Q uando avevo quindici anni credevo che i libri più belli fossero quelli che mi
costringevano ad alzarmi per andare a prendere il dizionario e cercare le parole
che non conoscevo. Infatti perlopiù leggevo altro: i Piccoli brividi, i
thrilleroni di Dan Brown, Faletti, Brad Meltzer e, ovviamente, Harry Potter. Un
giorno però sfilai Così parlò Zarathustra dallo scaffale dei libri di mio padre,
mi incuriosiva il nome del suo autore, che mi pareva impronunciabile ‒ a quanto
pare mio padre l’aveva letto tutto a diciassette anni, anzi per la precisione
aveva letto tutto “Nìch” (era così che lo chiamava, del resto mio padre non è
nato a Gelsenkirchen ma in un paesino del Sud della Calabria). Io leggevo questo
“Nìch” e mi esaltava anche se (anzi dovrei dire proprio perché) non ci capivo
niente. Ricordo che nello stesso periodo ci avevo provato fortissimo ma invano
con una certa Tania di cui era innamorato anche un mio amico. Il mio amico si
chiamava Andrea e lo invidiavo da morire, non tanto perché fosse biondo, quanto
perché quando giocavamo a tennis mi diceva che aveva i battiti a 50 come ce li
hanno solo i veri atleti. Andrea sarà stato anche un vero atleta, però non
leggeva “Nìch” come mio padre, per cui quando provai a spiegargli che mettendo
l’amicizia davanti all’amore avrei tradito la mia “volontà di potenza” decise
comunque di mandarmi a quel paese.
Da allora è passato molto tempo, tra le altre cose mi sono laureato in Lettere
(forse anche un po’ per penitenza), ho finito la saga di Harry Potter (bugia, mi
manca ancora l’ultimo perché quando è uscito nel mio ambiente andavano di moda
Erodoto e Pizzuto), ma non sono diventato un mago. In compenso, oggi tutto
sommato i libri difficili mi piacciono, non sempre li lascio a metà e a volte li
metto persino nella lista dei miei preferiti. Sarà anche per questo che, quando
la redazione me lo ha chiesto, ho accettato di leggere il nuovo romanzo di Gian
Marco Griffi con l’idea di recensirlo. Griffi è il Bolaño italiano, anzi no,
Griffi è il nostro Pynchon, o così almeno ho sentito in giro. Io, a dire il
vero, a questa cosa non ho creduto proprio subito, un po’ perché sono
diffidente, un po’ perché due miei amici e un critico di cui mi fido spesso non
ne hanno parlato così bene. I due miei amici (che poi sono anche loro critici di
cui mi fido) sono Antonio Galetta e Fabrizio Maria Spinelli. Il critico è Matteo
Marchesini.
Ora, bisogna sapere (ma nella cosiddetta “bolla” letteraria ormai lo sanno
tutti; anche fuori, a dire il vero, ci sono molti che lo sanno), bisogna sapere
che nel 2022 Gian Marco Griffi ha pubblicato un romanzo che si chiama Ferrovie
del Messico, la storia di un soldato astigiano che verso la fine della Seconda
guerra mondiale viene spedito senza troppe spiegazioni a cercare una mappa delle
ferrovie messicane (c’è chi dice che in queste ferrovie si nasconda l’arma che
farà vincere la guerra ai tedeschi, ma sarà vero? Sì, sono i tedeschi che lo
mandano), e nel frattempo soffre di un grave mal di denti, ma non se lo cura
perché ha paura dei dentisti (i dentisti hanno un ruolo ragguardevole nella
poetica di Griffi), e si innamora, e incontra un sacco di persone, e tutte
queste persone parlano o come personaggi del Grande Lebowski o come poeti
surrealisti, e al protagonista raccontano storie che sembrano poeticissime ma a
noi le nascondono (“Lui mi parlò di scheletri che camminano tenendosi per mano.
[…] Parlò di onde magnetiche e generali baffuti e marionette monche. Parlò di
apocalissi e diavoli. […] Parlò di donne blu e di uccelli contorti e di mostri
tentacolari. Parlò di aurore chimiche e di strali lucenti magnetici”, ecc.).
Ferrovie del Messico, insomma, è un buon romanzo, non dico di no, un po’
manieristico, forse, sicuramente sopravvalutato, ma ci sono diverse pagine
belle, forse un po’ stucchevoli e ripetitive, e altre divertenti (o almeno a me
fanno sorridere). Certo, la trama è un poco esile (per usare un eufemismo), a
volte sembra un pretesto, a volte sembra persino che l’autore abbia voluto
trovare una scusa per mettere insieme vari incipit e belle pagine che non sapeva
dove mettere (qualunque scrittore, prima di diventare uno scrittore, riempie il
computer di incipit scritti benissimo e brani ispirati ma senza capo né coda),
però, ecco, non me la sento di dire che Ferrovie del Messico non sia un romanzo
al di sopra della media. Non sono nemmeno troppo d’accordo con Antonio Galetta e
Fabrizio Spinelli, secondo i quali il problema principale del romanzo sarebbe
che fa solo finta di essere complesso come tutti dicono (tutti dicono che i
romanzi di Griffi sono complessi, anzi complessissimi), mentre invece è un libro
che accompagna il lettore con molti accorgimenti retorici mirati a non
affaticarlo troppo. Antonio e Fabrizio hanno un’idea più radicale dei compiti
della letteratura rispetto a me, forse dovrei dire anche, per essere onesto, che
credo che sia anche un po’ più aristocratica, a me la difficoltà non è mai parsa
un valore in sé e per sé (ok, sì, a parte quando fingevo di leggere Pizzuto). E
poi bisogna dire che le loro recensioni sono davvero cattivissime, spietate come
devono essere delle vere stroncature, e io li ammiro per questo, perché sono
persone che scrivono quello che pensano come ne rimangono poche, specie in un
mondo come quello dell’editoria italiana dove per farsi dei nemici basta
esistere, e dove per esistere bisogna farsi per forza degli amici.
