C lockwatchers, esordio alla regia della statunitense Jill Sprecher, è una
commedia drammatica indipendente del 1997 focalizzata sulle ripercussioni
psicologiche del lavoro temporaneo sulle nuove generazioni. Uscito prima di
tutto in Australia, patria di una delle attrici principali del cast, Toni
Collette, il film, a novembre del 1997, vince il Festival internazionale cinema
giovani di Torino, allora diretto da Alberto Barbera. Tra le protagoniste c’è
anche Parker Posey (n. 1968), a febbraio dello stesso anno eletta “Queen of the
indies” in un articolo di Time in cui si specificava che l’attrice preferiva
definirsi, meno romanticamente, “that indie tramp”. Nel 1997 erano passati
appena quattro anni dai primi ruoli degni di nota di Posey e il critico
cinematografico del Time Richard Corliss sottolineava come questa ragazza nata a
Baltimora, cresciuta tra la Louisiana e il Mississippi per poi stabilirsi a New
York, rievocasse le dive dell’età d’oro di Hollywood per la sua naturalezza ma,
nello stesso tempo, accettasse dei compensi ridotti per avere ruoli in film
indipendenti perché affascinata dalla centralità dei personaggi in queste
produzioni low-budget.
Il fatto è che dietro certe sue scelte c’era anche l’identificazione in
un’attitudine generazionale.
Per fare una piccola parte in Doom Generation (1995) di Gregg Araki, ad esempio,
Posey ha raggiunto il set pagandosi metà del biglietto aereo, non perché avesse
capito che sarebbe diventato uno dei film di culto per eccellenza degli anni
Novanta, ma perché in questo road movie che il comunicato stampa definiva “un
mix esplosivo di commedia nera e sessualità sovversiva”, era attratta dai
protagonisti, tre “adolescenti fannulloni alienati” in fuga da tutto e tutti
senza alcuna speranza di farcela anche perché “non fatti per questo mondo”, come
(pre)dicono all’inizio del film. Così uno di loro, soprannominato “X”, a un
certo punto sentenzia: “siamo sulla stessa barca” e “siamo tutti fottuti”. Un
film con un punto di vista apocalittico su un’intera generazione che, non senza
ironia, dipinge un mondo iperviolento in cui il personaggio tanto effimero
quanto pazzoide di Posey sguazza.
Poi c’è stato SubUrbia (1996), il primo film che Richard Linklater ha solo
diretto e non scritto basandosi su una pièce tagliente di Eric Bogosian da cui
la provincia statunitense esce a pezzi. Qui Posey è una professionista della
discografia che arriva dalla metropoli, di passaggio in provincia per
accompagnare e assistere un artista locale che ce l’ha fatta e torna da star nei
luoghi dove è cresciuto. La sua Erica appare in poche scene, sufficienti per
esibire la consapevolezza di esercitare un certo fascino sul gruppo di ventenni
protagonista che ammazza il tempo per strada, all’angolo di un minimarket aperto
di fronte a una pompa di benzina, confrontandosi e scontrandosi ‒ a parole ‒ su
sogni, frustrazioni e tormenti che, ovunque si guardi, prospettano un futuro
oscuro. Sulla carta Erica sembra una vincente, ha un sorriso scaltro, ma è anche
oltremodo condiscendente con l’artista che segue, e il tentativo ostinato di
sfruttare la sua autorità di fronte a dei coetanei angosciati e avviliti, fa
intuire allo spettatore che si tratta di un’altra giovane frustrata dalla
marginalità, in questo caso all’interno di un ambiente di lavoro che crea
illusioni tanto grandi quanto inafferrabili: il suo desiderio di inserirsi al
volo nella disperazione altrui la rende un’altra giovane vittima di quel periodo
storico.
> Doom Generation è un film con un punto di vista apocalittico su un’intera
> generazione che, non senza ironia, dipinge un mondo iperviolento in cui il
> personaggio tanto effimero quanto pazzoide di Posey sguazza.
