucraina, il 2 marzo 2025 è stato colpito durante l’attacco russo di droni Shahed, armi kamikaze a lungo raggio. I due ungulati uccisi, tra cui una femmina gravida, erano stati precedentemente salvati da una zona di combattimento e portati nel parco, con la speranza che potessero sopravvivere.
Gli animali sono spesso considerati vittime di serie B della guerra, che la società ci insegna a far passare in secondo piano rispetto al dramma umano, sebbene sopportino una violenza dirompente, spaventosa e per loro incomprensibile. I conflitti armati possono esasperare l’ambiguità che caratterizza il nostro rapporto con gli altri animali. Sono una lente impietosa sugli abissi della nostra morale.
Il massacro di Londra e i gatti di Gaza
Dai primi mesi del conflitto russo-ucraino, i media hanno diffuso immagini di profughi costretti ad abbandonare casa e affetti. Alcuni sono accompagnati dagli animali con cui, fino a quel momento, avevano condiviso la propria vita, allo stesso tempo simbolo e incarnazione di una dimensione familiare. Quelle mostrate nei telegiornali e sulle piattaforme social sono rappresentazioni accoglienti, che suscitano empatia e fanno quasi dimenticare il prezzo da sempre pagato dagli animali da compagnia in zone di guerra, che invece, spesso, sono considerati oggetti da sacrificare o legami da rompere per disumanizzare il nemico.
Gli animali sono spesso considerati vittime di serie B della guerra, che la società ci insegna a far passare in secondo piano rispetto al dramma umano, sebbene sopportino una violenza dirompente, spaventosa e per loro incomprensibile.
Era il 3 settembre 1939 quando la BBC annunciò che la Gran Bretagna aveva dichiarato guerra alla Germania. Siamo agli albori della Seconda guerra mondiale. Alla cittadinanza venne chiesto di prepararsi ai raid aerei e una precauzione su tutte probabilmente raggelò il sangue degli inglesi: il governo li sollecitò a portare i propri animali domestici nelle campagne e, nel caso non ci fossero stati vicini disponibili a occuparsi di loro, a sopprimerli con l’aiuto di un veterinario. Senza curarsi dell’opposizione di alcuni gruppi di protezione animale, circa 400.000 tra gatti, cani, uccelli e conigli vennero eliminati, come racconta la storica Hilda Kean nel suo libro The Great Cat and Dog Massacre (2017). Ci fu chi obbedì forse con pochi scrupoli, chi soppresse i propri compagni non umani per risparmiare loro la sofferenza dei bombardamenti, chi li graziò e, in qualche modo, ne riconobbe l’individualità e una forma di agentività, condividendo con loro il cibo, gli spazi, la paura e il dolore.
Quest’ultimo caso ci porta a Gaza, ai giorni nostri. Le immagini che ci sono giunte mostrano gatti feriti e traumatizzati dallo scoppio delle bombe, dalla perdita di un rifugio, dalla fame e dalla sete, ma anche salvati da medici e veterinari, aiutati e accolti dai palestinesi o, ancora, con le loro famiglie umane mentre vivono insieme piccoli momenti di spensieratezza. Neha Vora, docente di antropologia nel Dipartimento di Studi internazionali dell’American University of Sharjah negli Emirati Arabi Uniti ha commentato così queste storie:
Quello che i gatti di Gaza ci insegnano è che il trauma della Palestina è un trauma multispecie. Non ci insegnano che anche i palestinesi sono umani, poiché questa è un’affermazione che continua a definire l’umano contro qualcosa che non è, qualcosa che sarà sempre escluso, abietto e quindi eliminabile. Credo che i palestinesi e i loro gatti siano così coinvolgenti per molti di noi perché sfidano le visioni liberali dell’umanità e le smascherano come modi coloniali di definire il mondo, la soggettività e le fantasie di libertà. L’“Umanità” non ci condurrà mai a una giustizia e pace universali.
