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Animali in guerra
U n rivolo di sangue sgorga dal muso di una capra. È distesa su un fianco, sul terreno umido a tratti tappezzato di muschio e ricoperto da una pioggia di frammenti di legno, metallo e vetro. Un occhio aperto, lo sguardo nel vuoto, la pelliccia sporca e la pelle squarciata. Poco più lontano è visibile un altro esemplare, perso tra i detriti, anche lui privo di vita. Intorno a loro c’è neve e distruzione: finestre rotte, tetti divelti da cui spuntano murature decorate e totem colorati. Il Feldman Ecopark, uno zoo alla periferia di Charkiv, in Ucraina, il 2 marzo 2025 è stato colpito durante l’attacco russo di droni Shahed, armi kamikaze a lungo raggio. I due ungulati uccisi, tra cui una femmina gravida, erano stati precedentemente salvati da una zona di combattimento e portati nel parco, con la speranza che potessero sopravvivere. Gli animali sono spesso considerati vittime di serie B della guerra, che la società ci insegna a far passare in secondo piano rispetto al dramma umano, sebbene sopportino una violenza dirompente, spaventosa e per loro incomprensibile. I conflitti armati possono esasperare l’ambiguità che caratterizza il nostro rapporto con gli altri animali. Sono una lente impietosa sugli abissi della nostra morale. Il massacro di Londra e i gatti di Gaza Dai primi mesi del conflitto russo-ucraino, i media hanno diffuso immagini di profughi costretti ad abbandonare casa e affetti. Alcuni sono accompagnati dagli animali con cui, fino a quel momento, avevano condiviso la propria vita, allo stesso tempo simbolo e incarnazione di una dimensione familiare. Quelle mostrate nei telegiornali e sulle piattaforme social sono rappresentazioni accoglienti, che suscitano empatia e fanno quasi dimenticare il prezzo da sempre pagato dagli animali da compagnia in zone di guerra, che invece, spesso, sono considerati oggetti da sacrificare o legami da rompere per disumanizzare il nemico. > Gli animali sono spesso considerati vittime di serie B della guerra, che la > società ci insegna a far passare in secondo piano rispetto al dramma umano, > sebbene sopportino una violenza dirompente, spaventosa e per loro > incomprensibile. Era il 3 settembre 1939 quando la BBC annunciò che la Gran Bretagna aveva dichiarato guerra alla Germania. Siamo agli albori della Seconda guerra mondiale. Alla cittadinanza venne chiesto di prepararsi ai raid aerei e una precauzione su tutte probabilmente raggelò il sangue degli inglesi: il governo li sollecitò a portare i propri animali domestici nelle campagne e, nel caso non ci fossero stati vicini disponibili a occuparsi di loro, a sopprimerli con l’aiuto di un veterinario. Senza curarsi dell’opposizione di alcuni gruppi di protezione animale, circa 400.000 tra gatti, cani, uccelli e conigli vennero eliminati, come racconta la storica Hilda Kean nel suo libro The Great Cat and Dog Massacre (2017). Ci fu chi obbedì forse con pochi scrupoli, chi soppresse i propri compagni non umani per risparmiare loro la sofferenza dei bombardamenti, chi li graziò e, in qualche modo, ne riconobbe l’individualità e una forma di agentività, condividendo con loro il cibo, gli spazi, la paura e il dolore. Quest’ultimo caso ci porta a Gaza, ai giorni nostri. Le immagini che ci sono giunte mostrano gatti feriti e traumatizzati dallo scoppio delle bombe, dalla perdita di un rifugio, dalla fame e dalla sete, ma anche salvati da medici e veterinari, aiutati e accolti dai palestinesi o, ancora, con le loro famiglie umane mentre vivono insieme piccoli momenti di spensieratezza. Neha Vora, docente di antropologia nel Dipartimento di Studi internazionali dell’American University of Sharjah negli Emirati Arabi Uniti ha commentato così queste storie: > Quello che i gatti di Gaza ci insegnano è che il trauma della Palestina è un > trauma multispecie. Non ci insegnano che anche i palestinesi sono umani, > poiché questa è un’affermazione che continua a definire l’umano contro > qualcosa che non è, qualcosa che sarà sempre escluso, abietto e quindi > eliminabile. Credo che i palestinesi e i loro gatti siano così coinvolgenti > per molti di noi perché sfidano le visioni liberali dell’umanità e le > smascherano come modi coloniali di definire il mondo, la soggettività e le > fantasie di libertà. L’“Umanità” non ci condurrà mai a una giustizia e pace > universali. Umanità. È una parola che apparentemente si collega allo stesso universo semantico della compassione e della pietà, ma che in realtà si nutre di una visione gerarchica del mondo naturale, in cui l’animale è inferiore, e animale diventa o deve diventare chiunque incarni il nemico da combattere. Una prospettiva che, in parte e non a caso, ritroviamo nella struttura e nella gestione degli zoo, in cui le sbarre o altre barriere separano gli esseri umani dalle altre specie esposte e nei quali siamo sempre noi a poter decidere delle loro esistenze secondo le nostre necessità Un’ingannevole arca di Noè Nel volume World War Zoos. Humans and Other Animals in the Deadliest Conflict of the Modern Age (2025), lo storico John M. Kinder ricostruisce la vita degli zoo dal periodo della Grande depressione alla Seconda guerra mondiale, fino ai primi anni della guerra fredda. Kinder illustra come la visione gerarchica degli esseri viventi, e in particolare la disumanizzazione di determinati gruppi, fosse un aspetto centrale dell’ideologia nazista, evidente nel modo in cui venivano trattati sia gli esseri umani sia gli animali. > Le metafore legate agli animali sono servite e servono ancora oggi a > giustificare i delitti commessi e a comprendere e articolare azioni aberranti. Un esempio emblematico è quello del campo di concentramento di Buchenwald e del suo giardino zoologico. Il progetto, sostenuto sin dall’inizio da Karl-Otto Koch, a capo del campo dal 1937 al 1941, era pensato come luogo ricreativo ed edificante per le SS e le loro famiglie e come una fonte di umiliazione e tormento per i prigionieri. Lo zoo serviva, infatti, a ricordare loro la presunta inferiorità rispetto agli animali in gabbia: gli umani reclusi erano spogliati della dignità, resi sacrificabili per qualsiasi contingenza e costretti persino a finanziare la struttura con “contributi volontari”. Gli animali di Buchenwald ricevevano un’alimentazione migliore dei prigionieri, tanto che molti di loro cercavano di lavorare nello zoo per ottenere una razione extra. Kinder spiega: > Il legame retorico tra animali ed Ebrei, l’obiettivo principale della > Soluzione finale di Hitler, giocò un ruolo importante nel legittimare > l’Olocausto agli occhi dei suoi esecutori. Esisteva una lunga storia di > equiparazione degli Ebrei ad animali (maiali, cani) e a malattie, amplificata > dai propagandisti nazisti. Le metafore legate agli animali sono servite e servono ancora oggi a giustificare i delitti commessi e a comprendere e articolare azioni aberranti. Per descrivere l’uccisione da parte di privati cittadini di civili indifesi nell’assedio di Sarajevo, durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina degli anni Novanta, si usano termini come “attività venatoria”, “cacciatori”, “prede” e “safari”. Le notizie parlano di gruppi di cecchini/cacciatori che spendevano cifre nell’ordine di grandezza di decine di migliaia di euro per sparare a persone indifese, trasformate in target classificati in base a un tariffario, esattamente come accade nei safari di caccia in Africa. Se nel vecchio continente gli obiettivi più costosi sono specie iconiche e minacciate dall’estinzione, come leoni, elefanti e rinoceronti, nei Balcani sembra che bambine e bambini fossero in cima al listino. Non più vite, solo trofei da collezionare. Allo stesso modo, come evidenziato da Kinder nel suo libro, durante il secondo conflitto mondiale e anche in seguito, gli zoo offrirono alle persone metafore per aiutarle a comprendere le esperienze di prigionia, impotenza e degradazione. In quegli anni le gabbie divennero teatro di orrore, dolore e ideologia. I destini di gran parte degli esemplari rinchiusi negli zoo furono impietosi. Alcuni riuscirono a esser trasferiti in luoghi più protetti, mentre molte delle specie più pericolose, quelle carnivore o velenose, furono uccise per evitare che costituissero un’ulteriore minaccia in caso di fuga dopo un bombardamento. La stessa sorte toccò agli animali più costosi da mantenere, tra cui quelli marini. Molti altri rimasero intrappolati, senza la possibilità di mettersi in salvo: morirono di fame e di sete tra atroci sofferenze, subirono le esplosioni riportando ferite, orribili mutilazioni e danni psicologici irreparabili o divennero oggetto di saccheggio e di improvvisate battute di caccia. Accadde proprio questo nel 1939, durante l’invasione della Polonia da parte dell’esercito nazista. Il direttore dello zoo di Berlino, Lutz Heck, dopo aver messo da parte gli esemplari più pregiati dello zoo di Varsavia, permise ad alcune SS di usare gli animali ancora in gabbia come bersagli per la notte di Capodanno. > Un tempo i giardini zoologici erano perlopiù luoghi di intrattenimento, e una > dimostrazione del potere degli Stati sulle proprie colonie, da cui alcuni > esemplari provenivano. Oggi gli obiettivi dichiarati sono l’educazione, la > ricerca e la conservazione. Ancora oggi gli animali degli zoo sono costretti a spostarsi sotto i bombardamenti, le loro vite vengono distrutte dalle esplosioni, dalla fame e dalla sete, o diventano cibo per soldati. Nella prima parte del Ventesimo secolo, i giardini zoologici erano per lo più luoghi di intrattenimento e una dimostrazione del potere degli Stati sulle proprie colonie, da cui alcuni esemplari provenivano. Attualmente i tre principali obiettivi di queste istituzioni sono l’educazione, la ricerca e la conservazione. Quest’ultimo scopo prevede la tutela di specie a rischio di estinzione attraverso progetti in situ, in cui gli esemplari sono protetti nei loro habitat, e attività ex situ, che prevedono la detenzione di individui in cattività per il mantenimento di popolazioni di animali che potrebbero scomparire in natura. Gli zoo sono, quindi, una sorta di arca di Noè la cui efficacia, secondo Kinder, è dubbia, soprattutto in tempi di guerra: > Se gli zoo vogliono sopravvivere ai conflitti di questo secolo, devono > abbandonare la metafora dell’arca. Di fronte alla minaccia di catastrofiche > perturbazioni climatiche, il mondo non ha bisogno di una flotta di scialuppe > di salvataggio progettate per aiutare specie selezionate ad attraversare > quaranta giorni e quaranta notti metaforiche di tumulto. Piuttosto, abbiamo > bisogno di una strategia per sopravvivere a un clima alterato a tempo > indefinito. Come minimo, dobbiamo porci domande difficili sul fatto che i > vantaggi degli zoo superino i loro evidenti svantaggi, incluso il disagio > fisico e mentale sopportato dalle specie in cattività. La promessa