Insomma, queste e altre produzioni low-budget statunitensi a cui partecipava
Posey, spesso ritraevano la Generazione X nella fase turbolenta e timorosa di
avvicinamento alla vita adulta. Nello stesso Clockwatchers si parla di quattro
giovani impiegate con contratti temporanei che non vedono l’ora di staccare da
lavoro, di uscire da un ufficio dove l’ambiente è spietato, e andare a
immaginare un futuro migliore solidarizzando tra di loro. Erano anni in cui si
iniziava a parlare concretamente di precariato, e in questo caso il personaggio
di Posey affronta la possibilità del licenziamento con la praticità di chi è
consapevole che qualcosa non va ma non riesce a razionalizzarlo: “L’unica vera
sfida di questo lavoro è cercare di sembrare impegnati quando non c’è niente da
fare” e “Non puoi licenziarmi, non sai nemmeno il mio nome”, sono due battute
memorabili della sua Margaret.
Con un’altra piccola parte, in Drunks (1995) di Peter Cohn, inoltre Posey ha
portato alla ribalta un altro tema: non ancora trentenne, durante un incontro
degli Alcolisti anonimi, il suo personaggio racconta il disagio adolescenziale
vissuto nel decennio precedente, quando era esploso il culto assoluto della
ricchezza, e lo fa nominando spesso Janis Joplin, svelando il suo tentativo
utopico e miseramente fallito “di rivivere gli anni Sessanta negli anni
Ottanta”. Questi e altri film, in buona sostanza, delineavano il quadro di una
generazione intrappolata tra l’idealizzazione di un passato sentito raccontare o
appena vissuto con gli occhi dell’infanzia e la paura di un presente fino a poco
prima inimmaginabile, in cui soprattutto le nuove dinamiche del mondo del lavoro
apparivano disumane e insostenibili.
La predilezione di Posey per queste piccole produzioni indie era perfettamente
in linea con la visione negativa del successo tipica della Generazione X, che
ripudiava il consenso di massa (vedi Kurt Cobain), lo considerava un’ambizione
distintiva di alcune figure tipiche degli opprimenti anni Ottanta (vedi gli
yuppie), oltre che un’adesione a una vanità individualista sempre più diffusa.
Poi, a dispetto di questa inclinazione, Posey veniva intervistata da media come
il Time e andava ospite nel talk show di Conan O’Brien, ma fuori dagli Stati
Uniti restava un volto noto a un piccolo gruppo di appassionati e, in generale,
il grande pubblico ha sempre faticato a riconoscerla perché, anche quando ha
partecipato a qualche grande produzione ‒ come C’è posta per te (1998), Scream 3
(2000), Superman Returns (2006) o, più recentemente, Irrational Man (2015) e
Café Society (2016) di Woody Allen ‒ ha sempre avuto ruoli minori.
> Questi film delineavano il quadro di una generazione intrappolata tra
> l’idealizzazione di un passato sentito raccontare e la paura di un presente
> fino a poco prima inimmaginabile, in cui soprattutto le nuove dinamiche del
> mondo del lavoro apparivano disumane e insostenibili.
Oggi, però, smussata o archiviata la disposizione d’animo generazionale, le sue
scelte professionali in qualche modo imprudenti, che non l’hanno resa una diva
ma il volto simbolo delle produzioni indipendenti degli anni Novanta, le hanno
dato una ritardataria e forse promettente ricompensa.
Il suo quasi coetaneo Mike White, classe 1970, infatti l’ha scelta per un ruolo
chiave nella terza, ultima, e più vista stagione della serie TV che scrive e
dirige dal 2021, The White Lotus, probabilmente proprio ripensando a questo
cinema indie generazionale. Quei film, infatti, erano molto verbosi perché
spesso i protagonisti erano perdigiorno, disoccupati, o con un impiego McJob,
che fantasticavano sul futuro, dunque i dialoghi, molto colloquiali, a volte
paradossali, nella rappresentazione dei personaggi facevano la differenza ‒ un
esempio eclatante, quasi una parodia in questo senso, è Clerks (1994) di Kevin
Smith.