Umanità. È una parola che apparentemente si collega allo stesso universo semantico della compassione e della pietà, ma che in realtà si nutre di una visione gerarchica del mondo naturale, in cui l’animale è inferiore, e animale diventa o deve diventare chiunque incarni il nemico da combattere. Una prospettiva che, in parte e non a caso, ritroviamo nella struttura e nella gestione degli zoo, in cui le sbarre o altre barriere separano gli esseri umani dalle altre specie esposte e nei quali siamo sempre noi a poter decidere delle loro esistenze secondo le nostre necessità
Un’ingannevole arca di Noè
Nel volume World War Zoos. Humans and Other Animals in the Deadliest Conflict of the Modern Age (2025), lo storico John M. Kinder ricostruisce la vita degli zoo dal periodo della Grande depressione alla Seconda guerra mondiale, fino ai primi anni della guerra fredda. Kinder illustra come la visione gerarchica degli esseri viventi, e in particolare la disumanizzazione di determinati gruppi, fosse un aspetto centrale dell’ideologia nazista, evidente nel modo in cui venivano trattati sia gli esseri umani sia gli animali.
Le metafore legate agli animali sono servite e servono ancora oggi a giustificare i delitti commessi e a comprendere e articolare azioni aberranti.
Un esempio emblematico è quello del campo di concentramento di Buchenwald e del suo giardino zoologico. Il progetto, sostenuto sin dall’inizio da Karl-Otto Koch, a capo del campo dal 1937 al 1941, era pensato come luogo ricreativo ed edificante per le SS e le loro famiglie e come una fonte di umiliazione e tormento per i prigionieri. Lo zoo serviva, infatti, a ricordare loro la presunta inferiorità rispetto agli animali in gabbia: gli umani reclusi erano spogliati della dignità, resi sacrificabili per qualsiasi contingenza e costretti persino a finanziare la struttura con “contributi volontari”. Gli animali di Buchenwald ricevevano un’alimentazione migliore dei prigionieri, tanto che molti di loro cercavano di lavorare nello zoo per ottenere una razione extra. Kinder spiega:
Il legame retorico tra animali ed Ebrei, l’obiettivo principale della Soluzione finale di Hitler, giocò un ruolo importante nel legittimare l’Olocausto agli occhi dei suoi esecutori. Esisteva una lunga storia di equiparazione degli Ebrei ad animali (maiali, cani) e a malattie, amplificata dai propagandisti nazisti.
Le metafore legate agli animali sono servite e servono ancora oggi a giustificare i delitti commessi e a comprendere e articolare azioni aberranti. Per descrivere l’uccisione da parte di privati cittadini di civili indifesi nell’assedio di Sarajevo, durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina degli anni Novanta, si usano termini come “attività venatoria”, “cacciatori”, “prede” e “safari”. Le notizie parlano di gruppi di cecchini/cacciatori che spendevano cifre nell’ordine di grandezza di decine di migliaia di euro per sparare a persone indifese, trasformate in target classificati in base a un tariffario, esattamente come accade nei safari di caccia in Africa. Se nel vecchio continente gli obiettivi più costosi sono specie iconiche e minacciate dall’estinzione, come leoni, elefanti e rinoceronti, nei Balcani sembra che bambine e bambini fossero in cima al listino. Non più vite, solo trofei da collezionare.
Allo stesso modo, come evidenziato da Kinder nel suo libro, durante il secondo conflitto mondiale e anche in seguito, gli zoo offrirono alle persone metafore per aiutarle a comprendere le esperienze di prigionia, impotenza e degradazione. In quegli anni le gabbie divennero teatro di orrore, dolore e ideologia. I destini di gran parte degli esemplari rinchiusi negli zoo furono impietosi. Alcuni riuscirono a esser trasferiti in luoghi più protetti, mentre molte delle specie più pericolose, quelle carnivore o velenose, furono uccise per evitare che costituissero un’ulteriore minaccia in caso di fuga dopo un bombardamento. La stessa sorte toccò agli animali più costosi da mantenere, tra cui quelli marini. Molti altri rimasero intrappolati, senza la possibilità di mettersi in salvo: morirono di fame e di sete tra atroci sofferenze, subirono le esplosioni riportando ferite, orribili mutilazioni e danni psicologici irreparabili o divennero oggetto di saccheggio e di improvvisate battute di caccia. Accadde proprio questo nel 1939, durante l’invasione della Polonia da parte dell’esercito nazista. Il direttore dello zoo di Berlino, Lutz Heck, dopo aver messo da parte gli esemplari più pregiati dello zoo di Varsavia, permise ad alcune SS di usare gli animali ancora in gabbia come bersagli per la notte di Capodanno.