di salvezza degli zoo sembra ancora più debole nelle zone di conflitto, dove ai danni apportati a queste strutture e ai loro occupanti si sommano ingenti disastri ambientali. I pericoli per la fauna selvatica e il reato di ecocidio Le lotte armate hanno spesso luogo in ecosistemi fragili e hotspot di biodiversità, producendo conseguenze devastanti su molte specie di animali selvatici. Nella Repubblica Democratica del Congo, anni di guerra hanno ridotto significativamente la popolazione di ippopotami: dai circa 30.000 esemplari, presenti nel 1974, si è passati a meno di 1000 verso la fine della guerra civile congolese, nel 2005. Gli esemplari sono poi aumentati fino a 2500 nel 2018, per poi essere nuovamente minacciati dai gruppi di ribelli, che hanno iniziato a cacciarli di frodo per venderne la carne e finanziare le loro attività. A oggi la popolazione di questi mammiferi si attesta intorno ai 1200 esemplari, sui quali incombono nuovi pericoli, come l’avvelenamento da antrace. In Mozambico la guerra civile, combattuta tra il 1977 e il 1992, ha portato all’uccisione di circa il 90% degli elefanti, le cui zanne in avorio erano vendute per sovvenzionare i combattenti. La caccia intensa avrebbe addirittura favorito la mutazione genetica associata alla mancata formazione delle zanne nelle femmine. In Iraq, nel 2016, l’ISIL (Islamic State in Iraq and the Levant) ha attaccato una raffineria di petrolio. Poco meno di venti pozzi esplosi hanno causato l’innalzamento di una nube tossica e una massiccia fuoriuscita di petrolio. Il risultato è stato la contaminazione di suolo e acque, un ostacolo concreto alla sopravvivenza della vicina cittadina di Qayarrah e un gravissimo danno per la fauna della regione. Le invasioni militari possono persino portare all’introduzione volontaria o accidentale di specie aliene, in grado di esercitare impatti negativi sugli ecosistemi delle aree conquistate e sui loro abitanti. Oggi sappiamo bene quanto queste azioni possano produrre danni irreparabili all’ambiente, con un effetto domino che potrebbe estendersi globalmente, eppure non abbiamo a disposizione strumenti abbastanza efficaci per arginarli. Lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, nell’articolo 8 (2)(b)(iv) sui crimini di guerra, prevede che sia considerato reato lanciare attacchi deliberati nella consapevolezza di produrre “danni diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale che siano manifestamente eccessivi rispetto all’insieme dei concreti e diretti vantaggi militari previsti”. Una norma eccessivamente generica, una lacuna giuridica che si sta cercando di colmare da decenni spingendo per il riconoscimento del reato di ecocidio. > Oggi sappiamo quanto le guerre possano produrre danni irreparabili > all’ambiente, con effetti di portata globale, eppure non abbiamo a > disposizione strumenti efficaci per arginarli. Il riconoscimento del reato di > ecocidio è un passo importante in questa direzione. Il termine è stato utilizzato per la prima volta dal biologo Arthur Galston, negli anni Settanta, per descrivere la deforestazione su larga scala causata dall’uso dell’Agent Orange da parte degli Stati Uniti d’America durante la guerra del Vietnam. Negli anni Duemila il concetto è stato riproposto dall’avvocata Polly Higgins e infine, nel 2021, è stata presentata una definizione legale alla Corte penale internazionale, per cui “‘ecocidio’ significa atti illegali o arbitrari commessi nella consapevolezza di una sostanziale probabilità di causare un danno grave e diffuso o duraturo all’ambiente con tali atti”. Sono crimini non riconosciuti che continuano a essere perpetrati senza la certezza di un processo e di un’eventuale condanna dei colpevoli: alcuni esempi recenti sono la distruzione della copertura arborea e dei terreni agricoli di Gaza, con fattorie e uliveti abbattuti, suolo, falde acquifere, mare e aria inquinati, e l’impatto sugli ecosistemi e la biodiversità del conflitto in Ucraina. Gli animali non umani sembrano quasi invisibili in questi scenari, sebbene la loro esistenza presente e futura venga cancellata attraverso le uccisioni e la distruzione degli habitat in cui prosperano. Violenze necessarie: al punto di dissoluzione del Diritto internazionale umanitario Non sono solo gli animali da compagnia, quelli degli zoo e la fauna selvatica a subire gli effetti degli scontri. Gli animali allevati vengono macellati, rubati, bombardati o lasciati morire di fame. Esistono specie utilizzate direttamente nei conflitti come mezzi di trasporto, tra i quali ci sono i cavalli, gli asini, i muli, gli elefanti e i cammelli, mammiferi addestrati a rilevare esplosivi, quali elefanti, cani e ratti, oppure cetacei preparati per cercare sottomarini e lasciati esplodere per distruggerli, tra cui i delfini. Come illustra l’articolo “Animals in War: At the Vanishing Point of International Humanitarian Law”, pubblicato nel 2022 nell’International Review of the Red Cross, malgrado la loro vulnerabilità nelle situazioni appena descritte, gli animali sono ancora ampiamente ignorati dal Diritto internazionale umanitario (DIU), che rimane prevalentemente antropocentrico. Essi non godono di uno status legale esplicito, non ne viene riconosciuta la senzienza, né sono concessi loro diritti, nonostante ci siano alcuni Paesi i cui ordinamenti giuridici hanno cominciato a considerare la soggettività e la capacità di provare dolore di questi esseri viventi. Anne Peters e Jérôme de Hemptinne, autori della pubblicazione, suggeriscono due strategie principali per affrontare la mancanza di una specifica protezione nel diritto internazionale umanitario. La prima consisterebbe nell’applicare in modo più efficace le norme già esistenti, ampliandone l’interpretazione per includere gli animali nelle categorie protette previste: potrebbero essere assimilati a combattenti o prigionieri di guerra, a civili, oppure a oggetti. Tale approccio prevederebbe la rilettura delle disposizioni relative alla difesa dell’ambiente, del patrimonio culturale e delle aree protette, riconoscendo che gli animali sono esseri viventi capaci di provare sofferenza e grave disagio (distress). La seconda strategia contempla l’adozione di un nuovo strumento internazionale volto a riconoscere specifici diritti agli animali, in particolare il divieto di utilizzarli come armi. Si tratta di una prospettiva di lungo periodo, ancora lontana, poiché richiederebbe a molti Stati di superare profonde barriere concettuali riguardanti la personalità giuridica degli animali non umani e di accettare eventuali limitazioni nella conduzione dei conflitti armati per proteggerli. Il tutto in un contesto in cui i precedenti tentativi di varare una convenzione internazionale sul benessere animale non hanno finora riscontrato grande successo. > Malgrado la loro estrema vulnerabilità nei teatri di guerra, gli animali sono > ancora ampiamente ignorati dal Diritto internazionale umanitario (DIU), che > rimane prevalentemente antropocentrico. Però, come il giurista inglese Hersch Lauterpacht ha scritto in passato, il DIU è “al punto di dissoluzione del diritto internazionale” e gli autori del paper sostengono che in questo sia simile al diritto animale, con i debiti cambiamenti, e che la loro intersezione, seppure foriera di estreme difficoltà, non dovrebbe fermarci dal voler perseguire un’“utopia realistica” per gli animali a livello mondiale. È possibile partire dall’attuale situazione internazionale per poi cercare di ampliare quelli che sono considerati i limiti della praticabilità politica. Il DIU e il diritto legato al benessere animale sono entrambi corpi normativi che non vietano la violenza, ma concedono lo spazio a una violenza ritenuta “necessaria”, di fatto legittimandola. Sebbene, come sottolinea l’articolo, questa somiglianza dovrebbe facilitare l’estensione del campo di applicazione del DIU agli animali non umani, certamente fa emergere quella ambiguità che, anche in condizioni di pace, esiste nei trattamenti che riserviamo loro. La percepiamo quando accettiamo le condizioni in cui versano negli allevamenti intensivi oppure  la cattività e la scelta di sopprimere alcuni esemplari negli zoo per calcolo economico, perché spazio e risorse delle strutture sono limitate, o per esigenze di conservazione, al fine di mantenere l’equilibrio tra maschi e femmine di una specie o prevenire il rischio di consanguineità. O ancora, quando acconsentiamo alla sperimentazione animale. > I conflitti armati rendono ancora più tangibile l’ambiguità che caratterizza > il nostro rapporto con gli altri animali, anche e soprattutto in tempo di > pace. Il confine tra amore, rispetto per la vita degli animali non umani, violenza e sopravvivenza può farsi eccezionalmente labile. Lo spiega Kinder, sempre attingendo dall’esperienza del campo di concentramento di Buchenwald, quando parla del poema satirico Eine Bären-Jagd im KZ Buchenwald (in italiano Una caccia all’orso nel campo di concentramento di Buchenwald), scritto e illustrato dal sopravvissuto al campo Kurt Dittmar nel 1946. L’opera ripercorre la breve vita di Betti, un’orsa allevata nello zoo del campo, dall’arrivo come cucciolo alla morte per mano di un comandante. L’orsa è inizialmente servita e riverita dai detenuti per ordine delle SS, si nutre di buon cibo, gode di spazio all’interno della sua gabbia ed è per questo oggetto di invidia da parte dei prigionieri. Con il trascorrere del tempo la milizia nazista aggiunge alla collezione dello zoo altri animali e Betti, stanca della nuova compagnia, abbatte il recinto elettrico e fugge nella foresta. I detenuti tentano invano di catturarla, finché il vicecomandante non la uccide e ne riporta indietro il corpo come un trofeo. L’illustrazione di Dittmar raffigura alcuni prigionieri sconvolti davanti alla carcassa dell’orsa, consapevoli di condividere il suo destino di preda braccata. Costretti ad arrostirne le carni per la festa delle guardie, non ne assaggiano neanche un boccone, ma continuano a sognare: la libertà, il cibo e la giustizia contro i loro aguzzini. Nonostante sia ispirato a eventi reali, il poema non è un resoconto storico, ma conserva in sé una realtà difficile da accettare. Scrive l’autore di World War Zoos: > Ciò che otteniamo invece è qualcosa di più interessante: una riflessione sul > potere e sui limiti dell’empatia. Nel racconto di Dittmar, i prigionieri umani > di Buchenwald riconoscono che la vita di Betti è sempre appesa a un filo, che > lei è preziosa fino al momento in cui le SS decidono diversamente. Pure lei è > una prigioniera, anche se ha pasti migliori e una gabbia più bella. Ma questo > non significa che non proveranno a rubarle il cibo o a rosicchiare le sue ossa > spolpate. Nella Buchenwald di Dittmar, i prigionieri possono sia piangere per > l’uccisione di Betti sia sbavare affamati sul suo cadavere sfrigolante. L'articolo Animali in guerra proviene da Il Tascabile.