> Ferrovie del Messico è un buon romanzo, un po’ manieristico, forse,
> sicuramente sopravvalutato, ma ci sono diverse pagine belle, forse un po’
> stucchevoli e ripetitive, e altre divertenti. Certo, la trama è un poco esile
> (per usare un eufemismo), a volte sembra un pretesto.
Io non sono come loro, non sempre dico quello che penso perché ho paura delle
conseguenze, e nel caso specifico di Griffi le conseguenze possono essere
terribili, posso dirlo perché ho assistito coi miei occhi, e i miei occhi
testimoniano che i lettori di Griffi sono degli ossi duri che bisogna
rispettare, è gente che se l’autore fa un post su Facebook per dire di esserci
rimasto male per una recensione negativa non si limita certo a consolarlo, ma
proprio comincia a insultare l’estensore della recensione. Al povero Antonio
Galetta hanno detto per esempio “abbiamo un turbocritico?”, “Siamo nell’apoteosi
del nulla”, ma anche un più diplomatico ‒ e anacolutico ‒ “Si avanzano
perplessità, che però boh”, e altre cose che non posso più recuperare perché
Griffi ha cancellato il post. A Spinelli, se possibile, è andata pure peggio:
“Ma perché quest’altra minchiata dove la mettiamo?”; “Un altro che si sbrodola
inchiostro addosso… nessun motivo per impiastricciarmi fino alla fine della
recensione [emoji di una penna, in allegato un bavaglino]”; “esiste un critico
che non usi toni, possa io esser perdonato ma non mi vengono altre parole, del
cazzo?”; “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per
niente?”; “Mah, io direi che questa recensione si potrebbe anche assolvere con
un compassionevole pat pat di incoraggiamento. […] Perlopiù materia di un
terapeuta.”; et cetera. (Ora che ci penso, forse ho fatto male a dire che
Galetta e Spinelli sono dei miei amici, sarebbe stato meglio prendere le
distanze fin da subito, dire tutt’al più che li conosco, ma non li stimo, che li
ho incrociati una volta soltanto e in un contesto anonimo, che so, a una
presentazione di Recalcati, nei commenti sotto a un post di Zerocalcare sui
fascisti ‒ non mi ero accorto che Recalcati e Zerocalcare avessero due nomi così
simili, sarebbe bello immaginare una collab, chiamarla Zerocalcati, o Recalcare,
“Ce o sai che ’sto Lacà m’aricorda tanto er mio armadillo?”, ma che sto dicendo?
Sono proprio un cretino, ora i lettori di Griffi diranno anche a me che mi
sbrodolo).
Nemmeno a Marchesini sono legato da alcun rapporto di amicizia, se non altro da
quando per sfottermi ha deciso di paragonarmi a Robertino, quello di Ricomincio
da tre, perché nella testa secondo lui non tengo un complesso, “ma tutta
l’orchestra”, come diceva Massimo Troisi. Anche se non siamo amici, però, lo
leggo spesso volentieri, persino quando mi fa innervosire, e nel caso specifico
il suo intervento a Radio Radicale mi è sembrata la cosa più sensata uscita su
Ferrovie del Messico tra quelle che mi è capitato di incontrare. Secondo
Marchesini, il vero problema del romanzo non risiede né nella semplificazione di
moduli stilistici appartenenti ad altre epoche o letterature, né
nell’inconsistenza ideologica del suo protagonista, quanto nella totale assenza
di un vero attrito opposto dal mondo alle sue peripezie: Cesco Magetti non
rischia davvero mai, non tanto sul piano dell’incolumità fisica, che conta fino
a un certo punto, quanto su quello dei valori. In un romanzo che fa di tutto per
apparire stratificato, il protagonista è paradossalmente un uomo che rifugge la
complessità, e rifuggendola ha ragione in modo troppo facile, perché ciò da cui
scappa (l’assurdità della guerra) non merita ai suoi occhi una risposta
articolata. I fascisti e i nazisti (vettori di quel che dovrebbe incarnare il
Male con la maiuscola nell’economia della storia) non sono mai presi sul serio,
ma sempre sottoposti a un trattamento macchiettistico che li rende in definitiva
inoffensivi. Un gioco per molti versi banale, una forma di ammiccamento alle
convinzioni già radicate nel lettore, che può dunque identificarsi senza lo
scomodo rischio di essere messo in discussione, magari per scoprire che il
fascismo di cui tanto ama ridere ha delle radici antropologiche profonde di cui
lui stesso potrebbe essere partecipe (per esempio nel modo, uno stroncatore
cattivo direbbe squadrista, con cui reagisce a una brutta recensione).