Un tempo i giardini zoologici erano perlopiù luoghi di intrattenimento, e una dimostrazione del potere degli Stati sulle proprie colonie, da cui alcuni esemplari provenivano. Oggi gli obiettivi dichiarati sono l’educazione, la ricerca e la conservazione.
Ancora oggi gli animali degli zoo sono costretti a spostarsi sotto i bombardamenti, le loro vite vengono distrutte dalle esplosioni, dalla fame e dalla sete, o diventano cibo per soldati. Nella prima parte del Ventesimo secolo, i giardini zoologici erano per lo più luoghi di intrattenimento e una dimostrazione del potere degli Stati sulle proprie colonie, da cui alcuni esemplari provenivano. Attualmente i tre principali obiettivi di queste istituzioni sono l’educazione, la ricerca e la conservazione. Quest’ultimo scopo prevede la tutela di specie a rischio di estinzione attraverso progetti in situ, in cui gli esemplari sono protetti nei loro habitat, e attività ex situ, che prevedono la detenzione di individui in cattività per il mantenimento di popolazioni di animali che potrebbero scomparire in natura. Gli zoo sono, quindi, una sorta di arca di Noè la cui efficacia, secondo Kinder, è dubbia, soprattutto in tempi di guerra:
Se gli zoo vogliono sopravvivere ai conflitti di questo secolo, devono abbandonare la metafora dell’arca. Di fronte alla minaccia di catastrofiche perturbazioni climatiche, il mondo non ha bisogno di una flotta di scialuppe di salvataggio progettate per aiutare specie selezionate ad attraversare quaranta giorni e quaranta notti metaforiche di tumulto. Piuttosto, abbiamo bisogno di una strategia per sopravvivere a un clima alterato a tempo indefinito. Come minimo, dobbiamo porci domande difficili sul fatto che i vantaggi degli zoo superino i loro evidenti svantaggi, incluso il disagio fisico e mentale sopportato dalle specie in cattività.
La promessa di salvezza degli zoo sembra ancora più debole nelle zone di conflitto, dove ai danni apportati a queste strutture e ai loro occupanti si sommano ingenti disastri ambientali.
I pericoli per la fauna selvatica e il reato di ecocidio
Le lotte armate hanno spesso luogo in ecosistemi fragili e hotspot di biodiversità, producendo conseguenze devastanti su molte specie di animali selvatici. Nella Repubblica Democratica del Congo, anni di guerra hanno ridotto significativamente la popolazione di ippopotami: dai circa 30.000 esemplari, presenti nel 1974, si è passati a meno di 1000 verso la fine della guerra civile congolese, nel 2005. Gli esemplari sono poi aumentati fino a 2500 nel 2018, per poi essere nuovamente minacciati dai gruppi di ribelli, che hanno iniziato a cacciarli di frodo per venderne la carne e finanziare le loro attività. A oggi la popolazione di questi mammiferi si attesta intorno ai 1200 esemplari, sui quali incombono nuovi pericoli, come l’avvelenamento da antrace.
In Mozambico la guerra civile, combattuta tra il 1977 e il 1992, ha portato all’uccisione di circa il 90% degli elefanti, le cui zanne in avorio erano vendute per sovvenzionare i combattenti. La caccia intensa avrebbe addirittura favorito la mutazione genetica associata alla mancata formazione delle zanne nelle femmine. In Iraq, nel 2016, l’ISIL (Islamic State in Iraq and the Levant) ha attaccato una raffineria di petrolio. Poco meno di venti pozzi esplosi hanno causato l’innalzamento di una nube tossica e una massiccia fuoriuscita di petrolio. Il risultato è stato la contaminazione di suolo e acque, un ostacolo concreto alla sopravvivenza della vicina cittadina di Qayarrah e un gravissimo danno per la fauna della regione. Le invasioni militari possono persino portare all’introduzione volontaria o accidentale di specie aliene, in grado di esercitare impatti negativi sugli ecosistemi delle aree conquistate e sui loro abitanti.