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Nike sempiterna. L’umano all’ombra della vittoria
I l 13 aprile 1863 Charles Champoiseau, viceconsole francese nella città ottomana di Edirne (oggi la greca Adrianopoli), rinvenne, durante alcuni scavi archeologici nel santuario dei Grandi dei dell’isola di Samotracia, i resti di quella che capì immediatamente essere una scultura antica di grande pregio. A nome del governo francese ne perfezionò l’acquisto e, affinché potesse essere studiata e restaurata, la fece spedire a Parigi, dove arrivò l’11 maggio 1864, al termine di un tortuoso viaggio fra Costantinopoli, il Pireo e Marsiglia. Una volta riassemblati, sotto una prima direzione del curatore Adrien Prévost de Longpérier, i diciassette blocchi e frammenti diedero nuova vita alla statua della dea Nike, la più iconica effige della vittoria, materica metafora degli onori e delle disgrazie a cui gli uomini la hanno elevata e condannata, perfondendone ovunque il mito. Se è vero che il mondo classico rappresenta – almeno per noi gente di ponente – il ventre aurorale della nostra cultura e del nostro immaginario simbolico, nascosto, secondo Italo Calvino (“Italiani, vi esorto ai classici”, L’Espresso, 28 giugno 1981), “nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale” e dando forma – come ci ricorda, tra gli altri, Luciano Canfora – agli archetipi dei nostri imperi e delle nostre democrazie, all’architettura del nostro linguaggio e delle nostre città, allora molti aspetti del nostro rapporto devozionale con la vittoria possono essere disvelati tramite l’interpretazione delle forme e dei profili della Nike di Samotracia, a cominciare da ciò che concerne la sua collocazione. A partire dalla fine del secolo 19° l’opera è uno dei più mirabili trofei esposti al Louvre, fin dal Seicento tempio della cultura e scrigno del potere di Francia e d’Occidente, dove sono raccolti i gioielli manufatti in patria e quelli sottratti ai nemici sconfitti o ai clientes sottomessi. Dal 1934 la scultura si trova al finire della scalinata Daru, che fende centralmente l’Ala Denon del museo e ne collega il piano terra, dedicato all’arte classica, a quello superiore, dove sono esposti i pittori di età moderna. Blocchi di pietra candida compongono l’architettura muraria che la circonda e il pavimento dello spiazzo dove è deposta. Alla sua destra si dipana la via che conduce al Salon Carré, in cui sono in mostra le pitture rinascimentali italiane, tra cui la Monna Lisa; alla sua sinistra quella che porta alla Galerie d’Apollon, dove, sotto i soffitti affrescati da Charles Le Brun e Eugène Delacroix, sono custoditi i preziosi della corona imperiale. Da un lato lo scettro dall’altro il pennello, potere e cultura appunto, nel comune sentire poli opposti – comando contro libertà, scontro contro dialogo, assolutezza contro apertura – che nella composizione architettonica sono raccordati dal simulacro della vittoria. Allegoria degli spazi che smentisce il comune sentire e rivela quanto sia solo apparente la divaricazione tra cultura e potere, essendo la prima, in buona parte, il portato di un potere che è risultato vincente su altri, il quale a sua volta non potrebbe affermarsi davvero senza esprimere una cultura anch’essa capace di conquistare, di fare, gramscianamente parlando, egemonia. > Molti aspetti del nostro rapporto devozionale con la vittoria possono essere > disvelati tramite l’interpretazione delle forme e dei profili della Nike di > Samotracia, a cominciare da ciò che concerne la sua collocazione. Si pensi agli Stati Uniti d’America. Non avrebbero mai potuto estendere il loro dominio globale (le cui sorti sono sempre più incerte) senza l’immaginario seduttivo dell’American way of life costruito dalla Ivy League, da Hollywood e dagli atelier di Manhattan, che a loro volta non avrebbero avuto le risorse per emergere come poli attrattivi e dettare le loro tendenze al mondo senza i dollari e i missili delle Zio Sam. Lo sapeva bene la CIA, che fin dagli anni Cinquanta, tramite il Congress for Cultural Freedom, iniziò a finanziare lautamente ricerca, letteratura e arti per diffondere su larga scala i valori a stelle e a strisce, come riporta la storica e giornalista britannica Frances Stonor Saunders nel suo The Cultural Cold War. The CIA and the World of Arts and Letters, 2000). Celebre il caso dell’espressionismo astratto di Mark Rothko e Jackson Pollock, definito dall’artista e critica d’arte austriaco-statunitense Eva Cockcroft l’“arma della Guerra fredda” (“Abstract Expressionism, Weapon of the Cold War”, Artforum, giugno 1974, 12, 10) contro il realismo socialista dell’URSS. Scrutati i primi tòpoi della prossemica, si diriga ora lo sguardo sulla scultura della dea. Incorniciata da un arco tardo gotico, l’opera, attribuita allo scultore del II secolo a.C. Pitocrito di Rodi, è sovrastata da volte a crociera non costonate, con alla sommità lucernari circolari in vetro piombato bordati di foglie d’alloro dorate, sicché la luce naturale che vi passi attraverso pare debba nobilitarsi prima di carezzare le divine levigature del marmo pario. Se Immanuel Kant avesse potuta ammirare Nike, dal basso in alto, venusta e altera, al centro del suo temenos laico, circonfusa dalle fulve spire di Elios, avrebbe teorizzato un altro tipo di sublime accanto a quello dinamico e matematico, il sublime ieratico. Nella parte inferiore del monumentale complesso scultoreo (nelle sue dimensioni massime largo 2,48 metri, lungo 4,76 metri e alto 5,57 metri), gli ampi blocchi grigi del basamento formano la prua di una nave da guerra ellenica, lunga e stretta col dritto curvato all’insù (aprostolio), che poggia lungitudinalmente la chiglia su un lastrone a sua volta sorretto da un parallelepipedo dello stesso colore della pietra pavimentale. Al centro del castello di prua è posata l’effige della dea, alta quasi due metri e mezzo, dall’incarnato niveo e poroso, dolcemente segnato dal tempo: piccole macchie brunite, lievi scalfitture, residui di polvere. Che la Nike solchi il mare proprio su una imbarcazione bellica (probabilmente una quadrireme in uso alla flotta rodiana) non dipende solo dal fatto che la statua sia stata eretta per celebrare il successo della lega delio-attica (formata da truppe di Roma, di Pergamo, di Rodi e di Samotracia) durante la battaglia dell’Eurimedonte contro il re siriano Antioco III. La vittoria che la divinità impersona è infatti primariamente quella che si ottiene in guerra e nello sport, due fenomeni che nel mondo antico greco, e poi anche romano (si pensi alle naumachie o ai giochi gladiatori), erano strettamente connessi e interdipendenti fra loro, “aspetti di una stessa realtà in una compenetrazione tra piani che [ne] rende fluido il confine” (F. Pulitanò, “Guerra e Sport: uno sguardo retrospettivo”, in Rivista di diritto sportivo, 2023, 1). Fenomeni uniti nella figura dell’atleta-guerriero celebrato da Platone, che lo elegge a soldato ideale per difendere lo Stato della sua Repubblica e che, come dice nelle Leggi, può formarsi solo entro i ranghi della costituzione ateniese, dove si perfeziona una combinazione ideale tra edu­cazione militare e allenamento per i giochi (si veda in proposito, P. Angeli Bernardini, Il soldato e l’atleta. Guerra e sport nella Grecia antica, 2016). Soldato e atleta ideale era certamente Filippide, leggendario emerodromo citato da Plutarco e da Erodoto, che corse 42 km filati per arrivare ad annunciare il prima possibile ad Atene la vittoria ottenuta sui persiani nella battaglia di Maratona (490 a.C.), città da cui prende il nome la gara olimpica per eccellenza. Rivolgendosi al profilo dell’opera, si può osservare come Nike protenda il busto in avanti, la gamba destra, diritta e perpendicolare alle spalle, precede la sinistra, leggermente inclinata, alla distanza di un passo. Se la prima è coperta fino alla parte inferiore dal lungo (fino ai piedi, mancanti) chitone – tunica in lino o in lana tipica dell’antica Grecia, cucita senza fibule a differenza del peplo –, la seconda si mostra scoperta in una nuda sensualità fin da sotto il bacino, là dove si dischiudono i lembi della veste. Il panneggio pare assecondare le sferzate del vento, si raccoglie ondulato e più spesso sul davanti. Gli strati ripiegati e attorcigliati, segnano solchi e vuoti, in cui si insinuano spazi d’ombra che gli conferiscono una solidità tangibile allo sguardo e ne fanno al contempo un’armatura e un perno per l’intera figura. I veli aderiscono invece lievi sul ginocchio e sulla parte superiore della gamba destra, assottigliandosi ancor più sul teso e morbido addome, a evidenziare l’avvallamento dell’ombelico e la rotazione delle fibre muscolari, che assecondano la torsione del busto. Sotto il seno, un esile cinturino sospinge verso l’alto e dona di nuovo spessore ai tessuti della veste, che copre la spalla sinistra lasciando scoperta la destra. > Sebbene Filippo Tommaso Marinetti le avesse preferito nel Manifesto del > Futurismo “l’estetica della velocità” di “una automobile ruggente”, un altro > illustre esponente futurista, Umberto Boccioni, si ispirò proprio a lei per > l’iconica scultura bronzea Forme uniche della continuità nello spazio. Ciascun dettaglio nella scultura evoca grazia e maestosità, dal realismo dei panneggi, che rimanda alle opere di Fidia conservate al British Museum e originariamente apposte sul fregio del Partenone (in particolare l’Iride), alle trasparenze di fattura prassiteliana, che ricordano il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino a Napoli. La posa fiera e vigorosa della dea, tipica delle statue di atleti e di guerrieri scolpite da Lisippo, esprime nella sua regale staticità il vivo dinamismo di un giavellottista o di una saltatrice. Sebbene Filippo Tommaso Marinetti le avesse