> In un romanzo come Ferrovie del Messico, che fa di tutto per apparire
> stratificato, il protagonista è paradossalmente un uomo che rifugge la
> complessità, e rifuggendola ha ragione in modo troppo facile, perché ciò da
> cui scappa (l’assurdità della guerra) non merita ai suoi occhi una risposta
> articolata.
Solo ora mi rendo conto che mi sono perso in una lunga digressione, ho parlato
di tutto fuorché del libro che devo recensire, dev’essere per questa malattia
mimetica che mi porta a imitare tutto ciò che leggo e spesso neanche me ne
accorgo. Il libro si chiama Digressione, è uscito per Einaudi a giugno e, a
parte il titolo che sembra piuttosto quello di un saggio di un narratologo
francese, uno di quei titoli ricattatori fatti per gente che ha studiato, a
parte questo dicevo è un libro che mi ha incuriosito fin da subito: mi sembra
sempre una buona notizia quando un editore grosso decide di pubblicare un
romanzo che non nasconde di essere ambizioso, ambizioso intendo in senso
estetico, perché di romanzi che ambiscono a rapinare il tempo e i soldi dei
lettori ce ne sono già tantissimi, direi più o meno quasi tutti. Anche
Digressione, come me in questo momento, indulge un po’ troppo nel vizio di
andare alla deriva, di girare attorno alle cose invece che dirle come sono, di
perdersi e poi ritornare o di perdersi e basta (del resto l’autore lo dice
chiaramente, intendo l’autore in carne e ossa, quello che va in giro e parla del
libro alle presentazioni. Io stesso l’ho sentito dire a una radio svizzera che i
lettori che si aspettano un romanzo con una storia dove tutto torna rimarranno
delusi, altrimenti non l’avrebbe intitolato, appunto, Digressione). Digressione
insomma è un libro manifesto, un libro concettuale, un romanzo in cui la postura
dell’autore conta molto (“postura” l’ho imparato all’università, significa il
modo in cui un autore si distingue dagli altri e a volte se la tira), la storia,
presa a sé, un po’ meno. Comunque, ecco, una storia ci vuole, se non altro per
il gusto di andarsene via per la tangente e parlare di tutt’altro.
Ecco, anche la storia che racconta Digressione è a suo modo una buona notizia, e
lo è proprio perché è una storia strampalata piena di invenzione, e in un’epoca
in cui quasi tutti pensano che una storia “vera” abbia valore in sé e per sé,
soltanto perché è vera, quando in realtà è proprio il contrario, ecco, se in
un’epoca come questa Einaudi pubblica ancora romanzi folli, surreali o
fantastici innanzitutto c’è da festeggiare (alla lista vanno aggiunti almeno Il
duca, 2022, di Matteo Melchiorre, L’isola e il tempo, 2024, di Claudia Lanteri e
La giusta distanza dal male, 2025, di Giorgia Protti). Al contrario che in
Ferrovie del Messico, in Digressione ci sono molte meno pagine “scritte bene”
nel senso a volte un po’ convenzionale e retorico del romanzo precedente, mentre
si insiste assai di più sull’invenzione sbrigliata sul piano del contenuto. Ne è
un segnale forte il cambiamento di genere: non più un romanzo storico sia pure
pieno di derive ironiche, assurde e parodistiche, ma un’ucronia carica di
elementi magici e fantascientifici, che si lega alla storia di Cesco Magetti
grazie al ritorno di diversi personaggi e situazioni. Protagonista è, in questo
caso, Arturo Saragat, un giovane astigiano che nella prima scena del romanzo
assiste a un episodio di bullismo nei confronti del suo amico Tommaso
Sconocchini senza trovare il coraggio di intervenire per difenderlo. Sarà
proprio Tommaso a consegnargli il libro che gli cambierà la vita, la copia 33 di
quella Historia poética y pintoresca de los ferrocarriles en México alla cui
ricerca si era messo Cesco nel romanzo precedente.
> Digressione indulge un po’ troppo nel vizio di andare alla deriva, di girare
> attorno alle cose invece che dirle come sono, di perdersi e poi ritornare o di
> perdersi e basta.
Sfogliandolo, Arturo si accorge che il volume è passato da parecchie mani per un
periodo molto lungo, e che queste mani hanno partecipato a un gioco inventato a
Villa Diodati da Mary Shelley e i suoi sodali, e che questo gioco si chiama
appunto “Digressione” (o, in tedesco, “Abschweifung”) e consiste
nell’allontanarsi dalla propria vita, aprire una lunga parentesi, far perdere le
proprie tracce e tornare solo dopo molto tempo. Vite digressive attorno un libro
è la corposa sezione del romanzo (la seconda su sette, da p. 49 a p. 519) che
indaga gli eterogenei personaggi che hanno preso parte a questo gioco. Nel
frattempo Arturo, ariostescamente, conosce una certa Angelica e se ne innamora,
ma siccome entrambi stanno digredendo decidono di darsi appuntamento ad Asti una
volta ogni quattro anni, cioè soltanto quando ci sono le elezioni.