Oggi sappiamo bene quanto queste azioni possano produrre danni irreparabili all’ambiente, con un effetto domino che potrebbe estendersi globalmente, eppure non abbiamo a disposizione strumenti abbastanza efficaci per arginarli. Lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, nell’articolo 8 (2)(b)(iv) sui crimini di guerra, prevede che sia considerato reato lanciare attacchi deliberati nella consapevolezza di produrre “danni diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale che siano manifestamente eccessivi rispetto all’insieme dei concreti e diretti vantaggi militari previsti”. Una norma eccessivamente generica, una lacuna giuridica che si sta cercando di colmare da decenni spingendo per il riconoscimento del reato di ecocidio.
Oggi sappiamo quanto le guerre possano produrre danni irreparabili all’ambiente, con effetti di portata globale, eppure non abbiamo a disposizione strumenti efficaci per arginarli. Il riconoscimento del reato di ecocidio è un passo importante in questa direzione.
Il termine è stato utilizzato per la prima volta dal biologo Arthur Galston, negli anni Settanta, per descrivere la deforestazione su larga scala causata dall’uso dell’Agent Orange da parte degli Stati Uniti d’America durante la guerra del Vietnam. Negli anni Duemila il concetto è stato riproposto dall’avvocata Polly Higgins e infine, nel 2021, è stata presentata una definizione legale alla Corte penale internazionale, per cui “‘ecocidio’ significa atti illegali o arbitrari commessi nella consapevolezza di una sostanziale probabilità di causare un danno grave e diffuso o duraturo all’ambiente con tali atti”.
Sono crimini non riconosciuti che continuano a essere perpetrati senza la certezza di un processo e di un’eventuale condanna dei colpevoli: alcuni esempi recenti sono la distruzione della copertura arborea e dei terreni agricoli di Gaza, con fattorie e uliveti abbattuti, suolo, falde acquifere, mare e aria inquinati, e l’impatto sugli ecosistemi e la biodiversità del conflitto in Ucraina. Gli animali non umani sembrano quasi invisibili in questi scenari, sebbene la loro esistenza presente e futura venga cancellata attraverso le uccisioni e la distruzione degli habitat in cui prosperano.
Violenze necessarie: al punto di dissoluzione del Diritto internazionale umanitario
Non sono solo gli animali da compagnia, quelli degli zoo e la fauna selvatica a subire gli effetti degli scontri. Gli animali allevati vengono macellati, rubati, bombardati o lasciati morire di fame. Esistono specie utilizzate direttamente nei conflitti come mezzi di trasporto, tra i quali ci sono i cavalli, gli asini, i muli, gli elefanti e i cammelli, mammiferi addestrati a rilevare esplosivi, quali elefanti, cani e ratti, oppure cetacei preparati per cercare sottomarini e lasciati esplodere per distruggerli, tra cui i delfini. Come illustra l’articolo “Animals in War: At the Vanishing Point of International Humanitarian Law”, pubblicato nel 2022 nell’International Review of the Red Cross, malgrado la loro vulnerabilità nelle situazioni appena descritte, gli animali sono ancora ampiamente ignorati dal Diritto internazionale umanitario (DIU), che rimane prevalentemente antropocentrico. Essi non godono di uno status legale esplicito, non ne viene riconosciuta la senzienza, né sono concessi loro diritti, nonostante ci siano alcuni Paesi i cui ordinamenti giuridici hanno cominciato a considerare la soggettività e la capacità di provare dolore di questi esseri viventi.
Anne Peters e Jérôme de Hemptinne, autori della pubblicazione, suggeriscono due strategie principali per affrontare la mancanza di una specifica protezione nel diritto internazionale umanitario. La prima consisterebbe nell’applicare in modo più efficace le norme già esistenti, ampliandone l’interpretazione per includere gli animali nelle categorie protette previste: potrebbero essere assimilati a combattenti o prigionieri di guerra, a civili, oppure a oggetti. Tale approccio prevederebbe la rilettura delle disposizioni relative alla difesa dell’ambiente, del patrimonio culturale e delle aree protette, riconoscendo che gli animali sono esseri viventi capaci di provare sofferenza e grave disagio (distress).
La seconda strategia contempla l’adozione di un nuovo strumento internazionale volto a riconoscere specifici diritti agli animali, in particolare il divieto di utilizzarli come armi. Si tratta di una prospettiva di lungo periodo, ancora lontana, poiché richiederebbe a molti Stati di superare profonde barriere concettuali riguardanti la personalità giuridica degli animali non umani e di accettare eventuali limitazioni nella conduzione dei conflitti armati per proteggerli. Il tutto in un contesto in cui i precedenti tentativi di varare una convenzione internazionale sul benessere animale non hanno finora riscontrato grande successo.