preferito nel Manifesto del Futurismo “l’estetica della velocità” di “una automobile ruggente”, un altro illustre esponente futurista, Umberto Boccioni, si ispirò proprio a lei per l’iconica scultura bronzea Forme uniche della continuità nello spazio. Ma l’impeto immoto di Nike non si restringe allo spazio terreno, può spingersi verso il cielo, librandosi sulle ali che spuntano dalle scapole e si pongono alla sommità della scultura. Dispiegate nella loro totale ampiezza e rivolte all’indietro, gonfiate dal soffio di Eolo, a cui non sono né perpendicolari né parallele, come accade nel frenare o nel planare. Le piume remiganti, presenti nella parte bassa e terminale dell’ala, sono grandi e in rilievo, mentre le altre si fanno più piccole e indistinguibili man mano che si avvicinano al carpo superiore. Le ali della dea qualificano la natura aerea della vittoria, il cui valore prescinde i calcoli dell’abaco, i guadagni terreni. Il suo bottino non si misura in campi, baci o dobloni, ma attiene a qualcosa di più alto, di più nobile. Il suo conseguimento ha a che vedere con l’onore, con il riscatto, con una speranza di liberazione. È un premio celeste, un afflato di immoritura gloria, capace di marcare il tempo (chronos, come successione lineare di eventi) e di farne kairòs (il tempo opportuno, il momento giusto, di grazia). > Le ali della dea qualificano la natura aerea della vittoria, il cui valore > prescinde i calcoli dell’abaco, i guadagni terreni. Il tema dell’impresa ultraterrena e della sottomissione del tempo si ritrova nel mito raccontato nella Teogonia di Esiodo (ca. 700 a.C). Nike è figlia della oceanina Stige – omonima protettrice del fiume degli inferi presso cui gli dei compivano i loro più sacri rituali – e del titano della saggezza e della guerra Pallante – con la cui pelle Atena costruì la sua egida. Durante la titanomachia viene condotta dalla madre a Zeus, assieme ai fratelli Zelos (ardore), Cratos (potere) e alla sorella Bia (violenza), perché si unisca a lui nella battaglia contro il padre Crono, il tempo sequenziale appunto, che una volta sconfitto viene ricacciato nelle prigioni ctonie del Tartaro. I figli e le figlie di Stige sono così accolti nell’Olimpo e i loro attributi vengono assunti come propri da Zeus, nuovo re degli dei, contribuendo a mutare radicalmente l’ordine del cosmo. La vittoria nel suo compiersi sorvola dunque la gora che separa l’ordinario dall’eroico in volo pindarico. L’aggettivo è deonomastico del poeta del V secolo a.C. Pindaro, insieme al coetaneo Bacchilide, il più illustre cantore delle imprese vittoriose nell’agone bellico od olimpico. Suoi i versi, tratti dai frammenti dell’ode Nemea (V, 191), che riassumono l’essenza dello spirito ardito di Nike: > Ma dove l’elogio si chiegga di prospero evento, di mani > gagliarde, di ferrea pugna, >   > un fosso profondo scavatemi qui: con leggere ginocchia > io scatto: oltre il pelago si lanciano l’aquile. Questo spirito ardito e pugnace, irradia secondo alcuni studiosi, la cultura greca antica, e consequenzialmente quella occidentale, in ogni aspetto, tanto che alcuni studiosi (si veda E. Isidori, A. Sánchez Pato, “La filosofia agonale greca e il suo contributo all’educazione contemporanea”, in Lessico di etica pubblica, 2020, 1) parlano di “filosofia agonale”, dove l’agón è uno spazio circolare simbolico e fisico in cui ha luogo la contesa, la dialettica fra pari (hómoioi), e, per estensione, il “dispositivo ludico-educativo di tipo mentale e corporeo” al centro della formazione dell’individuo (paidéia), il principio etico ed eidetico che istruisce le regole della convivenza. Dall’agón fioriscono dunque l’arte, l’economia e, soprattutto, la democrazia, con le sue tre norme fondanti: isonomía (uguaglianza davanti alla legge), isegoría (eguale possibilità di prendere parola nelle pubbliche assemblee) e isokratía (eguale potere politico tra i cittadini e possibilità di accedere alle cariche pubbliche). La filosofia agonale nasce dal sentimento di meraviglia (thaumázein) e genera l’amore (areté) per la ricerca della verità (alétheia), che si ha prima nell’agone carnale della gara e poi nel peristilio luminoso della filosofia strettamente intesa. Ancora Pindaro riferendosi alla città di Olimpia, sede dei giochi che si tennero tra VIII e IV secolo a.C., la definisce “sovrana di verità” (Olimpia, VIII, 2). Secondo tale concezione, il disvelamento della realtà, su cui si fonda la costruzione dell’individuo e della civiltà, e da cui scaturiscono e verso cui tendono tutte le arti e le scienze, origina dallo scontro, dalla dialettica, discorsiva, sportiva o bellica, e la vittoria segna il kairòs, il momento di svolta della realtà. Chi della vittoria porta il vessillo decide la direzione da intraprendere. Finora si è riflettuto a partire da suggestioni metaforiche sul tema della vittoria seguendo le forme della statua di Nike, ma arrivati a questo punto rimangono solo i vuoti, le assenze da cui prendere spunto, che non sono, certo, meno pregnanti di significato. In primis, le braccia perdute della dea, monche fin da sotto la spalla, frammenti mai ritrovati o andati distrutti tra le pieghe dei secoli. Non possono sorreggere alcun vessillo e indicare alcuna direzione d’attacco (l’etimologia di nike/vittoria, potrebbe derivare dal gesto della mano sollevata a guidare il lancio dell’assalto in battaglia – si veda R.S.P. Beekes, Etymological Dictionary of Greek, 2009), oppure legare i giunchi per tradurre il nemico in ceppi (dall’etimologia latina vincíre, legare). Agli occhi di chi osservi la scultura di Samotracia, qualunque braccio e qualunque insegna può occupare lo spazio lasciato libero innanzi. Guevaristi o mussoliniani, interisti o milanisti, singoli individui impegnati in un concorso o in una contesa amorosa, tutti possono appropriarsi idealmente di quello spazio e immaginare come proprio il destino di Nike. Le braccia mancanti, per di più, della vittoria non possono neppure indicare un orizzonte, che è sempre incerto, mobile, ontologicamente o strumentalmente, e, per questo, mai compiutamente raggiungibile. Lo si vede bene nella cronaca delle guerre contemporanee, 11 quelle alla fine del 2024 (su un totale di 61 conflitti che coinvolgono a vario titolo attori statali; mai così tanti dal 1946) secondo l’ultimo rapporto del Peace Research Institute Oslo (PRIO). Dove è l’orizzonte della vittoria, tanto enfaticamente invocato, per la Russia di Putin, per l’Ucraina di Zelenskij, per i vari Paesi europei o per la NATO? Ancor più oscuro e terrificante è dove possa essere per l’Israele di Netanyahu, che continua a espandere incessantemente la linea del fuoco per tutta l’Asia occidentale, da ultimo, fino a Teheran. Oltre alle braccia però, è un’altra cosa, ancora più carica di significato, a mancare alla statua di Nike: la testa. Molte statue antiche, invero, sono rinvenute senza la testa, sia perché estremità fragile esposta ai danneggiamenti del tempo, sia per decapitazioni operate come sfregio e, talvolta, al fine di sostituire al capo tagliato quello di un personaggio più gradito. Di nuovo, un avvicendamento tra vincitori. Non conosciamo la causa che ci abbia tramandato la Nike acefala, ma è un’altra la riflessione più interessante che se ne può ricavare. Essere senza testa indica comunemente essere privi della ragione, in preda a uno spregiudicato istinto o a una invalidante follia. Siamo così di fronte a una vittoria senza senno e senza senso del limite. Nel volto assente di Nike si specchia quello della nostra società, che non è, come detto all’inizio, solamente devota alla dea, ma ossessionata da lei. È un volto che somiglia terribilmente alle monomanie degli alienati dipinte negli anni Venti dell’Ottocento da Jean-Louis-Théodore Géricault e custodite poco distanti dalla Nike, nella Sala 700 dell’Ala Denon del Louvre. > Siamo così di fronte a una vittoria senza senno e senza senso del limite. Nel > volto assente di Nike si specchia quello della nostra società, che non è > solamente devota alla dea, ma ossessionata da lei. A fondamento di questa nostra ossessione, sta la convinzione che solo la vittoria possa ripagare dai dolori dell’esistenza, donare gioia e dignità, e garantire accesso a una gloria non caduca, ultraterrena. La sconfitta equivale invece all’oblio, all’oscurità, non porta con sé nessuna redenzione, ma solo insoddisfazione, infelicità. “The winner takes is all, the loser has to fall, it’s simple and it’s plain, why should I complain?”, come cantavano esplicitamente gli Abba al principio degli anni Ottanta. Quale periodo migliore, l’inizio della Golden Age reaganiana, dove l’etica del vincente si libera da ogni remora di compassione. L’era degli yuppies, della riscossa neoliberale e della sconfitta del nemico comunista, ben rappresentata dal match di boxe tra Rocky Balboa e Ivan Drago, come ci spiega Dimitri Kourtchine nel documentario del 2014 per la TV francese Arte Rocky IV, le coup de poing américain. Il pugile interpretato da Sylvester Stallone, stordito dai pugni d’acciaio del campione sovietico, finisce al tappeto più volte, ma tiene duro e all’ultimo round lo manda K.O., avendo già guadagnato il favore e l’affetto di un pubblico inizialmente ostile. Cadere per poi rialzarsi e combattere ancora, perché non sempre si può vincere, non subito, e anche una temporanea sconfitta può essere onorevole se ci si impegna fino in fondo per la vittoria, se resta un passo falso ma indispensabile a conseguirla. Non importa in che campo o in che modo, per preservare il proprio onore e ambire a guadagnare un futuro riscatto, è indispensabile battersi con tutte le forze e secondo tutte le proprie possibilità, per dimostrarsi vincenti dinanzi alle difficoltà economiche e alla malattia che ferisce il corpo. “You can’t win, so win” recita una