La politica, rappresentata di nuovo in termini paradossali o satirici, è ancora
una volta uno dei nuclei tematici attorno a cui la narrazione vortica più
spesso. Una, soprattutto, l’idea portante: Mussolini non è stato giustiziato ma
deportato su un’isola, e poi su un’altra, e poi su un’altra ancora, come in una
sorta di crociera punitiva che lo porterà infine a Pantelleria, dove alleverà
degli “asini sacri” che diventeranno un oggetto di culto per i suoi nostalgici.
Alcune delle scene più riuscite ritraggono questi personaggi con uno stile
macchiettistico forse un po’ facile, alla Fascisti su Marte (Fascisti su Marte
di per sé fallisce come film proprio perché è una gag stiracchiata troppo a
lungo; figuriamoci farne un polpettone lungo mille pagine). Insomma, tornare
indietro, rifare daccapo, darsi una seconda possibilità: è questo che accomuna
l’universo etico dei “Rievocatori littori”, e cioè i pifferai magici dei
neofascisti, e quello di Arturo Saragat, che rivorrebbe indietro, per cambiarlo,
il giorno in cui, nell’anonimo parcheggio di un Carrefour di Asti, ha assistito
ignavo alla tortura di un suo amico.
Da questo rimorso, declinato quasi sempre nella direzione di un delirio
peripatetico e farsesco, deriva il filo esilissimo che tiene insieme la mole
monumentale del romanzo. Saragat si convince che a lui e a Tommaso non sarebbe
accaduto niente di spiacevole se solo quella mattina avesse mangiato la
marmellata di fichi come al solito:
> Io mi sentivo un verme, e mangiavo marmellata di fichi a colazione. Spesso
> avevo sognato che se non avessi mangiato marmellata di fichi a colazione mi
> sarei svegliato nel corpo di un maiale da allevamento. Era certamente
> un’allegoria. Un simbolo. Una rappresentazione metaforica. Non pensavo davvero
> di potermi trasformare in un maiale d’allevamento stipato in un autocarro
> diretto al macello, ma sapevo che se non avessi mangiato marmellata di fichi a
> colazione, qualcosa di orribile sarebbe successo. A me o al mondo. Ma
> soprattutto a me. Pensavo che la mia vita sarebbe stata tormentata da una
> sgualdrina nigeriana mentre un tagliaborse tunisino sfuggiva alla forca per un
> cavillo legale. E che entrambi avrebbero importunato l’autista di un autobus
> che mi avrebbe investito in corso Gabriele D’Annunzio mentre attraversavo la
> strada sulle strisce pedonali ascoltando una canzone dei Sex Pistols con le
> cuffie.
> E qualcosa di orrendo era effettivamente successo, due giorni prima (quella
> mattina ero in ritardo per scuola e avevo sciaguratamente saltato la
> colazione, e quindi non avevo mangiato la marmellata di fichi), nel parcheggio
> del Carrefour abbandonato.
Molta della sua storia nasce da questo spunto idiosincratico e ridicolo, e
Saragat va dapprima alla ricerca vana di un barattolo di marmellata, poi insegue
una vecchia megera-maga che potrebbe forse farlo tornare indietro nel tempo, e
per incontrarla deve aspettare una vita intera che sia lei stessa a presentarsi,
e il luogo in cui si presenterà è un piccolo comune fantasma della provincia di
Reggio Calabria che si chiama Roghudi Vecchio, un luogo oscuro, misterioso e
irraggiungibile che è stato all’origine di una sua peculiare patafisica eponima
che si chiama appunto roghudistica, una disciplina enigmatica studiata da
esperti delle maggiori università del globo. Roghudi Vecchio esiste veramente, è
un paese che è stato abbandonato dopo un’alluvione, ma a Griffi la realtà in
quanto tale interessa fino a un certo punto. In Digressione Roghudi è una
parodia dell’aleph borgesiano, uno scherzo topografico difeso da testardi demoni
burocratici, l’irridente buco nero verso cui tende un romanzo che prende in giro
la possibilità stessa di raccontare una storia, e nel frattempo ti costringe ad
aprire un sacco di volte il dizionario.
> Con Digressione abbiamo un cambiamento di genere: non più un romanzo storico
> sia pure pieno di derive ironiche, assurde e parodistiche, ma un’ucronia
> carica di elementi magici e fantascientifici.
Quindi è bello? All’inizio pensavo di sì, intendo prima di leggerlo. Poi l’ho
letto, e leggendolo mi sono annoiato moltissimo, e mentre lo leggevo mi chiedevo
“ma non sarebbe meglio pubblicare direttamente il dizionario?”, e mentre me lo
chiedevo mi tornava in mente il mantello dell’invisibilità. Come dicevo, io
purtroppo non sono un mago, ma Harry Potter l’ho letto tutto (quasi), ho visto
pure i film più di una volta, ho visto il documentario sui backstage, e di Harry
Potter e la pietra filosofale (2001, regia di Chris Columbus) so a memoria tutte
le battute sia in italiano sia in inglese (ok, forse le sapevo, ora ho la RAM
occupata dall’ipotesi che i reel sull’ADHD siano essi stessi la causa più
diffusa dell’ADHD), insomma in parole povere sono un banalissimo millennial, e
un banalissimo millennial sa bene che quando Harry riceve il mantello
dell’invisibilità da colui che si rivelerà l’amico e padrino Sirius Black, ma
che per ora si limita ad allegare al regalo una lettera anonima, si sente anche
rivolgere una raccomandazione che ciascuno di noi ha imparato a estendere alla
propria vita in generale, appunto come raccomandazione, mai come effettiva messa
in pratica, e che questa raccomandazione è “Fanne buon uso” (in inglese “Use it
well”), una raccomandazione che diventa tanto più autorevole quando nel terzo
film della serie si scopre che a interpretare Sirius Black è Gary Oldman.