Malgrado la loro estrema vulnerabilità nei teatri di guerra, gli animali sono ancora ampiamente ignorati dal Diritto internazionale umanitario (DIU), che rimane prevalentemente antropocentrico.
Però, come il giurista inglese Hersch Lauterpacht ha scritto in passato, il DIU è “al punto di dissoluzione del diritto internazionale” e gli autori del paper sostengono che in questo sia simile al diritto animale, con i debiti cambiamenti, e che la loro intersezione, seppure foriera di estreme difficoltà, non dovrebbe fermarci dal voler perseguire un’“utopia realistica” per gli animali a livello mondiale. È possibile partire dall’attuale situazione internazionale per poi cercare di ampliare quelli che sono considerati i limiti della praticabilità politica.
Il DIU e il diritto legato al benessere animale sono entrambi corpi normativi che non vietano la violenza, ma concedono lo spazio a una violenza ritenuta “necessaria”, di fatto legittimandola. Sebbene, come sottolinea l’articolo, questa somiglianza dovrebbe facilitare l’estensione del campo di applicazione del DIU agli animali non umani, certamente fa emergere quella ambiguità che, anche in condizioni di pace, esiste nei trattamenti che riserviamo loro. La percepiamo quando accettiamo le condizioni in cui versano negli allevamenti intensivi oppure la cattività e la scelta di sopprimere alcuni esemplari negli zoo per calcolo economico, perché spazio e risorse delle strutture sono limitate, o per esigenze di conservazione, al fine di mantenere l’equilibrio tra maschi e femmine di una specie o prevenire il rischio di consanguineità. O ancora, quando acconsentiamo alla sperimentazione animale.
I conflitti armati rendono ancora più tangibile l’ambiguità che caratterizza il nostro rapporto con gli altri animali, anche e soprattutto in tempo di pace.
Il confine tra amore, rispetto per la vita degli animali non umani, violenza e sopravvivenza può farsi eccezionalmente labile. Lo spiega Kinder, sempre attingendo dall’esperienza del campo di concentramento di Buchenwald, quando parla del poema satirico Eine Bären-Jagd im KZ Buchenwald (in italiano Una caccia all’orso nel campo di concentramento di Buchenwald), scritto e illustrato dal sopravvissuto al campo Kurt Dittmar nel 1946. L’opera ripercorre la breve vita di Betti, un’orsa allevata nello zoo del campo, dall’arrivo come cucciolo alla morte per mano di un comandante. L’orsa è inizialmente servita e riverita dai detenuti per ordine delle SS, si nutre di buon cibo, gode di spazio all’interno della sua gabbia ed è per questo oggetto di invidia da parte dei prigionieri. Con il trascorrere del tempo la milizia nazista aggiunge alla collezione dello zoo altri animali e Betti, stanca della nuova compagnia, abbatte il recinto elettrico e fugge nella foresta. I detenuti tentano invano di catturarla, finché il vicecomandante non la uccide e ne riporta indietro il corpo come un trofeo. L’illustrazione di Dittmar raffigura alcuni prigionieri sconvolti davanti alla carcassa dell’orsa, consapevoli di condividere il suo destino di preda braccata. Costretti ad arrostirne le carni per la festa delle guardie, non ne assaggiano neanche un boccone, ma continuano a sognare: la libertà, il cibo e la giustizia contro i loro aguzzini. Nonostante sia ispirato a eventi reali, il poema non è un resoconto storico, ma conserva in sé una realtà difficile da accettare.
Scrive l’autore di World War Zoos:
Ciò che otteniamo invece è qualcosa di più interessante: una riflessione sul potere e sui limiti dell’empatia. Nel racconto di Dittmar, i prigionieri umani di Buchenwald riconoscono che la vita di Betti è sempre appesa a un filo, che lei è preziosa fino al momento in cui le SS decidono diversamente. Pure lei è una prigioniera, anche se ha pasti migliori e una gabbia più bella. Ma questo non significa che non proveranno a rubarle il cibo o a rosicchiare le sue ossa spolpate. Nella Buchenwald di Dittmar, i prigionieri possono sia piangere per l’uccisione di Betti sia sbavare affamati sul suo cadavere sfrigolante.
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