pubblicità progresso del celebre marchio di abbigliamento sportivo che di Nike ha preso in prestito il nome e le ali. Dopotutto, “se gli ostacoli e le difficoltà scoraggiano un uomo mediocre, al contrario al genio sono necessari, e quasi lo alimentano”, secondo la massima del già citato Géricault, figlio legittimo del romanticismo francese (da L’opera completa di Gericault, a cura di Philippe Grunchec, 1978). > La bandiera bianca, ne ha avuto prova il defunto papa Francesco, è l’unico > vessillo che le braccia assenti di Nike non dovranno mai far sventolare. La > vittoria va perseguita sempre, qualunque sia il costo anche in termini di vite > spezzate e mutilate. Chi pratica la defezione, però, è ben di più che un mediocre o un debole, è un traditore, fuori dai confini della civiltà, perché ne mina il principio fondante. La bandiera bianca, ne ha avuto prova il defunto papa Francesco, è l’unico vessillo che le braccia assenti di Nike non dovranno mai far sventolare. La vittoria va perseguita sempre, qualunque sia il costo, anche in termini di vite spezzate e mutilate, appartenenti alla propria parte o a quella avversa. Così, la furia cieca finisce per umiliare, disprezzare e distruggere quella vita che vorrebbe consacrare alla gloria. Se tra quattrocento anni – Armageddon nucleare permettendo – nella piazza centrale di una futura Gaza fosse installata la scultura di una moderna Nike, pochi visitatori si ricorderebbero ammirandola dei massacri patiti dai palestinesi su quel suolo, che ci lasciano ora sgomenti e segnati da un senso di colpevole impotenza; molti di più, purtroppo, si limiterebbero ad ammirare la bellezza della statua scolpita a memoria di una qualche grande vittoria (forse la stessa di cui oggi non si vede l’oscuro orizzonte), similmente a come facciamo noi oggi guardando le opere del nostro passato, dimentichi degli orrori che portano in seno e ci conducono in eredità. Non è possibile rinunciare a questa eredità, ma si può decidere cosa farne, almeno in parte. Si può decidere di usarla come strumento di conoscenza di quel che siamo, del perché lo siamo e di come altro potremmo essere. Per quanto sia difficile da immaginare osservando il percorso fin qui compiuto, non c’è un destino manifesto che conduca l’umanità all’altare sacrificale di Nike. La vittoria, amanuense della storia, non deve essere il suo unico arbitro, latore del criterio supremo che definisca la misura essenziale di ogni agire, senza relazione al bello o al giusto, al di là del bene e del male, per citare Nietzsche, entusiasta adoratore di Nike. Bisogna salvare ciò che di buono c’è nella filosofia agonale dalle sue malevole estrinsecazioni, dall’ossessione distruttrice che ne deriva. Salvare come si è fatto con la statua di Samotracia, quando, nel settembre del 1939, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, fu rimossa per l’unica volta dal suo luogo di esposizione al museo parigino per essere messa al riparo dai bombardamenti, insieme ad altri artefatti prestigiosi, nel Castello di Valençay sulla Loira, fino al luglio del 1945. La bellezza dell’arte fu messa al riparo dalla brutale manifestazione concreta della guerra che lei stessa rappresentava in splendente fulgore. Il godimento della vittoria è un utile e piacevole stimolo, ma non può farsi sregolato e dannoso anelito. Nella stessa filosofia greca di Eraclito, dove il cosmo evolve in un continuo transeunte di nuovi equilibri attraverso la lotta (polemos) tra gli opposti interdipendenti che lo compongono, esiste un logos, una ragione armonizzante, che ne delinea il confine e istruisce il fine di questa eterna duale opposizione, votata alla creazione, non all’autodistruzione. Un pensiero che presenta similitudini col principio di equilibrio nella composizione tra yin e yang della filosofia taoista, dove però la contrapposizione tra gli elementi è meno netta e violenta, ma più sfumata e pacifica. Così come lo è la concezione del cambiamento, non legato alla volontà di potenza, come guida di un agire trasformativo attivamente imposto, ma consustanziale al precetto del wu wei, la consapevole alternanza di “azione e non azione”, nel sapersi adattare come l’acqua al mutare degli eventi e alle contingenze della natura, per vivere armoniosamente, fuggendo forzature che possano rompere violentemente l’equilibrio del mondo e generare in noi e negli altri sofferenza e sentimenti negativi. Un insegnamento prezioso che sconsiglia l’adozione di ogni gesto estremo, di ogni sacrificio trascendente, di ogni pretesa unilaterale, di ogni ossessiva devozione alla dea Nike. Sarebbe bene tenerne conto. Il già nominato Filippide, arrivato in città dopo l’immane sforzo riuscì solo a pronunciare la frase “Abbiamo vinto”, prima di crollare a terra esanime. Meglio smettere di imitarlo, smettere di umiliare e mettere e rischio la vita per la brama di una morte che porti il fiore della vittoria in bocca e ci consegni a una malintesa imperitura gloria. Perseguiamo piuttosto nell’intento di salvare l’ars, stavolta poetica, e cogliamo dentro la geniale contraddittorietà di Pindaro, l’esortazione contenuta nella terza ode Pitica: «Non ambire, mio cuore, a una vita immortale / ma esaurisci le vie del possibile» (Pitica III, 85-88), perché «sogno d’un’ombra è l’uomo» (Pitica VIII, 96); che non debba farsi incubo all’ombra della Nike sempiterna. L'articolo Nike sempiterna. L’umano all’ombra della vittoria proviene da Il Tascabile.
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Nella Terza guerra mondiale di ꭍconnessioni precarie
N oi abbiamo da lungo tempo abbandonato l’illusione che il movimento del processo storico sia determinato a principio, che il suo giungere a destinazione sia iscritto nella dinamica stessa delle cose. Non ha senso fare l’elenco degli eventi che ci hanno disilluso: sarebbe troppo lungo e forse troppo triste. È tuttavia certo che anche il più diffuso senso comune non abbia alcuna speranza in sorti progressive del presente, così come è certo che l’ultimo colpo a questa illusione moderna sia stato, da un lato, lo scoppio della guerra in Ucraina e, dall’altro, la campagna di annientamento condotta da Israele contro la popolazione palestinese. Ragionare di una “Terza guerra mondiale”, se quanto detto sinora ha senso, significa allora tracciare i tratti di una forma storica non riducibile agli scontri militari e nemmeno ai massacri che caratterizzano la nostra condizione attuale. È quest’ultimo atteggiamento il primo obiettivo polemico di ꭍconnessioni precarie, il collettivo che ha dato alla luce Nella Terza guerra mondiale. Un lessico politico per le lotte nel presente (2025). Il testo si oppone all’idea per cui il problema del nostro presente sarebbe esclusivamente la guerra guerreggiata, il massacro fisico di centinaia di migliaia di inermi, o almeno per cui l’urgenza di interrompere tali violenze renderebbe obbligatorio sospendere le lotte che hanno preceduto la mobilitazione contro la guerra. La gravità delle immagini che arrivano da Gaza e dalla Cisgiordania, così come quelle che giungono dall’Ucraina, rende comprensibile da un punto di vista umano tale prospettiva. Niente pare più importante che impedire agli abitanti di Gaza di morire così. Tuttavia, concentrarsi esclusivamente sulla guerra è inaccettabile sul piano teorico e politico, innanzitutto perché condanna i movimenti all’inefficacia o, addirittura, a collaborare alla costruzione di un mondo che porrà di nuovo le condizioni di altri genocidi. In primo luogo, perché si fonda su un’analisi sbagliata del reale. Considera cioè queste morti e queste sofferenze immani esito immediato di volontà individuali, colpi di mano della Storia, eventi sciolti da ogni condizione. Esse, al contrario, sono radicate nella crisi che il modo di produzione capitalistico affronta su scala globale. Secondo ꭍconnessioni precarie non è possibile pensare le violenze a cui giustamente si pone tanta attenzione senza collegarle alle dinamiche di produzione della ricchezza su scala globale. Non certo perché tali massacri non abbiano un significato politico: al contrario, cogliere quest’ultimo significa proprio collocare questi annientamenti nel contesto storico in cui si danno e da cui si originano. Essi non sono un “nulla” che si tratterebbe di vedere come un sintomo, ma nemmeno l’origine pura di sé stessi. Impedirli, dunque, significa valutarli sul piano del capitalismo transnazionale, che è la cornice entro cui va compresa per ꭍconnessioni precarie la congiuntura globale contemporanea. > Queste morti e queste sofferenze immani sono radicate nella crisi che il modo > di produzione capitalistico affronta su scala globale. L’esito politico di tale atteggiamento è il campismo, o frontismo, cioè la presa di posizione per un campo (geo)politico determinato tra quelli in scontro. Si tratta allora, per il campismo che secondo gli autori e le autrici dilaga nel mondo militante a partire almeno dal 2022, di scegliere di volta in volta se stare con la NATO o con la Russia e la Cina; oppure con Israele o con Hamas. Il punto non è l’interscambiabilità delle parti in lotta: ꭍconnessioni precarie non vuole dire che non vi sia differenza tra l’Iran e gli Stati Uniti. Tali protagonisti sono evidentemente differenti sui piani della forma storica, degli obiettivi che perseguono e di tantissimi altri. Non lo sono, però, per chi desidera un mondo dove ciò che ha causato la Terza guerra mondiale sia disarticolato. Tale conformazione planetaria non è riducibile, si diceva, alla volontà di alcuni uomini di ucciderne altri, ma tiene insieme razzismo, patriarcato, sfruttamento di classe. Scegliere Hamas per “liberare” la Palestina può forse voler dire arrestare il genocidio di Gaza, ma anche mantenere intatte le condizioni che hanno provocato la guerra. Al fine di comprendere