“Fanne buon uso”, del resto, è un motto che nell’economia della storia vale per
la magia in generale, ed è evidente che la magia è anche una metafora della
libertà e del talento, e il talento è nel non usarlo mai tutto, come diceva più
o meno Giorgio Agamben in Il fuoco e il racconto (2014). “Fanne buon uso” vale
anche per quel tipo specifico di magia retorica che è la “digressione” che dà il
titolo al libro. Nei romanzi riusciti le digressioni sono spesso tra le parti
più belle, e lo sono proprio perché gli scrittori bravi decidono di staccarsi
dal racconto della vicenda solo quando ne vale davvero la pena, perché hanno
scoperto qualcosa di importante, di prezioso, qualcosa che è una distrazione
fino a un certo punto, perché magari a ben vedere nasconde la sostanza di quel
che intendono dire, e magari era proprio lì che volevano arrivare, e forse
quando hanno cominciato a scrivere neanche lo sapevano. Ma se la digressione
diventa un obiettivo programmatico, se lo scrittore decide fin dall’inizio che
alla digressione lascerà piena libertà di dispiegarsi e spazio, ecco che rischia
di ottenere l’effetto contrario; invece che un romanzo-galassia pieno di orbite
che si attraggono, e da cui solo quando è proprio inevitabile salta fuori un
corpo celeste non autorizzato, il risultato può essere invece un romanzo-soufflé
dove la digressione, proprio perché istituzionalizzata, perde qualunque effetto
disturbante, si normalizza e si sgonfia.
Alberto Casadei ha ragione a inserire la storia di Arturo Saragat nella lunga
tradizione dei romanzi divaganti alla Sterne, ce ne sono tanti che sono
bellissimi, e lo dico persino io che non sono iscritto all’Ordine dei Digressori
di Creta di cui parla Griffi ma a quello dei Babbani Aristotelici. (Noi Babbani
Aristotelici non abbiamo ancora scelto un’isola in cui stabilirci, ma pensiamo
che le storie più belle siano quelle che hanno un inizio, un mezzo e una fine,
una vicenda principale raccontata bene e un tempo e un luogo ben delimitati).
Alberto Casadei è uno studioso coltissimo, lo conosco anche perché insegna
nell’università dove ho studiato, e la sua recensione al romanzo di Griffi è una
guida fatta davvero molto bene. Ma Alberto Casadei, pur facendo bene a inserire
il romanzo in quella lunga tradizione, paragonandolo a Sterne e a Rabelais,
dimentica di dire che Digressione di quei modelli non è molto all’altezza, e non
è all’altezza per motivi innanzitutto tecnici, perché Digressione è a ben vedere
un romanzo scritto male, o almeno così così, e per rendersene conto basta
aprirlo a caso:
> Da diciannove anni il professor Maccabei non può varcare la soglia del suo
> palazzo se prima non ha annaffiato i vasi davanti alla porta della vedova
> Iaccarini: se così non facesse dovrebbe prepararsi a fronteggiare una
> disgrazia di qualche genere, giacché nelle tre circostanze in cui ha mancato
> di innaffiare le piante della vedova Iaccarini gli è sempre successo qualcosa
> di brutto. […] Al bar-teatro dei pupi Charlemagne il professor Maccabei è
> piuttosto allegro. Ordina un cappuccino e un cornetto (rigorosamente privo di
> qualsivoglia ripieno) e siede al terzo tavolo partendo dall’ingresso (se è
> occupato attende pazientemente che si liberi), dove consulta con curiosità il
> quotidiano, badando di leggere con attenzione la pagina degli oroscopi. Ennio
> Maccabei è cancro ascendente cancro, e quella, pensa col sorriso sulle labbra,
> è una grande fortuna, poiché se fosse cancro ascendente toro, per esempio, non
> potrebbe consumare la sua solita colazione, e se fosse cancro ascendente
> ariete dovrebbe attendersi una copiosa fuoriuscita di denaro nelle prossime
> dodici-quarantotto ore. […] Mentre è seduto e affaccendato negli affari suoi,
> solitamente viene trascinato in vacue chiacchiere dal barista e da qualche
> avventore. Soltanto con Arturo Saragat egli conversa di temi piú complessi e
> profondi, con gli altri conversa di bagattelle. Talvolta con Arturo Saragat
> stesso conversa di bagattelle, ma con lui conversa non soltanto di bagattelle,
> con gli altri conversa soltanto di bagattelle.