Posey nelle otto puntate della serie corale di White interpreta Victoria, una
signora di mezza età statunitense, altezzosa, che ostenta costantemente la sua
appartenenza all’alta borghesia, una madre psicotica in “una famiglia di
narcisisti”, come dice il figlio più piccolo, ma che lei, con orgoglio,
definisce “normale”. Il punto è che gli stessi protagonisti di questa serie, in
vacanza in un villaggio turistico isolato e autosufficiente, hanno poco o niente
da fare, dunque vengono definiti più dalle loro battute che dalle loro azioni. E
sul web nei molti articoli o video che raccolgono le migliori citazioni di
questa terza stagione, la linguacciuta Victoria è onnipresente, ad esempio con
una battuta che lancia al termine di una discussione animata con la figlia,
quando si alza con un bicchiere di vino in mano dicendo con tono scocciato “Non
ho nemmeno il mio Lorazepam. Adesso per riuscire a dormire mi toccherà bere”.
Ancora una volta l’eroina del cinema indie interpreta un personaggio ben
costruito che, per giunta, sembra rappresentare il declino dello spirito della
Generazione X. Anche se in questo caso la sua inclinazione a non fare niente e
straparlare deriva banalmente dalla grande ricchezza, non più dalla volontà di
ritardare l’ingresso nella vita adulta, si può supporre, vista la sua età, che
si sia costruita una realtà mentale capace di giustificare tutto quello che da
giovane non avrebbe voluto vivere. È un fuori campo supposto ma plausibile.
Negli anni Novanta la Generazione X ha vissuto la grande illusione di poter
sposare dei modelli di vita molto meno frenetici e meno individualisti di quanto
lo fossero già all’epoca, in parte ispirati ai due decenni che hanno preceduto i
narcisisti anni Ottanta. Senza dubbio una parte di questi giovani si concedeva
questa visione del mondo con la consapevolezza che, a un certo punto, avrebbe
potuto aderire senza intoppi al modello lavoro-casa-famiglia-pensione. Poi,
però, oltre al precariato, è arrivata anche la crisi finanziaria del 2008 che, a
differenza di tutte le altre, ha colpito la Generazione X tra i 30 e i 40 anni,
in un momento fondativo della vita adulta ‒ come recentemente ha ben spiegato
Callum Williams di The Economist. Lo scorso marzo, su The New York Times, invece
Steven Kurutz ha scritto che la Generazione X ha raggiunto la mezza età
dovendosi rapportare a un mondo nuovo, sconosciuto, completamente diverso da
quello in cui è cresciuta, aggiungendo che le persone più in difficoltà sono i
lavoratori di “editoria, giornalismo, fotografia, graphic design, pubblicità,
musica, cinema e televisione”. Insomma, tra batoste e spaesamenti, molte persone
nate tra il 1965 e il 1980, non solo nella finzione, hanno dovuto trovare dei
modi più o meno pratici per cavarsela, anche allineandosi alle tendenze
dominanti della società.
In due differenti interviste, una del 2018 uscita su The New York Times e una
del 2023 su Spin, Posey ha dichiarato di amare la sua generazione per la sua
apertura mentale e per come, negli anni Novanta, ha sfruttato la libertà di fare
quello che desiderava ‒ nel suo caso film low-budget che le fruttavano lo
stretto necessario per vivere come voleva a New York ‒ per poi aggiungere che
guardandosi indietro, in quegli stessi anni non pensava davvero che le cose
sarebbero progredite, diventate “più aperte, più libere, più colorate”, e che
infatti “non è andata così”.