questa affermazione, che è il vero nucleo al contempo teorico e politico del libro, bisogna comprendere cosa intendono le autrici e gli autori per “Terza guerra mondiale”. La Terza guerra mondiale non è una somma di scontri tra Stati e/o di genocidi sparsi per il mondo, ma l’unione sistemica del meccanismo che produce guerre, processi di preparazione alla guerra (indipendentemente dal suo effettivo avvenire) e gli effetti pratici di tali meccanismi. In questo senso, le autrici e gli autori affermano che la Terza guerra mondiale non termina nel momento in cui Trump o chi per lui firma una tregua, giacché una tregua è. in quanto tale, preludio di una nuova guerra. La pace non è assenza di guerra, ma fine delle condizioni che la riproducono; è una trasformazione strutturale interna al sistema sociale che rende difficile il verificarsi di nuove guerre. Le condizioni che riproducono la guerra sono legate alla forma attuale della globalizzazione, il transnazionale. Si tratta della “realtà del mercato mondiale e dei movimenti del lavoro vivo che a quella realtà si oppongono avanzando una pretesa di liberazione da sfruttamento e oppressione”. In altre parole, si tratta della forma del rapporto sociale tra capitale e lavoro che si pone su scala globale. Che tale forma sia favorevole al primo è accidentale, non necessitato dalla forma in generale. Esso è al contrario “espressione storica di un conflitto che oggi si presenta come una latente, ma costante, lotta di classe in cerca di organizzazione”. Capitale e lavoro vivo si confrontano non nel campo della sovranità statale come per gran parte del “secolo breve”, né sullo spazio liscio indeterminato e generico del “Globo”: i flussi della produzione e della riproduzione del valore scivolano continuamente sopra la distinzione tra sovranità nazionale (che non è mai scomparsa) e globalità, dunque il transnazionale non può in alcun caso “imporre un ordine globale stabile e continuativo”. ꭍconnessioni precarie sottolinea che tale rapporto sociale, pur favorevole al capitale, non è mai posto da esso: si tratta di una relazione sociale. Là dove si dà accumulazione capitalistica (transnazionale) si danno le lotte e la loro possibilità di vittoria. Ciò che manca non sono queste lotte, bensì un’“adeguata elaborazione della politicità transnazionale del lavoro vivo”, una elaborazione che è resa difficile precisamente dal fatto che il transnazionale consiste in un disordine globale, “nel senso che è privo di possibilità di ricomposizione istituzionale o politica della classe dentro le forme storiche del nazionale e dell’internazionale”. > La pace non è assenza di guerra, ma fine delle condizioni che la riproducono; > è una trasformazione strutturale interna al sistema sociale che rende > difficile il verificarsi di nuove guerre. Da questo punto di vista la centralità della tematica dell’organizzazione, che attraversa tutto il lavoro, non deve stupire. L’articolazione del lavoro vivo e delle sue lotte su scala transnazionale (né nazionale, né immediatamente globale) è dunque l’obiettivo politico minimo indispensabile. E per raggiungerlo serve considerare come tutti i blocchi identitari posti da nazioni, appartenenza a popoli determinati, a generi o a sessi “interdicono il riferimento alla classe”, cioè di “vedere l’incessante movimento storico del lavoro vivo”. Ma questo piano organizzativo non può risolversi nella forma sindacato comunemente intesa, perché questo lavoro vivo non è la classe per come la si era teorizzata nel corso del Novecento: è composta da differenze (operai, precari, donne, LGBTQ+, migranti) che esistono in relazione a un prelievo incessante di forza lavoro che viene loro imposto dal modo di produzione capitalistico nella sua forma transnazionale. Di conseguenza queste differenti soggettività praticano una “incessante lotta di classe” che si tratta di rendere efficace articolandola. Nemmeno lo Stato, pensato come “articolazione in processo” e non come forma identica a sé stessa, identica attraverso i decenni, è in quanto tale uno spazio sufficiente per lo svolgimento di queste lotte. Questo perché lo Stato non basta al capitale per organizzarsi su scala nazionale, l’unica accessibile allo Stato come struttura. La pur rilevante presenza dello Stato come “attore dotato di capacità giuridiche, militari, di comando e decisione” (p. 38), che lo rende un campo di battaglia, non lo rende però una parte con cui si tratterebbe di schierarsi contro un’altra (quella, appunto, del capitale). Essendo un libro d’intervento nell’ambito dei movimenti, va sottolineato il modo in cui le autrici e gli autori si rivolgono a quello che è a loro avviso il senso comune dei discorsi movimentisti contemporanei. Esse ritengono si tratti, sostanzialmente, di una connessione perversa tra il decoloniale e il campismo, di cui il primo è divenuto una sorta di attributo. Proprio laddove il decoloniale è capace di mettere in discussione alcune sicurezze di una parte del mondo, pare essere divenuto incapace di rigettare le proprie. Infatti, secondo le autrici e gli autori, nel discorso decoloniale “il colonialismo è questo: non una fase storica che viene messa in discussione dai processi di decolonizzazione e dai movimenti indisciplinati dei e delle migranti che squarciano la presunta omogeneità tanto dei popoli delle ex colonie, quanto di quelli del Primo mondo, ma una violenza originaria che si rigenera infinitamente sempre uguale a sé stessa”. Il decoloniale ricerca l’identità perduta dei popoli colonizzati, non il movimento possibile di liberazione delle soggettività sfruttate e oppresse dal modo di produzione capitalistico e dalle guerre che esso genera per ripristinare vettori di accumulazione. Non si tratta di inventare spazi politici entro i quali queste soggettività, nelle loro differenze, possano muoversi in un’ottica condivisa di emancipazione, ma di ricostituire forme di esistenza precoloniali (sopravvissute a secoli di colonialismo). Si tratta, com’è evidente, di una delle torsioni che il dibattito nei movimenti ha oramai assunto: rompere con Israele e la NATO significherebbe (dal punto di vista degli obiettivi politici) ripristinare gli spazi perduti di libertà dei palestinesi come popolo ancestrale presente in Palestina da secoli (la sua dignità) e a questo scopo non sarebbe in alcun modo problematico schierarsi dalla parte dell’“Asse della resistenza”, nella misura in cui questa è la posizione di Hamas e di una supposta maggioranza del popolo palestinese. L’idea sottostante “è chiara: solo chi è palestinese per nascita può parlare, e solo chi è palestinese può decidere come quella lotta debba essere portata avanti”. Questo, è palese, tramuta la “posizionalità” da strumento a pulpito non criticabile, una posizione che in quanto situata nel luogo dell’originario che viene attaccato dal potere coloniale renderebbe divina la parola di chi la abita. > L’articolazione del lavoro vivo e delle sue lotte su scala transnazionale è > l’obiettivo, mentre i blocchi identitari posti da nazioni, appartenenza a > popoli determinati, a generi o a sessi impediscono il riferimento alla classe. In questo modo, sostiene ꭍconnessioni precarie, non solo si vive in un mondo assurdo, un mondo cioè dove sarebbe possibile il ritorno a un’origine mistica e dunque una politica (letteralmente) reazionaria, ma non si coglie la Terza guerra mondiale come espressione di un rapporto sociale transnazionale in cui siamo tutte implicate. Quanto va sottolineato è che se è vero che a Gaza vengono macellati decine di migliaia di innocenti, è anche vero che i palestinesi non sono una massa indistinta e priva di differenze interne, di divisioni di sesso e di classe. Allo stesso tempo, quindi, è falso che gli interessi di centinaia di migliaia di loro coincidano con la semplice liberazione dalla violenza dello Stato di Israele (gli abitanti di esso comprendendo tuttavia a sua volta proletari, donne e soggettività LGBTQ+ oppresse). Anche in uno Stato palestinese, o in uno Stato unico non confessionale, si abbatterebbe quotidianamente su operai, precari, donne, LGBTQ+, migranti, la violenza del modo di produzione capitalistico. Si risponderà che essa non è pari a quella dello Stato di Israele in corso. Questo è certamente vero, ma è anche vero che dalla prima deriva la seconda: ripristinare la prima come “normale” significa porre le condizioni della seconda. Il campismo oscura proprio queste differenze interne, non riconoscendo l’esistenza di un “Nord nel Sud e di un Sud nel Nord”. Si noti come questo modo di porre la questione faccia de facto coincidere la posizione decoloniale con quella, non a caso così frequentata oggi, della geopolitica, che riduce quanto avviene del mondo a una serie di posizioni, soggettività, interessi immediatamente statuali o al massimo nazionali (trattando i popoli come soggettività monolitiche, indistinte, con una volontà determinata a priori). In questo contesto analitico si inserisce la critica all’utilizzo fatto dai movimenti del concetto di resistenza, sia sul piano dell’analisi che su quello degli slogan da utilizzare per inserirsi nel dibattito pubblico. Le autrici e gli autori, innanzitutto, ricordano che “nella Terza guerra mondiale resistenza vuol dire tante cose”. Peraltro, il concetto stesso di “resistenza” non ha fatto parte del lessico comunista fino alla Seconda guerra mondiale (nel secolo precedente a essa, infatti, il movimento comunista non è interessato a resistere, ma ad attaccare): il suo significato emancipativo è stato dato dalla modalità concreta, storicamente determinata, con cui le partigiane e i partigiani hanno effettivamente resistito, prima, e da come è stato utilizzato il termine, poi. Se si vuole continuare ad attuare la resistenza come forza di opposizione (e non