Si va dalle espressioni pigre e generiche del periodo iniziale (“una disgrazia
di qualche genere”, “qualcosa di brutto”) alle ripetizioni sgraziate di quello
finale (“Talvolta con Arturo Saragat stesso conversa di bagattelle, ma con lui
conversa non soltanto di bagattelle, con gli altri conversa soltanto di
bagattelle.”), aggravate da un uso del corsivo enfatico che serve in questo caso
più che altro da espediente grafico per coprire la mancanza d’inventiva e il
ritmo sciatto della frase. In mezzo soltanto ironia scipita (sul serio, la
parodia degli oroscopi?), dettagli inutili e frasi ridondanti. Va bene, va bene,
è ingeneroso aprire una pagina a caso, è normale che la penna possa sfuggire di
mano ogni tanto, soprattutto in un romanzo di mille pagine. Basta prendere
l’incipit, che in effetti è molto meglio:
> Avevamo deciso di testare i riflessi di Tommi un martedì dopo la scuola.
> Il martedì era un buon giorno per crepare o per testare i riflessi a piccoli
> insignificanti ciccioni gonzi, anche se dopotutto per noi un giorno valeva
> l’altro, e per spassarcela avremmo potuto trovarci di lunedì, o di mercoledì.
> Ma il lunedì è logoro e abusato, frainteso come la morte nei tarocchi, e il
> mercoledì è peloso e verdognolo come il roquefort andato a male, mentre il
> martedì è un giorno senza qualità, di quelli che non nota nessuno, ideale per
> vagabondare e non celebrare niente. E poi, secondo quegli invasati degli
> iscariotici, come la mamma di Viola, il martedì è il giorno dedicato a
> prepararsi alla fine del mondo, e non c’è niente di meglio per prepararsi alla
> fine del mondo che un martedì ad Asti.
> E così ci siamo trovati nel parcheggio del Carrefour abbandonato, verso le
> cinque di pomeriggio; era la prima giornata fredda dell’autunno, di quelle
> fosche e opprimenti, gli alberi erano così ossuti che parevano pietrificati,
> le aiuole soffocavano sommerse da cartacce sparse sul terreno gibboso e
> spoglio, arido, perfino i cespugli erano squallidi e insignificanti,
> spelacchiati, e le strade erano vuote e smarrite. Il mappamondo della
> Vercingetorige, là in fondo, oltre il Borbore, ruotava sopra i tetti fiacco e
> sordo.
Dai, la battuta su Asti e la fine del mondo in effetti è divertente, anche se
non proprio originalissima. E però, perché rendere il linguaggio giovanilistico
in un modo tanto boomer (“gonzi”, “spassarcela”)? Perché le ripetizioni
meccaniche (“testare i riflessi”, due volte in due righe)? Perché la pigrizia
nell’aggettivazione (“insignificanti”, due volte in due paragrafi)? Perché la
ricerca di un lirismo tanto più facile perché ottenuto con accostamenti gratuiti
(“Ma il lunedì è peloso e verdognolo come il roquefort andato a male, e il
mercoledì è logoro e abusato, frainteso come la morte nei tarocchi, mentre il
martedì è un giorno con troppe qualità, di quelli che saltano all’occhio subito,
ideale per stare a casa e celebrare le feste comandate”, ho stravolto gli
accoppiamenti ma non ve ne siete accorti perché è retorica e mielosa uguale)?
Inoltre, e soprattutto, per quale motivo un ragazzino in età scolare dovrebbe
ragionare così? E quanto basse devono essere le aiuole per “soffocare sommerse”
(addirittura) dalle cartacce? Lo so, sto facendo il pedante, stiamo parlando di
una pagina che è comunque al di sopra della media, l’atmosfera funziona, ci sono
cose belle, ecc. Ma è anche una pagina che mi sta invitando a leggere un romanzo
sperimentale di 1003 pagine: non può essere solo al di sopra della media, deve
essere perfetta. E invece si avvertono fin dall’inizio una serie di sciatterie
che col proseguire della lettura, inevitabilmente, si moltiplicano, e che non
rendono giustizia a un’ambizione poderosa, che è quella di scrivere il Grande
Romanzo Italiano.
> Si avvertono fin dall’inizio una serie di sciatterie che col proseguire della
> lettura, inevitabilmente, si moltiplicano, e che non rendono giustizia a
> un’ambizione poderosa, che è quella di scrivere il Grande Romanzo Italiano.
L’idea che si debba ancora scrivere un Grande Romanzo Italiano ha cominciato a
circolare nella bolla letteraria degli ultimi anni soprattutto seguendo
l’esempio di un discorso analogo proveniente dal dibattito letterario
d’oltreoceano. Quello del Grande Romanzo Americano, in effetti, è un concetto
piuttosto dibattuto, la cui pregnanza storiografica è stata spesso messa in
discussione. Philip Roth, per esempio, ha intitolato beffardamente Il Grande
romanzo americano (1973) un suo libro sul baseball, spinto dalla volontà di
irridere un’etichetta abusata e l’ambizione mal riposta che vi è collegata. Era
il 2019 quando la redazione della rivista L’Indiscreto pubblicava un
questionario, rivolto a “66 critici”, una delle cui domande principali
riguardava proprio la possibilità, in Italia, di un Grande Romanzo nazionale
come si trovava in altre letterature:
> Dall’altro lato, non dovrebbe forse un qualunque “grande romanzo” farsi già
> trans-nazionale? (vengono alla mente, come esempi tra i più immediati e
> recenti, coincidenti con altrettanti “grandi romanzi” di autori esteri, I
> detective selvaggi e 2666 di Roberto Bolaño, Europe central di William T.