> Tra batoste e spaesamenti, molte persone nate tra il 1965 e il 1980, non solo
> nella finzione, hanno dovuto trovare dei modi più o meno pratici per
> cavarsela, anche allineandosi alle tendenze dominanti della società.
Ancora una volta su The New York Times, a inizio marzo, si diceva che Posey, da
quando è una donna matura, raramente ha ricevuto offerte per ruoli dignitosi con
una retribuzione adeguata, ma poi, finalmente, è arrivato The White Lotus. Una
considerazione simile su una quasi sessantenne con una lunga carriera alle
spalle potrebbe far sorridere tante persone di altre età, ma chi fa parte della
generazione dell’attrice può identificarsi appieno in questa perenne speranza di
una svolta che, anche se palesemente fuori tempo massimo, a intervalli regolari
è sembrata, e in molti casi sembra ancora, tanto possibile quanto un miraggio.
Tra l’altro se la sua Victoria, dipendente dalla ricchezza del marito, trova
rifugio dalle sue inquietudini nel Lorazepam o nell’alcol, nella stessa stagione
della serie c’è un altro personaggio fuggito dagli Stati Uniti e stabilitosi in
Thailandia con caratteristiche a lei “familiari”, seppure con sfumature
differenti. Si tratta di un uomo di mezza età che prende in considerazione ogni
espediente per vivere, sproloquia, racconta che ha vissuto un periodo di
dipendenza da sesso a pagamento e alcol per poi trovare conforto nel buddhismo:
insomma, giustifica goffamente i suoi vizi raccontando tutta la sua parabola da
scapestrato in un esilarante monologo. A interpretarlo è Sam Rockwell, attore
nato nel novembre del 1968 ad appena tre giorni di distanza da Posey: un altro
esponente della Generazione X.
Douglas Coupland nel suo epocale romanzo d’esordio del 1991, Generazione X.
Storie per una cultura accelerata, descrive una generazione che, facendo
riferimento ai modelli precedenti, si è illusa di avere un futuro garantito:
“qualcuno ci ha promesso il paradiso in terra, per cui quello che abbiamo non
può che soffrire del confronto”. E ancora racconta una generazione che, anche
grazie a una coscienza più sviluppata, non ha mai accettato il presente, che si
nasconde, scappa dalle responsabilità, fantastica, parla molto e spesso a vuoto,
ha perso ogni ambizione ed è incapace di innamorarsi. Ecco, un’altra
caratteristica evidente di Victoria, riscontrabile anche nel personaggio di
Rockwell, è l’anaffettività. Certo, nella messinscena di White questi tratti
sono esasperati, appaiono seriamente patologici, ma viene naturale immaginare
che dietro questi due personaggi ci siano quei ventenni che, totalmente
spaesati, si parlavano addosso nelle commedie indie degli anni Novanta. Perché a
sentirsi più volte traditi da grandi promesse e speranze, a sentirsi
protagonisti del disfacimento di un modello sociale, ad assistere da giovani
alla “caduta delle ideologie”, nel corso del tempo, oltre a disilludersi, ci si
inasprisce.
> Douglas Coupland in, Generazione X (1991) descrive una generazione che,
> facendo riferimento ai modelli precedenti, si è illusa di avere un futuro
> garantito: “qualcuno ci ha promesso il paradiso in terra, per cui quello che
> abbiamo non può che soffrire del confronto”.
Ultimamente le attenzioni su questa generazione sono risalite proprio per le
frustrazioni che continua a vivere e, paradossalmente, il racconto di questo
disagio per alcuni, come Posey, potrebbe essere l’occasione di avere un piccolo
risarcimento. Con ogni probabilità questo trend non stravolgerà le sorti
generazionali, ma se l’attrice eroina dei film indipendenti diventasse un punto
di riferimento nel racconto della vita adulta della Generazione X, sarebbe un
piccolo, incoraggiante, segnale.
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