semplice opposizione a una forza), è necessario disidentificare la resistenza con l’essere dalla parte giusta. Resistere a una forza non significa essere nel giusto: l’Iran, sostengono le autrici e gli autori, resiste alla NATO, ma opprime donne e minoranze. Schierarsi dalla parte dello Stato iraniano per questo significa appunto cedere al campismo, stabilire che si tratta di scegliere la resistenza “più forte”. Significa porre una gerarchia delle oppressioni, in cui il diritto all’esistenza delle donne e soggettività LGBTQ+ nate in Iran, ad esempio, deve essere messo da parte per garantire la maggior gloria dell’“Asse della resistenza”, che va da Pechino a Teheran, passando per le ville degli oligarchi russi che sostengono Putin e i miliardari conti in banca dei leader di Hamas. > La pace sociale è da sempre funzionale alla guerra reale. Concludiamo dall’inizio del libro, sollevando la questione forse teoricamente più rilevante di tutto il lavoro. Per le autrici e gli autori l’esito e allo stesso tempo l’effetto della Terza guerra mondiale è il militarismo, che non è un atteggiamento istituzionale e/o culturale, ma una modalità ideologica di realizzare la riproduzione sociale. Il militarismo pervade le nostre società in molti sensi: non solo “prepara alla guerra, ma abitua all’idea che essa sia in qualche modo necessaria”. Da questo punto di vista il campismo è parte integrante del militarismo per come lo intendono le autrici e gli autori. Esso è quindi complice della restrizione dello spazio delle lotte che è ovvia conseguenza dell’irrigidirsi dei fronti e della tolleranza spesso manifestata anche dai movimenti verso forme di autoritarismo, patriarcato e razzismo dei membri del campo che si è scelto. Ci si sacrifica, cioè, al proprio campo, esattamente come le istituzioni del movimento operaio (con alcune lodevoli eccezioni) sacrificarono sé stesse sull’altare della grandezza nazionale nel 1914. Questa scelta politica, viene affermato nel libro, è intrinsecamente perdente, non può che portare alla sconfitta e proseguire la disorganizzazione globale del lavoro vivo (sulle forme possibili della quale, va detto, esse non dicono in fin dei conti molto). Essa porta a sottomettere i sogni e le speranze di milioni di migranti, donne, precari, operai, LGBTQ+ a soluzioni che non sono semplici compromessi, ma sconfitte decisive che porterebbero il mondo in uno stato che riproporrebbe all’infinito il ciclo di guerre, tregue e paci momentanee che compongono la Terza guerra mondiale. Lo slogan che le autrici e gli autori assumono concludendo il libro, cioè Strike the war, significa precisamente questo: organizzare il conflitto socialmente, superando i blocchi che campismo e multipolarismo vorrebbero imporre, rifiutando i genocidi e l’autoritarismo che la militarizzazione delle nostre società sta imponendo. La pace sociale è da sempre funzionale alla guerra reale. Spezzarla, cioè organizzare uno sciopero transnazionale contro la guerra e il suo mondo, è l’obiettivo che ꭍconnessioni precarie ritiene proprio di un movimento rivoluzionario. Caesarem vehis! L'articolo Nella Terza guerra mondiale di ꭍconnessioni precarie proviene da Il Tascabile.
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La casa perduta
T ra il 1966 e il 1967 lo scrittore palestinese Mourid Al-Barghouti si trasferisce in Egitto per completare il suo percorso universitario. Gli mancano pochi esami e, a Ramallah, la madre lo aspetta, impaziente di vedere finalmente l’unico dei suoi figli laurearsi. Nelle prime pagine del suo testo più celebre, Ho visto Ramallah (2003), emerge da subito un’immagine familiare: quella delle pareti di casa, dove – a università terminata – si appende il diploma in bella mostra. Ma nel giugno 1967 ha inizio una nuova guerra, passata poi alla storia nel mondo arabo come Naksa, ovvero ‘ricaduta’. Israele occupa anche i territori della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, aggravando la crisi dei rifugiati iniziata con la Nakba del 1948: centinaia di migliaia di palestinesi sono nuovamente sfollati. > Mi consegnarono il diploma in Lingua e Letteratura inglese, ma non avevo più > una parete a cui appenderlo. La città era caduta e non avrei mai potuto > tornarvi. Ho visto Ramallah è la storia del ritorno, dopo trent’anni, dell’ormai adulto Al-Barghouti nella sua città natale. Un ritorno segnato dalla sofferenza di chi ha vissuto la ghurba, l’esilio. Una volta che l’hai provata, ne resti segnato per sempre. La ghurba “è come un’asma”, come una malattia di cui si inizia a soffrire e dalla quale non si può guarire. Introduce nell’esistenza una dimensione tragica, priva la vita di una casa cui tornare, ne fa un ricordo doloroso e inesorabile, nonché un dovere di memoria da custodire. Elisabetta Bartuli in The Passenger. Palestina (2023), sottolinea come, “nonostante le enormi diversità nelle condizioni di vita, di contesto amministrativo ed economico di cui raccontano” i romanzi degli scrittori palestinesi presentino caratteristiche comuni che li rendono “un unicum compatto e coeso all’interno della letteratura araba”. Ecco: la casa, come luogo simbolico di identità e appartenenza, è precisamente uno dei topoi che danno coerenza a questo unicum; un motivo ricorrente che la letteratura palestinese ha contribuito, insieme ad altri, a consolidare, e attraverso cui si esprimono significati che arrivano fino a questi giorni. > La ghurba, l’esilio, introduce nell’esistenza una dimensione tragica, priva la > vita di una casa cui tornare, ne fa un ricordo doloroso e inesorabile, nonché > un dovere di memoria da custodire. Nel tema della diaspora, la casa diventa simbolo di quell’intimità familiare – fatta di oggetti, gesti quotidiani, odori – che l’occupazione e la guerra hanno interrotto in modo fulmineo e traumatico. Con fatica si riesce a immaginare una simile condizione: da un momento all’altro, senza preavviso, abbandonare la propria casa senza potervi più fare ritorno. > Umm ‘Issa nei suoi ultimi giorni di vita non parlava che di un’unica cosa: il > tegame di zucchine. Aveva dovuto abbandonare casa sua, nel quartiere Qatamùn a > Gerusalemme, senza avere il tempo di spegnere il fuoco sotto il tegame di > zucchine. Elias Khoury, recentemente scomparso, è stato uno scrittore e intellettuale libanese tra i più autorevoli del mondo arabo. Il suo romanzo, La porta del sole (2004), è stato definito un’epopea del popolo palestinese. Intorno alla vicenda principale e ai suoi protagonisti si affollano numerose voci e storie. E in molti di questi racconti – anche nei più brevi, affidati a personaggi secondari – si rincorrono immagini di case abbandonate in tutta fretta. > Sono andato nella casa […]. Era deserta. Sono entrato. Delle coperte per > terra, dei sacchi di plastica, delle pentole e odore di cibo ammuffito. Come > se avessero sgomberato in fretta e furia, senza tempo sufficiente per > organizzare il viaggio. […] Sono entrato e mi sono reso conto che stavo > piangendo. Ero nel mezzo del nulla, in mezzo alle lacrime. E ho capito che era > perduta. Nella letteratura palestinese delle origini, il topos della casa è centrale nel raccontare il trauma dell’esilio e della perdita inflitti dalla Nakba. In questa fase, è spesso ancora il fulcro di una nostalgia nella quale struggersi. Della propria casa, si ha nostalgia di tutto. Perfino “della muffa” che ne ricopriva le pareti. E alla casa si desidera soltanto fare ritorno. Anche se ne fosse rimasta solo una pietra. > Della propria casa, si ha nostalgia di tutto. Perfino “della muffa” che ne > ricopriva le pareti. La casa non è un’idea astratta. Non è una metafora, è > questo luogo fatto di cose concrete che si sono perdute. Ghassan Kanafani è stato tra i maggiori esponenti della narrativa della resistenza, assassinato nel 1972 a Beirut da un’autobomba del Mossad. Nel suo Ritorno a Haifa (2001), Said e Safiyya sono una coppia palestinese che, dopo vent’anni di esilio forzato, torna a Haifa: la città da cui erano stati cacciati e nella quale avevano dovuto abbandonare il figlio neonato, Khaldun. Quando tornano, scoprono che il figlio è stato adottato da un’ebrea sopravvissuta all’Olocausto, che ora vive nella casa che un tempo era loro. Il figlio, che ora si chiama Dov, milita nell’esercito israeliano, e rifiuta ogni legame con i suoi genitori naturali. Poco prima che il racconto sveli questa sua sconvolgente verità, è descritto il momento in cui Said e Safiyya salgono le scale della loro vecchia casa. Said non vuole dare alla moglie, e neppure a sé stesso, “la possibilità di osservare quelle piccole cose che – lo sapeva – lo avrebbero commosso: il campanello, il pomello di ottone alla porta, gli scarabocchi di matita sul muro, il contatore dell’elettricità, il quarto scalino rotto nel mezzo…”. La casa non è un simbolo, non è un’idea astratta. Non è una metafora, è questo luogo fatto di cose concrete che si sono perdute. Entrando, Said riesce ancora a vedere in casa sua “molte cose che un tempo gli erano state familiari e che anche quel giorno continuava a considerare tali: cose intime, private”, che mai avrebbe pensato che qualcuno potesse toccare o guardare: una fotografia di Gerusalemme, un piccolo tappeto di Damasco. Said ritrova “le sue cose” ma, guardandole, le vede mutate. Come se a osservarle fossero due paia di occhi diversi: quelli del passato e quelli di un presente che non gli appartiene più. Lo stesso accade, in La porta del sole, a Umm Hasan. > Umm Hasan, come tutti coloro che sono tornati a vedere le loro case, diceva: > “Ogni cosa era al suo posto, ogni cosa era rimasta com’era. Persino la brocca > di terracotta.” >  — La brocca. >  — L’ho trovata qui. Non la uso. La prenda, se la vuole. >  — No, grazie. Il passaggio dalla casa abitata alla casa occupata segna una svolta anche