> Vollmann, Abbacinante di Mircea Cărtărescu, Austerlitz di W.G. Sebald).
Digressione presenta delle caratteristiche che lo accomunano, da una parte, ad
almeno alcuni dei modelli proposti dal questionario, dall’altra alla tradizione
postmoderna in generale: il carattere “transnazionale” della vicenda narrata,
l’adozione di uno stile complesso e variegato, l’intreccio basato sulla quête di
un oggetto o di una persona introvabile, il partito preso dell’ironia e,
soprattutto, la lunghezza colossale (non a caso, i presunti autori di Grandi
Romanzi sono tutti maschi, e il linguaggio che si usa per parlarne contiene
quasi sempre metafore da artificiere ‒ un libro “potente”, un romanzo
“esplosivo” ‒ dai chiari tratti fallici). Il problema è che, per ottenere questa
Lunghezza Fallica™, Griffi ha dovuto allungare il suo vino con moltissima acqua.
L’intero impianto formale di Digressione si può interpretare come il frutto
meccanico e velleitario di una coazione a scrivere tanto. Il paragone con
Ariosto, che il romanzo invoca in più modi, e che è stato avanzato anche da
Casadei, funziona per descrivere l’architettura del libro a livello
macroscopico, ma non regge per l’assenza di una cura davvero attenta, di una
reale raffinatezza della lingua. Come la narrazione di Ariosto, anche lo stile
di Griffi si serve di una serie di dispositivi ritardanti, con la differenza che
leggendo Ariosto non riceviamo mai l’impressione di un’effettiva ridondanza,
mentre in Griffi questo avviene quasi in ogni pagina.
> Il paragone con Ariosto, che il romanzo invoca in più modi funziona per
> descrivere l’architettura del libro a livello macroscopico, ma non regge per
> l’assenza di una cura davvero attenta, di una reale raffinatezza della lingua.
Digressione è perlopiù prolisso, spesso ampolloso, quasi sempre “letterario” in
un modo facile e superficiale. A concorrere a questo esito sono diversi
elementi. Per esempio, il gusto insistito per la correptio irrilevante (“Era
certamente un’allegoria. Un simbolo. Una rappresentazione metaforica.”;
“l’avrebbe riletta almeno cinquanta volte (per la precisione cinquantaquattro)”;
“la Mappamondi Vercingetorige impiega circa millesettecento astigiani, per la
precisione millesettecentoquarantuno”), magari guidato dalla volontà di citare
più parole possibili dalla versione online del Tommaseo-Bellini e così
guadagnarsi una facile aura di preziosità (“Era stata definita in molti modi dai
gretti e sempliciotti contadini del Monferrato: fattucchiera, maga, negromante,
masca, guaritrice o curandera, e nessuno di quelli era completamente inesatto,
pur non essendo neppure completamente esatto”; “e per dimostrarlo mise a
soqquadro mezza casa per trovare un dizionario, un vocabolario, un calepino,
finché in fondo a una cassapanca, sepolto tra cianfrusaglie, vecchie riviste,
statuette del presepio, ciarpame vario, trovò uno Zingarelli, undicesima
edizione, del millenovecentottantatre”; “D’altra parte casa nostra è un continuo
tramenio di cose, un turbine di arnesi e manufatti affastellati alla rinfusa, un
grande deposito di carabattole”). Qui per esempio c’è una pagina di singolare
bruttezza dove troviamo tante serie sinonimiche, quasi tutte di ritmo ternario,
presentate insieme, sempre nel quadro di un generale amore per l’accumulazione
di dettagli inutili che sfiora la poetica dell’elenco telefonico:
> Dirigendoci verso il primo bar abbiamo notato uno scarafaggio, o forse uno
> scarabeo, o una blatta (perdonateci se non siamo molto ferrati sui nomi degli
> insetti, ma l’entomologia ci è del tutto ignota), e per qualche ragione ci
> siamo convinti che dovevamo seguire il suo zampettamento sui sampietrini di
> via dei Cappellai. Una sensazione travolgente e ineffabile. Lo scarafaggio ci
> convocava, ci imponeva di seguirlo nel quartiere a luci nere, un angiporto
> graveolente nel centro di Asti dove stanno, una accanto all’altra,
> innumerevoli botteghe di chiaroveggenti, pizie, sibille, pitonesse (forse il
> termine «bottega» non è appropriato, ma non ce ne viene in mente uno
> migliore). Costoro pretendono di indovinare il futuro leggendo carte e mani e
> qualunque cosa si possa leggere o interpretare, dal respiro al volo delle gru,
> dagli escrementi di gallina ai fondi del caffè, dai dadi ai galli, dai setacci
> appesi ai rami ai germogli di cipolla, dalle chiavi alle formiche, e in fondo
> noi siamo convinti che professino un mare di fandonie buone soltanto a
> ingannare l’altrui dabbenaggine. Crediamo che quasi tutte diffondano soltanto
> menzogne, e che le migliori tra le imbroglione siano quelle dotate di
> immaginazione piú fervida (giacché, dobbiamo pur ammetterlo, il mestiere della
> chiaroveggente poggia su una non comune predisposizione al groviglio, alla
> bugia, all’inventiva, e in ciò le chiaroveggenti non sono dissimili dagli
> scrittori, dagli sceneggiatori, dai pittori, quando inventano situazioni,
> scenari, mondi).
L’ironia spuntata sulle veggenti fa il paio con quella sugli oroscopi. E poi c’è
la ricerca ricattatoria dell’effetto “parete di testo” (che potremmo anche
chiamare “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”), per cui Griffi sceglie di
non andare a capo quasi mai neanche nei dialoghi, separando invece le battute
con la barra obliqua (“Ciao dimmi / sono un uomo anziano, signorina / mi
dispiace molto / date del tu a tutti?”). E il plurilinguismo quasi sempre
superficiale e mimato, che giustappone le lingue anziché porle in attrito,
puntando tutto sulla quantità (ma non importa inserire in un romanzo lo
spagnolo, il francese, l’ebraico, il tedesco, l’arabo, gli ideogrammi, i
dialetti, il latino, se poi non producono uno scarto degno di nota nel sistema
stilistico complessivo). Il citazionismo per stimolare il pathos bibliografico
dei critici-filologi e lo snobismo di massa dei lettori colti. E la ripetizione
usata come figura-passepartout, come un apriporte retorico spacciato per
raffinata ricerca di una “saturazione semantica” che sa tanto di supercazzola:
> Ci piace ripetere le parole finché non perdono il loro significato. Dopo un
> po’ una parola ripetuta piú e piú volte perde il suo significato originario.
> Saturazione. Semantica. Saturazione saturazione saturazione saturazione
> saturazione saturazione saturazione saturazione saturazione saturazione
> saturazione saturazione saturazione saturazione saturazione saturazione
> saturazione saturazione saturazione. Semantica semantica semantica semantica
> semantica semantica semantica semantica semantica semantica semantica
> semantica semantica semantica semantica semantica semantica semantica
> semantica.
E gli stereotipi orientalisti alla Benvenuti al Sud (l’impiegata del comune che
dice: “Buongiorno, […] mi chiamo Costantina Papagianni, questa è l’unica frase
che so dire in italiano corrente, e sono l’unica impiegata dell’Ufficio
redenzioni del comune di Roghudi, come posso esserle utile?”). E il fascismo
sottoposto al trattamento Propaganda Live, e cioè liquidato e sfottuto, trattato
come un jingle o una barzelletta (possibile che non riusciamo a raccontarlo in
modo serio e problematico, ma dobbiamo per forza o ridicolizzarlo o mitizzarlo?
Non è che Griffi è l’altra faccia di Scurati?). E l’amnesia selettiva che fa
dimenticare all’autore che esistono i pronomi e i soggetti sottintesi, specie se
ci sono nomi che è “poetico” ripetere perché sono, appunto, esotici:
> Don Hipólito prese un sigaro, lo annusò passandoselo sotto il naso, lo spuntò
> col tagliasigari e usando un fiammifero lo accese. Domandò a Guillermo se gli
> desse fastidio il fumo. Guillermo disse di no, Don Hipólito atteggiò le labbra
> a un mezzo sorriso e gli domandò se fosse stato lui a rubare la Historia
> poética. Guillermo fece no con la testa, e disse che non sapeva chi lo avesse
> rubato. Don Hipólito gli disse che detestava i bugiardi, ma che ciò non gli
> aveva mai impedito di farci affari.
e così via, per pagine e pagine, e ancora altre pagine, e mi rendo conto che lo
faceva anche Bolaño, ma a parte che Bolaño (ripeto) andava a capo con una
frequenza ragionevole, Bolaño (ripeto) si preoccupava anche di far dire ai
propri personaggi cose originali o interessanti, non usava la ripetizione per
narcotizzare, e soprattutto Bolaño (ripeto) ambientava i romanzi in Messico
perché ci aveva vissuto, non perché suonasse bene, e del Messico gli
interessavano i poeti scapigliati ma anche le donne ammazzate nel deserto, e la
sua ironia funzionava perché era l’altra parte di un dolore e di una violenza
che per essere dicibili assumevano spesso il tono freddo del rapporto clinico.
Griffi al contrario ci mostra che l’abuso di ironia può provocare danni al
sistema poetico (“Dopotutto è la dose che fa il veleno, no?”, dice lui stesso a
un certo punto), e non basta una frase da bacio perugina ripetuta allo
sfinimento (“Non possiamo essere gentili in questo mondo oscuro”) a conferire i
crismi della serietà a un divertissement virtuosistico, a un romanzo in
definitiva pretestuoso e qualunquista.
Insomma, il libro che si vorrebbe un fiume ingordo capace di raccontare tutto e
il suo contrario, la realtà attraverso l’irrealtà, la quantistica e la Storia, è
forse invece il letto secco di un rigagnolo esausto dal caldo? E, se il Grande
Romanzo Italiano è questo, ne abbiamo poi davvero un gran bisogno? Talvolta il
Grande Romanzo conversa di bagattelle, ma altrove conversa non soltanto di
bagattelle, in Italia conversa soltanto di bagattelle.
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