nei significati. Da simbolo di perdita e sradicamento – da cui deriva anche il più famoso simbolo delle chiavi lasciate sulla porta – la casa diventa un topos per esplorare la realtà dell’occupazione e della guerra e, da qui, la condizione di estraneità e d’incertezza esistenziale, la frammentazione identitaria, a cui il popolo palestinese è stato condannato. Lì, proprio nel perimetro della casa, dove si tocca “l’essenza più profonda della vita” (Nour Abuzaid), qualcun altro si è insediato con la forza. > Il passaggio dalla casa abitata alla casa occupata segna una svolta anche nei > significati. Lì, proprio nel perimetro della casa, qualcun altro si è > insediato con la forza. È Israele che “con la scusa del cielo, ha occupato la terra”. Il contatore dell’elettricità è al solito posto, la brocca e il tappeto di Damasco anche. Eppure, non si riesce a riconoscerli. Come accade quando, a forza di guardare troppo a lungo una cosa, o di ripetere insistentemente una parola, se ne perde l’essenza: il suono si svuota, l’immagine si spegne. Ora anche chi riesce a tornare a casa si sente fuori posto. Un estraneo. In La porta del sole c’è un passaggio importante in cui Nahila, rimasta a vivere nel suo villaggio diventato territorio israeliano, si oppone con forza al marito Yunis, che invece è un combattente della resistenza e vive in clandestinità dentro le grotte. Alla retorica del sacrificio e del martirio, alle storie di eroismo, che trasfigurano la sofferenza vissuta in mito, Nahila rivendica le vere storie. Quelle che raccontano che le persone sono divenute estranee persino a sé stesse. E che, pur non impugnando le armi, si fanno portavoce di una resistenza più silenziosa e quotidiana. > Tu non sai niente. Secondo te la vita sono queste distanze che attraversi per > arrivare qui col tuo odore di foresta. […] Che storie sono queste dell’odore > di lupo, del profumo del timo selvatico, dell’olivo romano? Sai chi siamo? La vita di coloro che sono rimasti a vivere nella propria casa, in regime di occupazione, è costantemente segnata da un senso di precarietà. Anche il rimanere diventa una forma di esilio. Uscire di casa non è un gesto neutro, ma può diventare una scommessa sul ritorno e un desiderio di tornare “per intero”, senza scontare la dispersione dell’identità, la frammentazione del sé che l’occupazione impone ogni giorno. > La vita di coloro che sono rimasti a vivere nella propria casa, in regime di > occupazione, è costantemente segnata da un senso di precarietà. Anche il > rimanere diventa una forma di esilio. Lo scrive con spietata chiarezza Maya Al-Hayat, poetessa palestinese nata a Beirut e cresciuta a Gerusalemme Est, oggi tra le voci più incisive della letteratura contemporanea, capace di raccontare con feroce semplicità l’intimità stravolta del vivere sotto l’occupazione. > Ogni volta che esco di casa > è un suicidio > e ogni ritorno, un tentativo fallito. […] > Voglio tornare a casa intera. Talvolta non resta nemmeno una casa a cui tornare. Solo tende: orizzonte ultimo dell’esilio, dove l’idea stessa di abitare si riduce a un’ombra di stoffa esposta al vento. Scrive Yousef Elquedra, in una poesia dedicata agli accampamenti della zona umanitaria di al-Mawasi: > La tenda è un corpo fragile […] > La tenda non è una casa > è una promessa di attesa > e ogni impeto di vento > ti ricorda che sei di passaggio > su una terra che non porta il tuo nome. Anche la tenda, come la casa, è esposta poi al rischio dell’esproprio. “Ci rendete stranieri nella nostra terra” si sente dire nel documentario No Other Land (2024) di Basel Adra, Yuval Abraham, Rachel Szor e Hamdan Ballal. Anche se “la distanza tra due case è a una fila di alberi”, ci si sente trattati come estranei e persino la lingua madre, che è “tutto ciò che resta a colui che è privato della sua patria” (Friedrich Hölderlin), punto massimo di contatto con le proprie radici e “casa” simbolica` alla quale tornare quando il resto è perduto, è costantemente posta sotto assedio. > Lasciatemi parlare la mia lingua Araba > prima che occupino anche quella. > Lasciatemi parlare la mia madrelingua > prima che colonizzino anche la sua memoria. Così la poetessa e attivista Rafeef Ziadah, nota per la sua poesia performativa, in cui parole e musica si fondono in un atto di resistenza per denunciare l’oppressione e l’oblio. > Mia madre è nata sotto un albero di ulivo > su una terra che dicono non essere più mia. L’ulivo: più di ogni altra, la pianta della Palestina. Cresce nei giardini delle case, le famiglie ne tramandano la cura da generazioni. Le olive si offrivano in dono; con l’olio, le nonne bagnavano il pane per sfamare i nipoti. E con lo stesso olio – fonte di ogni cura – si curavano le malattie. > Noi viviamo di olio. Siamo il popolo dell’olio. Loro invece tagliano gli olivi > e piantano palme. Hanno sradicato gli olivi. Non so perché odiano gli olivi e > piantano le palme. > (La Porta del Sole). Gli olivi si scorgono anche sullo sfondo di un celebre video, diventato virale, in cui la giornalista e attivista Muna Al-Kurd, ferma con i piedi nei confini del suo giardino, grida contro un colono israeliano: “Stai rubando la mia casa.” E il colono risponde freddamente: “Perché mi urli contro? Se non lo faccio io, lo farà qualcun altro”.  Qualcuno potrebbe obiettare: è la guerra. Ma questa è una guerra che mira a cancellare le tracce, a riscrivere la geografia della memoria, e che non si accontenta di distruggere, ma vuole sradicare. Estirpare con la forza cieca di una ruspa. La stessa che ancora campeggia, inquietante, come immagine-simbolo sulla locandina di No Other Land. > Talvolta non resta nemmeno una casa a cui tornare. Solo tende: orizzonte > ultimo dell’esilio, dove l’idea stessa di abitare si riduce a un’ombra di > stoffa esposta al vento. Nel tentativo di spezzare l’intreccio tra le persone e i luoghi, tra la lingua e le radici, si inserisce anche il grottesco video generato dall’intelligenza artificiale e diffuso da Trump, dove Gaza è ridotta a un resort. Un luogo artificiale su un lungomare costellato di palme. Palme al posto degli olivi. Ma gli alberi, in Palestina, non sono solo alberi. Sono “costole d’infanzia”, come scrive Mahmoud Darwish. E la rimozione dell’olivo non è solo distruzione agricola: è simbolo di perdita radicale. È la cancellazione della storia, della terra e soprattutto dei diritti che vi erano radicati. In La porta del sole Yunis attraversa l’oliveto di Tarshìha e si rende conto che il “suo” olivo romano, testimone di ogni momento importante della sua vita e di quella dei suoi avi, non c’è più. Con l’albero antichissimo, cade anche la memoria viva della terra. > Yunis indossò il lutto per l’albero. Un sentimento di disorientamento, impotenza politica e frustrazione emerge quando si cerca di comprendere la realtà che stiamo vivendo. La maggior parte di noi non sa cosa possa significare “mettersi la guerra in bocca come fosse una gomma da masticare” quando sei poco più che un ragazzo. Questa distanza non si risolve informandosi o nel tentativo di partecipare al dibattito pubblico. Specialmente di fronte alla questione palestinese, la distanza tra ciò che si legge e ciò che realmente si riesce a comprendere sembra incolmabile. Per questo motivo, la letteratura diventa una risorsa, una “porta del sole” verso la complessità del mondo. Un modo per affinare empatia e consapevolezza, per esplorare ciò che travalica il nostro vissuto personale. La letteratura restituisce profondità a ciò che il discorso mediatico tende a semplificare e uniformare. Scrive Mourid Al-Barghouti che “a forza di sentire certe espressioni, sui giornali e sulle riviste”, si finisce per pensare ai Territori Occupati “come a un luogo immaginario alla fine del mondo”. E ci si convince che non esista nessun modo per raggiungerlo. Al-Barghouti rivendica con forza la necessità di non ridurre la Palestina a una pura astrazione. Ci ricorda come i palestinesi siano prima di tutto degli individui. L’occupazione ha creato “intere generazioni che non hanno un luogo in cui ricordare suoni e profumi”, generazioni “che non hanno mai coltivato, né costruito, né commesso neppure il più piccolo errore umano nella propria terra”, e ha trasformato la patria in un simbolo inchiodato al passato. Ma la patria non è un arancio, non è un ulivo. La patria è fatta di persone. > “A forza di sentire certe espressioni, sui giornali e sulle riviste”, alla > fine si finisce per pensare ai Territori Occupati “come a un luogo immaginario > alla fine del mondo”. E ci si convince che non esista nessun modo per > raggiungerlo. Un popolo, scrive ancora Al-Barghouti, cui sono stati tolti diritti e futuro, e a cui è stata “bloccata l’evoluzione delle società e delle vite”, impedendo lo sviluppo. La Palestina non è (o non è solo) “la questione inserita nei programmi dei partiti politici, non è un argomento di discussione”. Non è “la catenina che adorna il collo delle donne in esilio”. Non è “la prima pagina di apertura di un giornale”. Non è l’anguria esposta a una manifestazione. È invece un luogo “concreto come uno scorpione”, che ha “i suoi colori, una temperatura, e arbusti che crescono spontanei”. E gli insediamenti non sono costruzioni “fatte da bambini con i Lego”. Sono invece la diaspora palestinese. In La porta del sole c’è un passo in cui si dice che gli scrittori e gli intellettuali non combattono, ma piuttosto “osservano la morte, scrivono, e credono di morire”. È vero, la guerra ci passa accanto e noi, forse, ci “aggrappiamo a una poesia”. Pure, questa rimane ancora una forma importante per la verifica delle nostre qualità umane. Una risposta che possiamo darci alla domanda “Se questo è un uomo”. L'articolo La casa perduta proviene da Il Tascabile.
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